114. L'orgoglio di fantastiche operaie

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi con l'ottavo sulla carta più equilibrato: la #8 del ranking contro la #9].

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1982: Radio Varsavia (Battiato/Pio, #9)

A questo punto devo accettare l'evidenza: Radio Varsavia è uno dei classici di Franco Battiato. Per quanto io non sappia più di tanto spiegarmi la cosa. Non ho mai sentito nessuno cantarla (del resto non è così facile da cantare). Non mi risultano cover. Lo stesso Battiato non sembrava interessato a inciderne una versione dal vivo: tanto efficace era stato l'effetto di quel coro sovrapposto a un brano di orchestra campionato, irriproducibile in concerto. Un'ipotesi – da verificare – è che l'alto numero di ascolti su Spotify (è la nona canzone di FB più ascoltata in assoluto!) dipenda dalla sua inclusione nella colonna sonora di Chiamami col tuo nome di Guadagnino. Però a questo punto, se si trattasse soltanto di un'anomalia statistica, Radio Varsavia non sarebbe tra le sedici canzoni superstiti. Non avrebbe battuto Gente in progresso, Zai saman, Amore che vieni amore che vai, Lettera al governatore della Libia. Sarà per quel titolo così ben scelto – qualsiasi titolo suona meglio con la parola "radio" davanti, lo sanno bene i REM, Roger Waters, Patti Smith; e in quegli anni ogni capitale dell'Europa centro-orientale aveva un sex appeal difficile da spiegare ("Warsaw" era il primo nome dei Joy Division, abbandonato perché già preso). Anche l'ipotesi politica lascia molto perplessi, ovvero: non è escluso che negli anni a seguire qualcuno si sia messo ad ascoltare Radio Varsavia perché sembrava una canzone anticomunista. Ma per accettarla come tale non solo bisognerebbe fingere che non esistesse la quarta strofa sulle biciclette di Shangai: occorre anche aver attraversato gli Ottanta in una campana di vetro, o essere nati dopo. L'idea che con Radio Varsavia Battiato tirasse la saracinesca su un decennio di cantautori politicamente impegnati e allineati al marxismo è giusto una fantasia da elettore di Fratelliditalia: tutto quell'allineamento non c'era mai stato (riascoltatevi Sono solo canzonette), e peraltro il decennio era cominciato con Guccini che cantava Primavera di Praga, insomma tra sovietici e dissidenti i cantautori avevano sempre scelto i secondi con buona pace di Berlinguer (che in quegli anni si diceva protetto dagli euromissili); Battiato, che pure appariva diverso e nuovo sia per la musica che per le parole, in Radio Varsavia sembrava piuttosto per un attimo riallinearsi al modello gucciniano. Forse semplicemente Radio Varsavia piace perché è una grande canzone: perlomeno io l'ho sempre trovata tale. Ma non credevo di essere in così larga compagnia, ecco. Un po' mi dispiace, non lo nascondo.


1983: La stagione dell'amore (#8)

Orizzonti perduti è più o meno contemporaneo di Technopop, il disco fantasma dei Kraftwerk. All'inizio doveva chiamarsi Technicolor, ma quest'ultimo era un marchio registrato (Battiato aveva goduto di maggior tolleranza con La voce del padrone). Technopop non sarebbe mai uscito a causa di un terribile incidente capitato a Ralf Hütter in un periodo in cui forse si dedicava più al ciclismo che alla sua carriera musicale. Dopo qualche settimana di coma e altri mesi di riposo, nel momento in cui ripresero i nastri di Technopop, Hütter e i colleghi condivisero la sensazione che i suoni fossero improvvisamente datati – le tastiere che fino a pochi mesi prima sembravano fantascienza ora suonavano autoscontro-del-pomeriggio. Battiato non andava in bicicletta, prendeva tante multe per divieto di sosta, disertava probabilmente fiere e autoscontri, in quel periodo credeva davvero che il futuro della musica sarebbe stato più elettronico che acustico, più pop che sinfonico, e probabilmente non ascoltava abbastanza schifezze in radio per rendersi conto di quanto i suoni delle apparecchiature Roland stessero impregnando la musica dance più deteriore. Il risultato è che per capire l'errore che non fecero i Kraftwerk nel 1984, non c'è niente come ascoltare il disco che Battiato fece uscire nel dicembre 1983. Di cui La stagione dell'amore è il brano più famoso, ma anche uno dei pochi episodi (insieme alla Musica è stanca) in cui Battiato sembra consapevole della rapida obsolescenza dei suoni che sta mettendo assieme, e tentato dall'opzione autoironica. Ed è anche l'unico brano, come abbiamo visto, che negli anni verrà completamente riarrangiato. Anche Technopop, una volta riarrangiato, uscirà nel 1986 col titolo Electric Café: malgrado a quel punto i Kraftwerk fossero un monumento della musica elettronica, sarà il loro primo lavoro realizzato con strumenti digitali (e non suona comunque molto meglio di Orizzonti perduti). 

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113. Al mattino, improvviso, il sereno

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – lo so che vorreste che non finisse mai, e invece oggi cominciano gli ottavi, con la sfida apparentemente più impari, ma arrivati a questo punto chissà].

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1974: Sequenze e frequenze (#144)


Delle sedici canzoni rimaste in lizza, Sequenze e frequenze è decisamente il pesce fuor d'acqua. Benché sia un po' presto per conoscerle tutte – qualche testa a testa è ancora in corso – dovrebbero essere quasi tutti brani compresi nelle prime venti posizioni del ranking; Sequenze e frequenze è la numero 144. Le altre provengono tutte dal decennio 1979-1988; Sequenze e frequenze è l'unico brano pre-Cinghiale. Nessuna dura più di cinque minuti; Sequenze dura un quarto d'ora. Sono tutti brani di pop italiano; Sequenze è un'altra cosa. Ormai la sua importanza esula dal suo ruolo (pur rilevantissimo): è l'unica a portare la bandiera di un Battiato diverso, prog o avanguardista che sia. Un dettaglio sul quale non ci siamo mai soffermati: il lessico è semplicissimo, quasi a grado zero (il termine più ricercato è "ammuffire"). Un segno che la purificazione di cui Battiato parla, riferendosi all'album Sulle corde di Aries, si possa intendere anche a livello linguistico: FB non ha più intenzione di stupirci con testi enigmatici o parole astruse. Niente più fantascienza distopica o miraggi di apocalisse. Solo il mare e la memoria.


1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

Gurdjieff mi ricorda istintivamente Marinetti. Ho controllato: è nato dieci anni prima. Lo stesso amore per i tappeti che ti portano la Persia in casa anche se stai a Milano, la stessa tensione verso orizzonti medio-orientali, anche se poi sono così confortevoli i caffè parigini. Gli stessi baffi, più o meno, la stessa pelata. Lo stesso gusto per le supercazzole pseudoscientifiche. Cosa accidenti significherebbe, in fin dei conti, "centro di gravità permanente"? Nella mia quasi totale incapacità di percepire i discorsi mistici (non è che non ci provo, è che di solito capisco solo una serie di enunciati che semplificandosi si riducono sempre a X=X, o Io=io) quello che mi colpisce non è tanto l'identificazione di uno stadio di maggiore consapevolezza di sé, che è quello che ti dice più o meno qualsiasi mistico quando ti parla di qualsiasi pratica, ma l'uso spensierato, diciamo così, di una terminologia scientifica che in quegli anni andava di moda. Einstein sta giustappunto rivoluzionando il nostro modo di concepire la gravità, e dal suo tavolino di caffè non è che Gurdjieff si preoccupi troppo del salto di paradigma tra campo di forze a curvatura dello spazio: quello che coglie al volo, da consumato venditore di tappeti, è che "gravità" è una parola interessante, nuova, e se cominci a parlare di "centro di gravità" la gente non ti scambierà per un vecchio guru ammuffito, bensì per un pensatore filosofo teosofo insomma uno che si tiene aggiornato. Come gli imbonitori che oggi piazzano qua e là un "quantico", come i filosofi postmoderni presi in castagna da Alan Sokal: il centro di gravità permanente è un "fashionable nonsense". Pochi anni dopo, anche Marinetti non è che ne capisca molto di automobili e aeroplani. Con la prima riesce quasi ad ammazzarsi finendo in un fosso per scansare un ciclista: il secondo non glielo fanno provare perché al primo aeroraduno italiano c'è spazio nell'abitacolo soltanto per un poeta e ovviamente tra il pubblico c'è D'Annunzio (pensate che invidia). Marinetti non ha ancora ben chiaro come la velocità cambierà il modo di fare poesia: quel che afferra, dalla sua casa di Milano piena di tappeti e souvenir egiziani, è che cominciare a parlare di automobili aeroplani e velocità lo farà sembrare molto, molto più avanti di D'Annunzio: e poi si vedrà, magari scoppia una guerra e al bagliore dei bombardamenti le cose diventeranno chiarissime. I Curie scoprono la radioattività e lui ritaglia articoli di giornaletti che suggeriscono che possa avere proprietà afrodisiache, ci scrive sopra persino un abbozzo di romanzo.

Quel che retrospettivamente ci spiazza, nei dischi cosiddetti postmoderni, è che Battiato sembra prendersi gioco anche di cose che invece sappiamo quanto prendesse sul serio. Quando canta "l'esoterismo di René Guenon", sembra liquidarlo come una sciocchezza, e invece è proprio da Guenon che prende il concetto di Re del mondo. Allo stesso tempo, come si fa a prendere sul serio "Cerco un centro di gravità permanente" cantato su un mellifluo giro di do. Proprio come i chitarristi da chiesa che esecra, Battiato ha deciso di diffondere la sua fede nel modo più pop possibile, senza tirarsi indietro di fronte al ridicolo: se Matteo Ricci si travestì da bonzo, lui può ben fingersi popstar. Qualcuno riderà, qualcuno crederà che è tutta una presa in giro. Tuttora io preferisco considerarla una presa in giro. 

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112. Le tue strane inibizioni che scatenano il piacere

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con l'ultimo sedicesimo. Erotismo contro folklore, bella lotta no? No, forse no].


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1981: Sentimiento nuevo (Battiato/Pio, #11)


In Sentimiento nuevo l'eros si fa parola. L'esuberanza lessicale (che la renderà una delle canzoni più famose e parodiate) è qualcosa di più di un rituale di corteggiamento; è già parte dell'atto sessuale. È abbastanza chiaro che Battiato è con una ragazza (perlomeno non è mai stato così chiaro e non lo sarà più fino all'era Sgalambro), ma allo stesso tempo è anche in una sua nuvola culturale, fatta di riti dionisiaci, shivaismo tantrico e quant'altro. Tutto questo, se uno si ferma a pensarci, è abbastanza buffo (e infatti la canzone si presta molto bene alla parodia), ma è anche assolutamente realistico: abbiamo tutti una nuvola del genere intorno a noi, quando ci accingiamo al sesso. La nuvola è fatta di scene che abbiamo immaginato, che abbiamo visto (sempre di più ora che la pornografia è una commodity), che abbiamo persino vissuto: scene che ci eccitano, o a volte ci spaventano, ci spronano o ci trattengono. La nuvola non ci impedisce necessariamente di notare che dall'altra parte esiste un partner – e infatti Battiato non se ne dimentica, anzi ci dialoga come ben poche volte nel suo repertorio. Ha strane inibizioni che "non fanno parte del sesso" anche se a veder bene "scatenano il piacere"; inoltre ha una voce che lo cattura come le Sirene avrebbero catturato un meno astuto Ulisse – riecco la nuvola culturale – e una pelle che è come un'oasi nel deserto. Lei nel frattempo magari si sta immaginando di farlo con Lawrence d'Arabia – a volte, se si fa sesso con persone con cui si condividono interessi, le nuvole coincidono così tanto che sembrano annullarsi.


1988: Veni l'autunnu (#86)

Battiato, se stasera non m'inganno, ha scritto quattro canzoni prevalentemente in siciliano: Stranizza d'amuri (1979), Veni l'autunnu (1988), Il cammino interminabile (2001) e 'U cuntu (2009); quindi più o meno una al decennio – comunque più delle canzoni composte in inglese (quelle per Echoes of Sufi Dances non contano). Insomma il siciliano è la sua seconda lingua di compositore. Meritevole di menzione è anche Caliti junku (2012) per lo più in italiano anche se il titolo è siculo (mentre Il cammino interminabile ha un titolo in italiano anche se per lo più è in siculo). Di tutte queste canzoni, solo Stranizza è interamente in dialetto: in tutte le altre c'è almeno un verso in un'altra lingua: nel Cammino l'italiano all'inizio, in Veni l'arabo alla fine, in 'U cuntu il latino. Più che un complesso di inferiorità, è una specie di tensione al plurilinguismo: Battiato vuole sempre ricordarci che il vernacolo è una libera scelta, e che se vuole può parlare qualsiasi altra lingua (magari male, ma può farlo: in Veni l'autunnu la dichiarazione d'amore alla Sicilia viene interrotta da una frase da corso di arabo livello principianti). Come spiega in Caliti junku: un proverbio siciliano potrebbe anche essere arabo o tibetano: l'uso del dialetto non dovrebbe distoglierci dal significato universale. Eppure almeno le prime due canzoni sono anche atti d'amore per la sua terra natale. Veni e Il cammino sono due curiosi patchwork di modi di dire tradizionali, e quindi sono anche i due brani più apparentemente folkloristici. 'U cuntu è un'elegia sulla fine della civiltà come Battiato ne ha cantate tante. Stranizza è una canzone d'amore come Battiato non ne aveva mai scritte (e non ne scriverà più), il che ci autorizza a pensare che il siculo gli serva anche come schermo. Ma a questo punto non si può non ipotizzare che una simile funzione di schermo non sia da estendere anche a Veni, in cui col pretesto del folklore Battiato scrive cose molto impegnative alla sua terra: Sicilia bella mia, Sicilia bella. Che strano e complicato sentimento, no non te le posso dire le mie pene, chissà se tu sei in grado di capire, non so nemmeno io perché ti voglio bene.  

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111. Nel fango affonda lo stivale dei maiali

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi col derby degli abusi di potere. Si sfidano oggi due invettive, ma anche due decenni l'un contro l'altro armati. Chi vincerà? Il primo sta già sventolando la bandiera di chi si arrende].

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1981: Bandiera bianca (Battiato/Pio, #6)

La cosa più sorprendente di questo sedicesimo di finale è che tra Bandiera bianca e Povera patria ci sono appena dieci anni – che almeno per chi è classe Pollution, come il sottoscritto, valgono venti se non trenta: Bandiera bianca la cantavamo alle elementari, Povera patria prima della maturità. Può darsi quindi che sia un mio errore prospettico a darmi la sensazione che Battiato abbia cambiato più pelli tra La voce del padrone e Come un cammello in una grondaia che da lì in poi. Sono due brani che risentono dello spirito dei tempi in cui sono stati composti, e a volte danno la sensazione di anticiparlo: l'ironia straniante di BB sta agli anni Ottanta come l'indignazione accigliata di PP ai Novanta. Ora, di solito quando parliamo di decenni non parliamo sul serio. Un decennio è un insieme arbitrario di anni, identificare questa o quella tendenza con un decennio è una semplificazione giornalistica che nessuno – nemmeno i giornalisti – prendono sul serio. Nessuno tranne Battiato. Lui a questa cosa dello Zeitgeist dei decenni sembra crederci davvero (del resto credeva agli oroscopi). È quello che possiamo dedurre da un passaggio di Tecnica mista sul tappeto in cui parlando di anni Settanta, Battiato spiega: "C'era un'influenza cosmica che si è fatta sentire su diverse città italiane. È durata circa un decennio. Poi tutto è sparito. In seguito è arrivato il decennio della discoteca. Adesso sembra che si sia entrati nel decennio dell'impegno. Così, avanti e indietro, come un balletto". Era il 1992, io stavo dando la maturità, e se l'avesse chiesto a me non mi sarei sentito in coscienza in grado di confermare questa cosa del "decennio dell'impegno". Sì, lo yuppismo anni Ottanta sembrava già morto e sepolto, c'era stato qualche movimento studentesco e la guerra del Golfo aveva stimolato un'ulteriore stagione di contestazioni. Evidentemente Battiato da queste rondini traeva l'impressione di una nuova Primavera dell'impegno politico. Non importa quanto poco ci stesse azzeccando, quanto il fatto che non voleva affatto presentarsi a mani vuote: Povera patria è un brano concepito tenendo conto delle "influenze cosmiche", come un regalo per una generazione che Battiato immaginava molto più arrabbiata e engagé di quanto poi dimostrò di essere. Il che prova che FB non è un rabdomante infallibile, e che noi come generazione abbiamo fatto pena (per fortuna le generazioni non esistono davvero, sono solo un insieme arbitrario di persone nate in un periodo x eccetera).


1991: Povera patria (#27)

"Quando qualcuno mi dice «con Povera patria sei stato profetico» mi viene da ridere. Quella canzone e quelle parole funzionavano quando le ho scritte, ma potevano andar bene nell’Antica Grecia, durante il Basso Impero Romano e anche in quello Alto. È una canzone che parla di una categoria umana immutabile, che, per mantenere la sua posizione di dominio sugli altri, usa la violenza, la falsità, ruba e manca di rispetto. Rappresenta un senso del potere malato. Appartengo alla categoria di quelli che non amano comandare, né essere comandati. In quella canzone parlavo di dittature tradizionali, che si vedevano, e purtroppo ce ne sono ancora. Ma sono davvero irreali i sistemi esoterici-materialistici che stanno governando le nostre vite attraverso il denaro". 

Secondo Paolo Jachia (Battiato Voglio vederti danzare, Ancora 2022), lo "stivale dei maiali" che affonda "nel fango" non è necessariamente l'Italia. Gli stivali potrebbero essere, suggerisce quelli sempre tirati a lucido dei generali golpisti, Perché no, e allo stesso tempo perché in una canzone intitolata "Povera patria" uno stivale non dovrebbe ricordarci la sagoma di suddetta patria? Nel tentativo di stemperare, per quanto possibile, i collegamenti di Povera patria con l'attualità italiana del periodo in cui è stata scritta, Jachia recupera la citazione qui sopra, tratta però da un'intervista di ben vent'anni dopo (su Sette, supplemento del Corriere della Sera, 2011). L'impressione è che lo stesso Battiato si adoperi per trovare una chiave che gli consenta di ri-attualizzare Povera patria, un brano che rischiava di essere indelebilmente associato a un periodo ormai lontano: le stragi di mafia, l'inchiesta Mani Pulite, e così via. Nel 2011 invece Battiato è molto più interessato alla speculazione finanziaria, alla dimensione virtuale se non fittizia del denaro: ne parlava anche in Dieci stratagemmi, ma quel che è interessante è che prima no, prima non ne aveva praticamente mai parlato.  

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110. La musica contemporanea mi butta giù

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[Coraggio patrioti, eccoci a uno snodo cruciale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, con due brani suscettibili di innumerevoli interpretazioni, comprese alcune parecchio bizzarre].

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1979: Il re del mondo (Battiato/Pio, #51)

Un giorno in cielo fuochi di Bengala: la pace ritornò, ma il Re del mondo... ci tiene prigioniero il cuore. Non credo che a nessuno mai sia passata per il cervello l'idea di leggere Il re del mondo come una canzone antiatlantista: eppure sentite come filerebbe bene. Abbiamo perso la guerra: ci hanno raccontato che siamo in pace, ma la verità è che abbiamo perso, che siamo sudditi, che siamo schiavi del Re del mondo (l'imperialismo americano). E ora tutto ciò che facciamo è privo di autentico senso; la cosiddetta democrazia non è che un rito fittizio che officiamo per illuderci di avere un senso ("più diventa tutto inutile più credi che sia vero"), e distoglierci da una realtà che ci vede obiettivi strategici del prossimo conflitto nucleare, noi e i nostri ex camerati giapponesi che nelle metro hanno già le maschere a ossigeno. Solo nel "giorno della fine" recupereremo, bruciando, quella libertà che probabilmente non abbiamo mai meritato: e non ci servirà l'inglese. Una cosa curiosa di questa interpretazione, è che non è affatto forzata. Non richiede particolari torsioni del testo, non muove da rebus o sciarade, e soprattutto non ha bisogno di appoggiarsi a dati extratestuali. Anzi, il motivo per cui nessuno la prenderebbe mai sul serio è proprio il fatto che chi conosce Battiato non se lo immagina a intonare un lamento per la perdita della sovranità post-1945. Sono cose di cui non ha mai parlato; è molto più facile seguire le linee interpretative che lui stesso più volte ha additato, Guenon eccetera. Ma se conoscessimo soltanto la canzone, e nulla del suo autore, non avremmo molte difficoltà a riconoscere nel Re del mondo un'elegia sovranista. E se non possiamo credere che l'autore la intendesse consapevolmente in tal senso, nemmeno possiamo escludere che l'inconscio di Battiato (nato e cresciuto a pochi km da una delle più importanti basi Nato nel Mediterraneo) non abbia visto nella nostra condizione di italiani – occupati da più di mezzo secolo anche se facciamo finta di no – una metafora dell'illusorietà dell'esistenza. 


1980: Up Patriots to Arms (Battiato/Pio, #19)

A proposito di interpretazioni: ho sempre trovato buffo come tutti – almeno dai Disciplinatha in poi – abbiano preso sul serio un pezzo come Up Patriots to Arms che invece per me vuol dire, quasi letteralmente: armiamoci e partite. Ma se mi sbagliassi io? La mia chiave di lettura muove, in questo caso, dal contesto extratestuale: è l'alba degli Ottanta, anni di piombo e '77 stanno generando una crisi di rigetto ideologico, nessuno si aspetta che i cantanti invitino all'impegno, anzi tutto il contrario. Sono gli anni in cui slogan e simbologie politiche vengono completamente decontestualizzate: i punk inglesi si adornano di svastiche per puro sfregio, Battiato declama inni patriottici più o meno per la stessa ragione. Non sto dicendo che quello che canta in Up Patriots non abbia senso – ne ha molti – ma il senso non è la priorità: FB secondo me sta giocando a mettere insieme tutto quello che gli interessa, a vedere se montato in un certo senso funziona. A partire dall'inizio, la poesia araba letta col Tanhauser in sottofondo, perché? Perché sì: è un po' come fissare dei paletti, mi chiamo Battiato, spazio da Wagner alla poesia araba: se la cosa vi interessa possiamo proseguire. Questa è la mia lettura, ma potrebbe riflettere più le mie idee che quelle dell'autore. Per esempio seguendo qualche link sono cascato su un'interpretazione molto più raffinata, che nel verso "noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre" riconosce la missione dei discepoli gurdjieffiani, "luci esoteriche che possono nel loro piccolo salvare il mondo". Io invece ci leggevo un'autodenuncia di meretricio, da parte di un artista di avanguardia che decideva di votarsi al pop da classifica. E se la mia interpretazione potrebbe essere la più vicina all'intento di Battiato nel 1980, può anche darsi che più tardi avrebbe preferito sottoscrivere l'altra. Quel che è certo è che ha continuato a cantarla per tutta la carriera, divertendosi molto, anche quando erano altri artisti a tirarla fuori.  

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109. Perché bella ragazza padovana ti vuoi fare una comune giù in Toscana

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi c'è Voglio vederti danzare contro un'altra canzone – anzi, contro i frammenti di un'altra canzone].

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1980: Frammenti (Battiato/Pio, #94)

È vero che Frammenti ha battuto Inneres Auge di un solo voto; è vero che, chiunque avesse vinto il testa a testa, si sarebbe trovato davanti un avversario insormontabile: è tutto vero ma è anche vero che malgrado tutto Frammenti è ancora qui: un brano che non fa nessuno sforzo di non sembrare un riempitivo (in un disco, peraltro, che non arriva ai 30 minuti); un brano in cui Battiato sembra aver messo il pilota automatico, lasciando i suoi turnisti a svagare con quello che ai turnisti più piace suonare: forse il rock'n'roll. Un testo che sembra fatto dei 'frammenti' avanzati dalle altre canzoni, un po' come E lasciatemi divertire di Palazzeschi era fatta con la "spazzatura delle altre poesie". Patriots è un disco che piace davvero al nostro pubblico votante, che agli highlights di dischi più recenti preferisce i riempitivi dei dischi anni Ottanta. Ferma restando la preminenza della Voce del padrone, Patriots è l'unico disco che si può vagamente accostarle, con cinque brani su sette ammessi ai sedicesimi. Sembra che quello che più ci piace sia il Battiato ancora vagamente non a fuoco, il Battiato che sta ancora cercando la formula esatta sia per esprimersi sia per vendere dischi (magari erano due formule diverse).  

1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

Abbiamo già suggerito di riconoscere, in alcune composizioni di Battiato, il trucco dell'asta del barbiere: ovvero la sensazione che la musica salga sempre più (di ritmo o di tono) mentre invece il baricentro non si sposta. In Voglio vederti danzare il trucco non c'è: la canzone sale davvero di quattro tonalità, dal Si bemolle della prima strofa al Mi di Nei ritmi ossessivi. Un tour de force che doveva renderla particolarmente impegnativa dal vivo (e forse spiega perché a un certo punto confluì in un medley, con una strofa in meno). Alla salita di tono corrisponde un senso di accelerazione che forse non riguarda i bpm (bisognerebbe avere la pazienza di cronometrare), ma si trasmette ad esempio nelle variazioni del riff, quella melodia fin troppo cantabile che quando si arriva a metà canzone diventa un pezzo di bravura. Ma torniamo alla progressione, perché quello che Battiato reitera su quattro chiavi diverse non è un giro di accordi qualsiasi, ma il più caratteristico tra quelli che ha adottato negli anni '80. Alla tonica (I: "Voglio vederti...") segue la dominante (V: "danzare") e quindi, ed è qui che riconoscete la firma di Battiato anche se siete stonati come campane, la sopratonica (ii: "come le zingare nel deserto"). Altri pezzi in cui troviamo I-V-ii: la coda di Cuccurucucù ("With a little help from my friends"), il ponte della Stagione dell'amore ("Se penso a come ho speso male il mio tempo che non tornerà"), la strofa dell'Animale ("Vivere non è difficile"): magari non tantissimi ma, come si vede, molto significativi. Se poi si osserva la parentela tra sopratonica (ii) e sottodominante (IV) (per i chitarristi da spiaggia: tra Do e La-, oppure tra Fa e Re-, che se ci pensate in un giro di Do sono quasi intercambiabili), al mazzetto va aggiunta senz'altro Sentimento nuevo e... Te lo leggo negli occhi. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo, in attesa che uno specialista si scomodi a smentirci: è una cadenza di sapore barocco, qualcosa che Battiato potrebbe avere ascoltato sin da bambino sull'organo di chiesa.

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108. Distese di sale e un ricordo di me

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi la Tunisia – che ha sconfitto l'Iraq ai trentaduesimi – se la gioca contro la Germania Est. Ma è anche il derby Milva/Alice].

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1982: Alexander Platz (Battiato, Cohen, Pio, #23)

In un'intervista che ovviamente stasera non trovo, qualcuno si arrischiò a chiedere a Battiato quale fosse la sua voce femminile ideale, tra quelle con cui aveva lavorato; invece di eludere saggiamente la domanda e spiegare che ogni voce ha le sue qualità bla bla, Battiato rispose secco: Milva. Ora, una risposta del genere potrebbe anche essere stata dettata dal calcolo di quanto sarebbe stato più difficile telefonare a lei piuttosto che ad Alice o Giuni Russo per chiedere immediatamente scusa – però è curioso che Battiato abbia citato, delle tre, quella che non ha mai duettato con lui (che io sappia) e l'unica che non gli debba il successo, la definitiva consacrazione: senza Battiato, Milva avrebbe venduto diversi dischi in meno, ma sarebbe tuttora Milva. 

Devo confessare una velata antipatia per Alexander Platz; non tanto per lo scippo ad Alfredo Cohen (che alla fine magari gli mise in tasca qualche soldo), non per lo sfondo un po' stereotipato, ma perché credo che abbia rubato la scena a tanti altri solchi di Milva e dintorni, probabilmente il disco più riuscito della factory Battiato-Pio-Radius, con suoni irresistibilmente affini a quelli della Voce del padrone, cui somiglia più che ad altri dischi di Milva (e ad altri dischi di FB). E mi dispiace sinceramente che Battiato abbia deciso di includere nel suo repertorio questa piuttosto che Poggibonsi (coi ricordi di guerra di Giusto Pio!), o Non sono Butterfly (non conosco Singapore; spiegami perché mai mi vuoi schiava per amore), o persino Aeroplani in cui si dimostra che in quegli anni Battiato e Pio avrebbero tirato fuori una hit anche musicando l'orario ferroviario; non lo fecero, ma misero in una canzone un tabellone degli aeroplani in partenza e funzionava. Certo, Alexander Platz era stato il singolo di successo; anche se quando FB lo riprese in Giubbe Rosse, sette anni dopo, era ormai un ricordo lontano. Anche Milva non smise di incidere canzoni di Battiato, ma la formula di quel disco del 1982 era andata persa e non è stata più recuperata. 


1984: I treni di Tozeur (Battiato, Cosentino, Pio, #10)

Se poi ci andate, a Tozeur, e ammirate i motivi di mattoni colorati che adornano il centro storico, sappiate che quando compose la canzone Battiato non li aveva ancora visti; cominciarono a posarli proprio nel 1984. Tozeur è effettivamente un capolinea della rete ferroviaria tunisina, ma i "treni" a cui ci si riferisce sono con tutta probabilità quelli turistici della Lézard Rouge, che coprono la tratta Métlaoui- Redeyef passando dalle gole del Selja, dove è possibile vedere le miniere abbandonate di fosfato (non di sale, ma "fosfato" non suonava così bene, e poi dalle foto sembra sale). Tozeur è una città antica, forse antichissima (il toponimo potrebbe avere un'origine egizia), sorta in un'oasi che ne ha fatto la capitale tunisina del dattero, e che negli ultimi anni ovviamente combatte la desertificazione, ma nelle gole del Selja il cambiamento climatico si è fatto sentire in modo più paradossale, con piogge torrenziali che nel 2009 per un anno hanno causato la sospensione del servizio ferroviario. 

È abbastanza chiaro come Battiato in Tozeur mescoli due scenari che sente particolarmente affini: il Nordafrica delle miniere di sale e una Sicilia rurale in cui tua madre mi vede e si ricorda di me. Poi c'è quel distico pazzesco sulle chiese abbandonate in cui si preparano rifugi e navi interstellari – non ero quindi l'unico al mondo a trovare le chiese simili ad astronavi, o forse ho cominciato a farlo ascoltando Tozeur? È che certe chiese hanno proprio profili che oggi diresti aerodinamici, non è così assurdo immaginarle decollare. Comunque questa idea che a sud si viva "a un'altra velocità", cioè un po' più lentamente, e che l'epitome di questa idea sia il trenino di Tozeur che va a vapore, va un po' in crisi quando scopri che il suddetto trenino va a vapore perché è un treno per turisti, su Tripadvisor addirittura lo consigliano "per grandi e piccini" – laddove se si tratta di andare a Tunisi o Sfax, probabilmente anche i tunisini gradiscono velocità più elevate. Vabbe'. Benché sia stata composta per l'Eurovision, Tozeur sembra pensata per la radiodiffusione estiva: non è propriamente un tormentone estivo, ma il modo in cui si aggancia al nostro vissuto suggerendoci immagini esotiche, persone che abbiamo conosciuto che forse sono al paese e incontrano i nostri genitori, mentre noi siamo ancora qui a sudare in città, vecchi treni scalcagnati che ci portavano in vacanza.

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107. Rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi una spiaggia solitaria sfida una città-formicaio].

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

Più scrivi e più scrivi scemenze, per esempio una volta devo aver scritto che Magic Shop coi suoi tre accordi era la progressione più semplice di tutto il catalogo di Battiato, ovvero mi ero dimenticato che Summer è tutta giocata su due accordi due: un Fa e un Re-, ovvero l'intervallo I-vi. Così semplice – banale, diciamolo – così ipnotico se recitato con calma (la parte strumentale di Wish You Were Here): Battiato non ha bisogno d'altro per mettere assieme un brano di grande efficacia. Alla fissità degli accordi corrisponde la staticità della scena: siamo soli davanti al mare, a ogni onda (Fa maggiore) segue una risacca (Re minore). Possiamo quindi aggiornare questa lista di Rick Beato, che all'inizio del video spiega cosa rende 'grande' una canzone di due accordi: ottime melodie ovviamente, ottimi arrangiamenti, ma soprattutto quando entra il ritornello "deve succedere qualcosa": e sappiamo che in questo caso succedono più cose. Il tre quarti incespica, il ritmo sembra sparire del tutto, e la melodia si scioglie in quello che al tempo era il ritornello più cantabile di Battiato (insieme a Cerco un centro): mare, mare, mare, voglio annegare. Tutto questo succede nello stesso disco in cui troviamo una delle progressioni più complesse e stratificate, Gli uccelli, a riprova della straordinaria duttilità a cui sono arrivati FB e Giusto Pio al loro terzo album pop. 


1998: Shock in My Town (Battiato/Pio, #26)

Al momento Shock in My Town è la più recente tra le trentadue superstiti – l'unica successiva all'Imboscata. Un primato del genere, meritato o meno, ha un suo senso: quando uscì, Shock sembrava in qualche modo un ritorno del 'vecchio' Battiato. Era un'impressione abbastanza superficiale, che più da un ascolto della musica o da una comprensione del testo muoveva dal dettaglio più vistoso: il ritornello in un inglese improbabile, più battiatese che comprensibile ai britannici; la bislacca rima "my town/velvet underground", l'accigliata denuncia dell'incipiente apocalisse; tutto questo 'faceva Battiato' e tanto bastava per convincere molti programmatori radiofonici: il che sorprese Battiato stesso, persuaso di avere scritto un brano più duro del solito e non un'autoparodia. Invece in un qualche modo Shock in My Town era la mossa che ci si aspettava da lui: un'invettiva contro la contemporaneità infiorettata di anglismi a capocchia. Shock in My Town, ad ascoltarla bene, non suonava affatto 'vecchio Battiato' ed esibiva uno dei testi in cui sembrava più facile separare lo Yan Sgalambro ("rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi") dallo Yin Battiato ("Shock emozionali, sveglia Kundalini"). A meno che i due non stessero giocando a farsi il verso a vicenda, e conoscendoli potrebbe anche essere il caso. 

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106. Giochi di aperture alari che nascondono segreti

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[Questa è sempre la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi col derby del volo: seguiremo gli uccelli o le scie delle comete? Resteremo in questa parte di universo o andremo in avanguardia verso un altro sistema solare? È anche il sedicesimo più incerto, almeno guardando il ranking].

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1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)

Mi è già capitato di suggerire che Gli uccelli possa essere considerata la canzone perfetta di Battiato, quella che ne tiene assieme la maggior parte di idee musicali – oltre a essere una composizione mirabile e arrangiata da Dio, anzi da Pio (AHAHAH no ma scriveteli cento pezzi su Battiato senza mai fare questo gioco di parole, su provateci). Oggi potremmo concentrarci sul testo e notare come sia uno dei suoi migliori, con quelle perifrasi alate che da lì in poi abbiamo tutti deciso che fossero la quintessenza del suo stile, laddove lui non è che poi ne scrivesse tante e a un certo punto ha proprio deciso di rivolgersi ad altri. Battiato non si è mai trovato a suo agio con le parole – al contrario che con le note: si è definito più volte un musicista nato; non si è mai permesso di definirsi poeta e nemmeno paroliere. Pure, è abbastanza probabile che i suoi testi più ricordati e memorabili siano completamente farina del suo sacco. Non possiamo saperlo al cento per cento, ma ci basta constatare quanto sia stato generoso Battiato a condividere la firma del brano con chi ogni tanto lo aiutava: vedi le Aquile, che a ben vedere è un testo completamente suo, al massimo ispirato da una pagina di Fleur Jaeggy – la quale risulta coautrice, forse persino contro la sua volontà, visto che in seguito ha preferito usare uno pseudonimo. Stessa cosa è successa a Henri Thomasson, che ha collaborato a tre testi memorabili (Clamori, L'esodo, La musica è stanca) ma senza il suo vero nome – insomma più che la volontà dei collaboratori di dire "l'ho scritta io" sembra valere quella di Battiato di avvertire "non l'ho scritta io". Questa generosità, che a volte appare urgenza di schermirsi, ci induce a pensare che Gli uccelli l'abbia proprio scritta tutta lui, da "Volano..." a "...sistema solare". Ed è perfetta, la pietra di paragone che poi tutti hanno usato anche solo per cercare di parodizzarlo. Che Battiato, che non si è mai sentito a suo agio con le parole e che si è circondato per tutta la sua carriera pop di gente che in teoria le sapeva usare meglio; che Battiato, dicevo, sia stato il migliore paroliere di sé stesso è una circostanza abbastanza curiosa (che condivide col suo vicino di casa, Lucio Dalla).


 1985: No Time No Space (Battiato/Pio, #18)

Che cos'ha impedito a Franco Battiato – che a metà anni Ottanta rappresentava praticamente da solo una formula musicale assolutamente originale e di successo – di diventare un artista internazionale e cambiare non di poco la storia della musica pop? Se ci riflettete lo sapete già. La musica era ottima, anche confrontata agli standard anglosassoni del momento (il momento in cui USA e UK stabilivano definitivamente la loro egemonia nelle classifiche e nell'immaginario: Michael Jackson, Madonna, eccetera). La sua musica era esotica senza essere provinciale, del resto ce l'ha detto, lui è un provinciale dell'Orsa Minore. Il suo intellettualismo ambiguo avrebbe potuto funzionare, era una fase in cui c'era mercato anche per personaggi come David Byrne o David Sylvian, e Battiato dei tre forse faceva la musica meno cervellotica. Sotto tappeti sonori di ottima fattura covava una sensibilità musicale mediterranea, da qualche parte li sotto c'era un compositore che avrebbe potuto fare la differenza e mostrare al mondo meraviglie, e allora perché non successe? Inutile dare la colpa alla major, che ci provò eccome a piazzare Battiato nei mercati esteri (e in quelli latini un po' ci riuscì). Cos'è che impedì a Battiato di conquistare lo spazio interstellare? Lo sapete benissimo.
È l'inglese.
Battiato ha una pronuncia terrificante.
Ma soprattutto, Battiato non ne è consapevole, e non sorprende: il suo approccio alle lingue straniere è quello di qualsiasi intellettuale della sua generazione. Ne capisce parecchie, può snocciolare citazioni testuali un po' in tutte, alcune si capisce che le ha studiate bene (il suo francese ha quella legnosità scolastica), ma le ha studiate in un mondo in cui i viaggi di studio non esistevano, né serie coi sottotitoli. Alla fine le sue pronunce non sono peggiori di quelle di quasi tutti gli intellettuali italiani della sua generazione, che appunto erano intellettuali e imparavano le lingue sui libri, la pronuncia la lasciavano agli interpreti. Ho letto da qualche parte che per quanto Sciascia andasse spesso a Parigi (e potesse scrivere in un ottimo francese), nessuno laggiù l'ha mai sentito dire una sola parola.
La differenza fondamentale è che Sciascia si rendeva conto che il suo francese parlato era ridicolo: Battiato no. Quel che è peggio, è che nessuno lo avverte. La EMI gli fa cantare un disco intero in un inglese assurdo, lui esegue, la EMI stampa. Quindi sì, alla fine la colpa è della major, tanto più grave visto il precedente storico: otto anni prima Lucio Battisti aveva floppato, con Images, per gli stessi identici motivi; testi tradotti troppo letteralmente e dizione improponibile. Otto anni dopo la EMI propone anche a Battiato di trasferirsi un po' negli USA, ma lui a questo punto di fare la popstar si è già scocciato. Era stato un esperimento, era andato fin oltre le più rosee previsioni, sistemarsi si era sistemato, adesso avrebbe fatto altro. Probabilmente il compositore colto. (Le cose non sarebbero andate esattamente così).

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105. Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti

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[Ci siamo, questa è la Gara delle canzoni e in particolare è la giornata in cui dobbiamo decidere chi ha vinto il match 81: Aria di rivoluzione o La cura? Ho scelto di non scegliere: passano entrambe il turno, ed eccoci al primo triello. Attenzione: sarà possibile votare per due canzoni (ovvero contro una canzone) e persino per tutte e tre, anche se riflettendoci non ha molto senso].

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1974: Aria di rivoluzione (#63)

La rivoluzione è rimandata. È anche colpa di facebook, social che rende molto facili e condivisibili i sondaggi, ma li amministra opacamente e senza molte spiegazioni. Ad esempio: non è possibile impostare una data di scadenza. Al tempo del torneo dei Beatles, in inverno, scoprimmo assieme che i sondaggi scadevano dopo una settimana. E tutto sommato funzionava. Stavolta a quanto pare no: senza avvertire, Zuckerberg ha deciso che i sondaggi restano aperti – fino a quando? Un mese, un anno, una civiltà? Lo sapremo solo quando lo sapremo, ma nel frattempo capite che un testa a testa come Aria di rivoluzione vs La gara rischia di essere falsato. Al momento in cui scrivo queste righe (un momento qualsiasi), la parità è assoluta e i voti sono quasi duecento: molti più del solito. C'è evidentemente gente che per sovvertire il pronostico (nettamente a favore della Cura) sta mobilitando amici, parenti, account di scorta. E mi domando: ma davvero amano così tanto Aria di rivoluzione? O non è piuttosto odio per la Cura? Certo, il match sembrava combinato apposta per mobilitare i battiatisti di lungo corso, quelli appassionati della sua discografia anni Settanta, contro i neobattiatisti saliti sulla carovana negli anni Novanta. Aria di rivoluzione forse è un brano più iconico che riuscito, in ogni caso è un raga anni '70 senza compromessi. Insieme a Sequenze e frequenze (così affine che nell'unica raccolta disponibile fino a tutti gli anni '80 i due brani comparivano incollati in un medley) forma lo sparuto contingente dei brani pre-Cinghiale arrivati ai sedicesimi. Battiato era il primo a sorprendersi quando scopriva ai concerti gente che la cantava, e che probabilmente era più giovane della canzone. Non so se abbia mai ricominciato a cantare "chi andrà alla fucilazione" ai concerti: per quanto fosse il fulcro del brano, era un verso che gli dava dei problemi.   


1981: Segnali di vita (Battiato/Pio, #31)

Segnali di vita è uno dei primi brani in cui Battiato si lascia sorprendere dall'ascoltatore immerso a qualcosa che sembra una meditazione, e uno dei pochi in cui l'oggetto della sua osservazione non è il mondo naturale, o un manufatto artistico, bensì le luci dei cortili e delle case: segnali di vita, appunto. Battiato sta osservando una città che brulica di vita. La osserva da lontano, come in un cannocchiale rovesciato; quanto basta per sentirla remota come le galassie che si allontanano e lo spazio cosmico che si sta espandendo. Ma è la vita: i rumori che fanno sottofondo per le stelle sono rumori di traffico e cucina. È un tipo di osservazione che dopo il ritorno in Sicilia non ritroveremo più. 


1996: La cura (Battiato/Sgalambro, #2) 

Come ampiamente prevedibile, La cura si sta rivelando la canzone più divisiva – quella che porta diversi elettori a coalizzarsi intorno a un brano abbastanza antico e astruso come Aria di Rivoluzione, pur di sbarazzarsi di un brano pure così apprezzato e ascoltato. La cura sembra rientrare in pieno in un genere specifico di hit che mi piace definire "colpi di coda": quando un cantautore sembra ormai diventato il monumento di sé stesso, associato a un canone di canzoni ormai fissato, ecco che se ne esce con un brano che diventa popolarissimo ma che proprio per questo motivo disgusta i fan di più lunga data. I quali a volte sembrano ignorare che il colpo di coda non tradisce affatto lo stile del cantautore che lo ha inciso, anzi a volte ne è un'epitome precisa e persino impietosa. È un colpo di coda, per esempio, Viva la mamma di Edoardo Bennato, Caruso di Dalla (oppure Attenti al lupo), Quattro amici al bar di Gino Paoli, Don Raffae' per De André, Cirano per Guccini, mentre faccio fatica a riconoscere il colpo di coda di De Gregori (La donna cannone?) o di Vasco Rossi (Sally?), quest'ultimo del resto irriducibile scodinzolatore. In ogni caso il colpo di coda si presta molto bene a essere la canzone più odiamata del repertorio. C'è gente che va ai concerti apposta per sentire quella e gente che in quel momento va al bar o in bagno. 

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