25. In silenzio soffro i danni del tempo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un mostro sacro e tre contendenti molto più insidiosi di quanto può sembrare].

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1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)

Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le follie dei decenni successivi. Per contro, nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio. 

1988: E ti vengo a cercare (#5)

"A Battia', te vole er Papa" (il funzionario EMI). 

E ti vengo a cercare è il brano che ha messo d'accordo Giovanni Lindo Ferretti e Karol Wojtyla (che poi avrebbero scoperto tante altre affinità). Non so se mi sono spiegato: è il brano di Battiato che fu scelto dal rappresentante di un movimento oscurantista che cercava affannosamente un rilancio, una credibilità pop: e inoltre piaceva anche a Wojtyla, che convocò Battiato e orchestra per un concerto in Sala Nervi. Ben 12 anni prima del Giubileo, di Dylan e di Bocelli, Battiato forse fu il primo cantante a suonare per il Santo Padre e a trarne un'incredibile impressione ("le mie parole della canzone dedicata a Dio acquistarono una dimensione nuova, inaspettata... Fu come uno squarcio del cielo"). 

La fondamentale tripartizione descritta da Alberto Arbasino nella traiettoria degli italiani contemporanei illustri (brillante promessa / solito stronzo / venerato maestro) andrebbe applicata con molta parsimonia: anche nel caso di Battiato, che pure sembra così esemplare. Battiato era stato una promessa davvero brillante, almeno coi suoi primi dischi alla Ricordi: poi si era eclissato in un universo sonoro completamente alieno e ne era riemerso intorno al 1980, come un Solito Stronzo determinato a spremere le tasche di tutti i consumatori di dischi. Portava occhiali scuri, cantava di magici orienti e fini del mondo e non c'era da credere a una parola. Questo secondo periodo si trascina almeno fino al 1985, quando Battiato mette in giro la voce che vuole concentrarsi sulla musica colta. Come un eremita che rinuncia a sé. Non è vero, non riesce a concentrarsi, la sua Genesi la scrive ma un rapimento mistico e sensuale lo riporta a comporre canzonette e ad arrangiarle come si conviene perché si sentano in radio. A un certo punto decide di accettarsi per quello che è, un autore di canzonette seppur di prestigio, ed è la mutazione finale: sin dal primo ascolto di Fisiognomica, è chiaro a tutti che Battiato ha buttato via gli occhiali scuri e ci guarda negli occhi, ci parla col suo cuore, delle cose che gli premono: è diventato un Maestro, e la venerazione può cominciare. È andata così? Meglio diffidare. In fondo erano ancora gli anni Ottanta. Si può smettere di essere stronzi in così poco tempo? E se Ti vengo a cercare fosse invece il capolavoro di uno straordinario paraculo, un tizio che senza neanche credere in Gesù Cristo riesce a imbucarsi con un pezzo pop in Sala Nervi? E in un disco dei CSI? E in Palombella rossa?

Lui stesso in seguito ha ammesso che si trattava di una canzone "volutamente ambigua", dove la tensione religiosa è descritta con parole che possono adattarsi anche a un amore più profano. Del resto "per chi ama sono divini anche una donna e un uomo, a seconda dei casi". Questo magari avrebbe funzionato con molti acquirenti: ma per conquistare un Wojtyla ci voleva qualcosa di più, e quel qualcosa è la citazione finale dalla Passione secondo Giovanni di Bach – sono passati appena tre anni da quando Battiato profanava Mozart e Beethoven a scopo divertimento: se adesso cita 'seriamente' Bach, dobbiamo crederci? Non è la profanazione definitiva, ben più sottile e subdola: usare Bach per travestirsi da prete? Persino il videoclip ribadiva il concetto, fermando la camera proprio davanti all'ingresso di una chiesa: E ti vengo a cercare nel 1988 poteva benissimo essere presa per la storia di una conversione al cristianesimo che col senno del poi non c'è mai stata, Battiato probabilmente l'aveva scritta pensando al solito Gurdjieff o qualche altro maestro sufi o vattelapesca, ma voleva venderla ai cattolici, ed è riuscito a infinocchiarne il capo, altro che Venerato Maestro, questo è ancora lo Stronzo, e Ti vengo a cercare è il suo capolavoro. Anche perché non è riuscito a piazzarla solo in Vaticano, ma perfino nel film di Nanni Moretti, ovvero nella coscienza di tutto il ceto-medio-boomer-riflessivo-di-sinistra che negli anni a venire gli avrebbe comprato più dischi dei cattolici. Anche se per farlo serviva una strategia completamente diversa: ebbene FB la scoprì in quell'occasione, forse fortuitamente, alludendo a non meglio precisati "parassiti senza dignità" che lo spingevano solo "a essere migliore con più volontà", il manifesto dell'antiberlusconismo quando Berlusconi era ancora un simpatico proprietario di canali tv. Sullo scorcio del decennio che l'aveva incoronato profeta postmoderno, Battiato fiuta l'aria e molto prima di chiunque altro capisce che davvero stavolta non è più tempo di scherzare, la gente non vuole più ironie ma preghiere, vuole essere migliore, vuole maestri: e lui è già pronto. Con una canzone sola mette d'accordo Moretti, Ferretti e Wojtyla, davvero tutti, chi mancava? (io, per esempio, ma è un dettaglio). 

2004: Le aquile non volano a stormi (testo di Manlio Sgalambro, musica di Yashima Kinimori, #133) 

Salta su un cavallo alato prima che l'incostanza offuschi lo splendore. L'ascoltatore che avesse appena giudicato Le aquile non volano a stormi come una delle canzoni più orecchiabili di Dieci stratagemmi potrebbe rimanere deluso scoprendo che qui Battiato si è limitato a cantare il testo di Sgalambro su un brano di un duo giapponese di world music, gli Yoshida Kyōdai (吉田兄弟, conosciuti in occidente come Yoshida Brothers). Ma è proprio ascoltando il brano originale che risalta l'abilità di Battiato nel manipolarlo – son tutti bravi a remixare pezzi techno e persino rock, ma qui ha veramente preso un brano da BuddaBar, lo ha campionato, ci ha messo la drum machine e persino la chitarra elettrica, insomma lo ha stravolto e allo stesso tempo è riuscito a portarne alla luce l'ossatura sacra sotto tutta la patina new age. E se non è stato Battiato, bravo Pinaxa, bravi tutti. Il match lo vincerà E ti vengo a cercare, ma io oggi il mio voto lo do alle Aquile non votano a stormi, perché mi sento un po' aquila anch'io evidentemente. Certo, mi dispiace un po' per la pazza Occhi d'or, e forse persino per... 


2008: Et maintenant (musica di Gilbert Bécaud, testo di Pierre Delanoë, #124) 


Toutes ces nuits, pour quoi, pour qui? In teoria il principio di Fleurs2 è lo stesso del primo volume, di quasi dieci anni prima: prendere una canzone, anche molto importante, e spogliarla degli elementi più contingenti, per trovarne l'anima immortale. E però forse non funziona con tutte le canzoni. In particolare non sembra funzionare con canzoni che Battiato magari ama molto, ma che non ha vissuto in prima persona. È il caso di Il avait 18 ans: se la canta Dalida, sta confessando di avere avuto una storia con un ragazzo che aveva la metà dei suoi anni; se la canta Battiato... non sta confessando niente in particolare. Da questo punto di vista Et maintenant dovrebbe scorrere più liscia: è una canzone che parla di come ci si sente quando si è stati lasciati – chi non è stato mai lasciato una volta nella vita? E dunque Battiato decide che il bolero ha fatto il suo tempo; che il crescendo furioso dell'originale non gli interessa, che Et maintenant può dire quello che ha da dire anche in punta di piedi, fino alla fine. Il che forse risponde alla nostra domanda: ecco chi non è mai stato lasciato una volta nella vita, ecco chi è che non si è mai visto davanti a un abisso di disperazione appena spalancato senza possibilità di aggirarlo: Franco Battiato, ecco chi. E hai fatto anche bene, guarda: hai risparmiato un sacco di tempo e di lacrime e sangue, il che ti ha consentito di scrivere e cantare tante canzoni in più, ma forse Et maintenant la dovevi lasciar stare. Non parla di te. Ci può pure essere una canzone al mondo che non parla di te, no? Tu hai un sacco di cose di cui parlare, i sufi, l'universo, la respirazione, davvero un sacco di cose. Lascia Et maintenant a questa valle di lacrime. 

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24. E intanto la mia vita fugge in diagonale

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[Questa è La Gara, oggi con un brano che ha vinto il premio Stockhausen, un brano che è andato a Saint Vincent Estate '85, un brano scartato da Gommalacca che è diventato la pietra d'angolo di altri due dischi, e un brano in cui canta Jim Kerr, ma voi magari nemmeno sapete chi è Jim Kerr, voi vi siete scordati di lui, miscredenti]. 

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1978: L'Egitto prima delle sabbie (#212)

Ed eccoci qua. Ho esitato a lungo prima di mettermi a scrivere ordinatamente di Battiato, perché? Perché per decenni interi ha fatto musica che non mi interessava? Niente che Spotify non possa curare in una settimana. Perché c'è già tanta gente che ne ha parlato? Tesoro, io ho scritto un libro pure sui Beatles. Perché ho in uggia i maestri di vita e la nostalgia per qualsiasi passato idealizzato o reale? Questo era un buon motivo per diffidare di Battiato, non per smettere di ascoltarlo. Perché ha passato anni a studiare pensatori di cui non so veramente nulla? Vabbe' c'è Wikipedia. No. 

Quello che mi spaventava davvero non era Gurdijeff, non era Sgalambro. Era l'Egitto. Quello prima delle sabbie. Quello che Battiato ha sempre considerato il suo capolavoro, e per me, con tutti gli sforzi, è... una scala ripetuta per un quarto d'ora. Che cosa faccio? Fingo di aver capito il sottile gioco di pedali e riverberi? O la leggo come la solita provocazione – come se dopo aver esordito nel 1972 con un feto avvolto in una carta da forno Battiato nel 1978 avesse ancora tutta questa voglia e necessità di provocarmi? No, di fronte all'Egitto devo arrendermi. O al limite accettare che non è 'musica' come la intendo io. L'Egitto è parte di un esperimento che Battiato fa sul proprio corpo – in un periodo di relativo isolamento dalla scena musicale e dalla società in generale – le risonanze dovrebbero indurre un rilassamento muscolare ecc. ecc. ecc. io non mi fido nemmeno degli osteopati con i diplomi incorniciati figurati se do retta a un autodidatta che poi alla fine queste cose le sperimentava da pochi anni. L'Egitto, spiega Battiato, "riempie la stanza di purezza" – mi fa venire in mente una ragazza che conoscevo che non faceva in tempo a prendere un treno che suo marito pagava i maghi perché le purificassero la casa, non la vedo da tanti anni ma spero che lo abbia lasciato. Oppure senti questa: le cassette pulisci-testine, magari le avete usate anche voi, sembravano musicassette come le altre (proprio come L'Egitto da fuori sembra un disco come tanti altri, ha pure una bella copertina disegnata dal pianista, Antonio Ballista), ma se le inserivi nel deck non facevano nessun rumore: servivano soltanto a purificare la testina, ecco forse la pretesa di capire L'Egitto è simile a quella di capire la musicalità di una cassetta pulisci-testina, cioè è un'idea stupida, non è musica da ascoltare, sono frequenze da far risuonare a scopi purificatori. Va bene. Per me il vero pregio dell'Egitto è che Battiato non è andato oltre – il sospetto è che si fosse stancato pure lui. 

1985: Risveglio di primavera (#45) 

I'm a stranger in the night! Una delle esibizioni più folli di FB è senz'altro quella in playback a Saint Vincent Estate 1985. Travestito da garibaldino, Battiato canta Risveglio di primavera accompagnato dal duo che sta cercando di lanciare, gli A'sciara (uno fa le piroette con una chitarra, l'altro suona l'arpa celtica! Ci mette proprio il cuore malgrado evidentemente non ci sia nessun'arpa celtica nel brano, questo era normale negli Ottanta). A questo punto della sua traiettoria, Battiato è un maestro della canzone pop postmoderna: in quanto tale potrebbe essere tentato a ripetere qualche formula già collaudata, anche solo per vedere se continua a funzionare. Sul piano testuale Risveglio riprende l'idea di Radio Varsavia: inquadrare subito un preciso riferimento storico e geografico (in questo caso l'epopea garibaldina, vista con l'occhio mezzo chiuso di un isolano sospettoso dei "movimenti prevedibili delle truppe in finte battaglie") per poi scantonare raccontando tutt'altro, ad esempio a un certo punto stiamo vedendo i bacini delle ragazze ballare il flamenco, relativamente tranquille perché la locanda è chiusa agli spagnoli e quindi nessuno verrà a fare il purista. Sul piano musicale Risveglio è una Cuccurucucù rallentata, più ballabile, e un riff di tastiera non lontanissimo dalle cose che si potevano ascoltare in radio nell'estate del 1985. Una volta ho letto da qualche parte che i dischi più datati della storia della musica sono tutti del 1985. Doveva essere una recensione di Empire Burlesque, non riesco più a trovarla. Ci sono vari motivi – il trionfo della batteria riverberata anni Ottanta, delle tastiere Roland – e poi in effetti un certo elettropop era alla fine della sua spinta propulsivaLo stesso Battiato, se insisteva su certe formule, è anche perché con la testa era già altrove – magari sugli spartiti della Genesi. Anche Risveglio si ritrova affibbiato un accompagnamento orchestrale perfino ridondante. Non è che Battiato non si diverta ancora a fare queste cose (nel video restaurato potete vederlo ghignare sottecchi) ma ormai ha una gran voglia di svegliarsi. 

1998: L'incantesimo (testo di Sgalambro, #84)

L'incantesimo di perdute esistenze che non saranno mai le speranze di presenze intorno a noi. Perché Sgalambro non è un gran poeta? Se ne potrebbe parlare a lungo ma insomma qui infila tre desinenze in -nze in tre versi, tanto varrebbe spezzare le unghie su una lavagna. Perché Battiato è uno straordinario interprete? Perché potreste ascoltare L'incantesimo una dozzina di volte – io oggi l'ho quasi fatto – senza farci nemmeno caso. Davvero, per notare la cacofonia ho dovuto leggere il testo sulla pagina. Battiato aveva il potere di trasformare in salmo qualsiasi scioglilingua. 

Una regola del torneo è che ogni canzone partecipa solo una volta anche se ne esistono diverse versioni. Di solito non è difficile capire quale sia la versione principale, ma L'incantesimo è l'eccezione: compare per la prima volta in un demo accluso nel singolo del Ballo del potere, ovvero a quel punto si trattava di uno scarto di Gommalacca, di cui condivide una certa teologia negativa ("amo quello che non è"). Nella demo ci sono solo un paio di tastiere, la drum machine e la voce di Battiato – eppure la canzone è già completa: le tastiere diventeranno archi (sintetizzati?) nella versione live di Last Summer Dance (2005), ma senza aggiungere molto incanto all'incantesimo. Anche la versione di Inneres auge (2009) contiene variazioni minimali (si sente più la chitarra). Alla fine L'incantesimo risulta più ascoltata della maggior parte dei brani del disco da cui fu esclusa, e forse se lo merita.  

2001: Running against the grain (testo di Sgalambro? #173) 

Certo che se in quello stesso 1985 in cui ascoltavo la cassettina di Mondi lontanissimi qualcuno mi avesse detto: hai presente Jim Kerr? Quello che fa "Hey hey hey hey" all'inizio di quella che tu ultimamente consideri la più bella canzone di tutti i tempi? Lo sai che un giorno canterà un pezzo di Battiato, con Battiato? Io come avrei reagito? Forse avrei detto: wow. Ma si diceva "wow" nel 1985? E forse comunque non l'avrei detto, forse avrei presagito la delusione. Franco Battiato e Jim Kerr nella stessa canzone, sul serio, e poi cosa? Pavarotti e gli U2? Samantha Fox e Sabrina Salerno? I Doors ma col cantante dei Cult? Quindici anni dopo, sia Battiato che Jim Kerr si sono ritirati in Sicilia e probabilmente il secondo vende meno dischi del primo: in compenso è proprietario di un albergo a Taormina. È un periodo in cui se vivi in Sicilia e fai il cantante un featuring con Battiato ti tocca, anche perché probabilmente la gente mormora, com'è che vivi qui e non hai ancora fatto un featuring con Franco? Che c'è, non vi stimate?  Battiato ne approfitta per produrre un brano introduttivo al nuovo disco molto più chitarroso del solito – forse ritiene che dopo l'exploit elettronico di Gommalacca sia ora di tornare su sonorità più rock e può darsi che nel 2001 non fosse un ragionamento sbagliato. Nei testi FB continua a rivendicare (con o senza Sgalambro) la sua orgogliosa natura di navigatore controcorrente, eppure Ferro Battuto dà l'impressione di un disco che per trovare un suono contemporaneo le prova tutte.

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23. Potendo poi rinascere, cambierei molte cose

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un requiem pasquale, un Lied su un animale, il suono primordiale, e intanto la musica muore]. 

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1979: Pasqua etiope (#109) 

Kyrie Leison, Christe Leison (non suona quasi Hare Krishna?) In cinquant'anni di carriera, Battiato ha toccato piuttosto raramente l'argomento cristianesimo, e l'ha fatto quasi esclusivamente attraverso il linguaggio musicale (arrivando a comporre una Messa arcaica). Le preghiere che gli capita di citare (qui il Requiem) sono sempre quelle dei riti pre-Concilio Vaticano II: in particolare un anno prima di Pasqua etiope aveva composto un Agnus per la colonna sonora del film di Brunelleschi che una volta rifiutata divenne Juke-Box. Pasqua etiope riprende in parte le atmosfere di quel disco strano: scale pianistiche a profusione, un senso di liturgia un po' improvvisata lì per lì da suonatori ispirati ma estemporanei. Ma mentre i brani di Juke-Box sono un'imperterrita sfida all'orecchio, Pasqua etiope scivola che è un piacere, cullando l'ascoltatore in uno stato di grazia che Battiato non si concedeva più dai tempi di Sequenze e Frequenze. Anche il titolo aggiunge qualcosa di mellifluo e pittoresco – è abbastanza improbabile che i sacerdoti copti etiopi preghino in latino, ma tutto sembra ambientato in un villaggio postmoderno (postatomico?) dove le liturgie dovranno essere ricostruite partendo da frammenti, detriti, suggestioni. 


1985: L'animale (#20) 

Fingere, tu riesci a fingere quando ti trovi accanto a me. Mi dai sempre ragione, e avrei voglia di dirti che è meglio che sto solo. A metà degli anni Ottanta Battiato è in piena mutazione: si è stancato di fare la popstar, vorrebbe diventare il compositore colto che da dieci anni sospetta di essere, e invece sta per scoprirsi cantautore – con un certo iniziale disappunto. Capita così che il suo disco più raccogliticcio, quasi una raccolta di canzoni sparse qua e là durante quegli anni frenetici, termini con un capolavoro imprevisto. Scritta forse per Giuni Russo (che la inciderà appena trent'anni più tardi), parzialmente sconfessata dal suo autore che ha sempre negato una lettura autobiografica ("è una canzone presa in prestito dall'esperienza di altre persone"), L'animale a ben vedere mette a fuoco lo stesso dilemma di Tra sesso e castità ma con una semplicità più perentoria, un lessico castigato e basilare – anche nella seconda strofa, quando tira in ballo i quattro elementi, non dice nulla che i profani non possano capire al volo: "dentro di me segni di fuoco, e l'acqua che li spegne". L'arrangiamento 'da camera' lo rende il primo vero Lied battiatesco, oltre che probabilmente il meglio riuscito. È un brano irresistibile anche perché, malgrado la lucidità della voce cantante e tutta la compassatezza orchestrale che lo circonda, alla fine quello che sembra avere l'ultima parola è proprio l'Animale. E l'Animale che mi porto dentro vuole te. 

   

2000: Suoni primordiali (#237) 

Suoni primordiali è il lento smorzarsi di Campi magnetici, il balletto composto da Battiato per il Maggio fiorentino. Suoni primordiali consta in dieci minuti di note che si attraggono e distraggono, finendo per smorzarsi come una galassia che collassa nell'infinità del nulla. Non ha nessuna speranza di passare il turno e ci si potrebbe domandare anche che ci fa in un torneo di "canzoni" di Franco Battiato: cosa rimane qui, della forma canzone? Lo stesso si potrebbe dire anche per i brani del periodo 1976-1978: che senso ha includerli? Non perché non siano interessanti da ascoltare, ma perché sono persino più lontani dall'idea di canzone di altri componimenti che sono stati esclusi: le opere (GenesiGilgamesh, Telesio), la Messa arcaica, le colonne sonore, e a proposito: perché Benedetto Cellini no e Juke Box sì? Per una volta ho una risposta semplice: ho incluso tutti i brani che nel sito ufficiale di Franco Battiato compaiono alla voce "discografia leggera". Cosa poi ci sia di leggero nell'Egitto prima delle sabbie o in Za non saprei dirlo. Quanto a Campi magnetici, è pur vero che certi brani potresti selezionarli in un contesto di chill out e nessuno protesterebbe – anzi magari verrebbero a chiederti da che playlist IDM l'hai tirata fuori. Ma non è il caso di Suoni primordiali, il suono di un dissolvimento prima del finale a sorpresa con la guest star che nessuno osava immaginare: Manlio Sgalambro in carne e ossa che canta La Mer di Trenet (ecco quello in gara non l'ho messa, almeno l'avesse cantata Battiato) (no, non dà fastidio, fa quasi tenerezza, ma in gara non l'ho messa lo stesso).   

2008: La musica muore (Camisasca, #148) 

Sono anni che non cambia niente: tutto è chiuso in un sacco a pelo. La musica muore è un fleur atipico, uno dei rari casi in cui Battiato decide di manipolare sensibilmente il testo della canzone che reinterpreta – certo, con la complicità dell'autore e vecchio amico Juri Camisasca che interviene a metà brano. La musica muore era un epico singolo del 1975 che sembrava dare voce a un senso di delusione per il ristagno della cultura giovanile e musicale in quegli anni – può sembrarci strano oggi, ripensando a che dischi fantastici continuavano a uscire, ma era analoga alla sensazione provata da Battiato durante il suo primo viaggio a New York: musica troppo forte e già sentita, pubblico assente, instupidito da sostanze. Ma Camisasca sembrava volerne fare anche una questione privata: la fine della musica era anche la fine della sua musica, tanto che la seconda strofa descriveva una crisi dell'ispirazione "Le mie note cercano una madre che le copra con un bianco velo. Scivolando sopra la mia fronte se ne stanno andando senza far rumore. La musica muore!" A Battiato questa crisi non interessa (così come non interessa l'andamento motownesco dell'originale, con gli archi usati nel modo più soul possibile): cancella strofa e ritornello, sostituendoli con un collage di citazioni che non hanno più l'immediatezza icastica di Cuccurucucù. Sembrano piuttosto le diapositive sbiadite di un boomer che si lamenta che la musica non è più quella di una volta, e il fatto che abbia ragione non lo rende meno fastidioso, anche perché insomma, nonno: "Degli Stones amavo Satisfaction e dei Doors Come on, baby, light my fire. Ascoltavo Penny Lane per ore ed ore..." che gusti originali, eh? L'arrangiamento è etereo e insolitamente didascalico: quando cantano "concerti" si sente un assolo di chitarra, quando l'acqua ritorna "nel sacco a pelo" risentiamo per un istante l'inconfondibile synth di Propiedad prohibida, come un'istantanea da Parco Lambro: quando dicono "stop", la musica si ferma. È comunque uno dei momenti più ispirati di Fleurs 2, con un ipnotico finale a base di sassofoni, ma che lascia l'amaro in bocca: dopo aver passato trent'anni a provare tutte le strade musicali possibili, Battiato cede a un attimo di disperazione e confessa che sì, forse qualcosa è davvero finito verso il 1972.  

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22. Guerriglia nella jungla, ma sotto un tetto di paglia amore mio

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una canzone sulla fine del mondo, una canzone sull'esistenza di Dio, una canzone sul perduto amore, una canzone su quanto sia tutto vanità]

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1982: Clamori (#52)

Il mondo è piccolo, il mondo è grande, e avrei bisogno di tonnellate di idrogeno. Quante volte di fronte a un verso ci siamo detti: puro Battiato. E quante volte ci sbagliavamo, ad esempio in questo caso l'autore è Henri Thomasson maestro gurdjeffiano di Battiato, sotto il bello pseudonimo di Tommaso Tramonti, più che appropriato dal momento che è di tramonto della civiltà che intende parlare. Nell'Arca di Noè è il paroliere di Clamori è l'Esodo, due 'puri Battiato'. Questo in parte potrebbe essere dovuto agli interventi condotti da FB sul testo originale (che nel caso delle Aquile rappresentano come abbiamo visto una completa riscrittura, per cui l'attribuzione a Fleur Jaeggy è più una dedica che uno scarico di responsabilità), in parte al fatto che lo 'stile Battiato' si presta molto bene a essere imitato (e parodizzato): ma in questo caso anche al fatto che Thomasson e Battiato parlano davvero la stessa lingua, che non è esattamente la nostra. Come l'Esodo, anche Clamori è un'apocalisse, ma il mood è molto diverso: niente più scene di massa, ma una languida devastazione capillare, che ci coinvolge tutti e parte dall'infinitamente piccolo. Siamo infestati di ragnatele, siamo infangati di cifre. I "computers" sono minuscoli, le mosche sono giganti e "sputano dati, dando il totale sui disoccupati". La fine sarà lunga e languida, come il marcire del frutto sull'albero. Clamori prosegue sul ritmo ipnotico e rallentato di Radio Varsavia, sfruttando molto astutamente la dinamica tra il ritmo in sottofondo e strumenti che compaiano e scompaiono all'improvviso, come lampi di luce o clamori, appunto, nel mondo moribondo. L'arca di Noè, che disco incredibile. 

1995: L'esistenza di Dio (testo di Manlio Sgalambro, #205) 

Ecco no guardate: un po' più sotto, qui vedrete esattamente com'è fatto Dio. Verso la fine, L'ombrello e la macchina da cucire comincia a mostrare una certa stanchezza: Battiato finisce le musiche e comincia a prenderle in prestito (qui dalla colonna sonora di Latcho Drom) ma non è completamente colpa sua. Lui aveva sempre inciso dischi compatti e molto brevi: mezz'ora e poco più. Questo non era ritenuto affatto un difetto, fino alla fine degli anni Ottanta, quando il supporto principale diventa il CD che i discografici decidono di apprezzare dell'80%. All'inizio sembrava una scelta dissennata, ma col senno del poi probabilmente sapevano che i supporti digitali avevano gli anni contati e stavano spremendo la vacca finché grassa. Ma Battiato in tutto questo? Battiato di tutto questo poteva anche non essersene accorto – nei primi '90 dà la sensazione di vivere sostanzialmente in un bel mondo di fatti suoi. Ha un suo prodotto, ha un pubblico che lo segue in qualsiasi svolta improvvisa, e continua a incidere dischi di mezz'ora. L'esigenza di rimpolpare un po' il contenuto per far sì che non sembri un furto all'acquirente si fa strada, se si fa strada, solo nel 1995 appunto con L'ombrello, che poi sarà l'ultimo disco in studio per la EMI. Nei dischi successivi Battiato comincerà a usare gli ultimi minuti dei CD per concedersi esperimenti e divagazioni che a volte diventano la cosa più interessante del prodotto. Nell'Ombrello invece prevale una sensazione di allungamento di brodo – prima Battiato declama su base tzigana una poesia di Sgalambro sulla vanità dei teologi che a rileggerla non è nemmeno così male, ma cantandola Battiato non riesce a segnalarne l'ironia. Restano ancora quattro minuti e FB sceglie di riempirli con un brano del Trattato dell'empietà di Sgalambro – salvo che per farlo risuonare più Filosofo li fa recitare a Helena Janeczek in tedesco, la lingua che più spesso nella produzione battiatesca segnala la Pretesa Culturale. No, sul serio, se uno non è fluente in tedesco perché dovrebbe fermarsi ad ascoltare una giaculatoria incomprensibile? La vera esperienza intellettuale è che in qualsiasi momento puoi decidere che tutto questo è insopportabilmente inutile, premere stop e mandare FB e Sgalambro a quel paese. 

2002: Perduto amore (De Lorenzo, Adamo, #77) 

A questo punto sono a un terzo del primo turno, di Fleurs ne ho già ascoltati una dozzina, me ne restano venti, che faccio? Mi gioco Proust? 

Mi gioco Proust. "Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all'istante di ascoltare, ha accolto in sé il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva l'ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l'ideale. Certi arpeggi, una certa "ripresa" han fatto risuonare nell'anima di più di un innamorato o di un sognatore le armonie del paradiso o la voce stessa dell'amata..." Sì, certo, e non c'è bisogno di sottolineare quanto dev'essere stata importante questa canzone nemmeno così insopportabile di Adamo per Battiato, che appena è riuscito a fare un film autobiografico l'ha chiamato proprio Perdutoamor. È triste perciò constatare come la sua Perduto amore sia uno dei fleurs meno riusciti – quello che più esibisce i limiti del procedimento. Dopo essersi salvato per un disco intero dall'effetto karaoke, all'inizio del secondo Battiato ci casca in pieno: cos'è andato storto? È un problema del materiale di partenza? In effetti Perduto amore era una ballata piuttosto convenzionale, già un po' datata quando uscì (era il 1963, ma come a tutti gli italiani all'estero, al belga Salvatore Adamo il mercato chiedeva di interpretare un determinato stereotipo). Colpisce il fatto che Battiato, che nel primo disco ha saputo spogliare qualsiasi canzone della retorica inutile (arrivando a de-barocchizzare le canzoni di De Andrè), qui si lasci tentare dall'opzione opposta e trasformi un banale arpeggio di chitarra in una partitura per archi, appoggiati su una ritmica contemporanea e piuttosto convenzionale – base di karaoke, appunto.    

2007: Io chi sono? (testo di Manlio Sgalambro, #180) 

E siamo qui, ancora vivi, di nuovo qui, da tempo immemorabile. Qui non si impara niente: sempre gli stessi errori, inevitabilmente gli stessi orrori. Parlando d'altro, a voi piace il Qohelet? L'Ecclesiaste, intendo? A me sì, lo considero un capolavoro della letteratura mondiale, e una cosa che mi piace particolarmente del Qohelet è che è breve: dieci paginette di Bibbia. Dal momento che tutto è vanità, perché sprecarne di più? Chiunque l'abbia scritto, ci ha condensato tutto quello che aveva imparato in una vita di esperienze. Battiato per contro aveva questo problema, che ogni due o tre anni un disco doveva pur farlo e quindi le sue meditazioni sulla vacuità del tutto oltre un certo limite possono risultarci ripetitive, proprio perché alla fine se siamo qui e non impariamo niente è fatale che dopo un po' ci parliamo addosso a vuoto (con o senza Sgalambro). Questa sensazione di ridondanza è probabilmente un errore di prospettiva: magari anche il Qohelet all'inizio era una valigia di dodici papiri (mi piace pensare che sia il sequel del Cantico dei Cantici, la ragazza nigra sed formosa nel frattempo ha allattato dodici figli, tre son morti bambini, altri sei in guerra, due non gli rivolgono la parola, tutto è vanità), magari tra mille anni di Franco Battiato non resisteranno che cinque o sei canzoni e se una fosse Io chi sono, non risulterebbe estremamente profonda? Spero che nel caso resista la versione del Vuoto, ancora un po' elettronica, e non quella più disadorna incisa per la raccolta Le nostre anime (2015).

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21. Com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro canzoni scritte da lui: un amore che mi prende piano piano per la mano, una cellula fra i motori, un'alba dentro l'imbrunire, un tempo in alto e pieno di allegria]

1968: È l'amore (#244) 

Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. 

1971: Una cellula (#116)

Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato.


1980: Prospettiva Nevski (#13) 

Prospettiva Nevskij non è sempre stata una delle più famose canzoni di Battiato: all'uscita su Patriots passò quasi inosservata, del resto a un primo ascolto poteva sembrare il pezzo più incongruo del disco, una ballata al pianoforte che al tempo poteva ricordare un Venditti o un Cocciante. Le cose cominciano a cambiare quando Alice la interpretò all'inizio di Gioielli rubati (1985), anche perché nel frattempo la percezione di Battiato stava cambiando: non più un provocatore in megafono ma (almeno a partire da Fisiognomica) un cantautore con un passato da rivendicare. Pochi anni dopo Tommaso Labranca ci regala in Cialtron Hescon quella pagina spietata in cui riconosce la grandezza di Battiato nel suo essere "al tempo stesso cialtrone e non-cialtrone", e come esempio di cialtronismo provinciale analizza con crudeltà proprio il testo di Prospettiva Nevski, definito "uno stornello popolaresco nascosto sotto uno strato di guano culturale". Labranca esagera, finge di non vedere la struttura frammentaria del testo creando una scenetta esilarante in cui tutto quello che Battiato racconta nella canzone succede nello stesso momento. Ma ha il merito di far notare che la Russia di Prospettiva è un mascheramento: "credevamo di essere in Russia e invece siamo nella piazza principale di Ramacca (CT, 9324 ab., 270 m slm)". Dà però per scontato che il mascheramento sia in cattiva fede, ovvero che Battiato voglia davvero spacciarci una Russia contraffatta: forse perché anche lui ormai è abituato ad ascoltarla estrapolata dal contesto di Patriots, un disco in cui i ricordi d'infanzia affiorano in ogni canzone e sono sempre ritagliati, decontestualizzati, mescolati ad altri luoghi comuni letterari o giornalistici. È un gioco che in Prospettiva si continua a giocare, ma forse su un livello più raffinato: siamo in provincia di Catania ma siamo anche in una steppa letteraria: Battiato racconta la sua infanzia ma la arreda con gli oggetti di scena dei romanzi russi che leggeva in quegli anni. Continua a ricordare quei benedetti "saggi ginnici", ma trasfigura l'oggetto del suo desiderio in Vaclav Fomič Nižinskij. Si meraviglia di esser cresciuto e di avere conosciuto compositori importanti come Stockhausen, ma lo trasfigura in Stravinskij. Oppure no, oppure sta raccontando davvero la vita di un personaggio ma non ci ha mai voluto dire chi (Pëtr Dem'janovič Uspenskij? Era russo e a San Pietroburgo fu allievo di Gurdjieff, Henri Thomasson, il maestro guedjieffiano di Battiato, tradusse la sua biografia in italiano). Sia come sia, Labranca non aveva tutti i torti: Battiato a volte è un mix inestricabile di Kitsch e non Kitsch, tale da farci dubitare che il Kitsch si possa del tutto escludere dai manufatti artistici. Prendi proprio Prospettiva Nevski: contiene uno dei più bei versi di Battiato ("com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire") e uno dei più agghiaccianti versi di Battiato ("un giorno sulla prospettiva Nevski per caso vi incontrai Igor Stravinskij": una rima ridicola, un errore di sintassi, un namedropping svergognato). È una canzone molto bella e ci si vergogna ad ascoltarla. Lo stesso Battiato aveva il sospetto di aver fatto una "cazzata": "Scrissi quella canzone tutta di seguito e poi la feci sentire a Giusto Pio: “Ma è bellissima”disse. Io ero scettico, cercavo di convincerlo: “Sicuro? A me sembra una cazzata”. Fui lui a spingermi a inciderla: fosse stato per me sarebbe finita nella spazzatura". 

1993: Sui giardini della preesistenza (#141) 

MALCOM PAGANI: Ha nostalgia di qualcosa?

FRANCO BATTIATO: La nostalgia non è un valore. Se la provassi non avrei scritto una canzone come “Sui giardini della preesistenza”.

Qualcosa non va. Che la nostalgia non sia un valore è un punto di vista coraggioso che mi propongo di fare mio. Ma che Battiato non ne provasse sembra difficile da sostenere. L'autore di Perdutoamor e Stranizza d'amuri e Sequenze e frequenze poteva davvero misconoscere l'importanza che aveva sempre avuto la nostalgia nei suoi procedimenti creativi? E perché invocare contro la nostalgia proprio "una canzone come Sui giardini della preesistenza", che evoca un sentimento di rimpianto per un'età dell'oro a monte della creazione? Chiaro, se sei convinto di essere un'anima immortale, in circolazione da prima dell'universo, il rimpianto per un passato di qualche anno fa deve sembrarti un'emozione piuttosto futile. Ma è quello che ha ispirato a Battiato le sua canzoni migliori e Nei giardini della preesistenza – mi dispiace – non è tra queste. La musica oscilla tra Lied e pop ma non riesce a evadere da una sensazione di già sentito. Forse ciò che rende Caffè de la Paix un disco meno interessante di altri è proprio il tentativo di arrivare a un sublime depurato di ogni nostalgia – ma appunto, se la togli cosa resta? Atlantide, Cartagine, il Terzo Occhio, l'Inviolato, tutta una mitologia personale che è ben più difficile da condividere. 

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Anche #MeToo ha i suoi parassiti (ed è un buon segno)

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Immaginiamo che un ambientalista sia giudicato, da qualche corte in giro per il mondo, colpevole di un atto di ecoterrorismo. A torto o a ragione. Qualcuno scriverebbe che è un trionfo per i nemici dell'ambiente? Secondo me no. Qualcuno magari segnalerebbe il rischio di strumentalizzazione giornalistica – rischiano di far passare tutti gli ambientalisti per ecoterroristi! – ecco, questo avrebbe un senso. Ma i problemi ambientali resterebbero lì, e chiunque li denuncia continuerebbe a farlo. Suppongo. Fin qui è poco più di un esperimento mentale. Ci riprovo con qualcosa che è successo più spesso e più vicino a me. Quando, durante uno dei momenti di massima conflittualità tra governo e sindacati, un commando delle Brigate Rosse uccise Marco Biagi, non fu la fine di nessun movimento dei lavoratori. Avrebbe potuto esserlo? Il rischio che una parte della stampa strumentalizzasse l'accaduto c'era. Ma in linea di massima sapevamo tutti distinguere tra terrorismo e lotta sindacale, tra un movimento pacifico e i violenti che lo parassitavano, e le cose non finirono così. 

Con #MeToo non dovrebbe andare diversamente. Certo, ogni movimento ha una storia a sé. Certo, dipende dalla consapevolezza e dalla saggezza di chi lo manda avanti – il che non rende semplice la vita dei movimenti collettivi e non organizzati. Può darsi che dipenda dal buon senso di chiunque abbia a cuore la questione, e quindi persino dal mio: così dalla mia posizione privilegiata ma in ultima fila alzo il dito per dire che chiunque in questi giorni sta difendendo Amber Heard per partito preso non sta rendendo un buon servizio a #MeeToo. Tutto il contrario. Certo, si può mettere in dubbio la decisione della giuria e insistere sui dettagli dissonanti – è un mondo libero, si può difendere qualsiasi causa anche quando sembra veramente molto persa. Ma sostenere che "la vittoria di Johnny Depp" sia un "trionfo della misoginia" è la classica profezia che si autoavvera, uno slogan che molti misogini sottoscriveranno. 

Negli ultimi anni abbiamo scoperto che per le donne denunciare gli abusi – in particolare quelli domestici – è molto difficile. Ma questo non ha mai significato che le donne non siano capaci di mentire (questa sì sarebbe una conclusione sessista) e che talune donne non lo facciano, per svariati motivi, alcuni dei quali non sono affatto diversi da quelli per cui mentono gli uomini: avidità, sete di vendetta, manie di protagonismo. Il processo ha stabilito che Amber Heard ha mentito per rendere più difficile la vita all'ex marito, e fin qui non c'è veramente nulla che non succeda tutti i giorni a ex coniugi di tutti i sessi. Più interessante è un corollario: Amber Heard ha anche cercato di sfruttare l'ondata di #MeToo: si è presentata come vittima di abusi nel momento in cui questo giovava alla sua carriera. Il movimento non è una vittima del processo: è una parte lesa. E anche in questo non c'è veramente nulla di strano: ogni buona causa attira parassiti, è sempre stato così. I parassiti sono persino un buon segno, significano che il corpo è sano, il momento in cui i topi ci terrorizzano davvero è quando li vediamo abbandonare la nave. 

Io al limite potrei capire un discorso del tipo: ora i misogini si nasconderanno dietro al caso Heard per mettere in dubbio la credibilità delle donne che denunciano i mariti. Da un punto di vista mediatico, la possibilità di una strumentalizzazione è fortissima e necessiterà di un'attenzione quotidiana, ovvero di energie che sarà meglio non sprecare nel tentativo di difendere Amber Heard. Ma da un punto di vista invece giuridico, davvero, come ve la immaginate la scena? Secondo voi una donna che è indecisa se denunciare o no un marito, tra le varie ragioni da soppesare, includerà anche solo per pochi secondi qualche considerazione su com'è andato a finire il caso Heard? Un magistrato, un giudice, una giuria che esamina un singolo caso di violenza domestica, tra le prove e le testimonianze vaglierà anche il precedente Heard? Da qui a sostenere che la giuria avrebbe dovuto lasciar andare la Heard per non danneggiare il movimento il passo è brevissimo. Mi sembra un esempio magnifico di quanto sia importante separare il giudiziario da ogni altro potere. Davanti a un giudice non c'è, non ci dovrebbe essere nessun movimento, ma un singolo caso in cui anche la persona più nobile, per il motivo più nobile, potrebbe avere commesso un reato, e quello deve essere appurato: quel singolo reato. Non so quanto questo sia compatibile col diritto consuetudinario anglosassone, ma insomma io la penso così, grazie per l'attenzione. 

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20. Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio

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[Questa è la Gara delle Canzoni di Battiato, oggi con una tecnica speciale per dissuadere i suicidi, un pezzo sulle campane senza campane, un pezzo di Mogol, un pezzo della Premiata Forneria Marconi (è sempre lo stesso pezzo), un Addio per Giuni Russo]. Si vota qui   

1978: Campane (per soprano, violini e pianoforte) (#221) 


Su Spotify Juke-box non è nemmeno tra gli album, è nascosto nella sezione "singoli ed EP" benché non sia né l'uno né l'altro. È un disco difficile da ascoltare: la cronologia ci incoraggia a considerarlo un canto d'addio alla fase più avanguardista – salvo che, appunto, forse è solo un "episodio", una colonna sonora come ne avrebbe scritte anche in seguito. Certo se si prende come punto di riferimento L'era del cinghiale bianco, risulta quasi inascoltabile. Mentre rispetto all'Egitto prima delle sabbie rappresenta una compromissione, un ritorno a forme musicali che nel 1977-78 sembravano abolite. E c'è questa tensione, avvertibile in ogni pezzo, tra musicalità e dissonanza. Qui per esempio c'è un brano che si intitola Campane, dove non suona nessuna campana ma chi pesta il pianoforte sembra volerle mimare, suonando con insistenza un intervallo fastidioso che non sembra mai esattamente a tempo. Qualche violino in sottofondo sembra decisamente più melodioso e a un certo punto entra una vera orchestra e suona un vero accordo, convenzionale, piacevole: è come se la musica richiamasse a sé Battiato, dai, vieni, smettila di farmi il broncio – ma Battiato è testardo e continua a maltrattare il pianoforte, il ritorno all'ordine è rimandato. Ormai manca poco, comunque.

1995: Breve invito a rinviare il suicidio (testo di Sgalambro, #164)

"Va bene, hai ragione se ti vuoi ammazzare. Vivere è un'offesa che desta indignazione". Di solito io mi immagino un signore su un cornicione. Sta lì a fissare il vuoto, quand'ecco che da una finestra a pochi metri vediamo slanciarsi con un megafono... Manlio Sgalambro. Di tutte le persone che potevano mandare a dissuadere un suicida, per arcani motivi noti solo a Battiato, è stato scelto il filosofo Manlio Sgalambro. Saprà trovare le parole giuste? Miracolosamente stavolta sì: non c'è neanche un parolone, né un Grande Nome citato ad minchiam. Al suo posto troviamo un approccio molto pragmatico al problema: non hai tutti i torti, questa vita è inautentica, ma facciamo così: moriamo insieme ma di morte lenta. E per quanto lo svolgimento ceda un po' al gusto barocco per il paradosso (questa parvenza di vita non merita il suicidio, solo una vita migliore), non mi stupirei che a Sgalambro fosse capitato di applicarla con successo. Sto cominciando a pensare che L'ombrello e la macchina da cucire sia uno dei dischi più pazzi e artigianali di Battiato, fatto veramente in casa con tante idee commercialmente improponibili e due o tre tastiere suonate alla garibaldina.   

2002: Impressioni di settembre (Mussida, Mogol, Pagani, #36)

Quanto verde, tutto intorno e anche più in là. Perché il secondo volume di Fleurs (intitolato travellingwillburyanamente Fleurs 3) non è buono come il primo? Alcune ipotesi.

1. In realtà è buono come il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più, è l'ennesimo album di cover di un artista che abbiamo già capito si diverte a farle (e forse ha capito che è meglio farle quasi tutte in italiano).
2. Le trilogie, o le cominci con in testa un prospetto già chiaro, oppure va a finire che spari tutte le cartucce migliori nel primo episodio. C'è ottima roba in Fleurs 3, ma Adamo non è Endrigo e Leo Ferré – mi spiace per i compagni della mozione Leo Ferré – non è Jacques Brel.
3. Tutte le persone che hanno conosciuto Battiato un po' più direttamente stanno ripetendo una cosa: era un simpaticone, gli piaceva divertirsi, per carità non consideratelo un guru o uno snob. Prendiamo nota, ma può darsi che in certi dischi accada quel che si dice accada nei film: se ci si diverte troppo sul set, gli spettatori si divertiranno meno. Il primo Fleurs rendeva ogni canzone un oggetto prezioso con un'intensità quasi religiosa: era un'operazione che sfidava il Kitsch e lo vinceva. Qui invece prevale un atteggiamento più scanzonato, forse mutuato dal set del Fun Club di Sgalambro: Battiato canta per divertirsi e sta bene, ma non è detto che ci divertiremo noi ad ascoltarlo. Anche nel pezzo forse migliore, Impressioni di settembre, prevale un approccio dissacrante, Battiato decide che il riff più storico del prog italiano è un po' troppo lungo e lo taglia come gli va, gioca d'anticipo, lo stravolge, nel primo volume non l'avrebbe fatto..
4. In realtà era scarso anche il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più.


2008: L'addio (Battiato, Avalli, Di Martino, #93) 

Stavamo bene. Per orgoglio non dovevi lasciarmi andare via, lasciarmi andare via. Ammettiamo pure che il terzo volume di Fleurs sconfini nel pianobarismo: non è forse proprio questo a rendere sublime questa versione dell'Addio? Vecchia canzone scritta con Mino Di Martino (già nei Giganti) per Giuni Russo ai tempi in cui sapeva andare più in alto dei soprani, là dove la voce umana diventa indistinguibile dal trillo dei gabbiani. È passato molto tempo, quei gabbiani non trilleranno mai più, un anziano pianobarista approfitta del momento di stanca di una serata per ritornare sulla vecchia canzone d'addio – la canterebbe sottovoce, se si potesse cantare sottovoce un pezzo del genere. Chi la conosce piangerà, gli altri sbadigliando si avvieranno all'uscita.

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19. Non servono più eccitanti o ideologie

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi sospesa tra una Milano invivibile e una Sicilia assolata, tra Maria Callas ed Emma Bovary]

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1983: Un'altra vita (#29)

Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca; mi innervosiscono i semafori e gli stop. E la sera ritorno con malesseri speciali. Non servono tranquillanti o terapie: ci vuole un'altra vita. Quando l'ascoltammo per la prima volta, verso la fine di quel 1983, probabilmente la scambiammo per una delle tante desolate contemplazioni del male di vivere contemporaneo, un sottogenere a cui il Battiato pop ci aveva abituato sin dall'Era del cinghiale bianco. Non sapevamo che stavolta Battiato faceva sul serio (o faceva più sul serio del solito): che a sfiancarlo non era la contemporaneità in generale ma Milano in particolare, e che stava per andarsene sul serio: "un'altra vita" lo aspettava in Sicilia. Ci sfuggiva un dettaglio che si è chiarito col tempo: Orizzonti perduti non era il solito disco postmoderno e ironico. Era una cosa molto più intima e cantautoriale, con versi di una discorsività commovente (Certe volte anche con te e sai che ti voglio bene mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione: sta parlando a sua madre?) Senonché di solito il cantautore ce lo immaginiamo con una chitarra in braccio o al pianoforte; Battiato invece si appoggia ai synth ma non sono più i complicati synth a valvole degli anni Settanta: sono le tastiere Roland del 1983 e non sono così dissimili da quelle che diversi ascoltatori di Battiato hanno in casa. Si verifica così per la prima volta nella storia della musica italiana il paradosso ben noto ai frequentatori delle scene indipendenti che potremmo definire "della musica da cameretta": tanto più personale quanto è prodotta con strumenti all'apparenza asettici – qui però manovrati con una maestria che lascia ammirati a cinquant'anni di distanza. Da notare che mentre Battiato si stancò quasi subito dell'arrangiamento digitale della Stagione dell'amore, quando riprese Un'altra vita in un un live molto tardo (Inneres Auge, 2009) non trovò praticamente nulla da cambiare. Nel frattempo anche "Dallas e i Ricchi piangono" erano diventati frammenti di modernariato come le mille bolle blu di Cuccurucucù, ma al tempo un inserto così prosaico potava infastidire come le unghie sulla lavagna. Oggi lo trovo un verso bellissimo: "sui divani abbandonati a telecomandi in mano storie di sottofondo: Dallas e I Ricchi Piangono".  


1989: Giubbe rosse (#100) 

Ritornare a sud per seguire il mio destino. È facile prendersela con Manlio Sgalambro, in effetti sembra che l'abbiano messo lì apposta, un catalizzatore di ostilità, un homunculus cresciuto nell'orto mistico di Calasso. Yoko Ono almeno è una donna, milita in due o tre minoranze, Sgalambro un possidente siciliano con l'hobby degli aforismi: si aggira per la discografia battiatesca col cartello Odiatemi e ci conviene farlo, perché altrimenti ci toccherebbe incolpare cose più scomode, ad esempio la Sicilia. Battiato non è più stato lo stesso, da quando è tornato. Battiato ha vissuto a Milano per 25 anni e sono stati 25 anni di lancinanti nostalgie ("ed era come un mal d'Africa"), 25 anni passati a evocare i demoni meridiani – chi meglio di lui ha cantato la transumanza turistica come un'esperienza di annullamento dell'io, chi ci ha fatto sentire di più il sale, lo iodio, mare mare mare voglio annegare, tutti quei dischi smaglianti di Giuni Russo che era più stagionale di Takeshi e Ketra, appena arrivava alla radio tu sentivi l'odore della sabbia e del coppertone. Tutta questa mediterraneità a Battiato saliva spontanea, finché viveva nelle nebbie confortevoli del nord. Poi un giorno ha deciso di tornare al vulcano, e magari è stata una coincidenza: ma poco dopo ha finito le parole. La partenza per Milano, Battiato l'aveva descritta con toni epici in Da oriente a occidente, un esperimento con strumenti medievali dove il suo synth suonava più ancestrale di tutti. Quindici anni dopo, Giubbe rosse (dal live omonimo) è una pagina di diario più eloquente del solito. Le immagini della Sicilia non sono più illuminazioni improvvise, non hanno più i contorni sgranati e i colori smarmellati dei ricordi, sono i sereni autoscatti appena sviluppati da un quarantenne che ci spiega chi è e cosa sta diventando. È ancora una buona canzone, eppure c'è un incanto particolare che è finito, e non tornerà più.

1998: Casta diva (#157)


Divinità dalla suprema voce. Supponiamo che l'arte, la musica in particolare, serva a suscitare emozioni in chi l'ascolta: questo si può ottenere in tanti modi. Una strategia primitiva, naive, può consistere nel descrivere l'emozione che l'artista prova e invitare l'ascoltatore a condividerla: Alcune delle migliori canzoni di Battiato fanno questo (ad es. Stranizza d'ammuri). Un artista più maturo cercherà di evocare l'emozione nell'ascoltatore senza definirla in partenza, allestendo tutti gli stimoli che messi assieme dovrebbero funzionare. Pensate per esempio alle Aquile: Fleur Jaeggy non scrive "commuoviti lettore perché a me è successo guardando camminare un'aquila", ovvero vuole arrivare esattamente lì, ma non esplicita nessuna emozione, sarebbe volgare: dissemina gli indizi, il vento che gonfia le vesti, le cavigliere ortopediche, e se il lettore è un po' attento e ha voglia di mettere insieme i pezzi ce la fa da solo, e alla fine parte dell'emozione è la soddisfazione di chi ha risolto un puzzle.

Il Kitsch è una terza opzione, che procede da un forte senso di insicurezza. L'autore Kitsch non sa come funziona bene questa storia delle emozioni: forse ne prova davanti a determinati manufatti artistici, ma non è sicuro di capire il perché, né si azzarda a smontare i manufatti per cercare di capirne il funzionamento: sa bene di non esserne capace. L'unica cosa di cui è sicuro è, poniamo, che la Callas quando canta lo commuove. Qualcun altro si domanderebbe: cosa rende la Callas più commovente? Potremmo confrontarla con altre soprano e capire. È sempre commovente o soltanto quando canta determinate arie? Il Kitsch-artista queste domande non se le fa perché non ha la fiducia in sé stesso necessaria per trovare risposte. Ha paura che a smontare la Callas poi smetterà di emozionarsi, quindi l'unica opzione possibile è citare la Callas.

Alla fine il Kitsch è la versione postmoderna del naif. Il naif condivide il suo struggimento d'amore dicendo: mi struggo per amore, emozionatevi con me. Il Kitsch-artista dice: la Callas mi spezza il cuore, emozionatevi con me. Il naif tiene un diario in cui esprime tutti i suoi sentimenti; il Kitsch-artista ha un catalogo, un Parnaso, un juke box coi Grandi Protagonisti del Novecento, il Kitsch-artista se non lo troviamo dopo un po' da Fabio Fazio è perché è diventato lui stesso Fabio Fazio. Che poi c'è qualcosa di male nel dichiarare i propri eroi, i propri maestri? Magari qualcuno che si sintonizza in quel momento prende nota, magari uno su cento va davvero ad ascoltare la Callas e alla fine all'emozione primaria ci può pure arrivare. Poi certo, possiamo criticare il Kitsch-artista, deprecare il suo lessico da marchettaro di eventi culturali, il suo debole per il sublime, se tiri fuori la Grecia ovviamente è "la Terra degli Dei", mica ce li avevano degli Dei gli altri popoli antichi, solo i Greci. Però occhio che siamo tutti Kitsch un paio di volte al giorno, se ci facciamo caso.

1998: Emma (testo di Manlio Sgalambro, #228) 



À la fin de Septembre, chargé d’humidité, je m’abandonne à mes pensées. Emma è un raro esempio di "lato B" battiatesco, uscito già in un periodo (1998) in cui l'espressione "lato B" non aveva più senso, mentre oggi i giovani sanno soltanto che è un modo di dire "culo", anche se non saprebbero dire il perché. La canzone esce sul CD singolo Il ballo del potere, col sottotitolo "demo" e in effetti di questo si tratta: del provino di una canzone che in quello stesso anno viene incisa da Patty Pravo. Abbiamo così l'occasione di capire forse come si presentano i provini delle canzoni che Battiato proponeva ai suoi interpreti, e di apprezzare la differenza col risultato finale, che è davvero notevole. FB si cimenta con un testo bilingue, laddove la Pravo preferirà farsi tradurre in italiano i versi in francese (senza che nella traduzione si perda nulla di particolarmente significativo: in certi casi il bilinguismo è solo un vezzo). FB si affida soprattutto alle tastiere, un po' perché è nella fase Gommalacca, un po' perché è il modo più efficace di comunicare le sue idee musicali: le suona con uno stile inconfondibile ma anche la versione di Pravo, molto normalizzata, trattiene in qualche modo lo stile Battiato. Il demo di Emma è interessante e ci fa rimpiangere di non poter ascoltarne altri: sarà esistito un demo di Per Elisa, di Un'estate al mare

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18. Avrete visto anche voi camminare le aquile

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[Questa è la Gara di canzoni di Battiato, anche se oggi per la prima volta si incontrano quattro brani di cui Battiato non ha scritto il testo – o quasi]

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1980: Le aquile (#68)


Il vento gonfiava le mie vesti: di veramente stabile? Non ho mai capito cosa significhi e se significhi qualcosa (però suona bene). Anche in questi giorni ho provato a capire se "stabile" può essere una marca di cavigliere ortopediche e non ho trovato risultati; in compenso ho scoperto finalmente, e mi vergogno del ritardo, che il testo delle Aquile *non* è una poesia di Fleur Jaeggy. Benché il testo le sia ufficialmente attribuito, il brano da cui sarebbe estrapolato è una prosa e somiglia solo vagamente al testo delle Aquile. Lo trovate per esempio qui, è un brano dalle Statue d'acqua. La Jaeggy poi avrebbe concesso a Battiato altri testi (Atlantide, Shackleton), ma a questo punto mi viene il dubbio che anche in questi casi si sia trattato più di un'ispirazione che di un testo pronto a essere messo in musica come li forniva invece Sgalambro (e anche nel suo caso, Battiato qualcosa modificava). Questo attenua la sensazione di snobismo che avevo sempre avvertito nel verso finale: no Battiato, io le aquile camminare non le ho mai viste, dovrei?

Anche dopo questa revisione, la lirica delle Aquile rimane sensibilmente diversa da quelle del resto di Patriots, che sembrano tutte più o meno prodotte da un generatore automatico di testi ironici postmoderni: niente cut and paste qui, niente namedropping: quella che Battiato vuole descrivere (ispirandosi alla Jaeggy) è un'esperienza epifanica, una rivelazione contenuta in un episodio del suo passato. È una corrente sotterranea della sua ispirazione che avevamo visto affiorare per la prima volta con Aries, e che a partire dall'Era del cinghiale bianco può scorrere indisturbata e regalarci alcune delle migliori canzoni del periodo, così come Le aquile è una delle migliori canzoni di Patriots. Il segreto del fascino non è tanto nell'epifania in sé, quanto nello scontro tra il sublime della rivelazione e i dettagli prosaici che la circondano, e che Battiato annota con un gusto crepuscolare (se non già montaliano): le cavigliere ortopediche, le ore in palestra. Musicalmente, è la cavalcata a cui il violino di Giusto Pio si allenava dai tempi di Adieu


1991: Oh Sweet Were the Hours (#196) 

E pur se furtivo, il sole d'autunno / è assai più prezioso del sole di giugno. L'ultima traccia di Come un cammello in una grondaia è un Lied di Beethoven, ma alla fine Lied vuol dire "canzone" e in particolare Oh Sweet Were the Hours è tratta dall'Opera 108, una raccolta di venticinque canzoni scozzesi. Perché oltre alle sinfonie e alle sonate che tutti sappiamo, Beethoven si era anche posto il problema di riscoprire e tramandare le tradizioni musicali popolari, da bravo romantico: i fratelli Grimm raccoglievano le fiabe, lui raccoglieva le canzoni. Duecento scarsi anni dopo, invitato a un festival di musica classica a Fermo, Battiato riprende il mano il Lied e con il coraggio spudorato del neofita ne scrive una nuova orchestrazione (quella di Beethoven era troppo intima, una cosa per pianoforte violino e violoncello, lui voleva più archi). Cosa gli stava dicendo il cervello? Se voleva dimostrare al pubblico di essere un musicista colto, una canzone scozzese su quant'è buono il vino non era la scelta migliore. Ha più senso il contrario: Battiato vuole giustificare a sé stesso il fatto che Gilgamesh non gli sta venendo un granché e alla fine tra la musica colta e le canzoni sta scegliendo queste ultime. Coi Lied del Cammello è come se Battiato spiegasse al suo Superego, lo vedi? Anche Wagner scriveva canzoni, anche Brahms, Beethoven addirittura le scopiazzava agli scozzesi avvinazzati: se le facevano loro, anche noi due possiamo. Da qui in poi i riferimenti alla musica romantica non serviranno più per spiazzare l'ascoltatore (come ai tempi di Per Elisa), ma per garantirgli di trovarsi di fronte a un'esperienza culturale con tutti i crismi. C'è una luce in fondo alla grondaia, ma purtroppo è una lampada Biedermeier. Franco Battiato sta per entrare nella sua fase Kitsch.

1995: Gesualdo da Venosa (#189)

Io, contemporaneo della fine del mondo non vedo il bagliore, né il buio che segue, né lo schianto, né il piagnisteo, ma la verità da miliardi di anni farsi lampo. Sotto gli stucchi Sgalambro non è poi così enigmatico, ovvero se qualcuno non si è fatto un po' di ossa con la vera poesia del '900 può anche spaventarsi ma davvero: qui dopo questa bella introduzione c'è un vero e proprio tropo della letteratura pop postmoderna, la "lista di Isaac": un elenco di manufatti artistici che rendono la vita degna di essere vissuta. Il rischio – se non si possiede la leggerezza del Woody Allen di Manhattan – è quello di apparire dei pretenziosi collezionisti di esperienze estetiche e Sgalambro ci casca in pieno: si parte col Concerto n, 4 in Do minore di Baldassarre Galuppi, si prosegue con Ornithology di Charlie Parker, si finisce con i madrigali di Gesualdo di Venosa, che certo ha ucciso la moglie, ma "cosa / importa?  Scocca la sua nota, dolce come rosa". Questa, se a qualcuno interessa, è l'opinione di Sgalambro su come si debba fruire delle opere d'arte dei femminicidi, un argomento che ci appassiona molto più oggi che nel 1995. Nell'Ombrello e la macchina da cucire Battiato sembra fin troppo contento di scaricare su Sgalambro l'incombenza delle liriche: lui è interessato ad altro, nel suo studio di casa si è rimesso a fare elettronica e (per fortuna) non ha intenzione di trasformare il namedropping di Sgalambro in una vera insalata musicale: niente Galuppi, niente Parker, niente Venosa, la canzone segue il pattern tipico dell'Ombrello, prima entra il solista, poi la sezione ritmica e il coro, e a volte, come in questo caso, il soprano Hiroko Saito aggiunge una coloritura estremo-orientale.


1999: Aria di neve (testo e musica di Sergio Endrigo, #61) 


Noi siamo qui, tra le cose di tutti i giorni, i giorni e i giorni grigi. Aria di neve è una delle canzoni più tristi mai scritte. Il testo descrive il disamoramento con una precisione agghiacciante e delle finezze inconsapevoli: la voce cantante si ammanta di oggettività, rinfaccia alla donna non tanto la sua freddezza ("Tu non ridi, non piangi, non parli più"), ma l'incapacità di prenderne atto ("E non sai dirmi perché"), finché nella seconda strofa si tradisce nel più patetico e maschile dei modi: lui avrebbe già scritto "più di mille canzoni nuove" per gli occhi di lei, peccato che lei non voglia cantarle. Impossibile non solidarizzare con questa poveretta che dovrebbe passare il tempo a cantare canzoni inedite sui suoi occhi. Un rapporto a senso unico, descritto con il lessico della canzone anni '50. Battiato si trova gran parte del lavoro già fatto: l'arrangiamento originale aveva già un andamento liederistico. Per svecchiare il brano è sufficiente attenuare l'accento melodrammatico del cantato. Il risultato fa venire i brividi e non sono di gioia. È pur sempre una canzone su quanto siano ridondanti gli inventori di canzoni.  

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17. Da quando sei andata via non esisto più

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[Questa è La Gara delle canzoni di Battiato, con una delle sfide più combattute fin qui: non solo tra Sesso e Castità, ma tra Sesso, Castità e Cuccurucucù. Chi vincerà?]

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1978: San Marco (#253) 


San Marco è una delle prime collaborazioni di Battiato con Giusto Pio, il lato B di quel pazzo singolo che i due fecero uscire nel 1978 per la Elektra (che in Italia era un'etichetta della Ricordi e forse aveva bisogno di rimpolpare il catalogo), attribuendolo a un fantomatico violinista aspirante popstar che nella copertina aveva le fattezze del figlio di Giusto Pio. Al tempo Battiato era anche l'allievo di Pio, e in San Marco si ha veramente l'impressione di assistere a una lezione: c'è un violinista competente, un pianista volonteroso ma incerto, e qualcuno tiene il tempo battendo il piede. Il testo è declamato da FB al megafono – lo stratagemma che tornerà in Bandiera bianca e che qui ha anche la funzione di dissimularne l'identità, perché Battiato in quel periodo è un brand di musica d'avanguardia, mentre questa roba è un'altra cosa, anche se a distanza è abbastanza difficile capire cosa sia. 
Come esperimento commerciale può lasciare perplessi ma bisogna sempre ricordare che era il 1978: i dischi si vendevano come il pane, più strani erano e più creavano nuove nicchie di mercato. Non v'immaginate la gente che è riuscita a stravendere dischi nel 1978. Se poi vi state domandando, ok, ma che nicchia di mercato si sarebbe dovuta aprire per un progetto musicale basato su un violino vagamente vivaldiano, una base ritmica più contemporanea e un'immagine associata alla Venezia della dolce decadenza settecentesca? ecco, magari non ci buttereste dieci euro in un progetto del genere e bisogna riconoscere che nemmeno Battiato e Pio ci stavano credendo troppo (tant'è che mandarono il figlio di Pio a suonare in tv in playback perché, per sua ammissione, non avrebbe chiesto un soldo), e però stiamo parlando del periodo in cui uno dei pochi artisti italiani a riempire i palazzetti europei era proprio un violinista, Angelo Branduardi; che pochi mesi dopo sarebbe uscito per esempio un pregevole album delle Orme ispirato proprio al Settecento veneziano, Florian, e prodotto da quel Gian Piero Reverberi che negli anni '60 aveva orchestrato i pezzi più barocchi di De André (quelli che molto più tardi Battiato avrebbe ripreso in Fleurs): il quale poi nel 1979, su insistenza del suo discografico che gli chiedeva di riempire una specifica nicchia di mercato, ("qualcosa che sia di facile ascolto ma di classe, dal sapore internazionale ma con un chiaro tocco italiano") cominciò a comporre musica finto-vivaldiana su ritmiche contemporanee, e a venderla con l'etichetta Rondò veneziano. Il primo singolo si chiamava proprio Rondò veneziano e aveva una linea di basso insistita molto simile ad Adieu, il lato A di San Marco; Berlusconi la scelse come sigla d'apertura delle trasmissioni di Canale 5. È senz'altro una coincidenza, ma il lato B di Rondò veneziano si chiamava San Marco, proprio come il lato B di Adieu. I Rondò esistono tuttora, anche se in Italia non vengono più a fare concerti (ma in Mitteleuropa sono ancora molto apprezzati) e hanno venduto qualcosa come trenta milioni di dischi: insomma a cercarla bene la nicchia c'era. Battiato e Pio la sondano quasi per caso, e poi vanno altrove (ma con l'Era del cinghiale bianco torneranno pericolosamente nei dintorni). 


1981: Cuccurucucù (#4)


Il mondo è grigio, il mondo è blu. Cuccurucucù è una delle canzoni più importanti della mia vita, ma questo non è così importante per Cuccurucucù – in effetti ciò che ha reso così centrale Cuccurucucù è la progressiva scoperta che non era stata scritta per me, che non mi riguardava, che era un patchwork di riferimenti che io non conoscevo. Troppo tardi: Cuccurucucù era scritta per gente che conosceva Le mille bolle blu di Mina e Il mare nel cassetto di Milva, canzoni che io avrei ascoltato solo molti anni più tardi associandole comunque indissolubilmente a Cuccurucucù e persino l'ira funesta del pelide Achille, e i profughi afgani in generale, per Battiato erano frammenti di cronaca e memoria scolastica da graffettare assieme in un collage postmoderno, mentre per me sono diventati il paesaggio semantico dove sono cresciuto, per me è Omero che cita Battiato, così come Paul McCartney e Bob Dylan, tutti saccheggiatori del Battiato primordiale. 
Mentre scriveva Cuccurucucù FB non aveva certo in mente me, ascoltatore di nove anni. Stava portando alle estreme conseguenze una poetica del frammento che era cominciata con i frastuoni di Clic e a partire da Patriots si era insinuata nelle canzoni pop solo a livello testuale. Continuando a comporre collage di versi di canzoni, poesie scolastiche, titoli di giornale, Battiato scopre, senza volerlo, il segreto per ipnotizzare i boomer. Cuccurucucù, è difficile capirlo oggi, è una pietra miliare: il 1981 è l'anno in cui i nati negli anni Quaranta cominciano a guardarsi indietro. Quel che vedono è perlopiù un album di foto slabbrate e oggetti desueti (le penne stilografiche, il rasoio elettrico), vecchie canzoni e una nostalgia assurda, che nessun medium ha ancora istituzionalizzato. Cuccurucucù arriva prima di Techetecheté, prima delle musicassette con Trenta Successi degli Anni Sessanta, prima dei gruppi di FB Noi Che Portavamo I Calzoncini Corti, Che Ne Sanno I Duemila e così via, Cuccurucucù è il preciso momento in cui gli anni Sessanta si impietriscono in un monumento in bianco e nero, ed è anche una canzone struggente anni Ottanta con un gioco di corde basse che riesce ancora ad agitarmi il sistema nervoso finché non entrano i Madrigalisti e sul si minore ho voglia di piangere, ma cosa volete saperne voi Duemila. 

2004: Tra sesso e castità (#125) 

Scorrono gli anni, nascosti dal fatto che c'è sempre molto da fare. Questo è un colpo basso, vero? Tra sesso e castità è uno dei brani più forti di Dieci stratagemmi, il disco probabilmente più interessante del tardo Battiato. Ha un testo che se non dice davvero niente di nuovo – il conflitto tra il desiderio e lo spirito, lo struggimento per un perduto amore e la necessità di astrarsi – lo dice proprio bene, con quell'ardimento lessicale che sulle labbra di chiunque altro suonerebbe ridicolo e invece sulle sue è necessario ("chissà perché avrò abdicato") e poi ha quel rivestimento rock che piace a noi giovani (del futuro). Quale bizzarria del destino, quale buco nell'algoritmo manda a sbattere un brano del genere contro un pezzo inaffondabile come Cuccurucucù? Allora, ecco, vi ricordo che l'algoritmo si basa sul ranking, e che quest'ultimo, in mancanza di altri dati, è basato esclusivamente sul numero di ascolti di Spotify. Capita dunque che mentre Cuccurucucù risulti la quarta canzone di Battiato più ascoltata dagli spotiffari (e non sorprende), Tra sesso e castità, che ai tempi dell'uscita ebbe un discreto airplay, si ritrovi alla... centoventicinquesima posizione. Sì, è abbastanza strano. Ingiusto, anche. Probabilmente Tra sesso si è ritrovata esclusa dalla heavy rotation che Spotify programma quando l'utente medio chiede brani a caso di Battiato. (Che c'entri la parola "sesso"? Gli algoritmi a volte sono bacchettoni). Ma in linea di massima il dato conferma una sensazione, ovvero che il tardo Battiato, per quanto celebrato dai media tradizionali e trattato con una certa deferenza persino dalle radio commerciali, alla fine fosse poco ascoltato. Non poco apprezzato: quando usciva con un disco nuovo eravamo tutti contenti e lo trovavamo sempre generalmente in forma. In particolare ammiravamo il coraggio con cui continuava a circondarsi di giovani (qui i padovani FSC) e a giocare con lo stereotipo che si era ritrovato addosso. Era ormai un rito applaudire fino a spellarsi le mani. E rimettersi quasi subito ad ascoltare la Voce del padrone.


2012: Il serpente (#132) 

Il denaro striscia come il serpente nelle città d'occidente. Così si celebra: ma da qualche parte un uomo nuovo sta nascendo. Apriti sesamo è un disco testamentario e soprattutto verso la fine si avverte quanto sia faticoso per FB doverci lasciare almeno una nota di speranza. Il serpente è uno dei brani più intimi dell'album – uno di quelli che FB potrebbe essersi composto e arrangiato in casa. Con voce tremante – e toccante – Battiato racconta una visione che purtroppo, come succede ai predicatori new age, assume colori e forme un po' naif ("Un raggio di luce attraversò un cielo nero e minaccioso andando a illuminare un albero di ciliegio in fiore").  

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