34. Ho già sentito gridare chi andrà alla fucilazione

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, batteria n. 34: tra Rivoluzione e Fornicazione, Haiku e Lied]. 

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1974: Aria di rivoluzione  (#63)

Verso la metà dei Settanta la Rivoluzione doveva sembrare una specie di spada di Damocle: molti, non necessariamente di sinistra, davano per scontato che ci sarebbe stata, e che tutto quello che stavano dicendo e facendo sarebbe stato visto, in seguito, dal punto di vista della Rivoluzione. Questo spiega molti atteggiamenti che oggi possono lasciarci perplessi, e un generale ricorso a formule criptiche, ambigue, concepite da artisti che temevano un futuro tribunale rivoluzionario che alla fine nessuno ha convocato. In parte questo spiega anche Aria di rivoluzione, il primo brano in cui Battiato cerca presumibilmente di parlare dell'aria tesissima che tira nella sua città di adozione, ma nascondendosi dietro una cronologia confusa: il "camionista in Abissinia" è suo padre; se in Europa c'era "un'altra guerra" siamo nei Quaranta, ma la generazione che "vuole nuovi valori" è quella di FB, e i nomi dei personaggi da fucilare si scandivano ai cortei. E tutto questo ha un senso: bisognerebbe ricordare che secondo la legge dei Vent'anni, così come negli anni Ottanta si sognavano i Sessanta, così nei Sessanta la guerra partigiana era un'ossessione e una nostalgia, un racconto di zii e genitori, un passato troppo acerbo per essere normalizzato nelle scuole. Aries arriva nei negozi alla fine del 1973, pochi mesi prima delle stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus. Battiato si mantiene ambiguo: rivoluzione e fucilazione sono due facce di un destino che si deve compiere. Il tema dell'inciso è tutto fuorché battagliero: è un'aria triste che fa da trait d'union tra Sequenze e frequenze e Da oriente a occidente. In sottofondo si sente una lirica molto battagliera del cantautore comunista Wolf Biermann, ma è recitata con tono impassibile (e poi è in tedesco, nessuno capisce). Ai concerti è possibile che sentire cori di fan scandire senza nessuna ironia "chi andrà alla fucilazione" lo abbia genuinamente spaventato: fatto sta che quando a fine anni '80 riprende il brano per Giubbe rosse, decide di lasciare il canto sospeso, privando la canzone dell'ultimo verso (e costringendoci a ripeterlo mentalmente, una tortura sottile). 

1993: Haiku (Battiato/Soseki, #66)

Seduto sotto un albero a meditare mi vedevo immobile danzare con il tempo come un filo d'erba che si inchina alla brezza di maggio o alle sue intemperie. Haiku ha questo lieve difetto, che non è un haiku. O lo è? Se ne potrebbe discutere, ci sono convenzioni che in occidente diamo per scontate e invece in Giappone sono più elastiche, è un po' come il sushi che nasce fingerfood ma a Milano ci tengono a usare le bacchette. Il testo di Haiku è rielaborato da una poesia dal Guanciale d'erba di Natsume Soseki tradotta da Lydia Origlia (1906), che proprio quell'anno veniva pubblicato in Italia dall'Ottava (la casa editrice fondata e finanziata da Battiato). Al di là della delicata mossa promozionale, è una specie di Oceano di silenzio in versione orientale. Battiato vi era molto affezionato e la riprenderà in Inneres Auge: e siccome nell'antologia testamentaria Le nostre anime la versione scelta è quella di Inneres Auge (meno eterea, con l'orchestra), forse avrei dovuto inserire quest'ultima. Ma anch'io ho la mia idea stereotipata di Giappone e trovo molto più appropriata la versione originale, molto più... delicata, appunto (c'è una parola giapponese più precisa ma non voglio fingere di conoscere anche solo una parola di giapponese) (quanto al sushi, è anche vero che è il modo migliore per imparare a tenerle in mano, quelle bacchette maledette). 


1995: Fornicazione (Battiato/Sgalambro, #194)

Vorrei tra giaculatorie di versi spirare... E come pesce putrefatto putrefare. Wow. È strana questa cosa, no? Che malgrado tante analogie, alla fine non sia così difficile distinguere i testi di Sgalambro da quelli di Battiato. La vena lirica di Battiato non è mai stata abbondante (è un motivo per amarlo, in anni di rapper ipereloquenti): in quasi tutti i dischi ci sono parole non sue e non stonano mai, se non ci fossero i credit chi è che si accorgerebbe che le Aquile o Clamori o Nomadi non le ha scritte lui. Poi nel 1993 incontrerebbe Manlio Sgalambro per la prima volta, il che è curioso, dal momento che si tratta di un autore Adelphi che vive a Catania (ma non inverosimile), e dal 1995 dichiara che non scriverà più un testo in vita sua, tanto quelli del suo nuovo amico sono migliori. E non importa che sia forse l'unico al mondo a credere davvero a questa cosa: anche negli anni successivi, quando sensibilmente il contributo di Sgalambro si diraderà, continuerà a mantenere la doppia firma su tutto quello che canta. Come se oltre di un afflusso regolare di versi da musicare, Battiato sentisse il bisogno di un partner su cui scaricare la responsabilità. Nel caso dell'Ombrello, vuole concentrarsi sulla musica: girando l'Europa ha capito che c'è qualcosa che bolle in pentola, una nuova elettronica che si fonde con la world music e si sente in grado di provarci (non si sbagliava affatto, anzi forse avrebbe dovuto crederci un po' di più, anche dopo l'Ombrello). 

Battiato sceglie Sgalambro perché capisce di avere molto in comune con lui. La stessa inclinazione barocca per il rivestimento vistoso, l'idea che il tecnicismo lessicale non occulti il significato ma lo impreziosisca, ad esempio il sesso diventa la "fornicazione"; la stessa indifferenza per la prosodia (sono entrambi versilibristi, per cui chi canta deve ingegnarsi di infondere musicalità ai versi senza il sostegno della gabbia sillabica, una sensibilità orientalista può aiutare), gli stessi temi – alcuni ossessivi – le stesse pretese intellettuali, in Sgalambro un po' più sbandierate ma appunto: significa che Battiato ha trovato un paroliere con più pretese di lui o che ha trovato finalmente una maschera che gli consente di esprimerle con meno pudore? Perché una delle caratteristiche che ci fa riconoscere a colpo sicuro Sgalambro da Battiato è la spudoratezza. Battiato usa i rivestimenti per coprirsi, Sgalambro per esporsi. Lui vuole fornicare e putrefare – probabilmente tutti abbiamo talvolta voglia di fornicare e putrefare ma lui ha trovato un modo per dircelo. 

2007: Era l'inizio della primavera (Battiato/Čajkovskij/Sgalambro/Tolstoj, #191)

E noi stavamo bene. Era l'inizio della primavera è un lied di Čajkovskij con un breve testo di un Tolstoj che non è quello che tutti conoscono, ma un suo cugino di secondo grado – tradotto da Battiato e da Sgalambro. Il vuoto è un disco strano. Potrebbe raccontare una storia, forse ci prova, di sicuro non ci riesce. Ma non sarebbe stato difficile: ad esempio sarebbe bastato mettere in ordine cronologico i riferimenti stagionali, più frequenti del solito. Ad esempio, perché l'inizio della primavera deve venire dopo Tiepido aprile o I giorni della monotonia? Oltre alle stagioni, c'è un chiaro senso di incompletezza – è una canzone che si prepara a raccontare una storia ma poi non lo fa: la storia potrebbe proseguire in altre canzoni del disco ma anche no. Per farla durare un po' più a lungo, Battiato la fa ripetere in inglese da tre voci femminili (due armonizzano, un'altra credo sia un soprano). Può darsi che tutto questo sia voluto: che Il vuoto sia un album di ricordi destrutturati, da gustare l'uno dopo l'altro senza curarsi troppo della cronologia. Del resto nulla è reale, ricordiamo. Credo sia l'ultimo vero e proprio Lied inciso da Battiato. 

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33. Perché sei un essere speciale

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[Questa è la Gara, oggi con uno dei brani più famosi, uno dei brani più scabrosi, uno dei brani più inspiegabili e un brano di Claudio Rocchi: chiedi chi era Claudio Rocchi]. 

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1972: Energia (#130)

Dopo aver più volte dichiarato che Franco Battiato è riuscito ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l'anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita, dobbiamo comunque riconoscere che la sua carriera 'seria' comincia con un'affermazione incredibilmente bomberistica: "Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia". Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine. 

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch'io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni '70 mi danno questa sensazione, l'illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all'edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei "Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano". Nella mia memoria c'è appena l'ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l'immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci. 

La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l'eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura” (ormai, Battiato?) Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia "la prima goccia bianca che spavento", e come dimenticare l'incipit di Dieci stratagemmi, "eiacula precocemente l'impero" (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come "energia" che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico. 

1973: Soldier (Battiato, Conz, Massara, #255)

I amma lika soldier, I've diedda lika soldier. Di tutti i dischi strani pubblicati da Battiato per ragioni che ci sfuggono, ecco, questo 45 giri del 1973 in assoluto è quello che ci sfugge più lontano – probabilmente ci manca un tassello, del resto che ne sappiamo di come funzionasse il mercato discografico in quei primi anni Settanta in cui era un settore in espansione (già facciamo fatica a immaginarcelo, un mercato in espansione). Per cui ascoltando Soldier o Love capita che mi distragga a immaginare i motivi per cui un disco così volutamente anonimo è stato composto, suonato e stampato, del tipo che la BlaBla doveva assolutamente farne uscire tot entro la tale scadenza e quindi si è montato un testo qualsiasi in inglese su una musica qualsiasi e l'hanno fatta cantare al primo che passava in sala d'incisione quel giorno, ed era Battiato. Oppure sentite questa: magari il nome "Springfield" era una proprietà intellettuale dell'etichetta e volevano denunziare qualcuno che stava usando lo stesso nome (i Buffalo Springfield?), e quindi hanno pubblicato un disco qualsiasi per dimostrare che gli Springfield esistevano (nei fatti nessuno sa esattamente chi siano, e se Battiato ne facesse parte o fosse un featuring). Cioè in altre industrie queste cose si fanno, magari si facevano anche nella musicale, quando valeva ancora la pena. Che altro dire. Non è affatto una brutta canzone, è orecchiabile, meno semplice di quel che può sembrare, ma buttata lì senza reale convinzione... Forse anche a causa della copertina, mi sembra un brano mimetico, cioè è chiaro che non è veramente un disco di rock anglosassone dei tardi '60 ma è altrettanto chiaro che vuole assomigliarci e ci riesce più o meno come la vespa somiglia all'ape. Uno degli indizi che potrebbe rivelare il mimetismo al cacciatore è l'inglese di FB, che qui lascia traspirare una sicilianità che in seguito non sentiremo mai più.    

1996: La cura (#2)

Onestamente pensavo che La cura fosse il brano di Battiato più ascoltato su Spotify. In realtà guardando bene c'è una versione di Centro di gravità con due milioni di ascolti in più, ma siamo comunque già sui 20 milioni, numeri che le altre canzoni del suo repertorio guardano da lontano. Non è difficile capire il perché: è la classica canzone che una persona può decidere di ascoltare all'improvviso, come altri si versano un bicchiere o mandano giù una pillola. È una canzone terapeutica, lo dice già il titolo. Battiato decide di scriverla mentre lavora al suo primo disco con la PolyGram: forse vuole dimostrare ai nuovi committenti che vale l'investimento, o a sé stesso che è ancora capace di tirar fuori una zampata da alta classifica, una canzone da ficcare nel nostro inconscio collettivo se vuole, non che in generale ne avrebbe voglia ma altroché se ne è capace. Dunque si mette a tavolino, con o senza Sgalambro, e si pone il problema: cosa vuole ascoltare la gente, davvero? Lascia perdere lo stile, il ritmo, lascia perdere tutto. Cosa vorrebbe sentirsi dire la gente, dal primo all'ultimo istante della vita (e soprattutto nel primo e nell'ultimo instante)? La gente vuole sentirsi amata, vuole sentirsi protetta, vuole sentirsi curata, vuole sentirsi speciale... perfetto: faremo una canzone così, e la gente l'ascolterà all'infinito. Ed è andata così.
È buffo che ci abbia pensato, tra tanti autori, proprio uno che ha deciso con molta autoconsapevolezza di non diventare mai un padre. Buffo ma appropriato, ripensando ai suoi vecchi dischi huxleyani, e a Fetus in particolare, che cominciava proprio con la nascita del Nuovo Individuo Alienato: "non ero ancora nato che già sentivo in cuore che la mia vita nasceva senza amore". Possiamo pensare che La Cura sia la risposta a Fetus: dobbiamo tornare a essere individui, dobbiamo tornare ad amarci, interrompere il percorso che ci sta portando a vivere come cellule tra i motori. Possiamo, ma mi è venuta in mente un'interpretazione più diabolica, in parte stimolata dal riff iniziale.
Battiato lo suona con una voce campionata, qualcosa che non mi pare avesse mai fatto nei suoi anni elettronici. Il campionamento vocale è uno strumento delicato, specie prima che i trapper ci ammorbassero con l'autotune si trovava in una specie di uncanny valley: non è un suono sintetico, non è un suono umano, sta in mezzo e come le cose che stanno in mezzo può ispirare una forte repulsione, l'allarme istintivo dell'essere umano di fronte a qualcuno che si sta travestendo da suo simile. Perché Battiato decide di usarlo proprio in questa canzone? Chi è che ci sta davvero dicendo Sei Un Essere Speciale? Ricordiamo che i bambini artificiali di Huxley crescevano ascoltando nastri registrati che li rassicuravano sul loro destino ("Son felice di essere un Beta!") Ecco, la Cura potrebbe essere un nastro del genere, forse noi stiamo galleggiando nel nostro brodo primordiale illusi da un software che con la voce di Battiato ci rassicura che tutto andrà bene. Perché siamo esseri speciali, ed Esso avrà cura di noi.

2013: La realtà non esiste (Claudio Rocchi, #127)

Quando stai mangiando una mela, tu e la mela siete parte di Dio. Durante il concerto all'Arena di Verona del 2013, mentre Antony prende fiato, Battiato presenta Alice e invece di intonare la solita Tozeur, l'orchestra attacca una canzone che la maggior parte del pubblico non ha probabilmente mai sentito: è un omaggio a Claudio Rocchi, morto pochi mesi prima: fondatore degli Stormy Six e del Re Nudo, cantautore rilevante e assai sottovalutato che persino Battiato in tre dischi di Fleurs si era dimenticato – malgrado una concezione del mondo davvero non dissimile, voglio dire, chi altri avrebbe potuto intitolare una canzone La realtà non esiste e versi come "Quando vivi sei un centro di ruota"? È una bella versione ed è bello che qualcuno abbia approfittato di un pubblico così vasto per ricordarlo. 

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32. Facevano l'amore con l'ausilio del motore

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro canzoni frammentarie: frammenti di suoni, frammenti di culture, frammenti di storia, frammenti di Battiato medesimo].

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1974: Ethika fon Ethica (#213) 

Ho la sensazione che Ethika fon Ethica sia un brano molto caro a tutti i fan del Battiato anni Settanta – ho letto cose pazze, gente che fu cacciata da radio popolari per aver messo in onda una cosa che effettivamente bisognava essere matti per mettere in onda, cioè immagina di sintonizzarti in quel momento con una radio popolare e sentire un comizio di Mussolini, sentire Faccetta Nera, ed era il 1974. A volte mi è piaciuto considerare Ethika la Revolution 9 di Battiato, non solo perché si tratta in entrambi i casi di un collage sonoro, ma del punto estremo di una rivoluzione che FB stava portando avanti – salvo che Revolution 9 era il brano meno ascoltabile di quell'album, mentre Ethika forse è una delle cose più intellegibili di "Clic". In quel periodo Battiato stava distruggendo il personaggio pubblico che aveva interpretato nei primi due dischi sotto la regia di Gianni Sassi. Aveva sciolto il suo gruppo, ai concerti arrivava solo e indispettiva il pubblico suonando lunghi accordi per decine di minuti, oppure mettendo davanti al microfono una radiolina tascabile e giocando a sintonizzarla su stazioni diverse. Dalle improvvisazioni su 'un solo accordo' sta nascendo il Battiato minimale che porterà a Za e all'Egitto prima delle sabbie; dai giochi con la radiolina nasce Ethika e tutto il filone concreto fino a Coffee-Table Musik: ma la sensazione comune è che Ethika abbia qualcosa di più delle composizioni successive – banalmente, è più breve e concentrata: ci sono più idee in questi quattro minuti che in certi dischi che ha fatto dopo. Non è una semplice seduta di zapping radiofonico, anzi: tutti i frammenti sono scelti e montati con una certa attenzione, e alcuni episodi sono riuscitissimi, in altri dischi forse FB li avrebbe riprodotti per decine di minuti e invece durano pochi secondi (il brevissimo concerto di bisbigli!) Benché alcuni effetti sonori sin dall'inizio ci suggeriscono che Battiato stia sintonizzando una radio, l'etere che esplora ha qualche proprietà quadridimensionale: mette in contatto il presente dei fotoromanzi col passato degli stornelli e del fascismo.  

1980: Passaggi a livello (#85)

Good vibrations! Satisfaction! Sole mio! Cinderella! mit violino! Lux aeterna! Galileo! Douce France! Nietzsche-Lieder! Kurosawa! Meine Liebe! Mister Einstein On the Beach!


Patriots finisce con una scarica di fuochi artificiali. Battiato si è ormai impadronito del dispositivo postmoderno e riesce a farci passare qualsiasi cosa. Si comincia con un pianoforte che sussurra il tema di Happy Xmas (War Is Over) di John Lennon e Yoko Ono (a sua volta modellato su Stewball, un canto popolare forse di origine inglese ispirato a un cavallo da tiro, per cui forse ci potrebbe essere un collegamento con la carrozzella della seconda strofa) e si prosegue inglobando allegramente qualsiasi frammento Battiato voglia rilevare. La progressione, non è una coincidenza, è la stessa con cui terminava il disco precedente: I-V-VI, come in Stranizza d'amuri: l'ascesa infinita, la sensazione di elevazione che FB vuole imprimere nell'ascoltatore al termine dell'ascolto dei suoi primi due album pop. Il testo è il solito collage, segue un filo di associazioni che si interseca con altri discorsi come nei passaggi a livello: i treni di una volta, le carrozzelle di una volta, la vita in villeggiatura, i giochi nel cortile col freddo che fa (forse perché è Natale davvero, ma che sia Natale lo capiamo soltanto dal suggerimento subliminale del tema lennoniano). Nel frattempo ha citato Proust, non il solito Proust dell'elogio della cattiva musica, ma un passo dei Guermantes dove la musica si rivela uno strumento conoscitivo più potente dei viaggi. Il postmoderno non era mai stato così ballabile. 

2004: Odore di polvere da sparo (Arcieri, Battiato, #172) 

È vero / che sul Mar Nero / sul mare nero / le rose fioriscono tre volte? (Un giorno bisognerà ragionare su quelle rime, quei giochi di parole talmente sciocchi da risultare irresistibili e che si potrebbero definire mogoliani). In Odore di polvere da sparo è ancora più percettibile il tocco di Maurizio Arcieri: il 4/4 rigoroso, la strofa su un accordo solo per cui in qualsiasi momento puoi cantarci sopra black silk stockings, black silk stockings. Su questo tappeto diverso dal tipico Battiato (ma non dai tipici Krisma) FB spennella scene belliche più indistinti del solito – non si capisce veramente di che guerra stia parlando: l'odore di polvere e il mar Nero ci farebbero propendere per la guerra di Crimea, ma poi salta fuori Baku che è sul Caspio. Potrebbero essere i cannoni di uno Zar che viene a prendersela. "La parte sinistra di Baku, guardando il porto, è la vedetta". Se guardo il porto, la parte sinistra è quella occidentale, quindi Baku potrebbe essere il bastione dell'imperialismo europeo. C'è anche "una banda" che "accompagna le reliquie della santa", ad assecondare "gli impulsi religiosi dell'Occidente, accidente". Vabbe' non si capisce, io forse continuo a cantarci sopra black silk stockings, black silk stockings. 

2012: Passacaglia (#44)


Passacaglia è una canzone dell'ultimo album di inediti (Apriti Sesamo, 2012), ispirato alla Passacaglia della vita (Homo fugit velut umbra), brano erroneamente attribuito al compositore barocco Stefano Landi che lo ammetto, coi suoi reiterati "bisogna morire" è un pezzo che mi dà qualche discreto brivido. Credo che questo derivi soprattutto dallo straniamento di trovare in un testo seicentesco un'espressione che ci suona contemporanea: anche se è una percezione illusoria, anche se quel "bisogna" probabilmente nel Seicento aveva una sfumatura diversa da adesso. Con la rivisitazione di Battiato avviene l'esatto opposto, ovvero FB taglia proprio il "bisogna morire" (che pure è l'idea fissa intorno a cui gira tutto il disco) e lo sostituisce con versicoli finto-seicenteschi che m'indispongono: ("Non val fuggire / Si plachi l'ardire": notare il troncamento non giustificato dalla prosodia, ma solo dall'esigenza di non passare per italiano corrente). È un Battiato che canta le sue classiche cose da Battiato (orrore per la contemporaneità, nostalgia per le epifanie dell'infanzia), ma in modo ormai meccanico, su una musica altrettanto meccanica, come spesso risulta il barocco se lo lasci girare un po' troppo a vuoto ed è appunto il problema che il barocco condivide con l'elettronica, dopo un po' hai la sensazione di essere stato lasciato solo con un automa, un algoritmo che continuerà a produrre battiatismi casuali finché non ti sarai stancato e non spegnerai il dispositivo. Passacaglia è anche l'ultimo singolo inedito della discografia di FB (con un video che se non l'avesse firmato Pinaxa e non ci fosse il logo ufficiale della casa discografica sarebbe indistinguibile da una clip amatoriale su Youtube) il che spiega in parte il ranking molto alto (#44!) per una canzone che francamente sembra scritta da un generatore casuale di battiataggine. 

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31. Ti dico che nulla mi inquieta, ma tu mi dai sui nervi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un brano sull'agnello di Dio, un brano sull'amore che finirà, un brano su Auschwitz e un brano sulla morte, insomma è una tipica giornata della Gara delle canzoni di Franco Battiato]. 

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1978: Agnus (#236) 

Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere dona eis requiem. E sempre sia lodato il funzionario Rai che bocciò la colonna sonora prodotta da Battiato per il film tv Brunelleschi: ci pensate, se l'avesse accettato forse FB si sarebbe accontentato di aver inciso Agnus e non avrebbe avuto voglia, pochi mesi dopo, di trasformarla in Stranizza d'amuri. A cui somiglia, bisogna avvertire, come un bruco alla farfalla: Agnus è un brano ancora orgogliosamente dissonante, in cui Battiato si avvale della voce di Camisasca come in seguito dei campionamenti di cantori mongoli o tibetani, cioè in sostanza di qualcosa che la musica dodecatonica occidentale non riesce a non registrare come stonato. La tensione tra il lamento dell'agnello di Camisasca e l'intervento del soprano Alide Maria Salvetta è anche una lotta tra dissonanza e musicalità, il suono del Battiato anni '80 che si dibatte per venire al mondo – in certi momenti i violini per un attimo accantonano gli arpeggi e sembrano già pronti a diventare un accompagnamento ritmico. Forse non c'è stato un parto musicale più lento e complicato di questo, ma ormai ci siamo.   


1999: Te lo leggo negli occhi (Endrigo/Bardotti, #21).

Finirà? Me l'hai detto tu. Ma non sei sincera. Metto qui un appunto che non saprei dove appoggiare, ovvero: Battiato ha avuto tutto il tempo della vita per omaggiare Gaber di una cover, ma non l'ha fatto. Ha coverizzato i Rolling Stones e Beethoven, Alan Sorrenti e Adamo, ma Gaber no. È abbastanza curioso che Battiato non abbia mai voluto riprendere altre canzoni dell'unico cantautore italiano che poteva rivaleggiare con lui per rifiuto della modernità e ampiezza della cavità nasale (e col quale collaborò parecchio). Lui alla domanda avrebbe risposto che naso a parte avevano vocalità diverse, ma questo non gli ha impedito di rifare De André... vabbe'. La cosa più vicina a un tributo a Gaber è forse appunto questa Te lo leggo negli occhi che Sergio Endrigo ha composto per il cantante Dino nel 1964 e che Gaber continuava a suonare nei bis fino agli anni '90, e aveva inciso nel 1967 in una versione che ancora più dell'originale gridava "Morricone!" Come si capisce quando una versione grida "Morricone!"? È soggettivo, ma spesso il contrabbasso fa una specie di schiocco che vi rimanda negli anni Sessanta anche se non ci siete mai stati, e qualche strumento da qualche parte fa la stessa serie di note per tutta la canzone – spesso sono tre, ma in Te lo leggo negli occhi sono addirittura due, il che fa a pugni con il ritmo terzinato ma è appunto questo fare a pugni che grida "Morricone!" (Il quale Morricone in realtà dirigeva l'orchestra di Dino nel 1964; ignoro se abbia anche sovrainteso all'incisione di Gaber, ma a quel punto forse morriconizzare le canzoni era diventata una pratica condivisa). Battiato di tutto questo morriconismo non sa che farsene: nel primo volume di Fleurs vuole andare all'essenza delle canzoni, sopprimere tutte le interferenze dettate dalle mode, dai periodi. Questo in effetti rende la sua Te lo leggo negli occhi la più educata, la meno tesa, e non escludo che nel futuro qualche musicologo avrà difficoltà a capire che Battiato è arrivato vent'anni dopo Gaber. Ci resta più attenzione per ascoltare il testo di Bardotti e scoprire quello che nel 1967 passava inosservato, ovvero che la voce cantante è quella di un manipolatore: vuoi dirmi di no, ma è solo paura, in realtà hai bisogno di me, te lo leggo negli occhi. Un Brel, forse anche un Tenco, sarebbero riusciti a far sentire l'ambiguità della situazione e ad autoridicolizzarsi; Gaber nel 1967 nemmeno ci prova (forse era troppo presto?), e se non ci prova Gaber, figurati Battiato.


2008: Il carmelo di Echt (Camisasca, #149) 

Dentro la clausura qualcuno che passava, selezionava gli angeli. A differenza dell'altro prestito da Camisasca (La musica muore), qui Battiato non cambia una sola parola, anzi sembra preoccupato di dare una versione il più corrispondente possibile a quella che l'amico aveva inciso in un album del 1991 ormai introvabile. Sarò cinico se lascio scritto che invece era proprio qui, invece, nella canzone dedicata a Edith Stein che valeva la pena di correggere qualcosa? Soprattutto quel distico così naif "E sopra un camion o una motocicletta che sia / ti portarono ad Auschwitz", che è proprio un esempio di quello che non si deve fare in poesia: perdersi dietro dettagli inutili facendo anche notare che sono inutili. Forse pesa su di me un'assuefazione, vent'anni di giornate della memoria e tutto il relativo merchandising, che dalla Vita è bella in poi può effettivamente indurre se non un senso di rigetto, ma almeno un germe di sospetto ogni volta che qualcuno si mette a cantare "Auschwitz!", come se bastasse questo per fare letteratura della memoria. Giova quindi sempre ricordare che Il carmelo di Echt è una canzone che viene prima di tutto questo, che Camisasca la incise quando era appena uscito da un monastero ed Edith Stein non era ancora stata canonizzata, e ci mise tutta la sua devozione e sì, la sua ingenuità: e che a Battiato quasi vent'anni dopo quell'ingenuità interessava ancora, era un fiore che gli premeva conservare. 

2012: La polvere del branco (#108) 

Ho voglia di appartarmi e di seguire la mia sorte, perché morire è come un sogno. Apriti sesamo è un disco sulla morte: anche quando sembra cambiare argomento va sempre a parare lì, ormai è un chiodo fisso e come dargli torto. Battiato ne parla con franchezza, senza artifici retorici e io ho appunto questo problema, che il Battiato più franco e scevro da artifici retorici è quello che mi risulta più indigesto. La canzone descrive con molta chiarezza lo stato d'animo dell'animale ferito che cerca un posto lontano per morire in pace e solitudine (forse anche per evitare pratiche di eutanasia troppo precipitose e brutali). Però è bello almeno quando dice: Ci crediamo liberi, ma siamo prigionieri, di case invadenti che ci abitano e ci rendono impotenti. 

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30. Come piombo pesa il cielo questa notte

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con tre brani finali di tre album diversi, e un altro che dà il titolo a un album]

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1988: L'oceano di silenzio (#53)

Cosa avrei visto del mondo senza questa luce che illumina i miei pensieri neri? L'oceano di silenzio chiude Fisiognomica con una preghiera. Battiato non aveva mai scritto una canzone così contemplativa ed è possibile che non ci sia più riuscito in seguito. Di fronte al Silenzio, Battiato usa poche parole molto semplici, o al limite le prende in prestito dalle Statue d'acqua di Fleur Jaeggy... ma stavolta tradotte in tedesco, forse per rinforzare una sensazione di Lied. In effetti ho dovuto controllare perché pensavo che l'aria del soprano fosse un prestito da qualche compositore, invece no, è di Battiato. Mica male però questo Battiato. L'oceano di silenzio è anche il momento in cui capisce che gli è possibile raggiungere certi livelli di intensità anche con la forma canzone, e spalanca la porta alla fase più mistica della sua produzione. 

1991: Come un cammello in una grondaia (#76) 


E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare? I demoni feroci che fingono di pregare. Posto che l'espressione che dà il titolo alla canzone e all'album è presa dallo studioso persiano Al-Biruni (XII) secolo, che a quanto pare la usava per indicare l'incapacità della lingua persiana nell'esprimere concetti scientifici, rimane da capire perché la usi Battiato e in linea di massima cosa stia cercando di esprimere qui, ok, vuole ali per fuggire, ma da cosa? e devo confessare che l'espressione "onorata società" (anzi "illustre e onorata società") a volte mi ha fatto pensare a un'allusione alla mafia, che avrebbe reso il disco di Povera patria ancora più profetico, alla vigilia delle stragi del 1992. Battiato in effetti non ha mai parlato di mafia nelle sue canzoni. Non aveva nessuna remora a parlare del fenomeno, se intervistato: ma come artista non è mai andato più in là di quegli accenni agli "abusi di potere" che possono riferirsi a qualsiasi fenomeno di corruzione. Così la canzone potrebbe dare conto del fenomeno: Battiato saprebbe di vivere in una società violenta, ma denunziarla sarebbe un atto a suo modo violento, e siccome "lo so bene che dietro a ogni violenza esiste il male", rimane bloccato così nel suo mondo privato, come un cammello in una grondaia. Ipotesi ben lambiccata ma è più probabile che la canzone si riferisca alla Guerra del Golfo, in assoluto l'Argomento sulle bocche di tutti in quel 1991. Musicalmente, è amaro constatare come lo stile liederistico intravisto in Mondi lontanissimi e codificato nei momenti più intensi di Fisiognomica sia già decaduto a maniera: Battiato ormai si sente sicuro del mezzo e lo usa per sfogarsi senza troppo ritegno. 

2001: Il potere del canto (#204)


Si bagna come un prato. Si arrampica sugli alberi. Fa muovere il giroscopio. Spezza ogni inganno. Ha la forza di undici aquile. Fa smuovere il cuore al faraone. Questo è il testo del Potere del canto, ultima traccia dichiarata di Ferro Battuto (prima della ghost track Ode). Non ho la minima idea di cosa significhi e nessun testo mi è d'aiuto. Forse Battiato sta citando un autore che però fin qui nessuno ha rintracciato. La musica è abbastanza monocorde; FB che dà l'impressione di alternare rock ed elettronica come due polarità, qui le sovrappone. A guarnire il tutto i vocalizzi di Natacha Atlas. Un gran mescolone, se devo dirla fuori dai denti.

2004: La porta dello spavento supremo (Battiato, Sgalambro, Wieck, #181)

Quello che c'è, ciò che verrà, ciò che siamo stati e comunque andrà, tutto si dissolverà. A questo punto i battiatomani più incalliti hanno già sentito Sgalambro cantare in Fun Club (e nel bonus di Campi magnetici), ma sentirlo intonare l'ultima canzone dei Dieci stratagemmi regala comunque un momento di sorpresa. È una canzone sul dissolversi ed è coerentemente fatta di poche cose, quasi inconsistenti, come gli ultimi ricordi di un terminale. Finalmente – anche grazie a Fleur Jaeggy, che presta le parole con lo pseudonimo di Carlotta Wieck – Battiato ci confessa quello che personalmente sospettavo, ovvero: la morte gli fa paura, altroché. Sarà uno "spavento supremo", anche per lui. Tutto quel meditare, tutto quel ragionarci – una delle sue ultime produzioni è stato un documentario sulla morte con interviste a monaci tibetani – tutto questo negare il concetto, "noi non siamo mai nati e non siamo mai morti", ecc., tutto questo non lo affrancava dallo spavento supremo. Questo un poco mi consola. Non saprei esattamente perché, ma mi consola. 

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29. Pieni gli alberghi a Tunisi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone che è impossibile prendere sul serio, una canzone che fu la prima che i discografici presero sul serio, un'altra in cui Battiato non si prendeva sul serio, e una cover di Bridge Over Troubled Water, sul serio] 

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1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245) 


L'amore? È meglio se lo sognerai in cucina, l'amore. Il lato B di È l'amore mette a fuoco l'ambiguità della coppia Battiato/Logiri: il primo è ancora un cantante deciso a sfondare nell'ambito sentimentale (l'unico in cui sia immaginabile sfondare in Italia anche in quel 1968); il secondo è un chitarrista infatuato di Jimi Hendrix: una passione che sul lato A si deve per forza contenere, ma esplode poi nel lato B creando quest'ibrido abbastanza peculiare tra Sanremo e il rhythm'n'blues, struggimento d'amore e assoli distorti. Battiato è un ex innamorato deluso dell'amore che rifiuta le avances di una ragazzina – per la verità non le ha proprio rifiutate del tutto, un bacetto c'è stato ma è poca roba, non ti credere, torna a casa bimba, non hai idea. La chitarra dovrebbe sottolineare questo messaggio virile: l'amore è roba da adulti, ti devasta, stanne fuori. È difficile non riderci sopra, oggi, soprattutto pensando a quanto si sarebbero adattate ai Battiati successivi le pose sentimentali o machiste. E comunque la canzone non è che giri tantissimo, è una strana chimera che non poteva andare lontano. Ma ci voleva del coraggio, della disponibilità a sperimentare, e Battiato ce l'aveva.  

1979: L'era del cinghiale bianco (#12) 

In un percorso artistico così ricco di svolte improvvise, L'era del cinghiale bianco resta la pietra miliare più rilevante. C'è un prima e c'è un dopo. Questo potrebbe indurci perfino a sopravvalutarla, perché se è vero che Battiato non aveva mai cantato una canzone del genere, è anche vero che quello che farà da lì in poi non sarà necessariamente un prosieguo dell'Era, che viceversa resta un episodio abbastanza isolato, anche nel disco a cui dà il nome. Mentre l'idea di costruire una canzone su un fraseggio di violino (all'inizio era un esercizio che Giusto Pio aveva impartito al suo allievo Franco Battiato) non era affatto così peregrina: il 1979 era il periodo di massima popolarità di Angelo Branduardi (nello stesso anno esce Cogli la prima mela), mentre il violino di Lucio Fabbri si imprimeva indelebilmente nei classici di De André incisi dal vivo con la PFM. Aggiungi che da due anni le radio non cessavano di suonare Samarcanda e capisci che uscire con un fraseggio di violino pop, nel 1979, era una mossa perfino sfacciata. Questo non significa che l'Era non sia un'ottima canzone, che dal vivo Battiato non ha mai smesso di eseguire – ma l'affetto che proviamo non deve impedirci di vederne i difetti, ad esempio: poteva durare tranquillamente un minuto in meno. Quel che conquista a distanza di anni è la naturalezza con cui la chitarra di Radius dialoga col violino, la scioltezza del cambio di tempo – possiamo chiamarla new wave italiana, ma ci sono ancora tanti debiti col progressive. E soprattutto l'improvvisa eclissi del ritmo, quando comincia la strofa e FB riesce a evocare, con pochi versi, tutto un mondo equivoco e suggestivo. 


1985: Personal computer (Battiato/Cosentino, #117)


Unu dui tri quattru. Mondi lontanissimi è anche il disco in cui Battiato sembra più spesso tentato dal non prendersi sul serio. Un impulso autoparodico che si era già manifestato nel pezzo più controverso del disco precedente (La musica è stanca), e che forse era già presente anche prima, salvo che è veramente difficile capire quando FB scherzi e quando faccia sul serio. In Personal computer (e in Temporary Road) dà proprio l'impressione di scherzare. Si comincia con un 4/4 smaccato per batteria elettronica; un soprano canta un esercizio, ma immediatamente il tempo si trasforma in una specie di bossanova smaccatamente sintetica, e Battiato comincia a snocciolare frasi sciolte sul male di vivere su una melodia medio-orientale. Una cosa che in seguito avrebbe fatto con molta serietà, qui sembra più dettata dalla volontà di giocare col personaggio Franco Battiato. Il ritornello sembra basato sulle esperienze dell'artista in tour ("quand'è notte nelle stanze d'albergo rumori di letto, sesso automatico"), che ricordano vagamente l'alienazione sessuale raccontata da Giorgio Gaber in È sabato (1972). I cori etnici, il risponditore automatico ("il sollecito è stato inviato / sulla linea dell'utente desiderato"), la conta in siculo: sono tutti rimandi a momenti diversi della ricerca di FB, ma qui sembrano infilati alla rinfusa per riderci sopra. Il problema è che il pubblico di FB non è molto disponibile a riderci sopra e La musica è stanca e Personal computer sono tra i pochi titoli ad attirare qualche critica non benevola dagli specializzati. Come se a FB fosse concesso fare di tutto, tranne prendersi in giro da solo. 


2008: Bridge Over Troubled Water (Paul Simon, #140) 

Sail on silver girl. Giunto al terzo volume dei suoi Fleurs, Battiato semplicemente canta quello che gli va di cantare, e se non vi piace pazienza. L'età sta allentando il pudore: basti pensare che se nel secondo volume non c'era una sola canzone in lingua inglese, ora ce ne sono tre, di cui almeno due mostri sacri. L'inglese di Battiato nel frattempo è un po' migliorato, ma non abbastanza da far passare liscia questa Bridge Over Troubled Water. Battiato vi si accosta con rispetto, ma è chiaro che non ha una particolare idea di come arrangiarla – del resto come si può migliorare la dinamica dell'arrangiamento originale, col canto che sembra cominciare sottovoce e gli strumenti che si aggiungono uno alla volta, e quel rullante riverberato che esplode? Battiato vuole solo cantarla, perché è una canzone che gli piace cantare. Forse si sente in debito: in fin dei conti, quando ha deciso di scrivere una canzone che sbancasse, gli è venuto qualcosa di concettualmente molto simile: ci sarò quando avrai bisogno, quando tutti gli amici mancheranno avrò cura di te. 


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28. Nei villaggi assolati e nei bassifondi dell'immensità

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi di poche parole: tre canzoni su quattro sono più o meno strumentali, e la quarta non l'ha scritta Battiato]. 

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1974: I cancelli della memoria (#165)

Quando uscì, Clic era il disco più difficile di Battiato: e se in seguito avrebbe fatto cose ancora meno ascoltabili, rimane oggi un oggetto abbastanza impenetrabile. I cancelli è il brano iniziale, una lunga introduzione a No U Turn: Battiato si prende tutto il tempo che gli serve per creare un'atmosfera inquietante. Le nostalgie e gli incanti di Sulle corde di Aries sono completamente accantonati: se c'è davvero una memoria al di là dei cancelli, è possibile che faccia paura. Un breve accenno di pianoforte a una romanza di Bela Bartok viene interrotto dal sorgere del ritmo forsennato di un sequencer che ci fa sospettare che FB stia mixando una serie di piste che non hanno quasi niente in comune, alzando e abbassando i volumi con una logica che ci sfugge. C'è una chitarra e un pianoforte che si concedono brevi fraseggi, e a un certo punto arrivano colpi di tom tom in controtempo che fanno il rumore di grosse gocce d'acqua sul parabrezza. Il sequencer cala, poi anche le gocce si diradano, resta ancora qualche accordo di organo. Non avrebbe sfigurato in un film dell'orrore italiano del periodo. 


1979: Luna indiana  (#92)

Tre minuti incantevoli dall'Era del cinghiale bianco che di indiano hanno assai poco (il toponimo è un evidente depistaggio) e invece potrebbero essere infilati tra gli spartiti di un compositore romantico di sonate per il chiaro di luna. L'unico vago richiamo alla contemporaneità è la tastiera elettronica di Danilo Lorenzini, che dialoga col pianoforte di Michele Fedrigotti: per il resto Luna indiana è un cedimento alla melodia veramente inatteso da parte del musicista sperimentale Franco Battiato. Forse è la prima volta che FB incide una musica semplicemente perché è piacevole all'ascolto. Anche i suoi vocalizzi in un orientalese fasullo non riescono a turbare l'incanto, né a rilevare segni di ironia. 


1988: Nomadi (Camisasca, #37)

Lungo il transito dell'apparente dualità. Quando Alice incise Nomadi, nel 1986, Juri Camisasca era già da quasi dieci anni in un monastero benedettino. L'anno successivo avrebbe ottenuto il permesso di uscirne temporaneamente per partecipare all'esecuzione della Genesi di Battiato, che lo voleva come voce narrante. Sempre nel 1987 Battiato sceglie di interpretare il brano per il suo primo album in lingua spagnola, che prenderà proprio il titolo di Nómadas. Il brano avrà un buon successo e segnerà l'inizio di una fortunata carriera ispanofona, per cui non è così strano che Battiato decida di inciderla anche in italiano su Fisiognomica. La sua Nómadas ricalcava nel ritornello il fraseggio vocale di Alice, per un pubblico spagnolo che non conoscendo Alice non avrebbe potuto fare il paragone: nella versione italiana Battiato lo accenna appena a mezza voce, lo dà per scontato. Rispetto alla versione spagnola i violini sembrano più alti degli interventi elettronici, non solo per differenziarsi dall'arrangiamento 'anni '80' di Alice ma per uniformare Nomadi al suono di Fisiognomica. E in più rispetto a Nómadas c'è l'assolo di chitarra del New Troll Ricky Belloni, che col suono di Fisiognomica davvero non ha molto a che vedere e in generale resta abbastanza sconcertante: una strizzata d'occhio ai trascorsi rock di Camisasca? Quest'ultimo nel 1988 lasciò il saio definitivamente.

2000: In Trance (#220)

I primi sette minuti di Campi magnetici mettono subito in chiaro che questo non è il solito Battiato. Archi sintetizzati, drum machine, cori etnici campionati, Sgalambro che recita sssibilando, gira tutto molto bene. E allo stesso tempo bisogna ammettere che questo suono così futurista non era affatto eccezionale per l'anno 2000: era l'elettronica 'intelligente' europea che si poteva sentire nei programmi radio di nicchia e nei club (dalle mie parti persino nei circoli Arci), e che divideva gli ascoltatori: da una parte chi la riteneva il suono nuovo dei tardi '90 e poi del Duemila; dall'altra chi non la trovava nemmeno così intelligente, voglio dire: tastiere, drum machine, voci campionate, non è che ci voglia un genio, metti un bambino davanti a un Macintosh con un software decente e qualcosa ti tira fuori, certo al primo tentativo non verrà fuori un Kruder & Dorfmeister, ma al terzo magari un Future Sound of London, chi lo sa. Non abbiamo mai fatto la prova. In compenso a un certo punto qualcuno ha fornito a un cinquantenne Franco Battiato un software decente, e il risultato desta ancora ammirazione. Questo forse dimostra la poliedricità, l'apertura mentale di FB. Oppure la relativa semplicità con cui si poteva produrre questa roba. 

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27. 'Ccu tuttu ca fora se mori

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il brano che capisco di meno e quello che capisco di più]

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1973: Il silenzio del rumore / 31 dicembre 1999 - ore 9 (#156) 

Capire dove comincino e dove finiscano i brani di Pollution è un'impresa in cui credo abbia fallito lo stesso Battiato. Quando li ristampa per Ricordi, nella raccolta Feedback, taglia e cuce con molta disinvoltura. Anche su Spotify avevano cominciato a dividerli e poi a un certo punto hanno inserito una traccia di mezz'ora con tutto il disco, come dire: sbrogliatevi voi. Comunque Pollution inizia con un valzer di Strauss (Storielle del bosco viennese) che sembra registrato in un ristorante, tra rumori di piatti e posate, e FB che declama, con fare svagato "Il silenzio del rumore / Delle valvole a pressione / I cilindri del calore / Serbatoi di produzione / Anche il tuo spazio è su misura / Non hai forza per tentare / Di cambiare il tuo avvenire / Per paura di scoprire / Libertà che non vuoi avere / Ti sei mai chiesto / Quale funzione hai?". Poi parte un'intro per basso e synth che sembra suggerire un disco molto più duro del precedente (una violenza ancora piuttosto inaudita per il mercato discografico italiano), e infine un'esplosione che sarebbe già il secondo solco del disco, 31 dicembre 1999 - ore 9. Come dire: a che ora è la fine del mondo.   

1975: Orient effects (#229)  

Per quel che mi riguarda il brano più indecifrabile di Battiato, anche se la storia è spassosa. Deciso a suonare l'organo del duomo di Monreale, per vincere la diffidenza di un parroco, Battiato si fa presentare da Juri Camisasca e Gianfranco D'Adda come un musicista americano (di origini siciliane). Ottiene così il permesso di suonare e registrarsi, e ne approfitta per tre ore. Fantastico. Chissà che baccano è riuscito a fare in quelle tre ore. Non credo che la registrazione renda l'idea, voglio dire, gli organi suonano forte. Siamo in un periodo in cui Battiato si è stancato del suo modo di fare musica elettronica: nei concerti del periodo sconvolge le attese del pubblico (e parliamo di un pubblico che veniva per ascoltare il Battiato di Clic) improvvisando accordi dissonanti per ore. A Londra siccome è il primo a suonare in un festival (prima dei Tangerine Dream) lo scambiano per il tecnico del suono, dopo un po' lo cacciano a fischi. Orient effects non dev'essere molto lontano dal tipo di musica che sta facendo ma bisogna dire che se io lo trovo estremamente soporifero, altri battiatologi ci sentono tantissime cose. "In questi frammenti i ricordi si susseguono: torna il Franco bambino che si esercitava sull'organo della chiesa del paese, lo stupore, per la scoperta della musica, le domeniche in famiglia, i campi da calcio, le ripetizioni nel cortile, la voglia di restare e il desiderio di fuggire dalla terra natia. Tutto quello che Franco ha finora vissuto converge in questi dieci minuti..." Così Fabio Zuffanti (Franco Battiato, Arcana 2020). Io ci sento solo un po' di baccano. Mi dispiace. 

1979: Stranizza d'amuri (#28)

Man manu ca passo li jonna sta frevi mi trasi int'all'ossa. D'accordo, ho fatto questa cosa scema di selezionare 256 canzoni di Franco Battiato e metterle l'una contro l'altra, ma se dipendesse da me, chi vincerebbe? Stranamente non ho dubbi. 

Non li ho dall'anno scorso, quando ho scoperto che Battiato non c'era più e non sapevo come sentirmi. Allora ho preso tutti gli album che ho trovato su Spotify, dal più antico, e li ho ascoltati uno per uno senza interruzione. Molte cose le avevo dimenticate, altre mai ascoltate. Alcune belle sorprese, altre non mi hanno convinto nemmeno stavolta. Certo, quando dopo ore di sperimentalismi è cominciata L'era del cinghiale bianco, l'atmosfera è cambiata di colpo. E quando venti minuti dopo i mosconi ciabbulaunu, Tullio De Piscopo ha attaccato il vibrafono e mi sono messo a piangere. Non era previsto e non è spiegabile. Giorni dopo ho ricordato un vecchio quaderno di canzoni che portavo con me nella custodia della chitarra, canzoni che ero convinto che la gente avrebbe voluto sentire in corriera o attorno a un fuoco, e mi ricordo che ci avevo trascritto Stranizza d'amuri, basandomi unicamente sul mio orecchio e senza speranza di capirne il senso, con un simbolo diacritico inventato per l'occasione per dar conto della 't' palatale tipica della parlata siciliana. Non so quante volte sia realmente successo che io abbia suonato Stranizza in pubblico – sicuramente nessuno me la chiedeva, anche dopo averla sentita. Ma riesco ancora a suonare la linea di basso in 7/4. Stranizza è una canzone su due innamorati in tempo di guerra in cui forse Battiato intendeva far risuonare certe corde nostalgiche, ma come nei momenti migliori del Cinghiale bianco il salto di qualità è arrivato nello studio Radius con Julius Farmer al basso e De Piscopo alle percussioni (appena freschi di Faust'O) che ti inventano lì per lì senza strafare una new wave italiana: e allo stesso tempo è anche un brano profondamente battiatesco, già nell'aria ai tempi di Juke-box, costruito su un'allucinazione uditiva semplice ma di sicuro effetto che evoca un'ascesa infinita: un accordo ("Man manu ca passunu i jonna", un intervallo di quinta e quindi abbiamo la sensazione di salire ("sta frevi mi trasi 'nda ll'ossa"), un tono ancora più su ("'ccu tuttu ca fora c'è 'a guerra, mi sentu") e di nuovo un intervallo di quinta: ma a questo punto anche se siamo tornati all'accordo iniziale abbiamo la sensazione di aver salito una scala intera, e possiamo ricominciare da capo. L'allucinazione è favorita dall'ondulare degli archi, e dalle scale ascendenti tracciate dal basso. Il testo in dialetto si consente quel sentimentalismo che in italiano Battiato non poteva ancora permettersi. Probabilmente Battiato ha scritto canzoni migliori – sarebbe triste che nei 35 anni successivi di carriera non ci fosse riuscito. Ma Stranizza d'amuri è il mio campione.

1998: Auto da fé (Battiato/Sgalambro, #101)

A volte faccio un esame di coscienza, ripenso ai miei innamoramenti e mi rendo conto che dietro a tanti slanci c'era soprattutto un grande appetito sessuale che forse andrebbe soddisfatto senza coinvolgimenti sentimentali. Ecco. Questa cosa in sgalambrese suona: "Faccio un auto da fé dei miei innamoramenti / Voglio praticare il sesso senza sentimenti". Suona meglio?  Beh, perlomeno è più svelto. Alla fine l'importante è comunicare. Sempre. Lo sgalambrese è un linguaggio che indulge al preziosismo verbale, ma se riesce a esprimere un concetto o una sensazione in breve tempo e con precisione, perché no? Altre volte a infastidire non è tanto il lessico forbito, quanto la sproporzione tra la presunta originalità delle parole e la banalità del concetto che vuole coprire, cioè qui Sgalambro sta dicendo a una tizia "non sei tu, sono io", ma passa attraverso locuzioni come "È sceso il buio nelle nostre coscienze e ha reso apocrifa la nostra relazione". Tutto questo lasciava perplessi anche ai tempi dell'Ombrello e la macchina a cucire, ma adesso c'è anche il problema che Battiato è in una delle sue fasi rock, anzi nella fase più rock in assoluto, in Gommalacca vuole le chitarre distorte e ritmiche come vanno in quel periodo (se ne occupano i Blu Vertigo) e questo crea un corto circuito che Battiato nemmeno prevede – come infilare il povero Sgalambro in una giacca di pelle e montarlo su una motocicletta – perché davvero se c'è un mondo che gli sfugge completamente è quello del machismo: questo lo rendeva un uomo migliore di quasi tutti noi ma forse gli impediva di capire che cantare "Voglio praticare il sesso senza sentimenti" su una base rock a cinquant'anni passati rischiava seriamente di suonare ridicolo. 

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26. Noi, provinciali dell'Orsa Minore

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un sassofonista matto, violini zaratustriani nello spazio, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini, Charles Aznavour, Dino Buzzati].  


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1974: Aries (#188)

Stai ascoltando Sulle corde di Aries, il terzo difficile disco dell'artista avanguardista Franco Battiato che ultimamente ha cambiato immagine, rifiutando le mises fantascientifiche e provocatorie e cercando una musica diversa, meno dissonante e provocatoria e più evocativa. Proprio quando stavi pensando, beh, fantastica questa Sequenze e frequenze, ecco se devo trovarci un difetto, bisogna dire che non finisce davvero mai... ecco che finisce. Ma poi ricomincia, praticamente con gli stessi accordi, all'inizio del lato B. E proprio quando stai pensando: certo che questa musica ha qualcosa di particolare, è come se si fosse riconciliata con qualsiasi suono dell'universo, è come se fosse impossibile suonarci sopra qualcosa e stonare, davvero c'è qualche strumento che sta sparando note a caso da dieci minuti, in particolare su certe tastiere potrebbe esserci passato un gatto eppure tutto funziona, tutto si accorda, tutto è melodia... ecco, proprio quando stai cominciando a pensare a questo entra il sax e spacca tutto. Lo suona il sassofonista Gianni Bedori ma non è difficile capire perché nel disco si sia nascosto dietro lo pseudonimo di "Johnny Sax": all'inizio puoi ancora considerarlo un assolo jazz... certo, molto free jazz... veramente molto free... no vabbe' Johnny stai soffiando come un matto e pesti tasti a caso. È l'unico tratto realmente avanguardista di un disco che in linea di massima ha rinunciato a sconvolgere i suoi ascoltatori. Dopo aver composto Sequenze e frequenze, FB si è concesso anche il lusso di distruggerla. 


1985: Via Lattea (#60)

Tum, cià, tu-tum, sh-cià. A risentirla, Via Lattea, è veramente un viaggio. La promessa di un viaggio. Già ai tempi la cornice fantascientifica di Mondi lontanissimi risultava un po' pretestuosa (nella mia memoria non riesco a separare questo disco di Battiato con Saturno in copertina dal primo best seller di Isaac Asimov, L'orlo della Fondazione, che uscì in Italia su Urania proprio in quell'estate). Battiato in fondo non faceva che utilizzare lo stesso espediente di David Bowie più di dieci anni prima: evocare spazio e stelle per parlare dei nostri mondi interiori. Ma Bowie stava sfruttando l'ondata delle missioni lunari e di Odissea nello Spazio; Battiato poteva al limite contare sui lettori di Asimov (che in quegli anni erano comunque una discreta legione) e sul pubblico della serie storica di Star Trek, che le emittenti private italiane stavano programmando con vent'anni di ritardo. Era un immaginario già anticato, che non avrebbe resistito ancora molti anni ai nuovi franchise d'oltreoceano, agli zombie e agli elfi. Era comunque un immaginario condiviso al punto che certi luoghi comuni erano persino scontati, ovvero forse Battiato orchestrando Via Lattea non si rendeva nemmeno conto di parodizzare Also Sprach Zarathustra: il fatto è che vent'anni dopo il film di Kubrick lo spazio ci ispirava ancora quel tipo di sviolinate all'unisono. Quel che sorprende ancora oggi di Via Lattea è il mix per niente banale di orchestrazione zarathustriana e suoni elettronici – questi ultimi dosati con molta attenzione, dopo la full immersion di Orizzonti perduti. Era un suono originale, con tanti contrasti dinamici che sono l'esatto contrario di quello che di solito ci aspettiamo dalla 'musica da meditazione', forse un po' magniloquente ma non è invecchiato male. 


1999: Ed io tra di voi (testo italiano di Bardotti e Calabrese, musica di Charles Aznavour, #69)

È stata una magnifica serata. Sì, sì, una magnifica serata! No, Battiato questo finale non lo canta. E io qua sopra ho messo la sua versione, ma la tentazione di sostituirla con lo sketch di Vianello e Mondaini era fortissima – quello sketch è un capolavoro, è una farsa ma elegantissima, è fatto solo di sguardi e smorfie, fa ridere ma ci fa anche ascoltare una bella canzone. Piuttosto varrebbe la pena di domandarsi: perché una cosa che in Francia era talmente tipica da essere stereo-tipica, il lamento del maschio deluso, il triangolo amoroso visto dal vertice più patetico, in Italia quasi non esiste?, e anche se Aznavour cerca generosamente di importarla facendosi tradurre il testo in italiano, deve dimentare immediatamente una farsa? Moi dans mon coin, l'originale si chiama così, è anche un esempio di canzone teatrale come la intendono i francesi: una tragedia in tre minuti. Brel era il maestro di queste cose, ma anche Aznavour in questo caso ottiene un risultato incredibile con uno sforzo minimo (quando diceva "lui" voltava la testa a sinistra, quando diceva "tu" la voltava a destra, infine diceva "et moi" e abbassava appena appena lo sguardo sul proprio sfacelo interiore). Forse in Italia siamo troppo melodrammatici per apprezzare queste cose: anche ammettendo che da qualche parte esiste un uomo migliore, mica possiamo abbassare la testa eh no, dobbiamo urlare e pazziare, adesso siediti su quella seggiola ecc. ecc. Oppure, appunto, la buttiamo in farsa (scusami tanto se vuoi / signore chiedo scusa anche a lei). A Battiato la farsa non interessa e forse per questo motivo decide di recidere da questo fleur il finale parlato – che era il climax del numero di Aznavour, l'amarissima strizzata d'occhio con cui si congedava dai due amanti e dagli ascoltatori. Battiato non la sente nelle sue corde, la teatralità è una dimensione che non gli interessa. E dire che ha lavorato tanto con Gaber, eppure, mah, no, no, è comunque una magnifica versione di Moi dans mon coin. Sì, sì, una magnifica versione!


2004: Fortezza Bastiani (Battiato/Sgalambro, #197) 

"Ho camminato girando a vuoto senza nessuna direzione. Mi tiene immobile nei limiti l'ossessione dell'io!" A volte una canzone senza volere descrive sé stessa. A volte anche Battiato girava a vuoto, e proprio intorno a sé stesso: per essere un negatore dell'Io, non è che abbia parlato di molto altro per tanti dischi e tanti anni. Fortezza Bastiani a un certo punto avrebbe dovuto dare il titolo all'album (che poi si chiamerà Dieci stratagemmi: nel caso sarebbe stato il secondo consecutivo dopo Ferro Battuto a condividere con l'artista le iniziali: FB. La fortezza del titolo, malgrado la suggestione buzzatiana, è Franco Battiato medesimo, che si vorrebbe inespugnabile ma poi si accorge di essersi rinchiuso con sé stesso. Tutto lo smarrimento metafisico del capolavoro di Buzzati – la vita come veglia in attesa di un senso, anche solo di un segnale – a Battiato (e Sgalambro) sfugge: non è di questo che volevano parlare. 


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25. In silenzio soffro i danni del tempo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un mostro sacro e tre contendenti molto più insidiosi di quanto può sembrare].

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1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)

Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le follie dei decenni successivi. Per contro, nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio. 

1988: E ti vengo a cercare (#5)

"A Battia', te vole er Papa" (il funzionario EMI). 

E ti vengo a cercare è il brano che ha messo d'accordo Giovanni Lindo Ferretti e Karol Wojtyla (che poi avrebbero scoperto tante altre affinità). Non so se mi sono spiegato: è il brano di Battiato che fu scelto dal rappresentante di un movimento oscurantista che cercava affannosamente un rilancio, una credibilità pop: e inoltre piaceva anche a Wojtyla, che convocò Battiato e orchestra per un concerto in Sala Nervi. Ben 12 anni prima del Giubileo, di Dylan e di Bocelli, Battiato forse fu il primo cantante a suonare per il Santo Padre e a trarne un'incredibile impressione ("le mie parole della canzone dedicata a Dio acquistarono una dimensione nuova, inaspettata... Fu come uno squarcio del cielo"). 

La fondamentale tripartizione descritta da Alberto Arbasino nella traiettoria degli italiani contemporanei illustri (brillante promessa / solito stronzo / venerato maestro) andrebbe applicata con molta parsimonia: anche nel caso di Battiato, che pure sembra così esemplare. Battiato era stato una promessa davvero brillante, almeno coi suoi primi dischi alla Ricordi: poi si era eclissato in un universo sonoro completamente alieno e ne era riemerso intorno al 1980, come un Solito Stronzo determinato a spremere le tasche di tutti i consumatori di dischi. Portava occhiali scuri, cantava di magici orienti e fini del mondo e non c'era da credere a una parola. Questo secondo periodo si trascina almeno fino al 1985, quando Battiato mette in giro la voce che vuole concentrarsi sulla musica colta. Come un eremita che rinuncia a sé. Non è vero, non riesce a concentrarsi, la sua Genesi la scrive ma un rapimento mistico e sensuale lo riporta a comporre canzonette e ad arrangiarle come si conviene perché si sentano in radio. A un certo punto decide di accettarsi per quello che è, un autore di canzonette seppur di prestigio, ed è la mutazione finale: sin dal primo ascolto di Fisiognomica, è chiaro a tutti che Battiato ha buttato via gli occhiali scuri e ci guarda negli occhi, ci parla col suo cuore, delle cose che gli premono: è diventato un Maestro, e la venerazione può cominciare. È andata così? Meglio diffidare. In fondo erano ancora gli anni Ottanta. Si può smettere di essere stronzi in così poco tempo? E se Ti vengo a cercare fosse invece il capolavoro di uno straordinario paraculo, un tizio che senza neanche credere in Gesù Cristo riesce a imbucarsi con un pezzo pop in Sala Nervi? E in un disco dei CSI? E in Palombella rossa?

Lui stesso in seguito ha ammesso che si trattava di una canzone "volutamente ambigua", dove la tensione religiosa è descritta con parole che possono adattarsi anche a un amore più profano. Del resto "per chi ama sono divini anche una donna e un uomo, a seconda dei casi". Questo magari avrebbe funzionato con molti acquirenti: ma per conquistare un Wojtyla ci voleva qualcosa di più, e quel qualcosa è la citazione finale dalla Passione secondo Giovanni di Bach – sono passati appena tre anni da quando Battiato profanava Mozart e Beethoven a scopo divertimento: se adesso cita 'seriamente' Bach, dobbiamo crederci? Non è la profanazione definitiva, ben più sottile e subdola: usare Bach per travestirsi da prete? Persino il videoclip ribadiva il concetto, fermando la camera proprio davanti all'ingresso di una chiesa: E ti vengo a cercare nel 1988 poteva benissimo essere presa per la storia di una conversione al cristianesimo che col senno del poi non c'è mai stata, Battiato probabilmente l'aveva scritta pensando al solito Gurdjieff o qualche altro maestro sufi o vattelapesca, ma voleva venderla ai cattolici, ed è riuscito a infinocchiarne il capo, altro che Venerato Maestro, questo è ancora lo Stronzo, e Ti vengo a cercare è il suo capolavoro. Anche perché non è riuscito a piazzarla solo in Vaticano, ma perfino nel film di Nanni Moretti, ovvero nella coscienza di tutto il ceto-medio-boomer-riflessivo-di-sinistra che negli anni a venire gli avrebbe comprato più dischi dei cattolici. Anche se per farlo serviva una strategia completamente diversa: ebbene FB la scoprì in quell'occasione, forse fortuitamente, alludendo a non meglio precisati "parassiti senza dignità" che lo spingevano solo "a essere migliore con più volontà", il manifesto dell'antiberlusconismo quando Berlusconi era ancora un simpatico proprietario di canali tv. Sullo scorcio del decennio che l'aveva incoronato profeta postmoderno, Battiato fiuta l'aria e molto prima di chiunque altro capisce che davvero stavolta non è più tempo di scherzare, la gente non vuole più ironie ma preghiere, vuole essere migliore, vuole maestri: e lui è già pronto. Con una canzone sola mette d'accordo Moretti, Ferretti e Wojtyla, davvero tutti, chi mancava? (io, per esempio, ma è un dettaglio). 

2004: Le aquile non volano a stormi (testo di Manlio Sgalambro, musica di Yashima Kinimori, #133) 

Salta su un cavallo alato prima che l'incostanza offuschi lo splendore. L'ascoltatore che avesse appena giudicato Le aquile non volano a stormi come una delle canzoni più orecchiabili di Dieci stratagemmi potrebbe rimanere deluso scoprendo che qui Battiato si è limitato a cantare il testo di Sgalambro su un brano di un duo giapponese di world music, gli Yoshida Kyōdai (吉田兄弟, conosciuti in occidente come Yoshida Brothers). Ma è proprio ascoltando il brano originale che risalta l'abilità di Battiato nel manipolarlo – son tutti bravi a remixare pezzi techno e persino rock, ma qui ha veramente preso un brano da BuddaBar, lo ha campionato, ci ha messo la drum machine e persino la chitarra elettrica, insomma lo ha stravolto e allo stesso tempo è riuscito a portarne alla luce l'ossatura sacra sotto tutta la patina new age. E se non è stato Battiato, bravo Pinaxa, bravi tutti. Il match lo vincerà E ti vengo a cercare, ma io oggi il mio voto lo do alle Aquile non votano a stormi, perché mi sento un po' aquila anch'io evidentemente. Certo, mi dispiace un po' per la pazza Occhi d'or, e forse persino per... 


2008: Et maintenant (musica di Gilbert Bécaud, testo di Pierre Delanoë, #124) 


Toutes ces nuits, pour quoi, pour qui? In teoria il principio di Fleurs2 è lo stesso del primo volume, di quasi dieci anni prima: prendere una canzone, anche molto importante, e spogliarla degli elementi più contingenti, per trovarne l'anima immortale. E però forse non funziona con tutte le canzoni. In particolare non sembra funzionare con canzoni che Battiato magari ama molto, ma che non ha vissuto in prima persona. È il caso di Il avait 18 ans: se la canta Dalida, sta confessando di avere avuto una storia con un ragazzo che aveva la metà dei suoi anni; se la canta Battiato... non sta confessando niente in particolare. Da questo punto di vista Et maintenant dovrebbe scorrere più liscia: è una canzone che parla di come ci si sente quando si è stati lasciati – chi non è stato mai lasciato una volta nella vita? E dunque Battiato decide che il bolero ha fatto il suo tempo; che il crescendo furioso dell'originale non gli interessa, che Et maintenant può dire quello che ha da dire anche in punta di piedi, fino alla fine. Il che forse risponde alla nostra domanda: ecco chi non è mai stato lasciato una volta nella vita, ecco chi è che non si è mai visto davanti a un abisso di disperazione appena spalancato senza possibilità di aggirarlo: Franco Battiato, ecco chi. E hai fatto anche bene, guarda: hai risparmiato un sacco di tempo e di lacrime e sangue, il che ti ha consentito di scrivere e cantare tante canzoni in più, ma forse Et maintenant la dovevi lasciar stare. Non parla di te. Ci può pure essere una canzone al mondo che non parla di te, no? Tu hai un sacco di cose di cui parlare, i sufi, l'universo, la respirazione, davvero un sacco di cose. Lascia Et maintenant a questa valle di lacrime. 

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