61. Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone a rovescio, una canzone sulla polluzione, una canzone sul sesso, una canzone sul saperne fare a meno, col tempo]. 

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1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti e forse voi ancora non lo siete (anche se state seguendo la sessantunesima puntata di un torneo di canzoni di Franco Battiato, io a questo punto una domanda me la farei). Insomma bisogna sapere che nel 1969, poco prima di licenziarsi dalla Polygram e troncare la sua carriera di canzonettista, Battiato aveva cercato di mettere assieme un 33 giri che avrebbe contenuto per lo più il materiale già uscito su singolo più alcuni inediti (poi pubblicati negli anni Ottanta dall'Armando Curcio Editore), il più strano dei quali è appunto Iloponitnatsoc. Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT, quindi niente di incredibilmente pionieristico, però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco, ma è curioso il fatto che tra tutte le sue canzoni abbia scelto di invertire proprio Gente, una delle canzoni più anonime che abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. È difficile, ascoltando Gente, non chiedersi: perché? Ecco, una sensazione simile l'ho avuta la prima volta che ho sentito Ignudi tra i nudisti di Elio e le Storie Tese: perché fare una canzone del genere? Una domanda in effetti abbastanza strana, non è che le canzoni debbano per forza avere un senso, ma Ignudi è come se ti chiedesse di averlo: succedono troppe cose strane che richiedono una spiegazione e alla fine l'ho trovata: Ignudi è il rovescio di un'altra canzone famosa. Con questo non voglio dire che Battiato abbia registrato Gente solo per ottenere, a rovescio, Iloponitnatsoc. Ma forse per un attimo ha sperato che ci credessimo, e in generale voleva dirci che una canzone del genere è più interessante a rovescio che dritta.


1972: Pollution (#118)

La portata di un condotto è il volume liquido che passa in una sua sezione nell'unità di tempo: e si ottiene moltiplicando la sezione perpendicolare per la velocità che avrai del liquido. A regime permanente la portata è costante attraverso una sezione del condotto. Io poi per anni ho creduto che FB si fosse iscritto a una cosa tipo ingegneria e cercasse un sistema per memorizzare gli enunciati o le formule – in effetti oggi Pollution potrebbe essere quel tipo di canzone che ti suggerisce youtube mentre stai ascoltando i pezzi di Lorenzo Baglioni e dei Supplenti Italiani (se non li conoscete ascoltate almeno le Leggi di Keplero). Un'altra suggestione che è impossibile scacciare è che questo disco sull'"inquinamento" (pollution in inglese) stia anche parlando di polluzioni, nel senso italiano del termine: non lo dice da nessuna parte ma in compenso ci parla della portata di un condotto in cui passa un liquido. Pollution costituisce insieme a Plancton il momento più riuscito del secondo omonimo album, e si adorna di un coretto senza parole ("na na na na na") che è la melodia più sfacciatamente Primi Anni Settanta incisa da Battiato – a riprova che nessuna nicchia sperimentale poteva salvarlo dallo Zeitgeist: per quanto si nascondesse e si travestisse, Battiato qualcosa di orecchiabile e cantabile non poteva fare a meno di registrarlo. Poi, certo, poteva cantarci su le sue solite cose assurde (che ai tempi non erano ancora così solite). Atomi dell'idrogeno, campi elettrici ioni-isofoto. Radio, litio-atomico, gas magnetico.


1981: Sentimiento nuevo (#11)

A Battiato mi iniziarono i miei cugini: uno un po' più grande (classe Iloponitnatsoc), uno appena un po' più piccolo (classe Aries). Dunque quando comprarono la cassettina della Voce del padrone, il più piccolo aveva sette anni e per qualche settimana il fratellone riuscì a nascondergli l'ultima traccia. Quando finalmente io e lui riuscimmo ad ascoltarla, forse non ci accorgemmo subito del perché. Probabilmente il cugino grande temeva che gli chiedessimo ragguagli sui desideri mitici di prostitute libiche. Soprattutto dopo averci detto che Segnali di vita era una canzone che esprimeva una cristianissima tensione verso l'assoluto. Uno o due anni più tardi, quando finalmente ebbi un flauto dolce, il cugino grande mi chiese: cosa ci vuoi suonare? Chiedimi qualsiasi aria, vedrai che so insegnartela. Voglio l'introduzione di Sentimiento nuevo, gli dissi. La mia canzone preferita a 10 anni parlava della lotta pornografica dei greci e dei latini. Perdonate l'aldonoveggiamento, ma Battiato è stato anche questo per la mia generazione. Un modo per cominciare a riflettere sul sesso – prima o poi dovevamo cominciare, e molti altri riferimenti non li avevamo. Qualche volta sui cigli della strada trovavamo riviste impiastricciate, ecco, Battiato ci mostrava possibilità diverse. Il sesso non doveva per forza essere sporco, furtivo, volgare. Complicato, questo sì, Sentimiento nuevo suggeriva che fosse abbastanza complicato. Probabilmente sarebbe servita una certa cultura per discernere i riferimenti, è chiaro che lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco non ce lo avrebbero insegnato insieme al flauto dolce. Ma bellissimo. Se La voce del padrone è l'equivalente musicale del Nome della Rosa – un bestseller concepito freddamente a tavolino da un cinico professionista che finisce per prenderci gusto – Sentimiento nuevo è la pagina in cui Adso giace con la pulzella senza nome, anzi la pagina in cui da anziano trascrive l'esperienza in un montaggio di citazioni letterarie sempre più concitate. Il preziosismo linguistico può servire a tante cose – troppo spesso serve a spaventare, a darsi un tono, a creare una distanza tra sé e il pubblico: in certi rari casi diventa un modo di esprimere l'eros sulla carta o in musica. Battiato sta facendo sesso col vocabolario, la sua esuberanza lessicale è già una tecnica di seduzione: il pettirosso gonfia gli addominali, il pavone fa la ruota, Battiato disquisisce di senso del possesso che fu prealessandrino. E cosa c'è di più bello di un pettirosso fiero del suo petto rosso, di un pavone che si pavoneggia, di Battiato che canta le sue cose astruse. La sua voce, come un'oasi del deserto, ancora mi cattura. Ed è ancora bellissimo, scusate, devo andare a suonare una frase introduttiva, torno subito (meraviglioso anche l'hammond finale, dolce e sfumato come l'assopimento postcoitale).


2002: Col tempo sai (Ferré, Defaye , Medali, Simontacchi, #139)

Col tempo tutto se ne va. Ogni cosa appassisce, io mi scopro a frugare in vetrine di morte quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia. Può darsi che dei grandi maestri francesi, Ferré fosse il più consono a Battiato ed è un peccato che quest'ultimo ne abbia ripreso una sola canzone (e proprio nel secondo volume dei Fleurs, quello in cui si compiace a movimentare le cose con arrangiamenti elettronici abbastanza sbrigativi). Col tempo sai è una canzone sulla fine dell'amore, di qualsiasi amore: anche di quello per chi ti diceva: Copriti, fa freddo (questo avrebbe davvero potuto scriverlo Battiato, che a Giuni Russo aveva fatto cantare "qui c'è umidità"); anche quell'amore scompare, sai? Quel "sai", a proposito, è una maledizione. Il francese ci illude: è una lingua così apparentemente simile alla nostra, ma appena proviamo a tradurre una canzone, ahi, scopriamo che tutti gli accenti sono fuori posto; il francese è una lingua tronca, l'italiano una lingua piana, tradurre versi brevi in musica diventa impossibile. Servono zeppe monosillabiche, parole di due o tre lettere che non dicono veramente niente, servono soltanto a tenere lo spazio per l'accento, e sono i sai, i mai, i già, i va', non ci puoi far niente, se traduci questa roba ti serve. Col tempo poi cominci a fregartene, tout va bien. Forse il brano più convincente di Fleurs 3, e tuttavia... basta ridare un'occhiata a un'interpretazione di Ferré per capire che c'è una dimensione teatrale, in queste canzoni, che a Battiato manca del tutto. Ma va bene lo stesso, col tempo va bene tutto. 

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60. Le emozionali imprese della specie

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[Questa, ridi e scherza, è la sessantesima giornata di Gara delle canzoni di Battiato. Da due mesi non facciamo altro che ascoltare Battiato, come va? Ho sentito dire che c'è una crisi di governo, povera patria]. 

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1965, 2008: E più ti amo (Amurri, Barrière, Ferrari, Pallavicini, #38)

"Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. "Basta, va bene!", e mi convocò per il giorno successivo in sala d'incisione. Mi presentai incosciente: era la prima volta che entravo in un posto del genere. Il pezzo era E più ti amo di Alain Barrière. Mi misi la cuffia. Il maestro mandò la base. Finii di cantare. Mi disse che andava bene. Per me era un successo. Quel giorno ho capito che cantare e fare musica sarebbe diventato il mio mestiere" (Tecnica miste su tappeto, 1992). 

Battiato non amava i suoi dischi degli anni Sessanta. Non gradiva che li ristampassero: si oppose con fermezza a una riedizione ragionata del 33 giri fantasma del 1969. Non li fece inserire nel suo sito ufficiale e non li reinterpretò mai, con una sola eccezione. Questa eccezione purtroppo è una canzone d'amore abbastanza ordinaria ma che per Battiato doveva avere avuto un'importanza fondamentale: con E più ti amo aveva capito che avrebbe potuto farcela. Avrebbe vissuto di musica. Non sarebbe stato facile (nel 1965, oltre a incidere questi flexi disc annessi alla Nuova Enigmistica Tascabile, li recapitava nelle edicole in quanto fattorino della stessa NET) ma sarebbe stato il suo mestiere. Battiato sostiene di "ricordare bene" la circostanza, ma a guardare le date il primo flexi a uscire sarebbe stato L'amore è partito, il 20 febbraio, mentre E più ti amo sarebbe uscito soltanto il 27 marzo (e come lato B). C'è però un altro dettaglio da non sottovalutare, ovvero: L'amore è partito è cantata abbastanza male; sembra difficile pensare che Battiato abbia vinto un ingaggio con una prova del genere. Laddove E più ti amo è veramente la dimostrazione che questo ragazzo sa cantare: non solo la voce è educata ed espressiva, ma si ha la sensazione che Battiato stia modulando il suo timbro per assomigliare il più possibile all'originale che sta imitando – ricordiamo che questi flexi disc sono imitazioni, la gente li portava a casa per avere una versione simile all'originale ma a prezzo scontato. Questo originale non è, come molti scrivono, Gino Paoli, ma lo stesso Alain Barrière che aveva inciso la canzone in un buon italiano con un'affascinante cadenza straniera: ecco, anche Battiato riesce a dare alla sua interpretazione un accento 'altro', e se non sembra un cantante francese, non sembra nemmeno del tutto italiano (ecco uno dei rari casi in cui la fonetica siciliana poteva risultare un vantaggio).

Quarantaquattro anni dopo, Battiato decide di reincidere la canzone nel suo terzo CD di cover, riconoscendo così per la prima volta la continuità sotterranea tra i suoi Fleurs e la precoce carriera d'interprete negli anni Sessanta. La nuova E più ti amo è uno degli episodi più interessanti di Fleurs 2 per come è strutturata: c'è un Battiato contemporaneo che suona la strofa, sull'ottava più bassa, che rapidamente si sviluppa e rivela al suo interno il Battiato giovane, sull'ottava alta, annunciato dalla gioiosa quintina di pianoforte che scampanellava nella versione del 1965 (quasi un campionamento). Come dire che dentro di noi, da qualche parte, c'è ancora il nostro io di vent'anni, anche se di solito preferiremmo che non si vedesse troppo. Perlomeno Battiato per molto tempo ha fatto di tutto per nasconderlo, e soltanto in questo caso ha deciso di esibirlo. Giusto il tempo di due ritornelli. 


1972: La convenzione (Albergoni/Battiato, #219)

Centinaia di anni fa l'uomo viveva sulla terra. Cronologicamente, La convenzione è a metà strada tra Fetus e Pollution, di cui forse anticipa la trama: nel 2000 è successo qualcosa ("la convenzione"), l'umanità si è sparsa sui pianeti e sotto gli oceani. In realtà questo singolo diverge da entrambi gli album in una direzione diversa che Battiato si rifiutò di prendere. Quando parliamo di fase prog, rischiamo un equivoco: negli anni in cui il prog era una nicchia di mercato in espansione, Battiato non era così prog. Avrebbe potuto essere molto più prog. Pino Massara, Gianni "Frankenstein" Sassi, lo avrebbero preferito molto più prog. Uno degli aspetti più curiosi del singolo è il packaging: un 45 giri con copertina apribile era un oggetto piuttosto raro. La BlaBla ci stava credendo molto, in questo Battiato prog, e non badava a spese (nel singolo era incluso persino lo spartito, che al tempo l'autore non sapeva leggere). Il brano è un robusto quattro quarti, la cosa più rock mai tentata fino a quel momento (e fino al Cinghiale Bianco) con uno sfoggio di sonorità che rischiamo di fraintendere: per quanto possano sembrare fuori le righe e avanguardistici, non erano molto diversi in questo caso dai suoni del prog da classifica – sì, in quegli anni il prog italiano arrivava in classifica. Quel che è davvero interessante non è il brano in sé, ma la distanza tra il brano e quelli che usciranno pochi mesi dopo su Pollution: una distanza che ci lascia capire quanto Battiato già nel 1973 fosse sospettoso nei confronti del carrozzone che Sassi e la BlaBla gli stavano montando addosso. La convenzione era l'idea che i suoi manager avevano di lui: lui nel frattempo stava già tentando qualcosa di diverso. Alla Convenzione Battiato tornerà, ed è indicativo, durante il tour di Gommalacca, forse per far fronte a un'esigenza di brani rock da proporre a un pubblico nuovo e non troppo smaliziato. Attenti poi a non cascare in un tranello di Youtube, che a volte smercia come La convenzione del 1973 una versione che è un vero e proprio falso storico, con batteria ancora più dritta e chitarra heavy metal. È la "versione 1997", il bonus dello strano CD uscito nel 2002 proprio col titolo La convenzione, un'antologia piuttosto spuria di brani di Camisasca, Osage Tribe e Battiato – uscita probabilmente all'insaputa di quest'ultimo.   


1998: Quello che fu (Battiato/Sgalambro, #166)

Retrospettivamente bisogna ammettere che Gommalacca è un disco in cui Battiato si prende rischi rari per un artista della sua età e con un pubblico già così consolidato. Certo, era pur sempre Battiato: il diritto a mettere nei solchi quello che gli pareva se lo era pazientemente conquistato. In Quello che fu cerca di operare una sintesi tra un certo suo stile salmodiante (lo sentiamo nell'introduzione elettronica) e il rock lento e tetragono dei CSI di Tabula Rasa Elettrificata, che a un certo punto si impossessa del brano e lo trasforma in un lungo incedere di due accordi scalpellati da una chitarra distorta. Anche il testo di Sgalambro è piegato in tal senso: Fu quello che fu è una tautologia di sapore ferrettiano, potrebbe stare nello stesso taccuino di chi c'è c'è e chi non c'è non c'è, chi è stato è stato e chi è stato non è. Forse per ottenere questo risultato Battiato ha sforbiciato qualche verso di troppo, così che Quello che fu diventa un esempio del suo peculiare anacoluto, la sua tendenza ad affastellare subordinate senza agganciarle a una principale: "Quel che deve ancora avvenire, il sorgere della città di Dio, l'emblema che ci fa forti e sicuri oppure pazzi e disperati". Forse quel che deve ancora avvenire è il sorgere della città di Dio, ma non è così chiaro e probabilmente non vuole esserlo. In questa struttura sferragliante Battiato non riesce a mantenere l'aplomb del sedicente allievo e si concede acuti inconsulti anche per lui. Ci voleva del coraggio. Lui l'aveva.

2007: Tiepido aprile (#91)


Pensieri leggeri si uniscono alle resine dei pini. Se dico che è il mio verso preferito di tutto il Vuoto, cosa dimostro? Una certa insofferenza per le tematiche spirituali che ormai erano il leitmotiv del disco? Battiato stava diventando per me quel tipo di conoscenza con cui preferisci discutere del clima, tutti gli altri argomenti ormai li conosci e preferite evitarli? Oppure mi sto lasciando catturare da un raro esempio di prosodia battiato/sgalambresca, un verso in cui gli accenti cadono dove devono cadere suggerendo ritmo e musica PenSIEri legGEri si uNIscono  alle REsine dei PIni. Addirittura più in là canta al siLENzio lonTAno delle NUvole. Basta davvero così poco per farmi contento? Tiepido aprile mi sembra di gran lunga il più bel momento di tutto il Vuoto. Particolarmente straziante risulta l'ascolto della versione della Royal Philarmonic Concert Orchestra, in Torneremo ancora.   

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59. Che non si parli più di dittature

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con Povera patria e altri tre brani su quant'è difficile vivere insieme a una persona (quale persona? Non si è mai saputo, non era così importante)]. 

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1978: Hiver (per soprano e pianoforte) (#230)


Il primo interminabile turno della Gara sta volgendo al termine e ho la sensazione di non aver ancora parlato di tante cose e persone, ad esempio Alide Maria Salvetta. Prima di Giuni Russo, prima di Alice, è stata la prima voce femminile a lasciarsi plasmare da Battiato, nei dischi del biennio 1977-78: Battiato e Juke-Box. Probabilmente il brano in cui lascia più il segno è questo Hiver, che stasera mi sembra anche il più interessante di tutta la non-colonna-sonora del Brunelleschi. Battiato la fa sussurrare e saltellare tra le ottave: il risultato forse dovrebbe ricordare la sensazione di solitudine che danno i suoni ovattati dalla neve. La canzone parla di un coinquilino che lasciava la finestra aperta mentre fuori nevicava: forse è il primissimo bozzetto milanese di Battiato.    


1991: Povera patria (#27)


Si può sperare che il mondo torni a quote più normali? Che possa contemplare il cielo e i fiori? Il testo di Povera patria sembra il tema di uno studente svogliato che voglia impressionare il prof con quella tipica retorica che si dà per scontato che piaccia ai prof, salvo che non avendo mai veramente prestato interesse a 'quella tipica retorica' (in classe gli arrivava come attraverso una campana di vetro) si ritrova a mimarla con esiti esilaranti – il mondo deve contemplare il cielo, ok, posso quasi capire, ma i fiori? Il mondo deve contemplare i fiori? Ma chi pensi che ci cascherà con questa roba? Tutti. Ci sono cascati tutti. Gli è bastato aprire con una tirata populista per mandare in classifica anche un disco altrimenti incommerciabile, alla fine è riuscito a piazzare 300mila copie di una cosa che per la metà è lui che canta arie di musica classica, che sagoma questo Franco Battiato. 

Con Povera patria si conclude la mutazione da Solito Stronzo a Venerato Maestro. Vien proprio da rimproverare questi governanti, questi perfetti e inutili buffoni: ma non vi vergognate ché avete fatto arrabbiare monsignor Battiato? Con tutto quello che ha da fare, con tutta l'arte che ha da esprimere, con tutti i Lied che deve intonare.

L'anno scorso all'improvviso tutti si sono messi a scrivere "cringe", e quando tutti intendo persino i miei studenti, che almeno hanno il buon motivo di non sapere con quante z si scrive "imbarazzante". Povera patria è il Battiato più cringe. Non è che non avesse già costeggiato pericolosamente l'imbarazzo (in Fisiognomica, ad esempio), ma è in Povera patria che lo abbraccia senza residuo pudore. Sembra quasi che si compiaccia a scrivere versi che oggi immaginiamo in fondo alla sezione commenti degli articoli on line del Fatto Quotidiano, ad es. "che non si parli più di dittature", cioè capite Battiato ha detto no alle dittature, e mica solo ad alcune eh? No a tutte! Ce lo vedo anche incollato su un fumetto apocrifo di Mafalda, e altre manifestazioni boomeristiche che oggi consideriamo giustamente barbarie, ma dobbiamo pure ricordare questo fatto incredibile, che Povera patria è del 1991. Fosse uscita nel 1992 sarebbe stata una speculazione su Tangentopoli e sulle stragi di mafia: ma nel 1991 era una trascrizione abbastanza fedele di come si sentiva la gente. "Non cambierà / non cambierà", "Sì cambierà, forse cambierà". Tutta l'Italia stava cantando questa cosa, tutta l'Italia stava aspettando Di Pietro più di quanto Israele attendesse un Messia. Battiato non era più il profeta scostante che parlava per enigmi: bensì il sacerdote che mostrava al popolo quel che il popolo pensa, con parole semplici e severe. 

1998: Vite parallele (Battiato/Sgalambro, #155)

Tu pretendi esclusività di sentimenti: non me ne volere, perché sono curioso, bugiardo e infedele. Gommalacca assomiglia a certi spettacoli itineranti con un sacco di figuranti che uno alla volta se ne vanno dalla scena, finché negli ultimi numeri non rimane solo il capocomico che finalmente si toglie dalla maschera (la maschera in certi casi è Sgalambro): eccolo qua, Franco Battiato. È bugiardo e infedele: meno male che lo dice lui perché nessuno da trent'anni ha più il coraggio di dirglielo. Sa (come noi) di vivere tra "miliardi di galassie" ("tocco l'infinito con le mani"), ma proprio come noi sembra più interessato a farsi toccare da qualche presenza più vicina e interessata. Si dice convinto che vivrà in eterno, ma questo non gli impedisce di temere "l'oblio, la dimenticanza". Crede nella reincarnazione, ma ammette di praticarla già, reincarnandosi un po' ogni giorno, vivendo "vite parallele, ciascuna con un centro, una speranza, la tenerezza di qualcuno". Viene in mente una cosa che diceva Camisasca in un'intervista qualche tempo fa: non fatene un santino. 


2012: Eri con me (Battiato/Sgalambro, #102)


Siamo detriti, relitti umani, trascinati da un fiume in piena. Eri con me è l'ultima canzone composta da Battiato per Alice. Purtroppo non regge il confronto con i brani degli anni Ottanta (in linea di massima tutte le composizioni di Apriti sesamo, benché non banali, eseguite con intensità e arrangiate con cura, danno la sensazione che Battiato non avesse più molte idee musicali da esprimere). Condivide la generale mestizia del lunghissimo appressamento della morte che Battiato stava raccontando, e presenta un ritornello enigmatico che potrebbe descrivere il rapporto tra due artisti che tutto sommato non hanno collaborato tantissimo, malgrado le scintille che facevano scoccare: eri con me, ma io non ero con te; sei con me, ma io non sono con te; ero con te, ma tu non eri con me. Rispetto alla versione eterea di Alice (che era uscita poco prima), Battiato realizza una canzone più rumorosa e vitalista, coi sintetizzatori e poi l'orchestra e poi basso chitarra e batteria. Più si avvicinava al Silenzio più sembrava aver voglia di far baccano. 

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58. Tornerà la moda dei vichinghi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una batteria di canzoni da meditazione. Scegliete la vostra preferita come l'adepto si sceglie il tappetino, ohm].   

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1983: Tramonto occidentale (Battiato/Jaeggy, #59)

Friedrich Nietzsche era vegetariano: scrisse molte lettere a Wagner, ed io mi sento un po' un cannibale e non scrivo mai a nessuno. La decadenza è anche questo: quando cerchi di evocare il ciclo dei Nibelunghi e senza volere ti esce Semplice di Gianni Togni – rarissimo caso di plagio inconsapevole, perché davvero non riesco a immaginarmelo Battiato che pensa: adesso per ottenere il correlativo musicale della decadenza nel ritornello passo in maggiore e così l'ascoltatore si renderà conto che quella che sembrava un pezzo di sinfonia elettronica e apocalittica è in realtà Semplice di Gianni Togni (sia la canzone di Togni sia quella di Battiato devono poi qualcosa a Follow You Follow Me dei Genesis). Tra i tanti lamenti per la fine della civiltà che Battiato ha messo sui solchi, Tramonto occidentale si segnala perché è forse l'unico caso in cui il cantautore non osserva la decadenza da qualche astratto piedistallo, ma la vede procedere in sé stesso: è lui che non ha voglia di leggere o studiare, "solo passeggiare sempre avanti e indietro lungo il Corso o in Galleria". È lui che mentre constata che "la famiglia è in crisi da generazioni per mancanza di padri" ammette di essere un solitario, incapace di disciplina, e di divertirsi a osservare i suoi concittadini che sventolano le bandiere "fuori dalle macchine all'uscita dello stadio", con la voluttà di ingaglioffarsi che a volte prendeva Nanni Moretti nei film di quegli anni. È lui che non riesce nemmeno ad ammettere la dipendenza dal tabacco. Non so quanto questo aspetto di Tramonto occidentale – che me la rende molto più simpatica di tante altre sue canzoni sullo stesso tema – dipenda dal testo di partenza di Fleur Jaeggy: non lo so perché non ho idea dell'originale, nessun battiatologo per ora l'ha individuato, e abbiamo già visto che molto spesso Battiato interviene su testi già pubblicati, non necessariamente in versi, sforbiciandoli di molto. 


1991: Gestillte Sehnsucht (Brahms, #187)

Desiderio placato. La predilezione di Battiato per Johannes Brahms – più volte dichiarata nelle interviste – trova finalmente uno spazio per esprimersi nel 1991 sul secondo famigerato lato di Come un cammello in una grondaia: in questo caso oltre a cantare Battiato si prende cura anche dell'orchestrazione, purtroppo lasciandoci un senso di insoddisfazione: dopo aver giocato più volte nella sua carriera con Beethoven, Bach, Ciajkovskij, quando finalmente decide di affrontare Brahms si comporta forse in modo troppo rispettoso per ottenere qualcosa di memorabile. Non so se capiti anche voi qualche volta di svegliarsi con in testa una melodia che non è la solita canzone per l'estate, ma un brano di musica lirica o classica (dipende soprattutto da cosa si ascolta di giorno). Ecco, in questi casi a volte qualcosa ci frena, ci impedisce di canticchiare o fischiettare a cuor leggero quelle che alla fine sono comunque splendide melodie. È il rispetto che si deve alla musica colta, o forse quel senso di distanza che danno le voci impostate. Canticchiando il suo Brahms, Battiato intendeva soprattutto mostrarci che questa distanza è colmabile, abbattere il muro tra la musica fischiettabile e quella non fischiettabile. Non importa che la sua Gestillte Sehnsucht non sia la migliore Gestillte Sehnsucht (ci mancherebbe altro): l'importante è che si possa fare: il Cammello segnalava che lo steccato era caduto, avremmo potuto cantare qualsiasi musica del passato senza vergogna. Quel che è successo è purtroppo l'opposto di quello che auspicava Battiato, ovvero i cantanti d'opera si sono messi a fare dischi pop.  


1993: Lode all'inviolato (#70)

Ne abbiamo attraversate di tempeste. Me la sono cercata: l'altro giorno commentando Delenda Carthago scrivevo: bizzarra per gli standard battiateschi la scelta di impostare tutta la canzone su una progressione di quattro accordi ascendenti. Non avevo notato che in Lode all'inviolato succede più o meno la stessa cosa: Mi-, Fa, Sol, La-. A mia discolpa, la scala è parzialmente dissimulata dal fatto che la voce parte sul La-, dando la sensazione che la progressione cominci sull'accordo più alto. Tra questo e il Mi-, che è il più basso, si protende la scala naturale discendente suonata nell'introduzione dal pianoforte e poi dai violini. Musicalmente, Lode all'inviolato è poi tutta qui: un ciclo breve e quasi ipnotico sul quale Battiato è libero di salmodiare senza fissarsi su nessuna melodia. Persino se non capissimo le parole (e non è che le capiamo proprio tutte) avremmo comunque la sensazione di trovarci più davanti a una preghiera che a una canzone. Non solo una lode, ma anche (e soprattutto) una professione di fede: Battiato rifiuta il male, i "personaggi inutili" che ammette di avere indossato, e indica una via che attraverso la saggezza arriva alla gioia. Tutto molto mistico ma io in quegli anni ero convinto di averlo perso e rimpiangevo soprattutto i personaggi inutili che non indossava più. 


2004: Conforto alla vita (Battiato/Sgalambro, #198)

Ah, quanto fumo si levò che non fu fiamma. A volta Battiato in Dieci stratagemmi dà la sensazione di voler ripassare in alcuni punti meno noti del suo catalogo, come a dire: ricordatevi che facevo anche questo tipo di cose. Conforto alla vita ad esempio sembra, da lontano, uno di quei brani un po' salmodianti del periodo di Caffè de la Paix (vedi sopra Lode all'inviolato), quelli di cui nessuno parla male anche se quasi tutti preferiscono ascoltare qualcos'altro. È una somiglianza solo superficiale, in realtà tante cose sono cambiate, ad esempio la musica è ancora più libera e sfuggente e nel reparto parole c'è Sgalambro che a quanto pare sta maneggiando citazioni scelte da Johann Gottfried Herder, pensatore settecentesco in realtà interessantissimo e molto peculiare (inventò lo storicismo, chiacchierando con Goethe imbastì in sostanza la traccia per il romanticismo tedesco, nel tempo libero litigava su Kant sulla Ragion Pura) che però nelle sapienti mani del nostro filoffo talattico preferito diventa un Budda qualsiasi, un erogatore di massime aspirazionali ("Sii forte e sereno anche nei giorni dell'avverso fato", ok). 

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57. E sommersi soprattutto da immondizie musicali

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, che ne ha scritte più o meno 250. Qui trovate il tabellone aggiornato]. 

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1969: Marciapiede (#251)

Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l'avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui (che fino al 1967, ricordiamo, non poteva firmarle perché non iscritto alla Siae). I lati B com'è noto servivano a sperimentare cose un po' meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l'argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l'amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche ("sa/già, te/me"). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell'innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.

1981: Bandiera bianca (#6)

Siete come sabbie mobili: tirate giù (uh uh uh). C'è un genere di canzone che gli italiani adorano, anche se non lo sanno. Chi lo sa preferisce mantenere il segreto, altrimenti poi gli italiani cominciano a perseguitarti perché vogliono sentire solo quelle. Guccini ha scritto ballate epiche, canzoni buffe, scorci esistenziali, poi una sera s'è incazzato con un critico e ha scritto l'Avvelenata, pentendosene probabilmente nel giro di poche ore, ma l'ha incisa ugualmente e tuttora gliela chiedono, c'è gente che gliela suonerà sulla tomba, salirà a Pavana apposta per rompere i coglioni alla salma. L'Avvelenata è un'invettiva. Gli italiani adorano le invettive, adorano il momento in cui al cantautore saltano i nervi e comincia a puntare il dito contro Alfredo, contro Vincenzo, ma meglio ancora contro di lui, contro gli italiani in generale. A chiunque riesca a capire la cosa è garantito più di un quarto d'ora di gloria, l'anno scorso è capitato ai Maneskin e qualche anno fa a Gabbani con una specie di frullato pseudobattiatesco, una combo Bandiera Bianca + Magic Shop.

Battiato dal canto suo non ci ha vinto Sanremo (lo ha vinto con una canzone di disamore sviluppata da un riff di Beethoven, a orecchio un'impresa più difficile), però forse il segreto della sua improvvisa esplosione nel 1981/82 è proprio l'arrivo in radio di Bandiera bianca, l'invettiva battiatesca per eccellenza. Una variazione sul tema di Up Patriots to Arms, ma la retorica patriottarda cede il passo a un senso di resa magistralmente recuperato da una lirica risorgimentale così brutta che fa piangere di commozione, L'ultima ora di Venezia di Giovanni Berchet. Non è una delle migliori canzoni di Battiato, ma nel suo genere credo sia un capolavoro: posso ascoltarla nel 2021 e pensare che stia parlando dei social network. Battiato inforca gli occhiali neri e, qualsiasi cosa stia davvero dicendo, non possiamo pensare che non stia fissando proprio noi. Come faceva nei primi anni Ottanta a benedire già il razzismo che non gli faceva guardare "quei programmi demenziali con tribune elettorali"?, cioè come faceva a sapere già che il talk show demenziale avrebbe invaso i palinsesti di network tv che nel 1981 nemmeno esistevano; e come faceva a sapere che solo il razzismo nei nostri stessi confronti ci avrebbe salvato dallo specchiarci ogni sera in un Ferrara o un Funari o un Giordano?

Molti suoi fan di qualsiasi età scoprono Battiato così: un predicatore col megafono, desolato dell'iniquità contemporanea. La sua più grande astuzia (che i Gabbani successivi non sempre comprenderanno) è non disperdere i suoi strali sul popolo bue, ma concentrarli su un non meglio precisato manipolo di individui, gli "squallidi figuri che attraversano il Paese". Ovviamente tutti abbiamo in mente qualcuno che rientra nell'insieme, e finché non si fanno nomi e cognomi possiamo andare tutti d'accordo e riconoscere in Battiato il nostro profeta. Per fortuna Battiato si era già stancato del ruolo, sia lodata sempre la sua scarsa applicazione in tal senso. Bandiera bianca è la sua Like a Rolling Stone: lo trasforma in un profeta e lo investe di una missione per la quale non si sente all'altezza: non dissimilmente da Dylan, passerà molti anni cercando di convincere il pubblico che lui non è quello lì, lui è un artista, al limite un mistico, ma non un predicatore. E alla fine, in uno dei momenti più opachi della sua carriera, cederà al pubblico che rischiava di dimenticarlo e inciderà Povera patria.

Quel che seguirà sarà meno interessante: più intrigante secondo me è capire come ha fatto Battiato nel 1981 ad azzeccare un brano atipico come Bandiera bianca, a capire che avrebbe funzionato. Qual era il suo modello? Ovviamente non posso che pensare a Gaber, che aveva passato gli anni Settanta in giro per i teatri a perfezionare invettive sempre più crudeli. Quando è moda è moda è del 1978: in quel periodo Gaber si era stancato del solito accompagnamento chitarra-basso-batteria e aveva chiesto a Battiato e Giusto Pio di curare gli arrangiamenti del suo spettacolo, Polli d'allevamento. Nel 1980 poi era uscito su un 12 pollici Io se fossi Dio, un quarto d'ora in cui Gaber sparava a zero su tutti, compreso chi una dose di pallottole l'aveva già presa non metaforicamente (sì, Aldo Moro). Io se fossi Dio è un'invettiva troppo precisa, che finisce per rovesciarsi su sé stessa e autodenunciare il delirio di onnipotenza dell'attore-cantante. Battiato impara molto da Gaber, ma anche dai suoi errori.

1988: Il mito dell'amore (#134)


Il mito dell'amore muore senza tante cortesie: ti accorgi che è finita da come cadi nell'insofferenza. Composta nel periodo in cui Battiato pensava che si sarebbe dedicato soprattutto alle opere, Il mito dell'amore è un'opera in miniatura: per la prima volta Battiato cerca di raccontare una storia con un inizio, un climax e una fine. Ci mette perfino il coro, proprio nel senso tragico del termine: una coscienza collettiva che commenta l'avvenuta e cerca di tirarne una morale. La sensazione degli ascoltatori di Fisiognomica, al tempo, è che Battiato avesse messo via le maschere: non solo quella di provocatore postmoderno, ma anche quella di memorialista crepuscolare. Il passato non era più un cassetto di ricordi da spolverare, ma una terra dolorosa di scelte difficili che FB rivendica: tra l'amore e la libertà ha scelto la seconda.  

1996: ...ein Tag aus dem Leben des kleinen Johannes (#123)

"Genug, Tony, Genug". Cos'è il Kitsch? Potrei citare due o tre definizioni di Apocalittici e integrati, oppure linkare un brano dall'Imboscata, provo a fare entrambe le cose ma non so se il montaggio funzionerà, al massimo creerò un Kitsch al quadrato.

"[Il brano] tende a proporsi come opera d'arte proprio perché ostentatamente impiega modi espressivi che, per tradizione, si è soliti vedere impiegati in opere d'arte riconosciute come tali dalla tradizione [quindi continuiamo a citare frasi tedesche che fa 100 punti intellettuale, ma relativamente facili da tradurre ed estratte da un libro ben riconoscibile che sta in tutte le buone biblioteche borghesi]. Il brano riportato è Kitsch non solo perché stimola effetti sentimentali, ma perché tende continuamente a suggerire l'idea che, godendo di questi effetti, il lettore stia perfezionando una esperienza estetica privilegiata..."

"...definiremo, in termini strutturali, il Kitsch come lo stilema avulso dal proprio contesto, inserito in un altro contesto la cui struttura generale non ha gli stessi caratteri di omogeneità e di necessità della struttura originaria [una pagina di Thomas Mann in un disco pop anni '90, con un solista mongolo in sottofondo e Ferretti che fa un atto di presenza completamente inutile], mentre il messaggio viene proposto – in grazie dell'indebita inserzione – come opera originale e capace di stimolare esperienze inedite..."

"Kitsch è l'opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve".

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56. Quel paese che ti somiglia tanto

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un collage steampunk, una grande incompiuta, una versione di Baudelaire che fa un po' ridere e un'altra che assomiglia inopinatamente a Come on baby light my fire. Certo che non ci si annoia con le canzoni di Battiato]. 

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1974: Rien ne va plus: andante (#211)

Lo steampunk è "un filone della narrativa fantastica, e più nel dettaglio di quella fantascientifica, che introduce una tecnologia anacronistica all'interno di un'ambientazione storica". In un certo senso Rien ne va plus è il brano steampunk di Battiato: è una Ethika Fon ethica ambientata a fine Ottocento, quasi Nove, come se qualcuno al tempo avesse inventato un registratore di suoni decente e fosse andato in giro per i boulevard, intrufolandosi nel primo salotto che trovava per captare tracce sonore di concerti, lezioni di danza, applausi e risatine. Benché da nessuna parte vi sia un richiamo a Proust, è l'unico autore di quel periodo che Battiato ha mai citato: se si tratta di un omaggio, è davvero il meno retorico che gli potesse rendere. È un brano a cui Battiato deve aver lavorato molto (non era così facile montare dei rumori in quegli anni) per ottenere un risultato che ancora oggi possiamo scambiare per un'intercettazione ambientale: una specie di viaggio del tempo sonoro. Magari è il motivo per cui decise di includerlo nell'antologia Feedback, un disco della collezione economica Ricordi che per molto tempo sarebbe stato l'unico segno tangibile del Battiato anni '70 nei negozi di dischi.  

1998: Stage Door (Battiato/Sgalambro, #174)


A un giornalista Battiato dichiarò di aver lavorato per un anno e mezzo a Gommalacca, "dalle otto del mattino alle otto di sera". Tutto questo lavoro e poi non è nemmeno riuscito a finire Stage Door...
Gommalacca è un disco pieno di cose, ma in cui si notano anche le mancanze. Non c'è per esempio un brano di sicura presa come era stato La cura per il disco precedente. Certo, mica si può sempre scrivere un pezzo come La cura: e però riascoltando una delle versioni di Stage Door si ha la sensazione che sì, un brano del genere Battiato l'avrebbe potuto scrivere: i fondamenti li aveva già trovati, anche il ritornello che sarebbe piaciuto senz'altro. 

Sapessi che dolore l'esistenza
che vede nero dove nero non ce n'è.
Il fatto è che non posso più tornare indietro
che non riesco a vivere con te né senza di te.

Insomma nel 1998 Battiato aveva scritto la sua With or Without You. Su una progressione semplicissima, ipnotica (Re minore, Do, Si bemolle), un testo che alludeva ai suoi giorni più difficili (la depressione post Pollution?) con un testo che Aldo Nove considera "uno dei suoi testi autobiografici più intensi (forse il più intenso in assoluto)". C'era un successo sicuro, nascosto nell'involucro di Stage Door, ma Battiato non ha voluto tirarlo fuori. Si è fermato un po' prima; ha scartato il brano dalla scaletta dell'album e ha poi incluso due demo nel singolo di Shock in My Town (una canzone molto meno immediata di Stage Door). Perché l'ha fatto? Mi vengono in mente due ipotesi contrarie. La prima è che non voleva piacere troppo, che un successo come quello ottenuto con La cura lo indisponesse. I classici che scrivi sono le canzoni che ti definiscono, quelle che ti chiederanno sempre ai concerti, quelle che suoneranno in radio quando muori; Battiato forse sentiva di averne scritte abbastanza. L'altra ipotesi è che avesse paura di deludere il suo pubblico, di tradire una certa immagine che ormai si era costruito, di uomo saggio al di sopra del vincolo delle passioni. Il Super-Battiato di E ti vengo a cercare e della Cura, ecco: in Stage Door si rimette in discussione, ammette le proprie debolezze e forse persino le proprie ipocrisie, con affermazioni che nella prima versione colpivano per l'insolita crudezza. Non è un caso che quando decide di offrire una versione definitiva della canzone, undici anni dopo in Inneres Auge, Battiato tagli gran parte delle affermazioni più intense (provocando lo sdegno di Aldo Nove).

1999: Invito al viaggio (Battiato, Baudelaire, Sgalambro, #83)


Baudelaire è difficile da maneggiare. È un classico, ma è di quelli che bisognerebbe leggere la prima volta da adolescenti, così da potersi sciogliere un po' di nostalgia quando lo si riapre in seguito. Se non è successo (via, non succede quasi mai) bisogna addirittura fingersi adolescenti per apprezzare certe cose. Battiato, se proprio gli interessava L'invitation au voyage, avrebbe potuto riprendere la bella versione di Leo Ferré. Ma siamo negli ultimi minuti di Fleurs, quelli che a partire da Gommalacca sono consacrati agli esperimenti, e qui Battiato decide di affidarsi a una traduzione parziale di Sgalambro. Non solo, ma decide di fargliela recitare nei primi minuti della canzone. Ora, è chiaro che io sono prevenuto contro questo povero filosofo. Ce l'ho con lui per motivi che magari all'inizio erano oggettivi ma ormai hanno trasceso, ormai nella mia testa l'ho trasformato in un simbolo di tante cose che non mi piacciono e non gli perdono niente, neanche come pronuncia "cielo" (lo pronuncia col dittongo "ie"). Per cui magari è completamente colpa mia se mi metto a ridere quando declama "Ti invito al viaggio in quel paese che ti somiglia tanto", che è la cosa che d'ora in poi dirò a tutti quelli che mi offendono. Nessuna traduzione degli stessi due versi aveva mai suscitato in me una simile ilarità, e dire che non sono più adolescente da un pezzo. Ma forse da adolescente prendevo le cose più sul serio. Sicuramente Baudelaire più sul serio. Insomma qui io dovrei parlare di questa interessante composizione di Battiato in cui canta alcune strofe dell'Invitation au voyage, con una coda (che in Joe Patti diventerà un brano a sé) in cui l'illusorio paradiso del poeta viene denunciato come tale: la vera saggezza infatti è dire addio a quel paese felice. Dovrei parlare di questo, ma mi metto a ridere, per cui ci rinuncio. Sentitevi liberi di mandarmi a quel paese che mi somiglia. 

2008: Niente è come sembra (Battiato/Sgalambro, #46)

Rovinò lungo la china. Solo chi ha un destino rovina. Niente è come sembra è uno di quei singoli del tardo Battiato che somigliano a qualcosa ma non riesco a capire cosa (un altro esempio è Tutto l'universo ubbidisce all'amore). La sensazione è probabilmente causata dal fatto che assomigliano a 'tante' cose: il ritornello di Niente è come sembra in particolare è imbastito su quella cadenza IV-V-I tipica di così tanti brani che diventa ozioso isolarne uno: Il cielo è sempre più blu? Light My Fire? Quest'ultima, oltre al ritornello replicato tre volte, ha anche la strofa che comincia bizzarramente sull'accordo di sesta in minore, proprio come Niente è come sembra, il che forse spiega perché ogni volta che mi metto a pensare a cosa mi ricorda questo brano così traboccante di saggezza orientale, mi si piazza davanti Jim Morrison che si struscia la patta contro l'asta del microfono. Ma sono sicuro che c'è una canzone molto più somigliante – cercare i plagi musicali è come cercare la lettera rubata di Poe, è inutile frugare nei minimi angoli, è molto più probabile che si tratti di qualcosa di evidentissimo, qualcosa che ti sfugge proprio da tanto che è evidente. E forse alla fine l'ho trovata. Mi ha messo sulla pista giusta il brano finale dello stesso album, Stati di gioia, che negli ultimi secondi cita i Beatles: She loves you yeah yeah yeah. No, Niente è come sembra non assomiglia a She Loves You, neanche per sbaglio. Ma è una canzone che dice anche Niente è reale... ricorda qualcosa? Era Lennon a cantare "Nothing is real", in Strawberry Fields Forever. E anche in Strawberry nel ritornello compare la cadenza IV-V-I, anche se non è il momento in cui canta "Nothing is real" . Questa ipotesi, mi rendo conto, è inficiata dal fatto che prima di glossare le canzoni di Battiato ho passato due anni a glossare le canzoni dei Beatles e questo mi ha impedito di scoprire altri mondi musicali da cui magari Battiato ha preso la stessa cadenza. In fondo niente è come sembra. 

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55. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia

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[Questa è la Gara, oggi molto difficile per me, con due tra i miei brani preferiti di Battiato e nessuno dei due è Up Patriots to Arms].

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1974: Da oriente a occidente (#147)

Padre, fammi partire. Tutto ciò che resta di un abbozzo di concept album su una civiltà che vive nel cono di un vulcano sopravvive nell'ultimo brano di Sulle corde di Aries, un pezzo che ancora una volta si inserisce felicemente nell'immaginario prog-rock dei primi anni '70 (mondi immaginari tra medioevo e futurismo, viaggi fantastici) ma tradisce anche il vissuto del cantautore emigrato al nord, qui impegnato in uno scontro immaginario col padre che resta un unicum nella sua produzione ("mi appare in sogno Venere, tu padre, che ne sai?"). Di solito non ci facciamo caso, ma l'Italia ha una sagoma in gran parte diagonale: quel viaggio che siamo portati a definire da sud a nord, è anche un viaggio da oriente a occidente. Probabilmente è il più riuscito tra i brani in cui la ricerca musicale di Battiato si rivolge a un passato ancestrale, qui più vicino al medioevo mediterraneo che all'Asia: non solo gli strumenti tradizionali (tabla, mandolino), ma anche e soprattutto il synth suona come un arcano strumento del passato. Poche canzoni cominciano con un verso bello quanto "riduci le stelle in polvere". 

1980: Up Patriots to Arms (#19)

Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena! Potete stare a galla! Può darsi che sia tutto dipeso da una mera congiuntura economica, ovvero: a fine anni Settanta la gente compra sempre più 33 giri. Più ne stampi più la gente li compra, stava succedendo in tutto l'Occidente. C'è mercato per tutto, per la disco e per il punk e per lo yacht rock e per qualsiasi cosa che ti venga in mente di proporre, bisogna farsi venire in mente idee alla svelta, qualsiasi idea, bisogna vegliare alla stazione perché in qualsiasi momento può passare quel treno carico di frutti. Alcuni passavano di lì per caso, sono saliti al volo e sono ancora lì dopo quarant'anni che non credono al culo che hanno avuto. Altri erano farabutti senza arte né parte, gente alla ricerca di soldi facili e non solo riuscirono a farli, ma incisero anche dischi decenti, talvolta geniali, era un periodo così (c'erano anche ottimi musicisti cresciuti negli anni del prog in grado di lasciare impronte indelebili negli arrangiamenti). Altri erano onesti lavoratori che dopo anni di gavetta, finalmente coglievano il frutto del loro meritato eccetera – altri avevano passato buona parte del decennio immersi in cose non chiare nemmeno a loro, avanguardie artistiche, meditazione e/o esoterismi e/o musica elettronica, e però se c'era un momento in cui persino loro avrebbero potuto mettersi sul mercato e far soldi, quello era il momento, e Franco Battiato lo azzeccò. 

Per questo Up Patriots to Arms mi fa un po' incazzare, come quando leggi i classici di qualche perduta età dell'oro e ti accorgi che non fanno che lamentarsi anche loro del tramonto dei costumi e dell'imbecillità dei giovani. Il Battiato che canta "la musica contemporanea mi butta giù" sta vivendo negli anni più vivaci della storia della musica italiana. Il momento in cui da avanguardista con velleità stockhauseniane si ritrova a sbancare le classifiche e vincere Sanremo (da autore) è lo stesso in cui Dalla da interprete diventa cantautore, De Andrè da cantautore assurge a nume tutelare della world music, Paolo Conte da autore si trasforma in uno spettacolo d'arte varia, Lucio Battisti anche lui si evolve in qualcosa che sinceramente devo ancora capire, De Gregori da cantautore duro e puro diventa l'autore della Donna Cannone, Vasco Rossi azzera il concetto di rock italiano, i Matia Bazar, gli Skiantos, Fossati, Bennato, Finardi, Giurato, insomma tra il 1978 e il 1984 succede qualcosa di incredibile e, mi dispiace, mai più successo. È un periodo straordinario non soltanto per la quantità di talento rilevato – anzi può darsi che in altri periodi ne sia stato scoperto di più, allo stato brado – ma per il modo in cui tantissimi artisti anche di punta decidono di stravolgere la propria carriera, ognuno per una serie di motivi non sempre e del tutto chiari ma alla fine può darsi che tutto sia dipeso da una mera congiuntura economica: da qualche parte c'era un enorme mucchio di soldi che poteva piovere sul primo che azzeccava una formula diversa. Non è che fosse proprio una gara a chi arrivava primo, ma alla boa del milione di copie in ogni caso arrivò primo Battiato, pochi mesi dopo aver chiamato alle armi contro l'imbecillità dilagante. In un certo senso Up Patriots è il brano più punk che ha scritto, se vogliamo riassumere l'attitudine punk nel mostrare il dito allo status quo; è anche il brano più new wave, che ha scritto, almeno nella versione del 1980. Ma a drizzare le antenne è anche il brano più disco, è da lì che viene quella progressione Sol-La-Si tutta in maggiore (che poi riprenderà nella Stagione dell'amore e, con una variante, sul finire del ritornello di Centro di gravità). È un Battiato che ci disprezza e nello stesso momento le sta provando tutte per piacerci, e allo stesso tempo se ne rende conto e si disprezza a sua volta. Per dirlo con parole sue (che non sono affatto sue, ma lo diventano nel suo più geniale cut-up): chi vi credete che noi siamo, con i capelli che portiamo? Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre. Molto prima che Sgalambro lo convincesse a usare in una canzone la parola "puttana", Battiato lo aveva chiarito a modo suo: chi credete che io sia, coi miei modi da profeta? Avanti patrioti, alzate le barricate. Armatevi e partite.


2000: The age of hermaphrodites (#238)

L'abisso originale, l'autonomia dell'infertile. The age of hermaphrodites è il brano di Campi magnetici che più facilmente si imprime nella memoria dell'ascoltatore. In parte per l'efficacia del collage rumorista della prima parte, con cori campionati e disturbi elettrostatici. In parte per la melodia centrale, che sorge dal silenzio del rumore come un carillon e ci ricorda per la prima volta che quello che stiamo ascoltando sarebbe un balletto. Nei sei minuti di The age ritroviamo sovrapposte le numerose incarnazioni del Battiato compositore, al punto che se qualcuno avesse solo sei minuti per spiegare che musica faceva Battiato quando non cantava, non si potrebbe consigliare una traccia più esauriente di questa. Ci si sente il rumorismo di Clic, i collage sonori di Za. i cori di Juke Box, il minimalismo dell'Egitto, persino una vaghissima traccia di quell'impulso alla tarantella che venava i primi dischi prog.  


2012: Caliti junku (Battiato/Sgalambro, #110)

Milioni di anni luce, la legge che esprime si illumina di cielo. Mindfulness, la forma è sostanza, la forma è sostanza, mentre il vento mi porta improvvise allegrie. 

Cosa sta dicendo?

Quello che sto per scrivere potrebbe essere sgradevole. Chi ha familiarità con l'alzheimer a volte ha questa sensazione, che più che una sindrome si tratti di un destino. C'è quel tipo di persona che per anni ti ha incantato per la sua intelligenza scoppiettante, per come sapeva passare da un aneddoto a un ricordo a una teoria scientifica a una canzone sempre tirando un filo che riusciva a non perdere mai, ecco, è orribile, proprio quel tipo di persona a un certo punto il filo lo smarrisce, o vede fili dappertutto, i racconti si ingarbugliano e il presente scompare. Può succedere molto, molto tempo prima che arrivi una diagnosi. Caliti junku parte dalla celeberrima aria Che farò senza Euridice di Christoph Willibald Gluck; Prosegue confrontando due proverbi; uno è per aspera ad astra, l'altro è cinese o tibetano ma potrebbe essere anche arabo o siciliano e dice così: chinati giunco, che passa la piena. Chinati giunco, da sera a mattina. Non è che tutto questo non abbia un senso. Non è che Battiato e Sgalambro non ci abbiano già abituato a spettacolari salti dal palo alla frasca. Battiato si è sempre espresso in modo frammentario e apodittico, ha sempre giocato a cortocircuitare i significati accostando manufatti culturali diversissimi. Cos'è cambiato quindi? Niente, o poco, appena una sensazione, o forse siamo cambiati noi, siamo diffidenti e abbiamo paura della nostra stessa diffidenza, abbiamo paura di voltarci e scoprire che Battiato non è più lucido, che Euridice non c'è più. Nella seconda strofa esplode tutto, e il brano diventa la cosa più rock di tutto Apriti Sesamo, con l'intervento di Chiara Vergati che canta all'unisono con Battiato, in inglese. Si lamentano dei tempi violenti. Rifugiamoci nella vuota essenza, dicono.

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54. Il giorno della fine non ti servirà l'inglese

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, dove scopriremo che Sgalambro disprezza le foreste, Battiato non esclude, in una vita precedente, di essere stato un mantello, Strauss in quattro quarti non è comunque ballabile e il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore – di quest'ultima cosa avevate già più che un sospetto, credo]. 

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1979: Il re del mondo (Battiato/Pio, #51)

Un giorno in cielo fuochi di Bengala: la pace ritornò. È un ricordo? Battiato è nato un mese prima della Liberazione. La guerra, per la sua generazione, è un ricordo ancestrale, di figli della catastrofe,  molto spesso ricostruito a posteriori e rivissuto con uno strano senso di appartenenza. Battiato ha davvero sentito gli aerei angloamericani rombare sulla piana di Catania? Senz'altro li ha sentiti nel dopoguerra, Sigonella è vicinissima a Jonia. Quanto al "re del mondo", è una suggestione ripresa da René Guénon, nello stesso disco in cui Battiato aveva sentito la necessità di prendere le distanze dall'"esoterismo di René Guénon": l'ipotesi di un'autorità cosmica che regola le nostre vite e forse ci impedisce di godercele pienamente. 

Battiato andava molto orgoglioso del Re del mondo. Ancora anni dopo raccontava che "molti poeti" lo avevano chiamato per congratularsi per il distico iniziale: strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo stonasse con il suono dei gerani sui balconi. Come aveva fatto questo ex cantante ex musicista sperimentale a uscirsene all'improvvisto con un testo tanto profondo e tanto riuscito? È più o meno lo stesso enigma che due anni prima aveva posto agli ascoltatori Lucio Dalla col suo primo disco da cantautore, Com'è profondo il mare. Sia Battiato che Dalla per molti anni avevano scritto ben poche parole: verso la fine dei Settanta all'improvviso si ritrovano autori di alcuni testi di grandissimo valore, senza capire bene come sia successo. "Io rispondevo che le frasi erano venute così, senza particolare rovello. Senza impegno metodologico". Che forse è anche il motivo per cui sia Dalla sia Battiato non riusciranno a replicare il miracolo: continueranno a scriversi i testi ma Dalla non supererà mai l'exploit di Corso Buenos Aires, e anche Battiato forse non ha più scritto qualcosa come "sulle biciclette verso casa la vita ci sfiorò". 

Una prova della predilezione di FB per il brano è la decisione di reinciderlo nel 1985 in Mondi lontanissimi, nella versione per tastiere Roland e orchestra che in quel periodo stava approntando per i dischi in inglese e spagnolo. La decisione lascia supporre che Battiato non condividesse del tutto le scelte operate nel 1979 dalle maestranze di Alberto Radius, chiamato dalla EMI per risollevare il destino commerciale dell'Era del cinghiale bianco. Eppure una delle ragioni del fascino del Re del mondo stava proprio nella linea di basso di Julius Farmer, obliqua e ipnotica, che nella versione del 1985 non si sente più. Le successive versioni live hanno parzialmente corretto l'errore, riconoscendo il contributo di Farmer. 


1995: Moto browniano (Battiato/Sgalambro, #206)

Stavo giusto riflettendo di come la battiatistica sia una branca del sapere in teoria già piuttosto sviluppata – in una buona biblioteca ci sono già abbastanza volumi da tenere una mensola, e continuano a uscirne, ad esempio quest'anno ne ha scritto uno Scanzi, il che fa riflettere, perché è stato un anno piuttosto ricco di avvenimenti ma lui comunque ha preferito uscire con un suo studio su Battiato (l'ho trovato in libreria e ho aperto su una pagina a caso. Parlava di Scanzi). E malgrado questo ho la sensazione che siamo ancora alla superficie, ad esempio si può essere veri battiatisti senza aver letto Gurdjeff? E Thomasson? E Sgalambro? No, non si può – e tuttavia la vita è così breve, la civiltà occidentale ha i giorni contati, nel giorno della fine avremo veramente bisogno di una battiatistica così sofisticata? Non lo so, ma a volte ho la sensazione di scrivere sciocchezze che nessuno comunque è abbastanza competente da correggermi. Per esempio, qui Battiato confessa: Provo sdegno verso alberi e fogliami, foreste onnipossenti. E già ci immaginiamo uno Sgalambro-Nonno-Simpson che alza il bastone sul povero boschetto innocente. Ma sarà tutta colpa del filosofo? Nel suo "aforisma" (perché lui scrive aforismi, capite, mica pensierini), in realtà Sgalambro scrive "Porto un certo sdegno verso alberi, verdi fogliami, foreste onnipossenti e festose". Ok, è simile, ma non è proprio la stessa cosa. E se gran parte dell'umorismo involontario che m'impedisce di ascoltare le canzoni di sgalambro non derivasse dalla prosa di costui, ma dalle scelte che Battiato compie sui suoi testi? Non lo so, non mi pare, ma per verificarlo dovrei veramente leggermi tutti quegli adelphini che francamente pure Nietszche impacchettato in quel modo m'indisponeva, non credo che ne sarei in grado. E temo che nemmeno Scanzi sia in grado. Quindi? Siamo veramente competenti per capire quel che cercavano di fare questi due matti con Moto browniano? No, forse no. Ci lasciamo sedurre dal titolo, ci pare che il modo di salmodiare di Battiato su un tema sfuggente non si allontani molto dal moto browniano delle particelle; rileviamo l'amore per i "paesaggi lunari, spugnosi, dove la massa pietrosa giace inerte", in anticipo su Tabula Rasa Elettrificata, insomma tra Sgalambro e Ferretti c'era una convergenza insospettabile. E Fabio Zuffanti nota verso il secondo minuto una scala che si sentiva anche nel terzo movimento del live del Telaio magnetico, ecco se dovete scegliervi un battiatologo direi che Zuffanti fin qui non teme rivali (di sicuro non teme Scanzi).        

1998: Il mantello e la spiga (Battiato/Sgalambro, #78)

E fosti pure un'ape delicata, il gentile mantello che coprì le spalle di qualcuno. No, aspetta, come sarebbe a dire il gentile mantello? Cioè adesso ci reincarniamo anche negli oggetti? Oppure era un mantello di pelliccia di un animale, ma quando è morto l'animale non funziona che l'anima si reincarna subito in qualcos'altro, un insetto o un filosofo talattico?, cioè capisco che non bisogna schiacciare la formica che potrebbe essere mio zio, ma adesso che faccio, devo stare attento anche ai mantelli e ai capi di vestiario in generale?

Non c'entra necessariamente molto, ma riascoltando Il mantello e la spiga mi viene in mente quella storia di Giovanni Lindo Ferretti che torna dalla Mongolia con tante idee per un disco etnico, poi va a vedere cosa stanno preparando i restanti CSI e li trova da qualche parte in una cascina o in una malga che stanno suonando del rock peso neanche fosse il '91, sicuramente non il '77, e sulle prime resta scettico, cioè secondo voi adesso io dovrei mettermi a urlare al microfono dei ritornelli rock? Ormai ci ho un'età. In effetti aveva già passato i 45 anni. Battiato ne aveva almeno dieci di più. Il mantello è uno dei tutto sommato pochi suoi brani che risentono chiaramente dell'influenza dei CSI, vuoi perché quella Tabula Rasa uscita l'anno prima gli era piaciuta molto, vuoi per una convergenza evolutiva che attraverso percorsi diversi portava artisti di generazioni diverse allo stesso punto, e il punto era un rock lento, sferragliante e monocorde. Certo, molti ci sono affezionati, più o meno quelli che avevano dai 25 anni in su in quel momento. Ed esclusivamente in Italia; globalmente la musica leggera stava prendendo altre direzioni, il rock si stava prendendo una grossa pausa tra il grunge e un ritorno di fiamma negli anni Zero. Battiato, che in tutta la sua carriera al rock si era concesso poco, era più aggiornato quando ascoltava i Prodigy o gli Underworld. Ma in Italia nel '97 i CSI si erano presi il primo posto in classifica (ok, in agosto), la causa o il primo effetto di un bizzarro anticiclone in cui si fece coinvolgere anche FB. Forse un equivoco: per tre o quattro anni abbiamo deciso che la musica del futuro non sarebbe poi suonata molto diversa da quella della nostra infanzia. Non aveva senso da nessun punto di vista, né commerciale né esistenziale né estetico. Una vague in controtempo che forse rifletteva la difficoltà di una generazione a uscire di casa: alla fine tutti i protagonisti avevano più di trent'anni. 

Fare il verso ai CSI, comunque, non era difficile: bastava salmodiare su una nota sola, rallentare il tempo e alzare il volume alla chitarra, Battiato ne era senza dubbio in grado. Lo stesso Sgalambro consegna un testo ferrettiano senza apparente sforzo – quel "Lascia tutto e seguiti" così lapidario anche se poi alla fine cosa vuol dire? Niente, quello che deve accadere accade, chi è stato è stato e chi non è non è, e così via. Sembrava saggezza, vabbe', eravamo giovani. No, non eravamo nemmeno così giovani. 

2002: Beim Schlafengehen (Richard Strauss, #179)

Può darsi che il primo volume di Fleurs sia stato uno di quei colpi di genio e fortuna così imprevisti che finiscono per danneggiarti. Dopo aver inciso con relativa rapidità e facilità uno dei suoi lavori migliori (e più venduti), Battiato potrebbe essersi fatto tentare dalla possibilità di riprovarci pochi anni dopo riducendo ulteriormente gli sforzi. In fondo che ci voleva? Basta scegliere nelle canzoni, cantarle con cura, e un disco si fa. Massima resa per minima spesa. Questo spiegherebbe come mai il secondo volume di Fleurs appaia un lavoro così sbrigativo, in cui si accumulano una serie di scelte che è difficile non definire sciatterie – che ci fa la drum machine in questo Lied, per esempio, cosa porta di interessante? Alla fine dell'album, quando come di consueto arrivano i brani più eccentrici, Battiato vuole dimostrare che anche Richard Strauss può funzionare con un bel quattro quarti ballabile? Se l'idea era trasformare completamente il Lied in un pezzo elettronico, magari techno, deve essersene stancato, lasciando il progetto a metà: sembra ancora un Lied, ma con questa traccia di batteria da discount che indispone dal primo secondo (e che no, non lo rende ballabile)    

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53. Le mie mani diventano squame!

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro titoli in cinque lingue diverse e molto impero romano]. 

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1973: Plancton (#142)

I miei capelli diventano alghe! Amare Battiato, si fa presto a dire amare Battiato, ma a che punto? Al punto in cui ti mettevi a letto con la cassettina di Feedback nel walkman sotto le lenzuola e quando i capelli diventavano alghe ti venivano i brividi? Perché questo, per esempio, è amare Battiato. Pollution è il disco maggiormente combattuto tra le due anime dei primi '70, prog e sperimentale. La sperimentazione non si è ancora (del tutto) ammantata di quelle istanze metapsichiche e intellettualoidi che interverranno in seguito: è ancora basata sull'esplorazione di mezzi tecnici che Battiato sta imparando a manipolare. Il prog nel 1973 in Italia è già un genere codificato, con un suo mercato: non è (sempre) roba raffinata per palati fini, c'è un pubblico vuole essere suggestionato da testi fantascientifici e musiche arcane, è una musica che guarda al futuro ma si carica anche di una gran voglia di riscoprire gli incanti del passato, un'estetica pagana o medievalista che di lì a pochi anni trasformerà Angelo Branduardi in una recalcitrante rockstar da stadio. Battiato a Milano quest'aria la respira, molti anni dopo riprenderà con affetto Impressioni di settembre della PFM, che era il lato B di un altro pezzo di ambientazione medievale, La carrozza di Hans. Insomma l'idea di inserire sonorità arcane e patinate di antico in un disco fantascientifico come Pollution in quel periodo sembrava quasi ovvia ed è il felice paradosso che rende ancora straordinariamente ascoltabile il secondo lato di questo disco strambo: il synth non è un magico congegno che suona qualsiasi cosa tu pretendi, ma un strumento arcano a cui l'artigiano deve strappare faticosamente qualcosa di ascoltabile. Prima FB crea l'atmosfera con chitarre arpeggiate e voci riverberate; poi canta le due strofette inquietanti (che sono davvero la cosa più 'prog italiano' che ha scritto), e infine trasforma la canzone una ipnotica tarantella in cui strumenti tradizionali e sperimentali si sovrappongono senza mescolarsi. Se la riascolto in cuffia a tarda ora, un brivido tuttora mi coglie. 

1993: Delenda Carthago (#115)

Ecco una canzone di Battiato che avrebbe potuto assolutamente scrivere Sgalambro: e invece a quanto pare ai tempi di Caffè de la Paix i due ancora non si conoscevano. Eppure i legami tra questo disco e il successivo Ombrello sono talmente forti che non ci resta che considerare lo Sgalambro lirico una specie di evoluzione/involuzione del Battiato lirico. C'è già il riutilizzo del passato con funzionalità metaforiche (l'imperialismo Romano come figura di quello che Bush padre aveva guidato in Iraq nella prima guerra del Golfo); ma a distoglierci dal quattro complessivo c'è il gusto per i dettagli preziosi (il vino fruscia in calici screziati). Davvero, lo si direbbe un testo di Sgalambro, non fosse che quando Sgalambro di cimenterà con lo stesso argomento riuscirà a fare di peggio (vedi il brano qui sotto). Bizzarra per gli standard battiateschi la scelta di impostare tutta la canzone su una progressione di quattro accordi ascendenti, col risultato di farci aspettare per tre minuti una risoluzione che non arriva (i barbari?)


1996: Decline and Fall of the Roman Empire (Battiato/Sgalambro, #243)


Si diceva proprio ieri di come i barbari molto spesso non si rendano conto di essere tali, e si convincano di essere i difensori di un impero che in realtà li ha fatti entrare qualche anno prima per ovviare a emergenze che essi scambiano già per un'età dell'oro: si citava il grande generale Stilicone, che qui Sgalambro definisce perfido, e va bene Manlio, difendilo tu un mezzo impero senza commettere qualche perfidia. Ma soprattutto: ti credi più classico di lui? Non ti rendi conto che stai collezionando citazioni come un pastorello che metta assieme una montagnola di cocci d'anfora, cos'è che stai dicendo esattamente, come fanno le ciliegie di un giardino a "sprizzare il loro succo" sulla tua "faccia slavata", che razza di ciliegie si spruzzano autonomamente sui passanti, come fai a svicolare "per viuzze piene di profumi e unguenti" mentre leggi "l’Anatomia dell’urina di James Hart assieme al Vangelo secondo San Matteo", fammi capire, passeggi leggendo due libri alla volta, non è che ogni tanto vai a sbattere contro cesti di ciliegie e nemmeno te ne accorgi? "Qui a tre passi la decadenza avanza", tesoro, ma davvero non capisci che la decadenza sei tu? Decline and Fall, scritto in inglese perché fa più citazione colta, non è mai diventata una vera e propria canzone, ma per qualche motivo Battiato ha voluto comunque includerla nel singolo di Strani giorni in una versione demo fatta in casa che contiene una traccia di drum machine così approssimativa da risultare irresistibile, perché mentre sbagliare un fill con una batteria è normalissimo, per riuscire a sbagliare con una batteria programmata ci vuole dell'impegno, uno si domanda seriamente come Battiato ci sia riuscito. 

1999: La canzone dei vecchi amanti (La chanson des vieux amants, Brel/Jouannest, Del Prete, #14)


Ma c'è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. La canzone dei vecchi amanti è la quattordicesima più ascoltata di Battiato su streaming – la prima in assoluto tra le cover, tre posizioni sopra Ruby Tuesday. È insomma un brano che piace molto e che un sacco di gente va a riascoltarsi – non necessariamente battiatisti: mi sono fatto questa idea, che La canzone sia un brano trasversale che piace anche a chi FB non lo conosce o non lo apprezza. Viceversa chi è più abituato al Battiato classico può trovarsi a disagio, l'idea di due amanti che invecchiano assieme è l'opposto di quasi tutto il concetto di Fleurs (anche se Battiato e soprattutto Sgalambro non hanno evitato l'argomento, vedi ad esempio Tutto l'universo ubbidisce all'amore). È l'unica cover di Jacques Brel, il che se da un lato dispiace, dall'altro sembra inevitabile: le canzoni di Brel richiedono un tipo di esecuzione teatrale che non era nelle corde di FB (è il probabile motivo per cui si è tenuto a rispettosa distanza dal catalogo di Gaber). Anche in questa occasione, Battiato si trova davanti un originale in cui su un sottofondo di pianoforte e basso, la voce fa quasi tutto: sussurra, piange, declama, invoca, la voce di Brel riempie la canzone come un mattatore il palcoscenico. Battiato se ne guarda bene e si mantiene su un range più limitato: per riempire gli spazi vuoti coinvolge persino una fisarmonica (un bandoneon?) che accresce una certa sensazione di tango, che poi in Italia è davvero una musica per vecchi amanti. Questa necessità di smussare gli angoli lo porta a scegliere la traduzione di Del Prete, meno concreta rispetto a quella di Bardotti usata da Patty Pravo o Rossana Casale. Per fare un esempio, Bardotti cominciava così: "Ci sono stati giorni grigi, tanti anni insieme è la pazzia. Hai fatto già mille valigie ed io ti ho scritto mille addii", Del Prete invece: "Certo ci fu qualche tempesta, anni d'amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta. Mille volte io me ne andai via". Niente valigie, niente pazzia, niente giorni grigi (che suona molto più concreto e deprimente di "qualche tempesta". È una versione più tenue, mettiamola così, meno vicina all'istrionismo di Brel, più affine al temperamento contemplativo di Battiato. E alla fine la sua versione è molto più ascoltata delle altre, quindi probabilmente aveva qualche ragione lui. Io ammetto di saltarla quasi sempre, che senso ha? Piuttosto riascolto Brel in purezza. Non mi ero neanche accorto che verso la fine Battiato passa al francese, oh mon amour.

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52. Hai mai veduto a Borgopanigale un'aurora simile alla boreale

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, ma anche delle canzoni di Manlio Sgalambro, di Giusto Pio, con qualche incursione occasionale delle canzoni di Jacques Dutronc, di Ennio Morricone, perfino delle canzoni di Maurizio Costanzo].  


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1967: Il mondo va così (Buffoli, Dutronc, Lanzmann, Pagani, #222)


Trecento milioni di carri armati, ed io che sto di qua. Col materasso di gomma piuma, col giradischi e il bagno di schiuma. Il mondo va così... Ma non finisce qui. 

Il mondo va così (da non confondere con Ecco com'è che va il mondo) è una delle cover più interessanti non solo del Battiato anni Sessanta, ma di Battiato in generale. Nel 1966 Jacques Dutronc aveva scalato le classifiche francesi a sorpresa con Et moi et moi et moi, una simpatica canzoncina di sapore boris-viannesco che esprimeva il senso di vertigine dei borghesi francesi della prima generazione postcoloniale: il mondo sta diventando immenso, i cinesi sono addirittura "settecento milioni", e noi e noi e noi con le nostre macchinine e i nostri cagnolini, che aspettiamo l'assegno a fine mese "comme un con de parisien". E qui si vede come sia più complicata di quel che sembra, l'arte di tradurre una canzone in un altra lingua: la canzone nasce dal senso di frustrazione di un ex impero che si riscopre al margine del mondo, ma noi italiani in quel margine ci siamo sempre stati (e se avevamo un impero lo abbiamo completamente rimosso). Un'altra cosa quasi impossibile da trasporre in italiano è l'attitudine di Dutronc, quel "ci penso e poi me ne dimentico, c'est la vie", non a caso blasé e nonchalance sono parole che non traduciamo. A questo punto un'opzione può essere: prendere la musica e scrivere un testo completamente diverso – si ottiene così ad esempio E voi e voi e voi di Gene Guglielmi. Herbert Pagani e Vittorio Buffoli optano per una soluzione diversa, che si adatta così tanto alla sensibilità di Battiato che viene da pensare che quest'ultimo abbia avuto qualche responsabilità  (anche se non poteva risultare autore perché non ancora iscritto alla Siae). Tutt'altro che blasé, Battiato assume lo stesso atteggiamento savonarolesco già intravisto nel primo singolo, La torre, con quel "non finisce qui" che a noi italiani ricorda facilmente il "Verrà un giorno" di fra Cristoforo. Perché alla fine il giorno viene: l'altra novità rilevante rispetto all'originale di Dutronc è la prospettiva apocalittica. È una sfumatura espressa non soltanto con le ultime parole del testo ("il mondo va così, forse finisce qui"), ma soprattutto con la musica: la canzone di Dutronc era statica, una serie di strofe ognuna uguale all'altra come i giorni del parigino medio. La versione di Battiato è incalzante come un mondo che ci sta cambiando sotto i piedi: il ritmo accelera, la tonalità sale, quando il livello si fa insostenibile un intermezzo swingeggiante riporta la canzone al punto di partenza, ma dura solo il tempo di prendere fiato. C'è già Franco Battiato, in questa canzone: c'è la sua vocazione a complicarsi la vita prendendo una filastrocca semplice e trasformandola in un'opera di due minuti, che troviamo in tutti i 45 giri degli anni Sessanta tranne nell'unico che riuscì a piazzare in classifica (È l'amore). C'è il dito puntato su una civiltà al tramonto, e l'ammissione di non potersi chiamare fuori. Nel frattempo i cinesi sono più o meno raddoppiati, e Il mondo va così suona ancora più attuale.


1980: Frammenti (Battiato/Pio, #94)

Perché, bella ragazza padovana, ti vuoi fare una comune giù in Toscana? A volte mi domando se Patriots non sia il disco fondamentale non dico per "capire Battiato" (il presupposto sarebbe che non c'è poi molto da capire), ma per interpretarlo in senso postmoderno. In Patriots Battiato gioca ancora allo scoperto, in seguito sarà più sgamato; però se conosci questo disco i successivi li ascolti in un modo diverso: sai di avere davanti un manipolatore, un interpolatore, uno che sta giocando. In Patriots ritorna quel procedimento di cut-up che aveva adottato a partire da Clic, quando i suoi dischi cominciarono a somigliare a un flusso di trasmissioni radiofoniche captate a caso, anche se stavolta il collage è confinato al livello testuale (la musica, nel caso di Frammenti, è il solido rock che Radius ha portato nel progetto con l'Era del cinghiale bianco, sporcato appena dai synth ancora analogici di Battiato). Tutto è citazione, brandello strappato da un palinsesto, che accanto ad brandelli lascia intendere barlumi di significato probabilmente illusori ("i cipressi che a Bolgheri alti e schietti vanno da San Guido in duplice filar hanno veduto una cavalla storna riportare colui che non ritorna"). La cultura è il più delle volte scolastica, c'è Proust ma più spesso Carducci ed è tutto mescolato a banalità colloquiali ("che gran comodità le segretarie che parlano più lingue"). Non è che Battiato non abbia niente da dire, ma è notevole come riesca a dirlo con le parole altrui, anche lise dall'uso.

1996: Memorie di Giulia (Battiato/Sgalambro, #163)

La mia memoria trae fuori i ricordi da un cappello, senza che io sappia perché questo e non quello. Memorie di Giulia è uno dei primi brani composti per L'imboscata (era già pronto nel maggio 1996, quando Battiato lo eseguì sul sagrato del Duomo di Noto). È uno dei più simili ai brani dell'Ombrello, ovvero la musica per quanto ispirata è concepita in funzione del testo di Sgalambro. Il quale testo, purtroppo, è terribile: la classica miscela sgalambriana di immagini un po' kitsch, vecchia scuola ma efficaci ("O memoria perché mi inganni, perché come se fossi vento mi butti questa polvere negli occhi") e comicità involontaria ("accarezzavo le tue ginocchia e il tuo semplice cuore era contento"). Il tutto rifacendosi a Leopardi, come se fosse facile, e in effetti è facile rifarsi a Leopardi e rendersi ridicoli. Probabilmente non è né il tempo né il luogo, ma prima o poi dovremo affrontare questo aspetto: Sgalambro è un cattivo poeta. Ce ne sono sempre stati, ma a volte mi domando se non sia inevitabile trovarne sempre di più, man mano che la tradizione letteraria diventa più pesante da portare sulle spalle, ovvero, mettetevi nei suoi panni: ti è morta un'amica adolescente. Ne vuoi parlare. Giusto, in effetti la poesia serve a questo. Il problema è appunto che in mezzo c'è Leopardi. Puoi far finta di non aver mai letto A Silvia? No, non puoi. Puoi citare Leopardi senza sembrare un piccione su un monumento? Nemmeno. E quindi che fai? La maggior parte di noi smette di scrivere poesie, è andata, ormai gli ultimi posti sono stati presi, Sereni, Zanzotto, Sanguineti, capolinea. Chi rimane? Gli ignoranti veri, gli imbecilli e gli incoscienti. Sgalambro non era affatto ignorante e nemmeno imbecille. Probabilmente Battiato amava la sua incoscienza. Dovrei amarla anch'io, ogni tanto ci provo. In attesa dei barbari che distruggano tutto e poi si può ricominciare da capo con la poesia, la musica, ecc. (Molti barbari non sanno di esserlo, credono anzi di essere sulla frontiera ad aspettarli, tipo Stilicone, o Baricco. O Sgalambro, appunto). 


2015: Se telefonando (Costanzo/De Chiara/Morricone, #35)

"Ho voluto rendere giustizia a quella canzone. Quando venne pubblicata io lavoravo in corso Vittorio Emanuele, a Milano. La sentii e ne rimasi sconvolto e affascinato. E fui molto deluso quando scoprii che era sparita dalle classifiche poco dopo essere entrata soltanto al quindicesimo posto. Una vera ingiustizia". Vedi come mille soddisfazioni nella vita non riusciranno mai a ripagarti di un singolo torto subito nella giovinezza? Voglio dire, come si fa nel 2015 a essere arrabbiati perché nel 1966 Se telefonando non aveva venduto molto? E non importa cos'è successo dopo – le mille volte che l'abbiamo sentita in radio e a techetechté, le ottocentomila cover tutte di successo (quella di Battiato sta tra i Delta Vu e Nek, e funziona come richiamo all'ordine: no, non è un ballabile, è un Lied, un capolavoro minimalista di tre note, una strofa e due ritornelli). Ma non importa, nel 1966 non piaceva abbastanza e questa cosa cinquant'anni dopo è ancora per Battiato una vergogna. Forse ogni uomo di successo continua a struggersi per una rabbia patita da ragazzino? Forse nello stesso Battiato, celebrato maestro, continuava a scalciare il fattorino che consegnava i pacchi di Nuova Enigmistica Tascabile, con allegato i 45 giri incisi da lui. 

(Se telefonando è un paradosso, una persona che grida a un'altra persona la sua impossibilità di comunicare con lui, l'istantanea di un pusillanime che non ha il coraggio di lasciare una persona neanche al telefono, una canzone che è impossibile non immaginare rivolta a sé stessi, perché la persona a cui è destinata non è previsto che l'ascolti. L'esatto opposto della protagonista di Insieme a te non ci sto più, che ti lascia col sorriso in faccia e vuole pure convincerti che non ti sta facendo male. Battiato ha cantato meglio Insieme a te, ma è più facile immaginarselo mentre non ti telefona e si strugge dentro). 

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