69. I desideri non invecchiano quasi mai

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, un futile torneo di canzoni con cui inganniamo il tempo mentre l'Italia s'inabissa come Atlantide – cosa resterà di noi? Del transito terrestre? Magari una o due belle canzoni].

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1983: La stagione dell'amore (#8)  


Riflettendoci, La stagione dell'amore potrebbe essere "la" canzone di Battiato. Che ne ha scritte di più popolari, ma non poi così tante di più, e soprattutto le altre canzoni sono famose per un arrangiamento, per un ritornello, per il lessico peculiare, per i toni d'invettiva, ecc. La stagione dell'amore non ha un lessico peculiare, non è famosa per l'arrangiamento ma nonostante l'arrangiamento – non posso dimostrarlo, ma credo che l'idea mentale che l'ascoltatore ha della Stagione dell'amore somiglia più alla versione live di Unprotected che a quella elettropop di Orizzonti perduti: anzi a una certa distanza la prima sembra una cover situazionista della seconda. La stagione dell'amore è famosa perché è una bella canzone con un bel testo, fine. Quando altre canzoni di Battiato avranno bisogno di essere contestualizzate per essere apprezzate, credo che La stagione dell'amore continuerà a piacere per un po' perché è fatta di cose semplici dosate con molta cura, cose che funzionano per secoli – l'accenno di 50's progression nella strofa, e poi quel passaggio dal Re al La- sul "Non rimpiangerle" che è in effetti una delle cose che rimpiango di più di Battiato, un salto di accordo che con me funziona sempre benissimo e ogni volta che funziona mi ricorda Battiato. Molto più curioso l'inserimento dell'inciso ("Ancora un altro entusiasmo...", che parte da un Si bemolle piuttosto inatteso ed è costruita attorno a una progressione I-II-III (Sib-Do-Re) che correggetemi se sbaglio, ma non è affatto tipica né nella tradizione melodica italiana, né nel rock e men che meno nella musica classica, ma ha un caratteristico sapore disco-music. Questa cosa a livello subliminale ci fa immaginare che il protagonista della canzone (una persona che non vuole accettare l'invecchiamento dei suoi desideri) si imbuchi in una discoteca per clientela un po' agée, se non proprio un nightclub, magari per scoprirvi che gli orizzonti perduti non ritornano mai. Il che contraddice meravigliosamente l'assunto di partenza: come ogni grande canzone, La stagione è un meccanismo ambiguo. 


1993: Atlantide (Battiato/Wieck, #72)


A volte mi domando se non sto influenzando il torneo, che in effetti fin qui vede una netta prevalenza del Battiato postmoderno che mi piace di più (1979-1985) a scapito di quello precedente e successivo. Può benissimo darsi (così come può darsi che io abbia semplicemente i gusti della maggior parte degli ascoltatori) ma ecco un'eccezione che conferma la regola: Atlantide in assoluto è uno dei suoi brani che capisco di meno, e che a ogni ascolto mi fa domandare: ma perché? Che bisogno c'era di incidere questa cosa? Su un accordo solo, Battiato perfeziona il suo stile salmodiante raccontando la storia di un continente perduto e terribile si insinua nell'ascoltatore razionalista il sospetto che per lui non sia una leggenda ma una cosa successa davvero. Lascia perplessi anche il video ufficiale, in cui Battiato anima i suoi ritratti con una tecnica digitale che anche nel 1993 non doveva apparire lo stato dell'arte, diciamo. 

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68. Facciamo un po' di largo con un'altra guerra

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi una delle poche cover sopravvissute si batte contro una rappresentante di uno dei due dischi – a sorpresa – più votati].

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1980: Venezia-Istambul (Battiato/Pio, #48)


Che scherzi gioca all'uomo la Natura. Sono ancora relativamente sbalordito dall'exploit di Patriots, che non ero nemmeno sicuro fosse uno degli album più popolari di Battiato e invece com'è come non è ha portato il 100% delle sue sette canzoni al secondo turno. Questo, ricordiamoci, è un fattoide (la Gara è un sondaggio a cui partecipano meno di cento persone in tutta FB): invece è un fatto che Patriots subito vendette quarantamila copie, e sembrava già un successo; poi arrivò La voce del padrone e ne vendette un milione. Patriots insomma è la camera di incubazione del successo, il momento fondamentale nella carriera di un artista in cui capisce cosa la gente vuole, ma attraverso un processo di tentativi ed errori di cui dovrebbero restare tracce – benché non sia poi così facile trovare tutti questi errori in Patriots. È anche il disco per il quale si può parlare di successo postumo, ovvero alcuni brani di Patriots la gente cominciò a capirli in seguito (Nevski il caso più classico) e probabilmente anche l'apparente cinismo di Venezia-Istambul nel 1980 doveva lasciare perplessi molti ascoltatori. È il disco dei montaggi postmoderni, ma riascoltandolo è anche quello in cui Battiato scopre, fin dal titolo, quanto sia efficace giocare col merchandising delle ideologie, tutti gli slogan e le spillette lasciati sul terreno da battaglie culturali che dopo l'improvviso ritiro delle parti in conflitto cominciavano a diventare incomprensibili. I Sex Pistols sfoggiavano le svastiche, Battiato chiamava i suoi patrioti alle armi e proponeva, con espressione ieratica, di far largo con un'altra guerra al Sol dell'avvenire. Questo un anno prima che i DAF cantassero Der Mussolini, due anni prima che i CCCP cantassero CCCP, insomma abbastanza presto.  

1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)


Dal 1999 in poi, Franco Battiato ha voluto essere anche un interprete, incidendo tre dischi di Fleurs a cui vanno aggiunte altre cover lasciate qua e là nella sua discografia. Su 256 brani, una buona quarantina erano reinterpretazioni; molte con un ranking insospettabilmente alto (il ranking, ricordo, è basato unicamente sul numero di ascolti sulla piattaforma Spotify): solo tre brani hanno resistito alla falce del primo turno: Ruby Tuesday, Amore che vieni amore che vai e Te lo leggo negli occhi. Tutti brani del primo Fleurs (poi ci sarebbe Nomadi, che a suo modo è una cover anch'essa).  Insomma il Battiato interprete piace molto di più agli utenti spotiffari che agli elettori della Gara. Questo a pensarci ha un senso: le cover funzionano molto bene su Spotify, che te le mostra ogni volta che cerchi il brano originale, stimolando la tua curiosità, per cui è probabile che qualche migliaio di ascolti siano arrivati da gente che Battiato lo conosce poco o nulla (si aggiunga che Ruby Tuesday è l'unica cover di Battiato che ha avuto una risonanza internazionale, quando fu inserita nella colonna sonora di Children of Men). Laddove un torneo di canzoni di Battiato seleziona soprattutto gente appassionata di Battiato, in linea di massima più compositore che interprete. Questo non toglie che Battiato sia stato un interprete veramente originale – forse l'unico italiano di sesso maschile a concepire negli ultimi trent'anni l'interpretazione come reinvenzione (ok, Mario Biondi mi sembra un campionato diverso), che Fleurs stia tra i suoi quattro o cinque dischi meglio riusciti in assoluto, e che la sua Ruby Tuesday non strameriti il suo diciassettesimo posto. Forse anche qualcosa di più. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)

A proposito del Battiato interprete: questa me la sono proprio lasciata sfuggire. A mia discolpa, faceva parte del 33 giri abortito nel 1969 che Battiato non volle mai pubblicare, anche in seguito: in qualche fortuito modo fu rilevata dall'Armando Curcio Editore che nel 1982, quando Franco Battiato vendeva come il pane, mandò fuori un disco che se non è un bootleg poco davvero ci manca. Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite's Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l'oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli(*), Battiato ha l'impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio. Sarei tentato di considerarla la migliore cover italiana di Rain, o perlomeno se la gioca con Dalida (e forse è più ispirato da Dalida che da Roussos). Il brano era assolutamente nelle sue corde, e non si capisce davvero perché non abbia provato a inciderlo. Nel 2008 si ricorderà degli Aphrodite's Child riprendendo It's Five O'Clock, neanche a farlo apposta un'altra Pachelbel. Ma era meglio questa.

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67. L'animale più domestico e più stupido che c'è

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due brani pregni di memorie dell'infanzia, ma non è una grande coincidenza, FB ci è tornato spesso, e mi domando se non mi potrei concedere a mia volta un'analoga digressione sui fatti miei, ad esempio sapete che per molti anni ho considerato la parte strumentale di Sequenze e frequenze come la coda di Aria di rivoluzione, perché così era stata sventatamente ritagliata nella cassettina di Feedback che ero riuscito a procurarmi? Una scelta che ancora oggi non riesco a capire, cioè nel momento in cui la BlaBla non ristampa più i vecchi dischi e la Ricordi ti chiede un'antologia con le cose più presentabili, tu tagli la parte cantata di Sequenze e frequenze? Per risparmiare cosa? Spazio per Rien ne va plus? Roba da matti. E inoltre: sapete qual è stata la prima canzone che ho cantato davanti a un pubblico? La domanda, mi rendo conto, sarebbe interessante solo se in seguito io avessi continuato a cantare davanti ad altri pubblici, ma comunque mio cugino grande aveva gli spartiti ufficiali di Patriots e siccome al tempo suonavo al massimo il flauto Yamaha (ma forse neanche quello) decise che io avrei cantato. Perché per esibirsi davanti ai parenti scelse proprio Arabian Song non lo so, forse era facile, la parte di tastiera intendo. La parte vocale non esattamente. Gli strumenti erano: tastiera Gem, violino, forse chitarra, ma solo due di questi tre, perché i miei cugini erano due e io cantavo soltanto, in un arabo traslitterato dallo spartito che tuttora ignoro cosa significhi, anche perché mica posso andare da un mio studente a chiedergli senti ma cosa si intende abitualmente per figgiabalù figgiabalì, come minimo nel frattempo gli ho offeso la patria, i parenti, la divinità. L'esibizione non so come andò, di solito dopo tre volte che cantavo una canzone diventavo rauco, e intonare "la mia classe fu allevata con il latte di una capra" mi lasciava perplesso. Però ancora oggi ricordo benissimo che gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo, simili ai segnali orario delle radio, grazie cugino grande].

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1974: Sequenze e frequenze (#144)

Sequenza e frequenze per Battiato è un nuovo inizio, qualcosa di cui in seguito forse ebbe pudore e sentì la necessità di prendere le distanze – non solo in Feedback, ma anche nelle uscite in inglese, la parte iniziale era stata soppressa e la parte strumentale ricucita come coda di Aria di rivoluzione. Solo a partire da Giubbe rosse la maestra che dava ripetizioni viene rivendicata, e non è un caso che Giubbe sia anche il disco del ritorno in Sicilia. Vent'anni più tardi, al suo primo lungometraggio (Perdutoamor) vorrà ancora mostrarci un bambino che fissa il mare. Sicilia, infanzia, memorie, mare: Battiato non aveva mai parlato di queste cose prima di Sequenze e frequenze. Solo sei brani degli anni pre-cinghiale bianco hanno passato il turno: La convenzione, Areknames, Plancton, Sequenze e frequenze, Aria di rivoluzione e Propriedad prohibida. Il ranking non li aiutava: è un Battiato più famoso che ascoltato (e non è neanche così famoso). 


1981: Arabian Song (#80)

Qual è l'album di Battiato che è andato meglio al primo turno? Mi sembrava una domanda abbastanza scontata, e invece è successo questo: tutti i brani di Patriots hanno vinto le rispettive batterie, e quindi per ora La voce del padrone e Patriots sono affiancati in prima posizione. Nel frattempo ho controllato: il ritornello recita: "Ha detto il maestro del villaggio: è stata la montagna nella montagna [ma questo forse è un superlativo, come per dire la più grande di tutte le montagne]. La pace su di voi e su di te / Adesso io abito". Battiato ha più volte rivendicato la propria levantinità, affermando di riconoscere più facilmente nel Nordafrica o in Medio Oriente fisionomie simili a quelle dei suoi famigliari. È il motivo per cui l'arabo fa capolino spesso in canzoni di ambientazione siciliana (ad es. Veni l'autunno). Fa sorridere che si tratti di un arabo maccheronico, una spia del fatto che ogni radice è sempre una ricostruzione a posteriori. 

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66. Dalla pupilla viziosa delle nuvole

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il confronto più equilibrato di tutti i trentaduesimi, e un brano fuori concorso]. 

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1984: Chanson egocentrique (Battiato/Messina/Tramonti, #32).

Chanson egocentrique alla fine è una delle poche canzoni battiatesche della prima metà degli anni Ottanta che abbiano un mood 'Europa, prima metà anni Ottanta', uno dei casi in cui Battiato potrebbe essersi veramente detto: cosa ascolta la gente in radio oggi? C'è una progressione tipica di quegli anni (ma è anche una riedizione di Areknames, è da lì che arriva quel senso di compimento autoipnotico quando alla fine del giro si ritorna su re maggiore). C'è anche una specie di rap in inglese/tedesco, molto trasognato, e credo che saremmo sulla pista sbagliata se pensassimo che si tratti di un addobbo finale: secondo me la canzone è cominciata così, da una serie di parole straniere compitate a caso. Non sarebbe la prima né l'ultima.  

(Intervallo autoreferenziale: un paio d'anni dopo cominciai a farmi insegnare gli accordi di chitarra, appena ne seppi tre cominciai a improvvisare canzoni in un inglese immaginario di cui molto mi vergognavo, il che non m'avrebbe impedito di continuare a salmodiare questi prisencolinensinainciusol privati fino a vent'anni suonati, che se penso ai miei coinquilini tuttora meco mi vergogno. Poi smisi perché ormai sapevo troppo inglese per non sentirmi ridicolo, però ecco, smisi anche progressivamente di comporre canzoni. Stacco).

Qualche mese fa mi sono messo a guardare 33 giri Italian Masters e ho scoperto che i più grandi cantautori italiani, anche insospettabili, facevano la stessa cosa: che insomma dai Settanta in poi l'inglese diventa la lingua mentale della musica (quella che nel Settecento era l'italiano, e bisogna immaginare i compositori tedeschi improvvisare versi con sillabe italiane a caso stile Bohemian Rapsody). Questo accade anche se nessuno l'inglese lo sa, anzi accade proprio perché nessuno ancora lo sa, è qualcosa di analogo alla fase della lallazione infantile (il momento in cui il bambino comincia ad articolare sillabe a caso senza necessariamente veicolare significati, soltanto per sperimentare la produzione di suoni).

Questo inglese immaginario è un idioletto privato che consente ai compositori di mettere insieme note e accordi, dopodiché, quando la musica più o meno è pronta, anche il testo comincia a prendere forma. Il passaggio dall'inglese immaginario all'italiano è molto brusco, perché le due lingue hanno veramente poco in comune dal punto di vista prosodico. A volte c'è una fase intermedia in cui il cantautore passa dal suo inglese immaginario a un inglese 'vero', lo scrivo tra apici perché non fidandosi (giustamente) della propria competenza linguistica, il cantautore non mette insieme le parole, ma incastra frasi inglesi che conosce già, dall'esiguo campionario di frasi che conosce: la maggior parte sono versi di altre canzoni (in Chanson Battiato riprende addirittura Prehistoric Sound degli Osage Tribe). Il citazionismo insomma non è sempre necessariamente una strizzata d'occhio all'ascoltatore medio-colto: a volte è l'unica soluzione per trovare qualcosa che suoni bene sulla melodia già composta. È una delicata fase di cristallizzazione in cui se ti capita di ripetere troppe volte una qualsiasi scemenza (che ne so, another race of vibration), non te ne liberi più, ormai fa parte della canzone, toglierla sarebbe come togliere una nota o un accordo. Il risultato è una macedonia che a volte trattiene un contenuto lirico, o perlomeno il cantautore ne è convinto e se è bravo riesce a convincere anche l'ascoltatore, purché non conosca troppo l'inglese 'vero'. Non ha senso e allo stesso tempo capiamo tutti cosa ci vuole dire, tranne ovviamente gli anglofoni che devono rimanerci come... voi come ci rimanete davanti a Bohemian Rhapsody? A me confesso dà un certo fastidio, non posso farci niente. 


1996: Strani giorni (Battiato/Sgalambro, #33).

Nulla si crea, nulla si distrugge, e forse dopo una certa età non si inventa neanche nulla di particolarmente nuovo. Quando mette assieme Strani giorni, FB sta semplicemente riscoprendo un procedimento di montaggio che aveva già usato in vari momenti della sua carriera – persino negli anni Sessanta ogni tanto gli capitava di 'montare' una canzone con pezzi di altre canzoni, penso a Occhi d'or – poi ovviamente c'è la fase collage, Ethika fon ethica, ma altri collage arrivano nel decennio successivo, ad esempio Temporary Road. Dunque perché questo procedimento, che fino a quel momento mi lasciava divertito e in certi casi persino ammirato, proprio a partire da Strani giorni mi risulta frastornante? È responsabilità di FB o è colpa mia? Può darsi che nel bel mezzo degli anni Novanta quello che Battiato aveva iniziato pionieristicamente a congegnare vent'anni prima fosse diventato un procedimento fin troppo banale: qualcosa che tra l'altro le tecnologie ormai consentivano di farsi in casa (e Battiato è stato il primo ad approfittarne: la sua musica dai Novanta in poi è particolarmente 'fatta in casa', anche se non sembra). Questo m'induce a considerazioni sulla futilità dell'arte contemporanea, ho appena letto di un tizio che ha denunciato Cattelan (l'artista) perché ha osato attaccare al muro una Banana col nastro adesivo, pare che lui l'abbia fatto qualche anno prima e quindi, a parte la questione della proprietà intellettuale (c'è gente che reclama il possesso dell'idea di attaccare frutta alla parete di una mostra d'arte) implica che l'opera di Cattelan sia molto meno interessante – e in effetti anche una copia perfetta della Gioconda dipinta nel 2020 non è meno interessante della Gioconda originale? Boh, viviamo in strani giorni. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1971: Prehistoric Sound (Conz / De Joy)

Prehistoric Sound è la versione inglese di Un falco del cielo, primo singolo degli Osage Tribe, che uscì con il lato A in italiano e il B, appunto, in inglese, con un testo molto diverso: niente più nativi americani, ma uomini preistorici intorno al fuoco "all'età dei dinosauri", questa cosa forse negli anni Settanta si poteva dire impunemente. Ma in linea di massima la versione inglese aveva questo vantaggio, ché non si capivano le parole e quindi sembrava più interessante. Questo singolo fu la prima collaborazione tra Battiato, Pino Massara e Gianni Sassi (la copertina del 45 giri era una bambola con la bocca insanguinata!), ma non è affatto chiaro quale sia stato il grado di coinvolgimento di FB: se è solo passato per dare una mano, anzi una voce a una band genovese che aveva già un suo stile e un suo suono (un suono che si metteva alle spalle il prog e viaggiava verso orizzonti più tribali, qualcuno avrà senz'altro fatto il nome di Adam and the Ants), oppure se per qualche tempo ha veramente pensato di essere il cantante del gruppo e magari ha persino collaborato alla canzone ("Ed De Joy" è uno pseudonimo di casa Bla Bla, lo usava Massara ma poteva adoperarlo anche Battiato). Il fatto che nel 1984 abbia ripreso una strofa di Prehistoric per lo scat in inglese in Chanson Egocentrique potrebbe far pensare che lo considerasse tutto sommato materiale suo – senonché, FB ha sempre usato anche il materiale degli altri con molta disinvoltura. 

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65. Una signora vende corpi astrali

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato; per la precisione è il primo trentaduesimo di finale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, all'insegna dell'ambiguità: è giusto conciarsi da bonzi per entrare a corte degli imperatori? Ci stanno bene i budda sopra i comodini?]. 

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1979: Magic Shop (Battiato/Pio, #64)

Da un punto di vista armonico, Magic Shop potrebbe essere la canzone più semplice mai scritta da Battiato – tre accordi in maggiore, La Mi Re, sempre gli stessi – gli accordi di Baba O'Riley, di Sweet Jane, di Changing of the Guards; gli accordi su cui Vasco Rossi nel 1981 costruirà il suo impero. La progressione più epica del rock anni '70, nelle mani di Battiato e dell'incredibile gruppo convocato negli studi Radius, diventa un languido lamento: al posto del ritornello, Battiato vocalizza oscillando a volte di un tono a volte di un semitono, doppiato dalla chitarra di Radius: tanto basta per aggiungere quel tocco di querulità medio-orientale. Ma è il terzetto Radius-Farmer-Esposito a riuscire nell'impresa di non annoiare suonando più o meno la stessa cosa per più di tre minuti – un problema che in quei tardi anni '70 ancora Battiato non aveva cominciato a porsi. 


1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

È prassi, presso i commentatori di Battiato, ricordare che il gesuita Matteo Ricci (利玛窦) si vestì effettivamente come un bonzo nel tentativo di entrare a corte dell'imperatore Wan Li (万历). Le cose sono in realtà assai più complesse – tanto per cominciare, cos'è un bonzo? È un termine abbastanza vago, che spesso traduciamo come 'monaco' e si riferisce a figure di eremiti o predicatori buddisti. Ricci si vestì effettivamente come un bonzo, seguendo il principio del suo superiore, Alessandro Valignano: "farsi cinese con i cinesi". Quello che i battiatologi di solito non scrivono, del resto per arrivarci bisogna effettivamente sciropparsi certe storie dei gesuiti in cinque volumi, è che finché restò vestito come un bonzo Ricci non fece un solo metro in direzione della Città Proibita. Fu l'incontro con lo studioso Qu Taisu (瞿太素), molto incuriosito dalla matematica euclidea che Ricci insegnava, a mettere in moto le cose: Qu Taisu spiegò a Ricci che i bonzi non erano generalmente stimati dalla classe dirigente, che spesso li liquidava come parassiti e imbroglioni (se vogliamo cercare un parallelo con l'Europa, lo possiamo trovare in una certa retorica anti-frati che serpeggiava tra Medioevo e Riforma). Se Ricci voleva davvero entrare a corte, doveva vestirsi da intellettuale, viaggiare in lettiga ed enfatizzare le proprie conoscenze scientifiche, che ai mandarini potevano interessare. Tutto questo per dire che insomma, vestirsi da straccioni non è necessariamente la tecnica giusta, e Battiato ne sapeva qualcosa. Battiato negli anni Settanta si era conciato nelle maniere più inverosimili, e qualche gradino del palazzo dell'Impero era riuscito anche a scalarlo. Quello che gli aveva dato da fare, per tutti i Settanta, era la cattiva fede necessaria. Il dover calarsi in una parte – la grande scoperta di David Bowie, il recitare sul palco: ci ha messo un po' di anni ad accettare che era parte del mestiere. Se poi qualcuno ha un'ipotesi sensata sulla vecchia bretone vestita da giapponese, io sarei molto curioso. Non riesco a non pensare a The Kick Inside, il primo disco di Kate Bush uscito nel 1978 con una grafica finto-giapponese e una proposta che non poteva lasciare FB indifferente: poteva apprezzarla o detestarla, ma non restare indifferente (per quel poco che ho trovato, l'apprezzava e forse ne era un poco intimorito). Ma è sicuramente una falsa pista, e poi KB può anche passare per bretone, ma vecchia nel 1981 proprio no. 

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Il catalogo dei santi ribelli è in libreria, e voi?

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Sembra proprio che stia facendo finta che non sia già uscito questo libro a cui lavoro alla fine da più di dieci anni. Non è esattamente così: volevo solo aspettare un'occasione buona, l'uscita di un articolo o di un'intervista che però non stanno uscendo perché, perché, non so neanche più perché. Bisogna avere pazienza con questo libro, è sempre stato difficile da portare in giro. Adesso comunque basta, lo lancio da qui con un articolo che mi hanno appena segato, in effetti a rileggerlo non è che ti fa correre in libreria con gli euro in mano ma vabbe', voi potete anche andarci con calma, magari nelle ore meno calde che ormai non saprei neanche quali sarebbero.


Pubblicare un libro sui santi non è stato semplice. Attenzione: non sto dicendo che è stato difficile da scrivere, perché in effetti no: i santi alla fine sono già materia di leggende (anche i più recenti), e si lasciano raccontare che è un piacere. Del resto è il motivo per cui ho cominciato, più di dieci anni fa: l’idea era quella di attirare i lettori su internet con una rubrica facile da scrivere e non troppo legata all’attualità. L’oroscopo, insomma: ma era già stato fatto. Il santo del giorno non è un genere altrettanto popolare, ma un suo pubblico di nicchia ce l’ha. È uno spunto perfetto per chi si annoia a scrivere sempre le stesse cose: ogni giorno del calendario ti propone un secolo diverso, una leggenda di martiri o una vicenda del novecento, una disputa teologica o un’apparizione misteriosa. Davvero, non è stato difficile scrivere storie sui santi. 

Pubblicarle in un libro, invece.

Non voglio accusare nessuno, se non me stesso: ho un debole per progetti letterari irrealizzabili. Gli scrittori di mestiere al giorno d’oggi sono molto concreti e fanno bene: lavorano sulle trecento cartelle, cercano storie in cui il lettore si possa identificare, investono molto nell’autobiografia perché è un modo di metterci la faccia. Io continuo a immaginare libri immensi in cui di autobiografico non c’è quasi nulla; libri in cui perdersi, scritti da autori collettivi che si nascondono a vicenda per un lettore che li tiene sul comodino e ogni tanto apre una pagina a caso e ci cade dentro. Ci avrei visto bene anche le illustrazioni, magari miniate a mano. A parte questi sogni, mi è capitato più di una volta di destare la curiosità di un editore. La rubrica andava avanti da anni, ovviamente non si poteva pubblicare tutto, ma se si fosse riuscito a selezionare diciamo trecento cartelle, perché no? 

Giuro: quando me lo proponevano non ho mai fatto il difficile. Ci ho sempre provato. Certo, bisognava lavorarci sopra. Su internet mi piaceva scrivere ogni pezzo con un taglio diverso: oggi un racconto, domani un saggio storico (diciamo un riassuntino di un saggio storico), la prossima settimana una teoria sul vangelo, e così via. Era divertente fingere di essere tanti autori diversi, ma quando si fa un libro tutta questa varietà deve ridursi. Bisogna trovare uno stile più uniforme, tagliare un sacco di cose e aggiungere raccordi necessari. Ci ho provato tante volte. Nei miei archivi ho bozze di libri dei santi ormai di otto, nove anni fa. Ci ho provato e ci ho riprovato e ogni volta, quasi all’ultimo momento, un editor mi diceva: mi dispiace, non se ne fa niente. 

Non sono sicuro del perché andasse a finire sempre così. Il materiale mi sembrava buono, forse semplicemente non riuscivo a trasformarlo in un libro vendibile, e a un certo punto ho cominciato a pensare che non ne valesse la pena. Meglio continuare a sognare il mio libro impossibile, la Legenda da mille e più pagine, e continuare a pubblicarla una paginetta alla volta sull’internet. E mi ero fatto anche questa idea (paranoica?) che scherzare sui santi in Italia fosse ancora sconsigliabile. Non che le mie agiografie siano particolarmente anticlericali (anzi a volte sono stato accusato di difendere la Chiesa da questa o quell’accusa, ma direi che la Chiesa ha avvocati più competenti). Ma c’è sempre qualcuno che si offende, oggi più che ieri. Io sono di una generazione precedente, quella che salutò l’arrivo di Internet come di uno spazio franco dove litigare con tutti. Tuttora sui social mi piace prendere le difese dei preti contro gli atei e viceversa, alla voce “fede religiosa” ho scritto “è complicato”. Adesso mi intervistano anche le riviste religiose, tra le varie domande mi chiedono se sono in ordine coi sacramenti. Non sono esattamente in ordine coi sacramenti.

Per un po’ mi è piaciuto crogiolarmi in questa situazione: certo, da lontano avreste potuto scambiarmi per un sedicente scrittore che non riusciva a pubblicare un libro, ma io sapevo di essere un talento misconoscuito, boicottato da editori oscurantisti o superstiziosi. Poi qualcosa si è mosso, proprio mentre stavo lavorando a tutt’altro. Qualche anima santa della Utet (sempre sia lodata), mi ha proposto per l’ennesima volta di riprendere il palinsesto, sfrondare un sacco di cose e trasformarlo in un libro. Io come sempre ho detto: certo, perché no, proviamoci. Ma non ci ho creduto fino alla fine. Neanche quando mi hanno fatto vedere le bozze (tra parentesi, le bozze più corrette che ho visto in vita mia, sempre sia lodata la Utet). Quando mi è arrivato il libro a casa, ecco, ho cominciato a crederci un po’. E poi… ho avuto paura. 

Ho scritto un libro sui santi. Non è che avrò offeso qualcuno? Sicuramente avrò offeso qualcuno. Mi dispiace. Io in realtà volevo soltanto scrivere storie, ma non te le legge nessuno se non offendi qualcuno. Si chiama “Catalogo dei santi ribelli”, e il sottotitolo rincara la dose: Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa. Non vi dico la fatica per trovare una santa davvero prostituta, perché Maria Maddalena, malgrado tutte le voci calunniose messe in giro in duemila anni, dai vangeli non risulta una sex worker. Più facile trovare qualche ladro: il primo uomo a essere stato canonizzato in direttissima da Gesù Cristo è stato proprio il criminale crocifisso al suo fianco (anche Agostino, com’è noto, rubacchiava frutta da ragazzo, ma solo per il gusto della bravata). Quanto agli immigrati, pensate che a un certo punto in Sicilia bastava avere tratti somatici africani perché la gente cominciasse a venire a chiederti dei miracoli, un pastore si ritrovò a capo di una confraternita quasi suo malgrado. C’è un’intera sezione sui santi genderfluid – da Marina, che si finse uomo per entrare in un monastero maschile e finse così bene che fu accusata di aver messo incinta una cameriera – a Sebastiano, da due secoli patrono ufficioso dei gay per motivi che ho cercato, per quanto possibile, di chiarire. 

Ci sono anche molti santi famosi, sui quali avanzo sospetti insinuanti, ad esempio tra gli evangelisti San Luca a volte sembra un infiltrato socialista, quasi tutta la dottrina sociale della chiesa poggia su episodi che riporta lui. San Pietro per contro a un certo punto sembra il guru di una setta che incamera i fondi degli adepti… e San Paolo come faceva a risultare fariseo agli ebrei, greco ai greci e cittadino romano ai romani? Non sembra un po’ una spia? Francesco e Chiara terminarono i loro giorni in silenziosa ribellione contro gli stessi ordini di cui risultavano i fondatori; Caterina da Siena soffriva di anoressia. Padre Pio secondo Giovanni XXIII era un imbroglione (ma coi suoi eventuali raggiri ha finanziato un grande ospedale). Teresa di Calcutta ha raccolto denaro in tutto il mondo senza promettere di guarire un solo malato. Karol Wojtyla forse credeva di essere l’ultimo Papa prima del secondo Avvento, e oltre all’agonia dovette sopportare la delusione.
 
E così via. È stato bello scrivere un libro sui santi. Ho imparato molto da loro. Anche da quelli che non sono mai esistiti (in effetti una delle cose più curiose è il modo in cui anche i santi più improbabili hanno ispirato, anche a secoli di distanza, altri santi realmente vissuti: in questi casi la santità è una sorta di leggenda incarnata). Certo, mi resta il rimpianto per quell’immenso volume immaginario che non scriverò mai, mille e più pagine vergate di caratteri minuscoli. Ma anche questo, davvero, non mi sembra uscito male. È in libreria.
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64. Lu santu è di marmuru e non sura

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[Questa è l'ultima giornata del primo turno della Gara delle canzoni di Franco Battiato – sembrava non dovesse finire mai, e invece le abbiamo ascoltate tutte e 256. Da qui in poi è tutta discesa. Grazie per l'attenzione].  

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1974: Nel cantiere di un’infanzia (#214)

Ho già accennato a quanto mi suonino ancestrali certi brani del Battiato primi anni Settanta, canzoni che hanno più o meno la mia età (e che non credo di aver ascoltato prima dei sedici anni) ma che in un qualche modo mi riportano a galla ricordi improbabili: Qui ad esempio a un certo punto i bambini si mettono a scandire una specie di coro che mi ricorda un ban come se ne intonavano sui pulmini della suola. Siccome mescola suoni elettronici a rumori d'infanzia, Nel cantiere è stata accostata a una delle composizioni più famose di Stockhausen, la Canzone della gioventù nella fornace. Bisogna almeno riconoscere all'allievo di non suonare derivativo. L'insistenza particolare per le registrazioni rovesciate – un trucchetto che ai tempi di Clic aveva perso qualsiasi crisma di novità, anche nella musica leggera – è un tic stilistico che Battiato si porterà con sé per tutta la carriera, da Iloponitnatsoc fino a Joe Patti, senza che forse abbiamo mai capito cosa quale senso Battiato desse all'operazione. 


1988: Veni l'autunnu (#86)

Su Veni l'autunnu ho un paio di ipotesi non dimostrabili. La progressione così tipicamente cantautorale  della strofa (c'è anche il caro vecchio IV-V-I) mi fa sospettare che possa essere addirittura l'unico brano sopravvissuto degli Ambulanti, il duo Alicata/Battiato che nei cabaret milanesi spacciava composizioni di Battiato per canti della tradizione siciliana medievale. I due riuscirono anche a firmare un contratto con un'etichetta discografica, poi stralciato appena il produttore ascoltò i brani. Ma era il repertorio che aveva incuriosito lo stesso Gaber, insomma qualcosa di interessante doveva esserci per forza ed è difficile pensare che Battiato non abbia mai riciclato niente. L'impostazione molto più 'romantica' della strofa mi suggerisce viceversa che Veni l'autunnu sia davvero un brano sfuggito a Battiato mentre cercava di comporre Gilgamesh, e in luogo di melodie ancestrali si accorgeva di trovarsi in mano di nuovo canzoni pop, quelle che in teoria aveva smesso di scrivere. Potrebbero essere vere entrambe le cose ma anche nessuna delle due. In Veni l'autunnu resiste, coperto da una patina vernacolare, il procedimento a collage tipico di Patriots: la canzone è una serie di proverbi e modi di dire ricuciti senza la pretesa di ricavarne un senso d'insieme. Forse era l'unico espediente per consentire a Battiato di scrivere qualcosa di così spudorato come: Sicilia bedda mia, Sicilia bedda. Poi, come spesso succede quando Battiato indulge nel regionalismo, arriva l'arabo che per lui è una specie di palinsesto da intravedere attraverso il vernacolo; ma il buffo è che arriva con una frase da corso per principianti: "Come ti chiami? Mi chiamo Khalifa e studio la lingua araba. Per ogni cosa c'è un tempo e una chiamata. Tutto e sogno tranne l'attesa annunziata". 


1998: Il ballo del potere (#43)

Fingi di riandare avanti con un salto, poi a sinistra con la finta che stai andando a destra. I pigmei e Ginevra Di Marco. Gli aborigeni e Andrea Pezzi. Antropologia e danza, avanguardia e quadriglia, rock e world music, Taijiquan e Beatles(*), in un momento particolare della storia della musica e del costume in cui sembrava stessero saltando tutti gli steccati. Che in un momento del genere il più coraggioso sulla piazza, ma diciamo pure il più folle, fosse l'ultracinquantenne Franco Battiato, non sembrava nemmeno così sorprendente. Il ballo del potere è un brano che confesso di non riascoltare volentieri, non so nemmeno cosa mi dia veramente fastidio (i riti di fertilità degli aborigeni? l'inglese di Andrea Pezzi? un insieme delle due cose?) ma alla fine forse il problema stavo diventando io, forse provavo lo stesso fastidio che dieci anni prima un adulto avrebbe provato davanti a una Temporary Road. Invece c'è sempre bisogno di folli nella musica e nel costume, e se Battiato si era stancato di fare il guru, se voleva movimentare la situazione, buon per lui. Ripensandoci, la cosa più 'anni '90' di tutte sono i cori etnici campionati. In ritardo sui Deep Forest, in anticipo su Moby, ma riascoltandoli alla fine funzionano.    

(*) A un certo punto si sente chiaramente Battiato cantare "Many times I’ve been alone, and many times I’ve cried..."


2001: Bist du bei mir (Battiato/Sgalambro, #171)

Don't play it anymore. Arrivo a Bist du bei mir con una certa stanchezza, insomma è da 64 giorni che glosso quattro canzoni al giorno – ok mi ero messo un po' avanti – ma poi sono finito un po' indietro – e insomma eccomi qui con l'ultimo brano su 256 e... ecco una roba di Sgalambro col titolo tedesco. Ahi. Il titolo è la citazione di un'aria di Gottfried Heinrich Stölzel (1718), che però è stata anche trovata in un quaderno di spartiti di una figlia di Johann Sebastian Bach, i due si conoscevano e potrebbero anche avere usato gli stessi appunti, è un dibattito interessante ma non c'entra molto con la canzone, visto che Battiato non cita davvero l'aria di Stölzel (o Bach). Ne approfitta però per alzarsi nel ritornello in un falsetto molto alto per lui, come a suggerire un'aria di soprano che non esiste. Insomma siamo nel terreno delle false citazioni, degli stucchi suggestivi ma rifatti a macchina, e dobbiamo accettare che Battiato è stato anche questo, e lo è stato per il tratto più lungo e celebrato della sua carriera: un artista da cui ci si aspettava una determinata dose di pretese culturali, da impacchettare in brevi canzoni 'di qualità'. Forse più pretese culturali di quante lui fosse in grado di erogare, da cui la scelta di affidarsi a questo tizio che a differenza di Battiato non sembra aver mai nutrito molti dubbi sulla qualità della propria erudizione: Manlio Sgalambro. Nota che la canzone non è neanche malaccio, sia dal punto di vista musicale (ma che bisogno c'era di evocare un compositore del Settecento?) né lirico, con quell'invito a giocare "sull'orlo di un precipizio": ma che bisogno c'era di tutto quel namedropping, di versi come  La luce abbagliò i miei sensi come in un quadro di Monet mentre l'estate insidiava il giovane Gesualdo? E però il pubblico da Battiato voleva proprio questo: sentirsi in un museo di cose non del tutto comprensibili ma culturalmente rilevanti. Quello che bisogna concedere a questo Battiato (e perfino a Sgalambro) è che questo ruolo che a un certo punto si sono trovati ricucito addosso, l'hanno interpretato almeno con una certa leggerezza che era merce rara già allora e oggi non è più in commercio. Ritrovare il video di Bist du bei mir, ad esempio, è una rivelazione, e mi regala l'ultima lacrimuccia di questi sessantaquattresimi di finale, mentre guardo Battiato che finge di ballare con la modella, poi finge di litigare con la modella, Elisabetta Sgarbi che si tiene Sgalambro sottobraccio, eccetera. Almeno si divertivano. Il mestiere era dispensare sapienza e cultura, ma era divertente, hanno cercato di farlo senza affliggere e annoiare troppo il prossimo, e ci sono quasi sempre riusciti. Grazie per l'attenzione e restate in contatto – si comincia subito coi trentaduesimi. 

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63. Nell'aria qualche cosa si fermò

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con diverse campane e altri suoni che si perdono in lontananza, come i boati che giungono al molo dalle navi].  

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1983: Temporary Road (#107)

Quella sera il pubblico di Sotto le stelle si aspettava probabilmente un'esecuzione di Cerco un centro Voglio vederti danzare. Quando Battiato comincia a canticchiare una specie di Lied su violini sintetici, l'entusiasmo è ancora alto: magari sta per cominciare una versione alternativa di Cuccurucucù. Il Lied invece prosegue per un buon minuto, e bisogna ricordare che siamo in tv, è il 1983, Battiato è un cantante da alta classifica e lo sarà ancora per qualche anno. Finalmente il batterista comincia a percuotere i suoi esagoni e la canzone diventa una specie di satira sul problema numero 1 degli italiani, il traffico ("Prendo sempre le multe / per divieto di sosta") con stralci di canzonette come ai tempi di Patriots ("solitario me ne vo per la città"). Poi Radius si mette a suonare la marcia turca di Mozart e Battiato ci canta sopra Fra Martino Campanaro. Il brano era stato presentato con il titolo Temporary Road, che ne rivelava il carattere occasionale, e per due anni avremmo continuato ad ascoltarlo in registrazioni radiofoniche abusive (a loro volta probabilmente ottenute da videoregistrazioni tv abusive), con l'introduzione un po' tagliata. A quel tempo il battiatismo non aveva ancora raggiunto il livello filologico tale da consentirci di sapere che una composizione intitolata Temporary Road avrebbe dovuto già essere pubblicata nel disco ormai irreperibile del 1975, Mme "le Gladiator", e che ad almeno un giornalista Battiato aveva parlato di un collage di canzoni di successo: Ruby Tuesday, Like a Rolling Stone... Quel progetto era evidentemente tramontato (per motivi di diritti?), Battiato aveva conservato i titoli per la coda di Cuccurucucù, e forse qualche frammento era finito nel brano del 1983: la marcia turca, appunto, Fra Martino, un Lied non meglio specificato e il verso beluino di Fred Flinstone, "Iabudabudà". Nel palinsesto Rai del periodo aveva tutta l'aria di una provocazione dadaista da parte di un cantante che nel 1983 non aveva ancora nessun disco da promuovere, e quando finalmente arrivò (a dicembre) non somigliava affatto a questo collage goliardico. Lo ritrovammo invece a sorpresa nel disco del 1985, Mondi lontanissimi, che per certi versi era anche una raccolta del materiale eterogeneo prodotto da Battiato al di fuori degli LP italiani in quei primi anni Ottanta: i duetti con Alice (ma registrati senza Alice), una Re del mondo con gli arrangiamenti dell'edizione americana, ecc. In mezzo a tutti questi brani però Temporary Road, con la sua commistione tra suoni orchestrali e brutalismo elettronico, si trovava miracolosamente al suo posto: tanto più che la sutura tra le due parti del pezzo ora veniva sottolineata da una scarica di batteria elettronica che è in assoluto il momento più tamarro mai inciso da Battiato. Spariva "fra Martino", sostituito da un'altra citazione sotterranea da un poemetto pre-crepuscolare ottocentesco (San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto!). Insomma Temporary Road è un brano a cavallo tra Patriots e Mondi lontanissimi, benché i due dischi non confinino tra loro. 


1983: Campane tibetane (Battiato/Pio, #150)

Le bronchiti coi vapori e il Vicks Vaporoub. Il particolare crepuscolarismo di Orizzonti perduti lo rende il disco di Battiato con il maggior numero di product placement involontari (c'è anche l'idrolitina). Non si sofferma mai forse la vostra nostalgia sulle etichette di prodotti consumati nell'infanzia? E non capita ai boomer di rimpiangere persino le belle bronchiti della nostra gioventù, mica come i giovani d'oggi smidollati con quegli aerosol di ultima generazione... Può essere una coincidenza ma Battiato si presenta al microfono con una voce un po' offuscata, probabilmente vuole tentare qualche vocalismo orientale ma la canzone non glielo consente del tutto e una delle peculiarità di Orizzonti è che sembra un disco registrato molto in fretta, buona la prima. È anche un disco brevissimo (28 minuti), che scivola rapido molto prima di annoiare – cosa che all'ennesima canzone sulle nostalgie d'infanzia potrebbe anche capitare, ma Battiato è stato più rapido di noi e ha già finito il disco. La Sicilia sognata stavolta presenta dettagli dissonanti che sono ovvi depistaggi: campane tibetane e addirittura la Via Emilia (ho controllato con google maps, ce n'è una anche a Catania ma non mi sembra così evocativa). E sul finale una delle rime siciliane più geniali di Battiato: i mobili in stile Impero / ritornerò. 


2000: L'ignoto (#235)


Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando / o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti / precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina: / logoi dagli ultimi duemila anni. Che le api divorino i petali è una sineddoche abbastanza discutibile, e ciononostante a Battiato piaceva particolarmente questo attacco di Sgalambro, tratto da un "frammento di poema" chiama Opus postumissimum, se nel mio dipartimento di latino avessi osato coniare un superlativo del genere mi avrebbero stracciato il libretto ma questo non aggiunge nemmeno un grammo di insofferenza a quella che già nutrivo per il massimissimo vate talattico, giuro. Dicevo, a Battiato piaceva questo brano in cui la civiltà frana all'improvviso proprio nel momento in cui Sgalambro diventa anziano, che coincidenza vero? Pensa che succede all'80% degli intellettuali, questa cosa di situare la fine della civiltà intorno al loro sessantesimo anno di età, comunque troveremo la stessa preziosa citazione all'inizio di Inneres Auge e poi in un brano di Joe Patti's Experimental Group, intitolato perlappunto Come un branco di lupi. Ho già avuto modo di riconoscere in Campi magnetici una delle cose più interessanti composta da Battiato nel nuovo millennio e lo confermo, tanto più che in questo brano succedono cose che a questo punto abbiamo già sentito: violini digitali, versi di soprani (o del sopranista Simone Bartolini), irruzioni di sequencer, e così via. Mi resta soltanto il dubbio che sarebbe un disco ancora migliore senza le intrusioni di Sgalambro, senza il suo tormentone "i numeri non si possono amare" che gira e ti rigira alla fine è vieta retorica crociana. Poi ho controllato, il 2000 non è tecnicamente nuovo millennio ma soprattutto su Battiato.it Campi magnetici risulta nella sezione dedicata alla discografia classica: e quindi non avrei dovuto includere le tracce in questo torneo (dove peraltro nessuna aveva speranze di passare il primo turno). Non sono sicuro che sia sempre stato così e mi suona così strano che Battiato considerasse Campi magnetici musica classica e L'Egitto prima delle sabbie musica leggera. In ogni caso ormai il torneo è fatto, indietro non si torna, mi dispiace.

2008: (Sittin' on) the Dock of the Bay (Redding/Cropper, #22)

Watching the ships roll in / Then I watch 'em roll away again. Alla fine Sittin' on the Dock of the Bay parla di un tizio davanti al mare che guarda le navi sparire all'orizzonte. Non così diverso da Sequenze e frequenze. Per cui non è così strano che dovendo trovare un brano per un duetto, Battiato e la cantante jazz francese Anne Ducros riconoscano un minimo terreno comune nel grande successo (postumo) di Otis Redding. La Ducros poi può darsi che su Spotify sia più seguita di Battiato, il che spiegherebbe perché un brano senza infamia e senza lode, abbastanza fuori dalla comfort zone di quest'ultimo, sia in assoluto il suo ventiduesimo brano più ascoltato. Dalla mia distanza sembra più un atto di cortesia che una cover necessaria: tra le due voci non c'è il feeling che scatta quando il timbro di Battiato si imprime su quello di contralti come Alice. E soprattutto non ce lo riesco a vedere Franco Battiato, seduto su quel molo di quella baia. In un universo parallelo dove i Beatles non abbiano mai sfondato in Europa, e la musica pop continentale abbia proseguito sui binari già tracciati tra chanson française e ritmi latini, molti cantautori italiani non lo sono mai diventati (Dalla, Battisti) o hanno un repertorio completamente diverso. In quell'universo invece Battiato ha più o meno fatto gli stessi dischi, anche se la coda di Cuccurucucù contiene titoli diversi e le sue cover di Hey Joe e Ruby Tuesday non esistono. In questo senso Battiato è davvero il cantautore più 'bianco' che abbiamo avuto: con influenze molteplici che vanno dal Medio Oriente a Bach (con qualche occasionale ghiribizzo per l'estremo oriente), ma sostanzialmente alieno alla musica afroamericana. Se vogliamo è la risposta alla domanda: cosa sarebbe stata la canzone d'autore in Italia se avessimo continuato a ignorare i modelli americani? Una domanda che ha poco senso porsi, mi rendo conto. 

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62. L'odore di brillantina si impossessava di me

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una una delle sfide più difficili fin qui]. 

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1982: Scalo a Grado (Battiato/Pio, #54)

Ci si illumina d'immenso mostrando un poco la lingua al prete che dà l'ostia. Scalo a Grado è una delle più controverse canzoni di Battiato – anche se da fuori non lo si direbbe, insomma c'è Battiato che soggiorna in una zona per lui insolita (il Nordest, tra Grado e Pieve di Cadore: siccome è uno "scalo" lo immaginiamo proteso verso orienti più estremi). Gli capita di partecipare a una funzione cattolica e la descrive: la gente è fintamente assorta, i salmi sono stonati, ma tutto sommato ci si sente in Paradiso. Tutto qui e non mi ricordo di aver mai sentito un cattolico prendersela per un bozzetto che è in realtà estremamente familiare a chiunque vada a messa la domenica: anzi, era rasserenante sentire un cantante che parlava un poco di noi normaloni e non sempre di prostitute e detenuti, perché ben prima della trap anche i cantautori tendevano a concentrarsi su gente che la domenica si sveglia a mezzogiorno. Battiato invece era dei nostri, Battiato ogni tanto andava persino a messa, ma questo succedeva in quel momento particolare in cui i giornalisti lo aspettavano al varco: aveva venduto tantissimo per motivi che loro non avevano previsto né compreso, e ora dovevano assolutamente trovare una formula che lo spiegasse brevemente e che stesse in un titolo su tre colonne massimo. Per esempio Gianfranco Manfredi in un famoso articolo sulla Stampa ci informò che Battiato metteva nelle canzoni "la cultura della nuova destra", una frase che qualche anno prima avrebbe azzoppato cantautori ben più solidi (se uno va a rileggerlo scopre che nel 1982 la "nuova destra" erano Cacciari e Calasso, insomma bei tempi, P2 a parte). Letta da destra, Scalo a Grado può sembrare una condanna della religiosità postconciliare, dei suoi riti annacquati e scadenti: interpretazione che a me sembra forzata ma che ammetto si possa puntellare sulla strofa che dice "Il mio stile è vecchio [?] Come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore. Nel mio sangue non c'è acqua, ma fiele che ti potrà guarire". 

Ma la cosa più curiosa è che negli anni successivi mi è capitato più volte di leggere interpretazioni completamente opposte, da parte di atei che riconoscevano in Scalo a Grado una satira anti-cristiana: atei che in molti casi vissero come un tradimento il concerto di Battiato in Vaticano, la Messa Arcaica e in generale il grande ritorno dei temi mistici nelle sue canzoni dal 1988 in poi. A riprova che in ogni canzone ognuno trova quello che vuole trovare: quanto a Battiato, era abbastanza furbo per non smentire nessuna interpretazione. Così anch'io resto fedele alla mia: Scalo a Grado è un'ariosa domenica di aprile, la chitarra di Radius è un raggio di sole che filtra da vetrate istoriate un po' astratte, stile anni '70. E pensare che sull'altro lato c'era appena stata la fine del mondo. Che Battiato non fosse entusiasta delle liturgie postconciliari è molto probabile (in particolare, lo disse più volte, odiava le canzoni accompagnate con le chitarre). Ma che Scalo a Grado sia una condanna, o anche solo una satira meno che bonaria, la musica non me lo dice. Forse è la prima canzone in cui una manifestazione della modernità gli strappa quello sguardo indulgente che oggi è poi quello che tutti preferiscono ricordargli stampato in faccia. 


1983: Mal d'Africa (#75)

Dopo pranzo si andava a riposare, cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina. Dalle finestre un po' socchiuse spiragli contro il soffitto: e qualche cosa di astratto si impossessava di me. Mal d'Africa potrebbe essere la lirica più riuscita di Battiato, quella che meglio mette a fuoco il tema della nostalgia per una Sicilia rimasta ferma al tempo della sua infanzia: peccato per il ritornello, forse l'esempio migliore di inglese battiatesco, nel momento in cui smette di essere una semplice serie di sintagmi ritagliati da altre canzoni e cerca di scomporsi e riagglutinarsi, veicolando significati diversi da quelli della citazione originale. ("I can't live without you, on my own lies a photograph. Please come back and stand by me"). Mal d'Africa potrebbe essere una delle più belle canzoni di Battiato: peccato per l'arrangiamento sintetico – che comunque le conferisce parte del suo fascino, e ormai per noi orfani degli anni '80 suscita un analogo mal d'Africa: lo detestiamo e non riusciamo a farne a meno, se qualcuno riarrangiasse Orizzonti perduti con suoni più umani li troveremmo falsi. Tra l'altro è il punto di massima convergenza tra Battiato e i Pet Shop Boys. Battiato ha finalmente capito come gestire una vena crepuscolare (che aveva scoperto per la prima volta dieci anni prima, con Sequenze e frequenze). Da qui in poi le sue canzoni si popoleranno di ricordi, ma nessuno sarà icastico come il padre che si pettinava da una finestra di ringhiera, ("l'odore di brillantina si impossessava di me").


2001: Il cammino interminabile (Battiato/Sgalambro, #182)

Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi. Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi. Beh, questa è profonda, non c'è che dire. Secondo Zuffanti (Franco Battiato, 2020) è una citazione dal Majjhima Nikaya dove però Buddha diceva qualcosa come "Se vuoi conoscere il tuo passato, osservati nel presente. Se vuoi conoscere il tuo futuro, allora osservati nel presente", che è comunque interessante (oltre che un po' lapalissiano), ma non sembra includere nella riflessione la dualità tra "corpo" e "pensieri", dove il primo è sempre la conseguenza dei secondi. Dopo aver gettato il sasso con questa affermazione, Battiato si diverte a confondere le acque con un collage di frasi in siciliano che non può non ricordare Veni l'autunno – ed è bizzarro che dopo tanti anni la tecnica compositiva di Goutez et comparez e Frammenti resista soltanto nelle rare composizioni nella lingua vernacolare. In un qualche modo forse Battiato vuole dirci di non essere che il momento di una storia che parte molto prima di lui, una storia che non si può conoscere o raccontare se non in modo frammentario. 


2004: Apparenza e realtà (Arcieri/Battiato/Sgalambro, #203)


Tempi tumultuosi e quindi resto confinato nella mia stanza. Onestamente, a 18 anni di distanza, non mi ricordo proprio cosa ci fosse di tumultuoso ai tempi di Dieci stratagemmi – la guerra in Iraq? Il Forum sociale? L'assassinio Biagi – ok, beh in effetti erano tempi tumultuosetti – certo, nulla in paragone a quanto abbiamo visto dal 2020 in poi. Apparenza e realtà è il brano più Krisma tra quelli composti a quattro mani con Maurizio Arcieri: non solo per l'irruzione di Cristina Moser, ma per i suoni davvero meno eterei del solito, addirittura danzerecci. Sospeso in mezzo a tanti espedienti ritmici, Battiato sembra un padrone di casa pentito di aver invitato gli amici: gli trema la voce, non si sente a suo agio. Il pezzo non è affatto male (si può ballare, davvero) ma abbiamo la sensazione che piaccia più a noi che a lui.

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61. Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone a rovescio, una canzone sulla polluzione, una canzone sul sesso, una canzone sul saperne fare a meno, col tempo]. 

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1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti e forse voi ancora non lo siete (anche se state seguendo la sessantunesima puntata di un torneo di canzoni di Franco Battiato, io a questo punto una domanda me la farei). Insomma bisogna sapere che nel 1969, poco prima di licenziarsi dalla Polygram e troncare la sua carriera di canzonettista, Battiato aveva cercato di mettere assieme un 33 giri che avrebbe contenuto per lo più il materiale già uscito su singolo più alcuni inediti (poi pubblicati negli anni Ottanta dall'Armando Curcio Editore), il più strano dei quali è appunto Iloponitnatsoc. Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT, quindi niente di incredibilmente pionieristico, però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco, ma è curioso il fatto che tra tutte le sue canzoni abbia scelto di invertire proprio Gente, una delle canzoni più anonime che abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. È difficile, ascoltando Gente, non chiedersi: perché? Ecco, una sensazione simile l'ho avuta la prima volta che ho sentito Ignudi tra i nudisti di Elio e le Storie Tese: perché fare una canzone del genere? Una domanda in effetti abbastanza strana, non è che le canzoni debbano per forza avere un senso, ma Ignudi è come se ti chiedesse di averlo: succedono troppe cose strane che richiedono una spiegazione e alla fine l'ho trovata: Ignudi è il rovescio di un'altra canzone famosa. Con questo non voglio dire che Battiato abbia registrato Gente solo per ottenere, a rovescio, Iloponitnatsoc. Ma forse per un attimo ha sperato che ci credessimo, e in generale voleva dirci che una canzone del genere è più interessante a rovescio che dritta.


1972: Pollution (#118)

La portata di un condotto è il volume liquido che passa in una sua sezione nell'unità di tempo: e si ottiene moltiplicando la sezione perpendicolare per la velocità che avrai del liquido. A regime permanente la portata è costante attraverso una sezione del condotto. Io poi per anni ho creduto che FB si fosse iscritto a una cosa tipo ingegneria e cercasse un sistema per memorizzare gli enunciati o le formule – in effetti oggi Pollution potrebbe essere quel tipo di canzone che ti suggerisce youtube mentre stai ascoltando i pezzi di Lorenzo Baglioni e dei Supplenti Italiani (se non li conoscete ascoltate almeno le Leggi di Keplero). Un'altra suggestione che è impossibile scacciare è che questo disco sull'"inquinamento" (pollution in inglese) stia anche parlando di polluzioni, nel senso italiano del termine: non lo dice da nessuna parte ma in compenso ci parla della portata di un condotto in cui passa un liquido. Pollution costituisce insieme a Plancton il momento più riuscito del secondo omonimo album, e si adorna di un coretto senza parole ("na na na na na") che è la melodia più sfacciatamente Primi Anni Settanta incisa da Battiato – a riprova che nessuna nicchia sperimentale poteva salvarlo dallo Zeitgeist: per quanto si nascondesse e si travestisse, Battiato qualcosa di orecchiabile e cantabile non poteva fare a meno di registrarlo. Poi, certo, poteva cantarci su le sue solite cose assurde (che ai tempi non erano ancora così solite). Atomi dell'idrogeno, campi elettrici ioni-isofoto. Radio, litio-atomico, gas magnetico.


1981: Sentimiento nuevo (#11)

A Battiato mi iniziarono i miei cugini: uno un po' più grande (classe Iloponitnatsoc), uno appena un po' più piccolo (classe Aries). Dunque quando comprarono la cassettina della Voce del padrone, il più piccolo aveva sette anni e per qualche settimana il fratellone riuscì a nascondergli l'ultima traccia. Quando finalmente io e lui riuscimmo ad ascoltarla, forse non ci accorgemmo subito del perché. Probabilmente il cugino grande temeva che gli chiedessimo ragguagli sui desideri mitici di prostitute libiche. Soprattutto dopo averci detto che Segnali di vita era una canzone che esprimeva una cristianissima tensione verso l'assoluto. Uno o due anni più tardi, quando finalmente ebbi un flauto dolce, il cugino grande mi chiese: cosa ci vuoi suonare? Chiedimi qualsiasi aria, vedrai che so insegnartela. Voglio l'introduzione di Sentimiento nuevo, gli dissi. La mia canzone preferita a 10 anni parlava della lotta pornografica dei greci e dei latini. Perdonate l'aldonoveggiamento, ma Battiato è stato anche questo per la mia generazione. Un modo per cominciare a riflettere sul sesso – prima o poi dovevamo cominciare, e molti altri riferimenti non li avevamo. Qualche volta sui cigli della strada trovavamo riviste impiastricciate, ecco, Battiato ci mostrava possibilità diverse. Il sesso non doveva per forza essere sporco, furtivo, volgare. Complicato, questo sì, Sentimiento nuevo suggeriva che fosse abbastanza complicato. Probabilmente sarebbe servita una certa cultura per discernere i riferimenti, è chiaro che lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco non ce lo avrebbero insegnato insieme al flauto dolce. Ma bellissimo. Se La voce del padrone è l'equivalente musicale del Nome della Rosa – un bestseller concepito freddamente a tavolino da un cinico professionista che finisce per prenderci gusto – Sentimiento nuevo è la pagina in cui Adso giace con la pulzella senza nome, anzi la pagina in cui da anziano trascrive l'esperienza in un montaggio di citazioni letterarie sempre più concitate. Il preziosismo linguistico può servire a tante cose – troppo spesso serve a spaventare, a darsi un tono, a creare una distanza tra sé e il pubblico: in certi rari casi diventa un modo di esprimere l'eros sulla carta o in musica. Battiato sta facendo sesso col vocabolario, la sua esuberanza lessicale è già una tecnica di seduzione: il pettirosso gonfia gli addominali, il pavone fa la ruota, Battiato disquisisce di senso del possesso che fu prealessandrino. E cosa c'è di più bello di un pettirosso fiero del suo petto rosso, di un pavone che si pavoneggia, di Battiato che canta le sue cose astruse. La sua voce, come un'oasi del deserto, ancora mi cattura. Ed è ancora bellissimo, scusate, devo andare a suonare una frase introduttiva, torno subito (meraviglioso anche l'hammond finale, dolce e sfumato come l'assopimento postcoitale).


2002: Col tempo sai (Ferré, Defaye , Medali, Simontacchi, #139)

Col tempo tutto se ne va. Ogni cosa appassisce, io mi scopro a frugare in vetrine di morte quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia. Può darsi che dei grandi maestri francesi, Ferré fosse il più consono a Battiato ed è un peccato che quest'ultimo ne abbia ripreso una sola canzone (e proprio nel secondo volume dei Fleurs, quello in cui si compiace a movimentare le cose con arrangiamenti elettronici abbastanza sbrigativi). Col tempo sai è una canzone sulla fine dell'amore, di qualsiasi amore: anche di quello per chi ti diceva: Copriti, fa freddo (questo avrebbe davvero potuto scriverlo Battiato, che a Giuni Russo aveva fatto cantare "qui c'è umidità"); anche quell'amore scompare, sai? Quel "sai", a proposito, è una maledizione. Il francese ci illude: è una lingua così apparentemente simile alla nostra, ma appena proviamo a tradurre una canzone, ahi, scopriamo che tutti gli accenti sono fuori posto; il francese è una lingua tronca, l'italiano una lingua piana, tradurre versi brevi in musica diventa impossibile. Servono zeppe monosillabiche, parole di due o tre lettere che non dicono veramente niente, servono soltanto a tenere lo spazio per l'accento, e sono i sai, i mai, i già, i va', non ci puoi far niente, se traduci questa roba ti serve. Col tempo poi cominci a fregartene, tout va bien. Forse il brano più convincente di Fleurs 3, e tuttavia... basta ridare un'occhiata a un'interpretazione di Ferré per capire che c'è una dimensione teatrale, in queste canzoni, che a Battiato manca del tutto. Ma va bene lo stesso, col tempo va bene tutto. 

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