105. Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti

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[Ci siamo, questa è la Gara delle canzoni e in particolare è la giornata in cui dobbiamo decidere chi ha vinto il match 81: Aria di rivoluzione o La cura? Ho scelto di non scegliere: passano entrambe il turno, ed eccoci al primo triello. Attenzione: sarà possibile votare per due canzoni (ovvero contro una canzone) e persino per tutte e tre, anche se riflettendoci non ha molto senso].

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1974: Aria di rivoluzione (#63)

La rivoluzione è rimandata. È anche colpa di facebook, social che rende molto facili e condivisibili i sondaggi, ma li amministra opacamente e senza molte spiegazioni. Ad esempio: non è possibile impostare una data di scadenza. Al tempo del torneo dei Beatles, in inverno, scoprimmo assieme che i sondaggi scadevano dopo una settimana. E tutto sommato funzionava. Stavolta a quanto pare no: senza avvertire, Zuckerberg ha deciso che i sondaggi restano aperti – fino a quando? Un mese, un anno, una civiltà? Lo sapremo solo quando lo sapremo, ma nel frattempo capite che un testa a testa come Aria di rivoluzione vs La gara rischia di essere falsato. Al momento in cui scrivo queste righe (un momento qualsiasi), la parità è assoluta e i voti sono quasi duecento: molti più del solito. C'è evidentemente gente che per sovvertire il pronostico (nettamente a favore della Cura) sta mobilitando amici, parenti, account di scorta. E mi domando: ma davvero amano così tanto Aria di rivoluzione? O non è piuttosto odio per la Cura? Certo, il match sembrava combinato apposta per mobilitare i battiatisti di lungo corso, quelli appassionati della sua discografia anni Settanta, contro i neobattiatisti saliti sulla carovana negli anni Novanta. Aria di rivoluzione forse è un brano più iconico che riuscito, in ogni caso è un raga anni '70 senza compromessi. Insieme a Sequenze e frequenze (così affine che nell'unica raccolta disponibile fino a tutti gli anni '80 i due brani comparivano incollati in un medley) forma lo sparuto contingente dei brani pre-Cinghiale arrivati ai sedicesimi. Battiato era il primo a sorprendersi quando scopriva ai concerti gente che la cantava, e che probabilmente era più giovane della canzone. Non so se abbia mai ricominciato a cantare "chi andrà alla fucilazione" ai concerti: per quanto fosse il fulcro del brano, era un verso che gli dava dei problemi.   


1981: Segnali di vita (Battiato/Pio, #31)

Segnali di vita è uno dei primi brani in cui Battiato si lascia sorprendere dall'ascoltatore immerso a qualcosa che sembra una meditazione, e uno dei pochi in cui l'oggetto della sua osservazione non è il mondo naturale, o un manufatto artistico, bensì le luci dei cortili e delle case: segnali di vita, appunto. Battiato sta osservando una città che brulica di vita. La osserva da lontano, come in un cannocchiale rovesciato; quanto basta per sentirla remota come le galassie che si allontanano e lo spazio cosmico che si sta espandendo. Ma è la vita: i rumori che fanno sottofondo per le stelle sono rumori di traffico e cucina. È un tipo di osservazione che dopo il ritorno in Sicilia non ritroveremo più. 


1996: La cura (Battiato/Sgalambro, #2) 

Come ampiamente prevedibile, La cura si sta rivelando la canzone più divisiva – quella che porta diversi elettori a coalizzarsi intorno a un brano abbastanza antico e astruso come Aria di Rivoluzione, pur di sbarazzarsi di un brano pure così apprezzato e ascoltato. La cura sembra rientrare in pieno in un genere specifico di hit che mi piace definire "colpi di coda": quando un cantautore sembra ormai diventato il monumento di sé stesso, associato a un canone di canzoni ormai fissato, ecco che se ne esce con un brano che diventa popolarissimo ma che proprio per questo motivo disgusta i fan di più lunga data. I quali a volte sembrano ignorare che il colpo di coda non tradisce affatto lo stile del cantautore che lo ha inciso, anzi a volte ne è un'epitome precisa e persino impietosa. È un colpo di coda, per esempio, Viva la mamma di Edoardo Bennato, Caruso di Dalla (oppure Attenti al lupo), Quattro amici al bar di Gino Paoli, Don Raffae' per De André, Cirano per Guccini, mentre faccio fatica a riconoscere il colpo di coda di De Gregori (La donna cannone?) o di Vasco Rossi (Sally?), quest'ultimo del resto irriducibile scodinzolatore. In ogni caso il colpo di coda si presta molto bene a essere la canzone più odiamata del repertorio. C'è gente che va ai concerti apposta per sentire quella e gente che in quel momento va al bar o in bagno. 

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104. La vita ci prendeva con strana frenesia

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[Questa è la 104ma puntata della Gara delle canzoni di Franco Battiato, il derby del ritorno al passato, quello delle leggende celtiche o quello dei treni a vapore].

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

Di tutti i testi di FB, forse quello del Cinghiale bianco è il più suscettibile di un'interpretazione esoterica: una spia del fatto che le parole potrebbero alludere ad altro è l'incongruenza di un riferimento alle tradizioni celtiche nel ritornello di un brano ambientato a Tunisi (quanto alla musica, non piega né sull'Irlanda né sul Nordafrica, anche se il violino potrebbe suggerire più la prima). In direzione esoterica si avventurano ad esempio, Jachia & Pareyson, che però non è che arrivino a conclusioni così rilevanti: gli studenti di Damasco potrebbero essere discepoli di un rito iniziatico (dervisci?), l'uomo di una certa età potrebbe essere un Grande Maestro (io che invece sono stato educato a diffidare dei vecchi che offrono cose ci vedevo sempre un adescatore), le sigarette turche preziosi insegnamenti, ecc. Del resto se fosse un testo a chiave sarebbe strano che avessimo già trovato la chiave: mi domando quanti estimatori di Battiato ne condividano la cultura così settoriale. Quel che davvero lascia perplessi è la tempistica: cioè possibile che Battiato abbia pensato a un testo esoterico proprio nel momento in cui decideva di prendere una strada essoterica, con due s? Il Cinghiale bianco è il suo primo tentativo di hit: che senso avrebbe avuto infilarci un testo a chiave comprensibile a pochissimi eletti? Non è più probabile che nel momento in cui si pone il problema di scrivere qualcosa di successo, Battiato non scelga di caricarlo di tutte le suggestioni che si trova davanti, preoccupandosi molto più dell'effetto che del senso delle cose che scrive? A volte i critici sottovalutano il fatto che i poeti (compresi i cantanti) prima ancora di veicolare un messaggio, hanno un testo da completare. Deve funzionare, deve stare in metro (quando FB comincerà davvero a dare importanza ai suoi messaggi, smetterà di preoccuparsi dei metri), deve suggerire all'ascoltatore qualcosa che lo incuriosisca oltre il primo ascolto: questo viene prima di tutto il resto. 


1980: Passaggi a livello (Battiato/Pio, #85)


Ho cercato qua, ho cercato là, ma non credo che nessuno sappia realmente perché Calasso ammonisca bambini e genitori dal Corriere della Sera. Per anni mi sono lasciato cullare dall'idea che il padre di Calasso, insigne giurista, avesse una rubrichetta alla Panebianco su cui dispensare ovvietà alla borghesia, ma guardando bene non risulta e non avrebbe molto senso. Adesso mi sono fatto questa idea che il giurista stia su una specie di veranda, nascosto dal lenzuolo del Corriere nella cui lettura è assorto, mentre i calassini stanno giocando nell'aja e ogni tanto il giurista si ricordi di loro e "dal Corriere della sera" li esorti a coprirsi, ché fa freddo. Forse si sarebbe potuto scrivere in modo più chiaro, ma il punto è che Battiato non è così abile a spiegarsi: ci prova, a volte ottiene immagini icastiche e indimenticabili, altre volte grovigli inestricabili, un po' come le AI generatrici d'immagini che vanno di moda adesso: Battiato è un generatore d'immagini non artificiale, ma comunque piuttosto artigianale. 

Abbiamo parlato altre volte di sensibilità crepuscolare, un concetto che probabilmente meriterebbe un approfondimento serio e una biblioteca universitaria aperta in agosto con quel vecchio studio di Sanguineti. Il crepuscolarismo è stato il primo movimento artistico che ha fatto i conti seri con l'obsolescenza dei manufatti artistici, elaborando strategie (culto della nostalgia, feticismo del cattivo gusto, ironia) così efficaci che Gozzano è tuttora il poeta più leggibile del secolo scorso, proprio lui che notava come D'Annunzio sapesse di vecchio già in vita. Tutti i riferimenti al passato per cui si sdilinquiva non li cogliamo più: la nostalgia per quel passato di piccole cose lo afferriamo al volo. Patriots è il disco crepuscolare di Battiato: qui affiorano i brandelli di poesie scolastiche e i quadretti di maniera. Anche gli slogan politici, quando compaiono, non sono che belle frasi di un tempo che fu, come quel "Salve, ricordo" iscritto su una noce di cocco.

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103. Emanciparsi dall'incubo delle passioni

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[Cosa può essere questa, se non la 103ma puntata della Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con la sfida tra le due due canzoni d'amore più rappresentative? Seguiteci per sfide ancora più lancinanti].


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1979: Stranizza d'amuri (Battiato/Pio, #28)

Penso che chi è arrivato fin qui possa concordare sul fatto che Stranizza è una canzone d'amore, che rispetta i criteri minimi della canzone d'amore, ovvero c'è un lui che ama una lei. Bene. Ora cercate un'altra canzone d'amore di Battiato. 

Curioso, no? Battiato ha scritto canzoni sull'amore, sia come pulsione (Sentimento Nuevo) sia come sentimento (La stagione dell'amore). Ma canzoni propriamente d'amore, dopo Stranizza, veramente poche (e prima di Stranizza, solo negli anni '60: il che ci autorizza a ipotizzare che un abbozzo di Stranizza fosse già nel repertorio fintotradizionale degli Ambulanti). Anche l'arrivo di Sgalambro nel reparto parole non cambierà sostanzialmente le cose: aumenteranno piuttosto le canzoni di disamore, genere che Battiato aveva già inaugurato col Mito dell'amore. Questa refrattarietà all'argomento, apparentemente bizzarra per un compositore di musica leggera, Battiato la condivide in realtà con buona parte dei cantautori 'impegnati' dei Settanta, un segno riconoscitivo del cui impegno era proprio l'insofferenza per l'argomento più trito del genere pop. Guccini, De André (primi singoli esclusi), De Gregori, canzoni d'amore ne scrivevano pochissime, il che conferiva una sensazione di eccezionalità alle pochissime che concedevano: Rimmel, Verranno a chiederti del nostro amore, Stranizza d'amuri. Alla fine è anche giusto così; nell'economia di un'esistenza, gli innamoramenti non sono poi così frequenti. Battiato ha forse cantato più spesso dell'eros e anche questo, nell'economia di un'esistenza, ha il suo senso. Così come ha senso che una delle sue rare canzoni d'amore sia una delle ultime (Le nostre anime). E un'altra sia tra le più belle in assoluto (Stranizza). L'ambientazione in tempo di guerra ci autorizza a sospettare che Battiato, magari inconsciamente, stia raccontando l'innamoramento dei suoi genitori. 


1988: E ti vengo a cercare (#5)

Anche solo per vederti o parlare. Com'è noto, E ti vengo è una canzone che può parlare di qualsiasi cosa uno voglia, dall'innamoramento all'estasi religiosa: è stata scritta con apposita ambiguità. Poi certo ci sono situazioni che sembrano più adatte di altre, ed è significativo il fatto che il testo si adatti così bene, ad esempio, a una delle relazioni più importanti della vita di Battiato, che però nel 1988 non era ancora cominciata: quella con Manlio Sgalambro. In lui FB ritrova le sue radici e una consonanza di temi e aspirazioni. Il che significa per lo meno che la relazione discepolo-maestro descritta nella canzone è per Battiato un aspetto cruciale dell'esistenza, tanto quanto lo è per gli altri cantautori l'innamoramento tra pari. Del resto è una costante della sua vita, attenzione, di adulto: perché da giovane non dava l'impressione di cercarsi maestri e di fidarsi di loro. Le cose cambiano, sul piano esistenziale forse con l'incontro con Thomasson, e su quello artistico senz'altro col folgorante incontro con Stockhausen. Da lì in poi Battiato non ha fatto che cercarsi maestri di musica, di lettere e di vita, e l'aspetto più curioso della sua traiettoria non è tanto come li abbia trovati, ma come sia riuscito a coinvolgerli in progetti artistici tanto imprevedibili: prende lezioni di piano da Ballista e gli fa incidere Za e L'Egitto; prende lezioni di violino da Giusto Pio e trasforma un orchestrale in pensione in uno dei compositori pop più importanti e affermati del secondo Novecento; incontra un possidente siciliano con l'hobby della filosofia e lo trasforma, a dispetto di ogni senso comune, nel suo guru. Per cui davvero, quella volta che rispose a Morgan che no, non si sentiva affatto padre, ma ancora figlio, Battiato non stava scherzando e non stava prendendo le distanze da Morgan in particolare, bensì da tutti noi che lo venivamo a cercare. 

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102. L'inverno con la mia generazione

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi Eizenstein contro Ippocrate].

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1981: Prospettiva Nevski (Battiato/Pio, #13)

Poi nella vita ho fatto altro, ma se fossi restato in ambito accademico mi sarebbe piaciuto sviluppare il concetto di poesia come disagio linguistico, ovvero: i poeti molto spesso sono persone che fanno fatica a spiegarsi, quelle che noi poi cataloghiamo come figure retoriche nascono talvolta come convulsioni, incidenti, traumi. Non è che bisogna sempre medicalizzare tutto e diagnosticare disturbi dell'apprendimento o dislessie (anche se in certi casi sono patenti): a volte è gente che ha più urgenza di esprimersi che competenze grammaticali. Franco Battiato è un sincero appassionato di lingue che al primo esame universitario ha buttato i libri in un cestino ed è scappato via. Ha scritto testi straordinari che sono rimasti nella testa di milioni di persone, e a parte questo quasi niente. Con gli intervistatori si vantava di non scrivere lettere, nemmeno cartoline. Anche i suoi migliori testi sono pieni di cose che non tornano. Prospettiva Nevski è un caso tipico: lo stesso Battiato non era affatto convinto di aver scritto qualcosa di valido (fu Pio a rassicurarlo). In realtà è una composizione molto interessante, piena di immagini icastiche (il vento che disintegra i cumuli di neve), con errori di sintassi che non perdoniamo agli studenti delle primarie. E poi uno dei suoi classici tibicines, versi incompiuti, di solito sintagmi nominali che spetta alla nostra fantasia completare con un predicato: l'inverno con la mia generazione. L'inverno cosa? E anche quel "con", che senso ha? Qualsiasi altra preposizione filerebbe più spedita: l'inverno della mia generazione, l'inverno per la mia generazione, l'inverno sulla mia generazione, persino l'inverno tra la mia generazione. Con tutte le possibilità a disposizione, Battiato ha voluto costruire un complemento di unione che potrebbe essere un semplice refuso, una goffezza grammaticale, o un modo per suggerire un'idea difficile da mettere in versi: che l'inverno sia arrivato con la generazione del protagonista della canzone, un ragazzo cresciuto probabilmente nei duri anni post rivoluzione d'ottobre. È un mondo di ristrettezze, un imbrunire in cui occorre imparare a vedere l'alba. Non lo si potrebbe dire in effetti in meno parole: l'inverno con la mia generazione. 


1985: L'animale (#20)

Dentro me segni di fuoco e l'acqua che li spegne: se vuoi farli bruciare tu lasciali nell'aria oppure sulla terra. Secondo la teoria degli umori, sviluppata da Ippocrate e ripresa da Galeno, i caratteri dell'uomo dipendono dai quattro fluidi che corrispondono ai quattro elementi di Empedocle: alla terra è legata la bile nera (detta anche melancolia) che ha sede nella milza; all'acqua è legata la flemma, che ha sede nella testa; all'aria il sangue, che ha sede nel cuore; al fuoco la bile gialla (o collera) che ha sede nel fegato. Dunque cosa vuol dirci Battiato con questa strofa – a parte che continua a trovare valida una teoria completamente superata dalla scienza dopo il Rinascimento? Che soffre di sbalzi d'umore, scatti di collera (segni di fuoco) smorzati immediatamente da una flemmatica razionalità. Che dovrebbe imparare a incanalarli verso altre passioni: essere più sanguigno o malinconico. Ma è difficile, per via dell'animale che si porta dentro. E ora tocca a noi: possiamo apprezzare L'animale anche se non ne condividiamo i presupposti pseudoscientifici? Il fegato ci dice no, maledetto pazzo (cioè scherziamo? Siamo a un passo dal terrapiattismo), la milza non si pronuncia (tanto tutto è vanità), la testa ci dice che alla fine Battiato sta solo cercando di esprimere i suoi dissidi interiori, e questo sì, se ci interessa lo possiamo condividere; il cuore conferma che sì, L'animale ci interessa molto (il fegato brontola, ma sopporterà anche questa). 

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101. Le serenate all'istituto magistrale

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con due classiche di cui una è veramente molto più classica dell'altra].

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1981: Cuccurucucù (Battiato/Pio, #4)

Ahi ahi ahi ahi ahi cantava. Chi è che cantava? È ovvio, Francesco Battiato. È lui che faceva le serenate all'istituto magistrale nelle ore di ginnastica e religione (nella realtà le faceva in un liceo, ma quanto è crepuscolare ed efficace "istituto magistrale", per come sottende un pubblico di sognanti, aspiranti maestrine). È lui che cantava sui carri in maschera, è lui che per cantare ha indossato mille travestimenti, compreso il pellerossa con gli Osage Tribe. E cosa cantava? Per tante volte che ha raccontato come dai 18 ai 24 anni il suo lavoro sia stato la balera, non si è mai soffermato molto sul repertorio, che doveva variare molto col pubblico e col contesto. Il mare nel cassetto? Le mille bolle blu? Lady Madonna? Ruby Tuesday? Tre quarti dei ricordi appiccicati nel testo sono frasi di canzoni: evidentemente Cuccurucucù parla di questo. Di come canzoni e ricordi possano coincidere nella memoria di chi sin da ragazzino le ha cantare, per amore, per soldi e per piacere. Se siamo fatti di ricordi, siamo fatti di oggetti: di penne stilografiche, rasoi elettrici e soprattutto di dischi che girano. È questo che Battiato ci canta, prima di bloccarsi proprio come un vecchio disco su quell'ultimo like a rolling stone, stone, stone, stone, stone.


1983: Un'altra vita (Battiato/Pio, #29)

Un'altra vita fa parte del nucleo tematico di Orizzonti perduti, un disco piuttosto compatto. Scartando i due brani più eccentrici (il più amato, La stagione dell'amore e  e il più odiato: La musica è stanca), ne restano sei: tre di ambientazione siciliana (Zone depresseMal d'Africa, Campane tibetane) e tre milanese (Tramonto occidentale, Un'altra vita, Gente in progresso). I titoli sono alternati, dando la sensazione di un pendolarismo tra Sud e Nord, mal di vivere e memorie famigliari. Dei tre brani milanesi, Un'altra vita è il più cupo e rivela una vera e propria ossessione per il traffico urbano (qui descritto con toni assai più depressivi che in Temporary Road). E poi c'è la tv, le "storie di sottofondo", di cui Battiato non omette i titoli: Dallas e [Anche i] ricchi piangono. Faceva uno strano effetto sentirlo declamare non più titoli di canzoni del passato, ma brandelli del paesaggio linguistico presente, quello che noi ascoltatori condividevamo con lui sulle stesse guide tv. Per noi più giovani – che molte di quelle canzoni le avevamo sentite soltanto declamate da lui, sentirlo ora cantare di Dallas, Viks Vaporoub, e Idrolitina sembrava la fine della poesia, del mistero. Ora, con un po' di distanza, anche queste schegge sembrano aver trattenuto un po' d'incanto crepuscolare (se vi chiedete cos'è, è uno dei motivi per cui non riuscite mai a vuotare i vostri cassetti)..

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100. E i cittadini attoniti fingevano di non capire niente

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una classica Bengasi-Varsavia].

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1982: Radio Varsavia (Battiato/Pio, #9)

I primi secondi dell'Arca di Noè sono meravigliosamente sospesi tra suoni antichi e nuovi. Il coro dei Madrigalisti processato o miscelato con i sample orchestrali del campionatore Fairlight – di lì a qualche anno le improvvise bordate d'orchestra sparate dal Fairlight diventeranno un luogo comune, pensate delle produzioni hip hop, ma qui suonano stranianti a quarant'anni di distanza, come lampi da una registrazione interrotta (ancora una volta uno strumento nuovissimo usato per ottenere effetti antichi). E intanto in sottofondo è partita quella pulsazione regolarissima di una batteria (o più probabilmente è il Roland TR 808) che ci fa pensare: dove abbiamo già sentito un inizio così? Dappertutto, cosa c'è di più standard di un secco 4/4 suonato dalla drum machine più venduta degli anni '80, sì, ma questo ritmo così secco, in un silenzio venato da lampi improvvisi di suono, dove l'aveva già sentito Battiato? Non è che non lo riteniamo incapace di inventarsi qualcosa del genere, ma in un qualche modo suona già sentito, ma appunto: sentito dove? L'Arca di Noè, dei dischi anni '80, è forse quello che contiene più sotterranei rimandi alla fase prog – anche se si tratta più di lapsus che di riferimenti espliciti. In un certo senso, anche Fetus cominciava con una pulsazione. E anche The Dark Side of the Moon, l'anno dopo (un disco di cui Battiato non mi pare parli mai, ma è improbabile che non l'abbia ascoltato) e non è poi così diverso, il 4/4 secco di Radio Varsavia, da quello di Breathe... Oppure: un altro disco di cui Battiato non parla mai è Smogmagica, il che è molto più comprensibile: non ne parlano volentieri nemmeno le Orme. Se però dovessi dire stamattina a cosa assomiglia di più l'inizio di Radio Varsavia, ecco, forse ad Amico di ieri: che è anche una di quelle canzoni che non sarebbe stato affatto strano trovare in un quarto o quinto volume di fleurs.


1989 (ma composta nel 1981 per Giuni Russo): Lettera al governatore della Libia (Battiato/Pio,  #105)

– Energie è un disco dallo strano destino. Quando l'anno successivo la Russo fece il botto con Un'estate al mare, l'album venne reimpacchettato con il nuovo singolo, da cui prese un nuovo nome. La stessa Giuni Russo avrebbe dovuto essere reimpacchettata come cantante di hit estive: un ruolo per il quale non si sentiva portata; né la contagiava l'euforia situazionista di Battiato e Pio che in quegli anni pur di far successo (e soldi!) avrebbero reimpacchettato pure Beethoven, anzi lo fecero. Tuttora, anche rifuggendo Un'estate al mare e cose come Alghero Limonata Cha Cha Cha, trovo impossibile ascoltare Giuni Russo in inverno. Anche solo in autunno. E in primavera mi sembrerebbe di rovinarmi l'estate, insomma Caterina Caselli con me ha vinto. Ma è solo colpa sua? Anche quando questo album si chiamava ancora Energie, non era già un disco così estivo e mediterraneo da non ammettere ascolti protratti oltre il 15 settembre? Non vi assale un odore di fichi d'india tostati dal sole anche solo alle prime note sirtakanti della Lettera, che pure è ambientata in autunno, ma quanti gradi potranno fare a Bengasi in autunno, ventotto all'ombra?

– Secondo Paolo Jachia e Alice Pareyson, Lettera è il primo brano in cui Battiato toccherebbe l'argomento reincarnazione: "Quell'idiota di Graziani" farà effettivamente "una brutta fine", se non in questa vita nella prossima. Secondo me Jachia e Pareyson a volte sovrainterpretano; è chiaro che Battiato si presta, coi suoi testi ellittici che è facile prendere per criptici, ma è un testo del 1981, Battiato non sarebbe tornato esplicitamente sull'argomento per altri dieci anni. Io credo che nell'economia del brano, il riferimento così diretto a Graziani sia dettato dalla necessità di prendere le distanze dal fascismo coloniale: se non ci fosse, il brano potrebbe anche essere inteso come una fantasia nostalgica. Ho scritto "se non ci fosse", ma in realtà fino al 1989 davvero non ci fu. La Russo non aveva voluto cantare quel verso, per paura che Ivan Graziani lo credesse riferito a lui. 

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99. Non si erano mai viste code tanto lunghe

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con due canzoni scritte nell'arco di pochissimi mesi eppure diversissime].

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1982: L'esodo (Battiato/Pio/Tramonti, #89).

In effetti, persino in una traiettoria artistica così complicata come quella di Franco Battiato, poche fratture sono percepibili come quella tra L'arca di Noè e Orizzonti perduti. Prendi proprio L'esodo, un brano in cui il synth la fa da padrone – ma suona ancora come il vecchio synth a valvole, vibrante, polveroso. Addirittura Zuffanti nel crescendo finale sente echi di Goutez et Comparez, ovvero dell'organo di Monreale. Passano pochi mesi e il nuovo sound digitale è quello patinato e smagliante del Roland MC-4. Quel che è buffo è che i vecchi synth hanno retto il tempo molto più dei Roland: che FB ha più volte sentito la necessità di riarrangiare La stagione dell'amore, mentre L'esodo difficilmente riusciremmo a immaginarla con una strumentazione diversa da quella del 1982. Ora, questo tipo di fratture che dipendevano molto di più dall'evoluzione tecnologica che non dalle volontà/necessità espressive dei musicisti, sono la cosa che rimpiango di più del mezzo secolo tra 1950 e 2000. Non ho davvero motivi per sostenere che sia stata l'età dell'oro della musica leggera. Può anche darsi che agli ascoltatori delle prossima generazioni non risulti quell'abbassamento qualitativo che per una bizzarra coincidenza nella nostra percezione corrisponde esattamente al momento in cui siamo diventati adulti. Ma la capacità di datare a colpo sicuro un brano tra '56 e '98, anche solo al primo ascolto – una competenza acquisita con tanto tempo e fatica e soldi distratti ad altre più utili discipline – ecco, quella mi manca. Dal 2000 in poi come fai? misuri la quantità di autotune? Un certo tipo di progresso sembra finito, e l'importante non era evidentemente il punto d'arrivo. 


1983: La stagione dell'amore (#8) 

Guerrera: Come vivi la prospettiva della vecchiaia, che rapporto hai con i vecchi?

Battiato: È una cosa che per il momento non capisco perché non sento di avere l'età che ho. D'altronde questa condizione riguarda molti individui, eppure ci sono alcuni che al contrario provano in un certo senso gusto a invecchiare troppo presto, salvo coloro ovviamente che soffrono di una qualche infermità. In ogni caso per quello che mi riguarda non esito ad annoverale la vecchiaia tra le categorie opinabili (da Guerrera, Battiato Another Link, Verdechiaro, Reggio Emilia, 2006). 

La stagione dell'amore è credo il primo brano in cui FB si pone il problema dell'invecchiamento, più o meno negandolo. In seguito negherà con decisione la realtà della morte ("noi non siamo mai nati e non siamo mai morti"). Nello stesso volume, a una pagina di distanza, Battiato spiega all'intervistatore che vuole andare a riposarsi un po', forse in Grecia: e mentre racconta delle sue esperienze sul monte Athos con Camisasca e Thomasson, ottantenne ma arzillissimo, Guerrera gli chiede bruscamente se si è mai innamorato in vacanza. Invece di mandarlo a quel paese, Battiato riesce a produrre una risposta seria: "La luce di certi occhi, la dolvezza di un viso, un particolare seducente possono attrarre. E per un attimo puoi davvero avvertire una corrente speciale destinata ad accendersi e subito spegnersi". Ma poi soggiunge: "Riposare significa anche non lasciarsi ossessionare dalle occasioni perdute. Non rimpiangerle mai". Insegnamento più che valido, anche se bisogna riconoscere che Battiato le sue Euridici si è voltato talvolta a guardarle. Non spesso, ma più frequentemente, man mano che invecchiava (pensiamo alle Nostre anime). Forse dovremmo fare come diceva, non come cantava. Non rimpiangere mai, niente e nessuno. Chi rimpiange invecchia. Siete pronti? Da oggi, niente più rimpianti. Sul serio. Facciamo che leggere e ascoltare tutto questo Battiato ci sia servito a qualcosa. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

Accetta il consiglio (Battiato/Sgalambro, 2003)


Mentre andavo a riprendere la versione live 2003 della Stagione dell'amore (che alla fine è davvero la più spudoratamente irresistibile, coi cori del pubblico) mi sono ricordato che nello stesso CD c'è una traccia che ho escluso dal torneo perché ne avevo già 256 e questo in sostanza è Sgalambro che sgalambreggia in libertà mentre magari Battiato è al gabinetto – mi sembrava più interessante persino Soldier degli Springfield, me ne assumo la responsabilità. Forse sono i tre minuti in cui si intuisce di più che compagnone doveva essere: un piacione, un guitto, più a suo agio del padrone di casa quando si trattava di declamarsi al microfono. Una cosa curiosa è che si sta rivolgendo solo ai ventenni, che nei live del periodo non erano necessariamente la maggioranza. Anche lui dispensa consigli su come non invecchiare, tra cui ovviamente il più importante è non accettare nessun consiglio, ah, com'è paradossale professore.
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98. Ragazzi non giocate troppo spesso accanto agli ospedali

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con la canzone più lunga e antica ancora in lizza].

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Sequenze e frequenze (#144)

Nel momento in cui scrivo, mentre continua il testa a testa serrato tra Aria di Rivoluzione e La Cura, Sequenze ha buone probabilità di essere l'unico brano pre-Cinghiale nei 32 ammessi al terzo turno. Questo, se in parte è ingiusto nei confronti di un periodo in cui Battiato ha inciso e sperimentato molto, dall'altra conferma quanto Sequenze sia l'episodio più rappresentativo almeno di tutta la fase 1972-1975 (diciamo da Fetus a Gladiator), sospeso com'è tra l'anima prog e quella più avanguardistica che si esprime soprattutto nella lunga coda strumentale. Ma è anche la prima canzone in cui Battiato sperimenta il suo stile salmodiante: la prima in cui mette in gioco le memorie del suo passato, la prima in cui fissa il mare. Sulle corde di Aries è di gran lunga il disco più solare di quegli anni, ed è il primo di cui FB in seguito parlerà volentieri, come di un'esperienza purificatrice. E nonostante la percepibile distanza con Pollution, il synth è ancora in primo piano; la suite che occupava un lato intero dell'album era quasi un luogo comune del prog (tutti gli artisti che ascoltavamo negli anni '80, se andavi a cercare, nel decennio precedente avevano fatto un disco con almeno un pezzo lungo un intero lato; un pezzo che a riascoltarlo sembrava inspiegabile, completamente diverso da tutto quello che avevano fatto dopo, misterioso come un vecchio album di foto dei genitori pieno di gente sconosciuta coi baffi). 


Venezia-Istanbul (Battiato/Pio, #48)

Ecco un brano che mi sorprende di trovare ancora in gioco. Non ha neanche avuto un percorso così facile – ha buttato fuori Mesopotamia, Un vecchio cameriere, Ruby Tuesday. La sensazione è che i grandi elettori della Gara ragionino più per album che per canzoni singole, e anche ai singoli più rilevanti del Battiato pre o post-Ottanta preferiscano anche gli episodi meno noti dei dischi degli anni Ottanta. Patriots continua a essere uno dei dischi più amati: è un caso tipico di successo postumo, perché quando uscì vendette appena quarantamila copie (l'Hunky Dory di Battiato, in un certo senso).

Se parla di qualcosa, Venezia-Istanbul potrebbe parlare di relativismo culturale, un concetto di cui al tempo non si parlava parecchio (e anche adesso mi sa passato di moda). I pagani ammazzavano i cristiani, poi viceversa, il mondo va così (forse finisce qui). Spuntano qua e là tra le righe riferimenti all'omosessualità come pratica o tendenza: Socrate parlava spesso delle gioie dell'Amore, e nel petto degli alunni si affacciava quasi il cuore, tanto che gli offrivano anche il corpo, e poi i famosi "due abbracciati in un cinemino di periferia", che nel testo riportato in copertina sono specificati "uomini" tra parentesi: una precisazione a cui evidentemente Battiato teneva, ma che sui solchi del disco avrebbe pregiudicarne la diffusione radiofonica. Non era poi così facile parlare di queste cose in un disco nel 1980. Una riflesso equivoco ricade anche sulla passione di D'Annunzio per gli aeroplani e le bande legionarie, con quel commento sibillino: che scherzi gioca all'uomo la Natura.    


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97. Il cielo a volte, invece, ha qualche cosa d'infernale

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, che sembra non finisca mai e invece oggi cominciano i sedicesimi! Con una lotta abbastanza impari tra la favorita per ranking e una delle ultime superstiti degli anni Novanta].

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1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1).


Grazie a commentatori anonimi (che ringrazio), sono riuscito a identificare la vecchia bretone con un cappello, un ombrello di carta di riso e canna di bambù: dovrebbe proprio essere l'esploratrice (ma diciamo pure avventuriera) Alexandra David-Néel, teosofa, reincarnazione di qualche lama, che malgrado i numerosi e faticosi viaggi morì centenaria (quindi "vecchia"), non era bretone ma per un po' soggiornò a Mont-Saint-Michel (lo so che non è tecnicamente Bretagna, ma magari Battiato no), e spesso è raffigurata con gli ombrellini coloniali ma all'occorrenza riusciva a travestirsi da monaco tibetano per arrivare a Lhasa e restarci mesi prima di essere scoperta. Per campare s'improvvisò pure cantante lirica ad Hanoi; a Tunisi mentre studiava il Corano fece la direttrice artistica come Battiato a Catania, insomma un personaggio che FB non poteva non ammirare e che probabilmente introduce il tema del mascheramento. Però attenzione: mentre di Matteo Ricci è menzionato il travestimento da bonzo, della David-Néel si ricordano gli accessori coloniali, come a dire: è quello il travestimento, la David-Néel autentica era una monaca tibetana (ne adottò uno), se si vestiva da occidentale era per farsi accettare da noi europei, per far passare i suoi messaggi – proprio come FB si era travestito da avanguardista perché erano "i giorni di maggio" e la credibilità si guadagnava raccogliendo ortiche, mentre ora deve inforcare gli occhiali neri da popstar per volgarizzarci un po' di Gurdjieff; travestirsi da freejazzista, da punk, da artista new wave, infiocchettando le sue canzoni con i finti cori russi dei madrigalisti di Milano (negli anni in cui il Coro dell'Armata Rossa era una presenza fissa ai festival dell'Unità). Il fatto che non sopporti veramente nessuno di questi codici musicali è un'affermazione inversa a quella contenuta in Bandiera bianca, di preferire l'insalata a Beethoven: là Battiato è nel personaggio, qui lo sta svelando.   


1996: Strani giorni (Battiato/Sgalambro, #33)

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Battiato ha inciso più titoli negli anni Novanta che negli Ottanta. Lo stesso numero di album (sei), ma alcuni un po' più lunghi – probabilmente per venire incontro alla maggiorazione dei prezzi con l'imporsi dei CD, e qui ci si potrebbe domandare se la necessità di stiracchiare la propria ispirazione abbia giovato a Battiato dall'Imboscata in poi. Sia come sia, il giudizio del secondo turno del torneo è abbastanza reciso: solo tre brani degli anni '90 dovrebbero averlo passato. Strani giorni è una delle tre ed è la sola ad aver fatto fuori un pezzo degli '80, Chanson egocentrique. È anche una delle tre superstiti del catalogo di Sgalambro, che ne ha cofirmate una sessantina. 

Un'altra cosa che al terzo turno mi piacerebbe aver chiarito: chi tra i cantanti ha inciso il verso "Il cielo azzurro appare limpido e regale"? Nessuno mi pare sia ancora riuscito a trovare il riferimento. Sarebbe bello che fosse lo stesso Battiato, che del resto non ha mancato di associare il cielo alla divinità (vedi Lo spirito degli abissi), e che qui Sgalambro liquiderebbe come "uno dei tanti". Un altro buon candidato potrebbe essere Jim Morrison, visto che la canzone si chiama Strani giorni, e che alla fine è uno degli autori rock più citati da Battiato. Riferimenti morrisoniani nelle sue canzoni: "The end, my only friend" in Bandiera bianca; "strani giorni" in Strani giorni, "Come on baby light my fire" in La musica muore (solo nella sua versione: in quella originale di Camisasca non ci sono citazioni). Ok, sono solo tre, cioè è pari merito con Dylan e coi Beatles. Un fleur che avrei sentito volentieri è Light My Fire col sintetizzatore di Fetus. Non avrebbe avuto senso, dite. Vi ricordo che ha rifatto Hey Joe...

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96. Chi stranu e cumplicatu sintimentu

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[Questo è l'ultimo trentaduesimo di finale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, con due canzoni che stanno appena a quattro anni di distanza, ma in mezzo c'è la Milano-Napoli e la Salerno-ReggioCalabria, e un oceano (di silenzio)].

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1984: Temporary Road (#107)

Vigilesse all'erta come teddy boys. Che La voce del padrone riuscisse a portare tutte le sue sette canzoni al secondo turno era abbastanza prevedibile. Che ci riuscisse anche Patriots, un po' più sorprendente. Ma che il disco con più superstiti in assoluto fosse Mondi lontanissimi (otto brani su nove) ecco, questo non me lo aspettavo. L'unico brano che non ce l'ha fatta è la povera Personal Computer, che ha questo punto mi fa pure tenerezza, perché lei no e Temporary Road sì? E possibile che Campane tibetane sia stata mandata a casa da quest'ultima, più che una canzone uno scherzo dettato dalle frustrazioni del traffico milanese e dalla necessità di portare in tv qualcosa di leggero? (i pezzi dell'Arca di Noè non si prestavano più di tanto). Poi bisogna dire che la melodia iniziale è proprio piacevole, anche se non sono del tutto sicuro che sia farina del suo sacco (sprecarla per un pezzo così?)

Quello di Mondi è un primato abbastanza discutibile, non solo perché "otto su nove" non suona come "sette su sette", ma anche perché un titolo (Il re del mondo) è in comproprietà col Cinghiale bianco, e in generale si tratta di un LP a metà strada tra l'album e la raccolta, con alcuni brani che il turno l'hanno passato nonostante la versione di Mondi (Tozeur, ad esempio, e la stessa Re del mondo). È un disco che somiglia molto alla lontana ai dischi che in quegli anni mandava fuori Dylan, con tante cose diverse messe assieme all'ultimo momento quando compariva all'orizzonte la scadenza contrattuale. Ci sono gli abbozzi 'spaziali' che ruotano già intorno all'opera Genesi, le tracce di un lavoro di riarrangiamento del suo catalogo che sta facendo per i mercati esteri (un progetto portato avanti con scarsa convinzione e una strumentazione che in tempi brevissimi sarebbe risultata datata: non è nemmeno del tutto colpa sua, tutti i suoni che produceva la Roland ci stancarono all'improvviso, come un giocattolo stanca il bambino). Battiato non è sicuro di voler continuare questa cosa della popstar, e nemmeno di voler restare a Milano. Per cui è abbastanza bizzarro che i brani di questo periodo di crisi alla fine ci piacciano di più di quelli composti in altri periodi assai più pacifici, in cui Battiato sapeva cosa voleva fare e dove voleva stare. O no? In realtà no, le cose migliori le fai ti escono quando sei sotto pressione e vorresti/dovresti fare qualcos'altro. È il motivo per cui esiste Milano, probabilmente. L'hanno proprio costruita apposta.


1988: Veni l'autunnu (#86).

Scura cchiù prestu. L'albiri perdunu i fogghi e accumincia a scola. Mi piace pensare che non sia un autunno qualsiasi, ma il primo che Battiato decide di passare in Sicilia: prima l'autunno era la stagione milanese per eccellenza ("Torneranno di nuovo le piogge, riapriranno le scuole, cadranno foglie lungo i viali...") La fine di una transumanza più che ventennale – che purtroppo coincide con il periodo creativo più interessante. Abbiamo già notato come il procedimento del collage (che però Battiato rifiutava di chiamare così) resista, da Fisiognomica in poi, solo nei rari brani in vernacolo siciliano che somigliano in questo a certe raccolte di modi di dire dialettali che dalle mie parti occupano uno scaffale apposito delle librerie, spesso il più vicino alla cassa. Per cui alla fine non è così semplice distinguere l'avanguardia dalle manifestazioni di folklore più ingenuo. Battiato ha nei confronti della cultura orale tradizionale un'ammirazione che lo colloca a colpo sicuro in un filone neoprimitivista che dobbiamo ancora formalizzare ma che a un certo punto in Italia è diventato una cosa importante: non ci sono solo personaggi mediatici alla Mauro Corona, c'è Ermanno Olmi, per dire, ma in un certo senso pure Pasolini, autori che Battiato non cita assolutamente mai ma con cui condivide una diffidenza per il progresso che forse è un tratto distintivo della nostra cultura nazionale: la rivoluzione industriale noi non l'abbiamo mai veramente accettata, è una cosa che viene da fuori e siamo convinti che prima o poi se ne dovrà andare. 

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