La scelta di Teresa

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9 agosto: Santa Edith Stein (Teresa Benedetta dalla Croce, 1891-1942), martire cattolica di origine ebraica

C'è stato un momento – spero sia passato – in cui la polemica sulla canonizzazione di Teresa Benedetta rischiava di mettere in ombra Teresa Benedetta stessa. Ancora oggi, ho la sensazione che sia una santa meno conosciuta di altre, come se negli ultimi anni vent'anni intorno a lei si fosse posato quel tipo di tessuto con cui proteggi una cosa che ti è cara, che forse un giorno ancora ti servirà, ma che in questo momento non sapresti dove mettere. Sensazione mia. Non è che non se ne senta parlare ogni tanto, ma non quanto meriti un personaggio così attuale ed eccezionale. Anch'io del resto qua sotto ho scritto molte parole che non riguardano quasi per niente la vita e l'opera di Teresa, al secolo Edith Stein. Alla fine la conosco poco, la capisco ancora meno.

Prima di entrare nell'ordine delle carmelitane scalze, Edith Stein è stata una filosofa che anche in epoca pre-nazista non riusciva a pubblicare le sue opere perché ancor prima di essere ebrea, era una donna – e questo malgrado Husserl l'avesse laureata summa cum laude e le facesse gestire i suoi appunti. La scoperta di Teresa d'Avila la porta a convertirsi al cattolicesimo e a cercare di conciliare fenomenologia e tomismo. Appena i nazisti prendono il potere lei scrive una lettera al papa (desecretata soltanto qualche anno fa) facendo presente che questi massacreranno gli ebrei; una cosa che nel 1933 era meno scontata di quanto sembri oggi. La situazione si complica e lei fugge in Olanda, come la famiglia di Anna Frank: dopo l'invasione tedesca finiranno entrambe ad Auschwitz. Edith Stein non è l'unica martire cattolica nei lager; ma mentre ad esempio Massimiliano Kolbe e diversi suoi colleghi furono internati perché preti polacchi (un'altra categoria che le SS perseguitavano sistematicamente), Edith Stein è arrivata nel lager in quanto ebrea. Per i nazisti l'ebraismo, ancor prima che una religione, era una razza, una questione di sangue; la conversione, che aveva salvato tanti ebrei dalle persecuzioni cristiane medievali e moderne, per loro non aveva nessun valore, il sangue non può convertirsi. Questo ha reso la sua canonizzazione una questione spinosa; per esempio l'Anti-Defamation League (una ONG ebraica americana) accusò nell'occasione la Chiesa cattolica di appropriazione culturale. È un'accusa che ha un senso, ma per quanto mi riguarda ho deciso che non sono d'accordo. 

Cercherò di spiegarmi, ma devo qui infilare una premessa: il dialogo interreligioso è un gioco di specchi. Abbiamo davanti una persona o una comunità di persone che ragiona in un modo completamente diverso dal nostro, che ha un progetto diverso, diverse priorità. Istintivamente, cerchiamo di calarci nei loro panni nel tentativo di produrre un discorso che abbia senso per noi, ma soprattutto per loro. Di qui a cercare di spiegar loro la loro fede il passo è breve, ed ecco: a un certo punto la Anti-Defamation League cercò di spiegare a Giovanni Paolo II quali santi canonizzare. 

Sul serio. C'è scritto così. "Perché Edith Stein e non Franz Jägerstätter, un umile cattolico austriaco decapitato dai nazisti nel 1943 perché rifiutava di militare nelle armate di Hitler? [Jägerstätter è stato in seguito beatificato da Benedetto XVI; si festeggia anche lui il 9 agosto perché morì esattamente un anno dopo la Stein]. Perché non un contadino polacco che nascose gli ebrei o a una domestica che adottò un bambino ebreo?" Che dire: grazie per i consigli, ma la santità è uno status attributo dalla Chiesa cattolica che ha valore soltanto per chi si riconosce nella Chiesa cattolica, la quale in casa sua fa un po' quel che le pare; immaginate se il papa cominciasse a spiegare agli ebrei chi merita di essere definito Giusto tra le nazioni. Scrivi cose del genere e poi ti lamenti che il dialogo interreligioso non sta funzionando, non so, hai anche consigli su come somministrare la comunione? Tra l'altro di solito il processo di canonizzazione non segue i ghiribizzi di un papa che si considera infallibile: per arrivarci servono due inchieste, bisogna chiarire un sacco di cose, occorrono miracoli documentati... questo tipo di obiezioni, io le sollevai spontaneamente appena lessi l'intervento dell'ADL. Una reazione istintiva a un approccio altrettanto istintivo: come vi permettete di spiegare voi come funzioniamo noi? E tuttavia.

E tuttavia noi siamo sicuri di sapere come funzioniamo? Perché se uno dà un'occhiata al processo bisogna ammettere che c'è qualcosa che non va, nella canonizzazione di Edith Stein. Ad esempio mancano i miracoli in vita: dovrebbero essere obbligatori, eppure non risultano. Scrivere un trattato sull'empatia in tre volumi come tesi di dottorato non vale (e del resto non glielo pubblicarono). Anche la lettera del 1933, per quanto possa sorprendere per la lucidità, non è esattamente un testo profetico: al tempo Hitler aveva già svelato i propri obiettivi e i propri metodi.  

Ma soprattutto c'è la questione del martirio, che dimostra quanto Giovanni Paolo II ne abbia esteso il concetto. Il martire, per definizione, muore per difendere la propria fede. Questo creava un problema coi cristiani caduti nei lager: definirli "martiri" significava implicare che fossero stati internati e uccisi a causa della loro fede. Ma i nazisti non uccidevano i cristiani "in quanto" cristiani. Se ne rendeva conto benissimo Paolo VI, che quando beatificò Massimiliano Kolbe lo definì un "martire della carità", e non della fede: Kolbe aveva scambiato la sua vita con quella di un altro prigioniero, finendo nella cella della morte al suo posto: un atto eroico, ma la fede non c'entrava. Quando però Giovanni Paolo portò a termine il processo di beatificazione, Kolbe fu definito un martire tout court; e la stessa cosa avvenne con Edith Stein. Che questo potesse risultare provocatorio lo dovevano avere immaginato anche in Vaticano, visto che nell'occasione fu prodotta una giustificazione storicamente accettabile, ma un po' forzata: l'arresto della Stein avvenne in seguito a un pronunciamento molto severo della conferenza episcopale olandese contro l'antisemitismo delle forze d'occupazione tedesche. I vescovi olandesi rimproverarono i nazisti; i nazisti reagirono includendo nelle liste dei deportati gli ebrei convertiti, che fino a quel momento erano stati risparmiati. 

In questo senso Edith Stein, e gli altri cattolici olandesi di origine ebraica, furono realmente sacrificati affinché la Chiesa olandese non mancasse al suo dovere di testimonianza; questa perlomeno è la storia come ha deciso di raccontarsela il Vaticano. All'ADL non andava bene, ma c'è sempre questo problema del gioco degli specchi. I portavoce dell'ADL davano per scontato che i rappresentanti della Chiesa cattolica debbano sentirsi colpevoli per la Shoah. I nazisti erano quasi tutti cristiani; alcuni addirittura cattolici; il clero fu un larga parte connivente, e anche quando espresse un dissenso (come nel caso del clero olandese), non lo espresse con abbastanza forza, dato che non funzionò. In ogni caso l'antisemitismo razziale dei nazisti si era innestato sull'antisemitismo religioso che predicatori cattolici avevano promulgato sin dalla tarda antichità, per cui perché non si cospargono semplicemente di cenere e non si limitano a praticare solenni atti di contrizione, invece di cercare di mettere le loro bandiere e le loro croci in luoghi che dovrebbero essere consacrati alla memoria dello sterminio ebraico? Addirittura in una struttura di Auschwitz, un vecchio magazzino di Zyklon B, c'è un convento di carmelitane scalze, dovevano proprio installarsi lì? Perché i cattolici non si limitano a confessare le loro colpe, perché addirittura osano sostituire le loro vittime alle nostre, o chiamare "martire" una ebrea imprigionata e uccisa in quanto ebrea?

Per il solito vecchio equivoco. La gente crede che il cattolicesimo sia la religione della colpa: fuochino, ma non è proprio così. Il cattolicesimo è la religione del perdono. La confessione a questo serve: non a crogiolarsi in un senso di colpa inestricabile, ma a farselo passare con rapidità ed efficacia. Forse non ha torto chi ritiene che la Shoah debba rimanere una ferita aperta in tutte le coscienze; che certe colpe non possano essere espiate e debbano essere periodicamente rimproverate. Non è sbagliato pensarla così, ma i cattolici sono abituati a pensarla in un altro modo. I peccati per loro non sono rovelli infiniti, ma accidenti quantificabili, parcellizzabili, e soprattutto eliminabili. Non sono condizioni o situazioni, ma azioni (o omissioni) verificatesi in un determinato spazio e tempo; se in un altro spazio e in un altro tempo è intercorso un sincero pentimento, nonché una volontà di rimediare, per quanto possibile, al danno inferto, il sacerdote ti assolve, ed è finita. Finita, capito? 

La Chiesa non si sente più in colpa per la Shoah; può ammettere determinate responsabilità storiche; se insistete, se può aiutare il dialogo interreligioso, la Chiesa può anche mettersi a piangere come una prefica a intervalli prestabiliti: ma è solo una cerimonia, non che le cerimonie non abbiano la loro importanza. Ma insomma la Chiesa non si sente in colpa né per la Shoah né per qualsiasi altra cosa abbia fatto, in generale; è un'organizzazione millenaria nata proprio per gestire questo problema del senso di colpa in un certo modo che non a tutti piace, ad esempio a Martin Lutero non piaceva, lo stesso Agostino di Ippona probabilmente avrebbe disapprovato, e anche le perplessità di molti ebrei sono comprensibili, ma insomma funziona così: di fronte a un'enorme tragedia storica, al massacro di milioni di persone, la Chiesa si pone il problema: cosa possiamo trarne di buono? Qualcuno dei nostri si è comportato male? Amen, se la vedranno con Dio, noi dimentichiamoli. Qualcuno dei nostri si è sacrificato in modo eroico? Ecco, ricordiamoci di loro, facciamo in modo che il loro esempio possa ispirare i nostri discendenti perché poi quel che conta è il futuro, il passato per quanto increscioso è... passato. 


Per gli ebrei – almeno per alcuni – la Shoah non può passare, sarebbe blasfemo pretenderlo. Nulla può più essere come prima, e nulla potrà cambiare il modo in cui è andata. Gli ebrei sono le vittime e i discendenti delle vittime; il resto del mondo deve prendere atto di essere stato carnefice o complice dei carnefici. Questo è quello che ho capito io, ma forse sono vittima di quel famoso gioco di specchi. Quel che posso dire è che i cattolici non ragionano così. Per loro la Shoah è una pagina di storia che senza dubbio ci interpella e ci domanda: da che parte stiamo? E noi siamo liberi di scegliere, ecco, questa cosa che i cattolici possano 'scegliere' di stare dalla parte delle vittime, per i portavoce dell'ADL, era scandaloso. "Anche nell'inferno di Auschwitz", scrivono, "Kolbe, in quanto cristiano, aveva possibilità di compiere delle scelte che gli ebrei non hanno mai avuto. L'Olocausto per gli ebrei consisteva nell'assenza della possibilità di scegliere" (The Holocaust for Jews was about the absence of choice).  Questo è appunto il senso della santità, sin dalle prime storie di martiri; dal vangelo stesso, in cui Gesù sceglie di morire sulla croce, e ancora prima, dagli ultimi testi dell'Antico Testamento in cui ci sono ebrei che muoiono già per testimoniare la loro fede e si aspettano già una ricompensa oltre la morte.  La scelta può costarci la vita, ma ci riscatta dai nostri errori: i cattolici la pensano così, non dico che si debba essere d'accordo, ma è utile capire come la pensano. Edith Stein poteva scegliere di essere cattolica – e lo scelse; non poteva scegliere di smettere di essere ebrea, e ne fu uccisa.

Io credo che i portavoce dell'ADL non avessero tutti i torti, quando accusavano le gerarchie cattoliche di puntare a una "cristianizzazione dell'Olocausto". Come ogni ideologia, il cattolicesimo macina Storia e cerca di produrre giustificazioni. C'è una frase, nella loro argomentazione, che mi mise istintivamente a disagio: "Noi, in quanto ebrei, sentiamo di aver perso Edith Stein due volte" [la prima con la sua conversione, la seconda con la canonizzazione]. Si può perdere soltanto qualcosa che si possedeva: in che modo qualcuno può reclamare di possedere Edith Stein? Potrei obiettare che la sua conversione fu una libera scelta, il punto di arrivo e ripartenza di un ben dettagliato percorso intellettuale: lo specchio mi risponde che non importano le scelte, la Stein era ebrea prima di poterlo scegliere, ed era ebrea dopo avere scelto diversamente, quando morì in una camera a gas insieme ad altre prigioniere ebree. Potrei ribattere che l'atto di nascita conta ben poco, che nella sua famiglia solo la madre aveva qualche dimestichezza con pratiche religiose che gli altri membri ignoravano, e che la conversione non fu nemmeno una conversione in senso proprio, visto che prima di rivolgersi al Dio dei cristiani, la Stein non ne adorava nessun altro; sin dall'adolescenza si era definita agnostica. Lo specchio mi ribatte che non importano le professioni di fede, né i riti; non è per questo che si moriva ad Auschwitz, certo, lo so: ma si moriva per il sangue. Lo specchio mi dice che Edith Stein è ebrea nel sangue e questo non lo accetto, questo è in pratica quello che pensavano i nazisti, accettarlo sarebbe un punto per loro: mi dispiace, posso capire, ma non sono d'accordo.
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Il disegnatore del Crepuscolo

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Se n'è andato Giuseppe Montanari, il disegnatore che in coppia con Ernesto Grassani ha contribuito a fissare nel nostro immaginario la figura e il mondo di Dylan Dog, semplicemente perché nel tempo in cui un Roi chiaroscurava qualche sua incantevole tavola à la Dino Battaglia e uno Stano terminava una delle sue meravigliose vignette da Schiele de noartri, Montanari e Grassani avevano già due albi inchiostrati e pedalare. E DD era un prodotto industriale, anche se noi lettori fingevamo di no. Parte del suo successo era dovuto proprio a questa ipocrisia, per cui con lire Milleottocento speravamo di portarci a casa una pregevole opera sapientemente illustrata da artisti della graphic novel – poi lo aprivi e una volta su quattro oh no!, ancora Montanari e Grassani.  

Montanari non era un artista della graphic novel, Montanari era un veterano delle edicole, veniva da Lanciostory, aveva disegnato Tiramolla e Lando e tanta altra robaccia che ancora era esposta in luoghi più equivoci del chiosco, e anche Dylan lo disegnava così, con uno stile tradizionale che inglobava senza scomporsi scene sexy e splatter che noi credevamo così dirompenti e innovative. Senza volerlo aveva azzeccato già negli anni '80 quell'aspetto crepuscolare di Dylan che sarebbe diventato evidente soltanto un po' più tardi, un'ostilità verso il tempo che passa che a livello superficiale diventa rifiuto per ogni cosa inventata dopo il 1986 – telefonini, internet, ma non è che il sintomo di un disagio più profondo. 

Come tutti i personaggi dei fumetti, DD non può invecchiare, ma a differenza di Tex Willer e Paperino, DD oscuramente sospetta di vivere nella capsula del tempo sepolta da qualche adolescente. Il mondo vero, da qualche parte, sta invecchiando senza di lui, abitante di una Zona del Crepuscolo dove ogni mese può venire ucciso e imbalsamato. Montanari e Grassani erano perfetti per comunicare questa inquietudine, perché con pochi tratti facevano sembrare Dylan Dog, il fumetto più venduto degli anni Novanta, il 567897° enigma poliziesco illustrato della Settimana Enigmistica: quella capsula del tempo che ormai, le rare volte in cui passiamo per un'edicola, finiamo per comprare: perché ci ricorda papà, perché i giornali fanno tutti schifo e comunque le notizie del giorno le sappiamo, perché DD magari lo leggeremmo ancora ma ci vergogniamo, tra un po' avrà 50 anni, noi li abbiamo già.

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Ai vecchi non gli tocchi le statue

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Concita De Gregorio ha esagerato, esageriamo tutti a volte, però è interessante dove l'ha fatto, come e perché. Si è rotta una statua, sono incidenti stupidi che capitano, ma ai lettori dei giornali sembra che le statue interessino in modo particolare, il mondo può anche sobbollire e squagliarsi ma le statue!, non gli devi toccare le statue. Probabilmente si specchiano nella loro rigidità

Ce lo siamo detto e stradetto, i giornali seri vendono poco, ormai li comprano solo i vecchi e i vecchi hanno gusti ben noti: vogliono sentirsi dire che sono stati i migliori, dopo di loro il diluvio, maledetti giovinastri e così via. In edicola ci sono giornalacci che questa cosa la fanno meglio, che strillano titoli sprizzanti odio, e presto o tardi anche il giornalismo cosiddetto serio ci si deve confrontare: l'odio senile tira, viceversa la serena compostezza della maturità te la tirano dietro, e quindi? E quindi dagli con l'odio senile, anche perché voglio dire, hanno fatto male a una statua, come si può sopportare questa cosa? Non sto suggerendo che dietro la De Gregorio ci sia un direttore senza scrupoli che chiede di più! Concita, di più! voglio vedere la bava che cola, facci Feltri, facci Facci, non sto dicendo questo. 

Sto dicendo che alla fine quando uno scrive di mestiere, se non ha 12 anni, il problema del pubblico se lo pone sempre: stai scrivendo ai vecchi, devi scrivere robe da vecchi; i vecchi preferiscono roba più biliare, tu ci metti la bile, al massimo il giorno dopo chiedi scusa. Il pezzo l'abbiamo letto tutti, ha fatto discutere, missione compiuta. 

Vi vedo però che storcete il naso.

Non dovreste. Tanto per cominciare, da quand'è che non comprate un giornale. Poi sì, il discorso sull'abilismo, lo capisco, come se improvvisamente avessimo smesso di darci dei cretini (termine che indicava una persona dal cervello più piccolo), degli scemi (termine che indicava una persona con un punto vuoto nel cervello), dei fessi (termine che indicava persone con una fessura del cervello). No, non abbiamo affatto smesso, anzi continueremo, perché il linguaggio orale viaggia sempre a cavallo dell'illecito, le censure esistono precisamente per il gusto di aggirarle o semplicemente violarle; però vorremmo che i giornalisti giocassero un gioco diverso, che ci stessero più attenti perché... perché? 

Vorremmo che pattugliassero una zona del discorso pubblico dove la gente si rispetta e non si offende, sì, ne avremmo bisogno. Avevamo anche sviluppato una serie di norme – niente di troppo rigido, questione di buonsenso – che aiutavano i professionisti a non perdere la brocca per strada, a non farsi sfuggire cose di cui si sarebbero pentiti appena in stampa, a evitare che un Facci definisse "fatta" una ragazza che ha denunciato una violenza, a evitare che una De Gregorio desse dei cerebrolesi a persone che ora potrebbero persino denunciarla (se non la denunciano i cerebrolesi per l'accostamento). 

Queste norme complessivamente andavano sotto il nome di ... "politically correct", state per dire. E invece no. All'inizio si chiamavano "educazione". Anzi, forse il momento in cui abbiamo perso la partita è stato quello in cui abbiamo cominciato a dire "politically correct" invece di "educato". Se invece di chiedere scusa per non essere stato "correct" al professionista toccasse dire, scusate, sono stato proprio un maleducato, un cafone... sentite che suona diverso? Almeno a me suona molto diverso, ai giovani d'oggi chissà. Son talmente scemi.

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Venite a prendervi il Perdono (ad Assisi)

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2 agosto: Perdono di Assisi

Ludmiła Pilecka, CC BY 3.0,
via Wikimedia Commons
Il due agosto è possibile fino a mezzanotte ottenere l'indulgenza plenaria per tutti i peccati: occorre essersi confessati in settimana, ricevere la comunione e visitare la Porziuncola, la chiesetta che San Francesco restaurò a valle di Assisi e che amò più di ogni altro tempio di Dio. Questa indulgenza la ottenne lo stesso Francesco, prima da Gesù Cristo, apparsogli durante un'intensa sessione di preghiere nella chiesetta, poi dal suo vicario papa Onorio III, a cui Gesù aveva invitato Francesco a rivolgersi perché nel cattolicesimo c'è tutta una filiera gerarchica da rispettare.

A Onorio, Francesco chiese espressamente un'indulgenza "senza obolo", cioè gratis, per i pellegrini che arrivavano alla Porziuncola; Onorio pur consapevole dell'enormità della richiesta ("Molto è ciò che chiedi, o Francesco") era pronto a concedergliela. Fu la Curia a obiettare: "farete scomparire l'Indulgenza della Terra Santa e ridurrete a nulla quella degli apostoli Pietro e Paolo, che sarà tenuta in nessun conto". Per "indulgenza della Terra Santa" si indicava quella concessa ai crociati, che combattevano sapendo che sarebbero andati in paradiso; mentre quella "degli apostoli" era alla base del turismo religioso a Roma, dove convergevano pellegrini da tutta l'Europa, una fonte di reddito cruciale per la Città santa. Insomma a inizio del secolo XIV l'aspetto economico della questione indulgenze è già chiarissimo: il Papa ne ha il monopolio, ma se ne concede troppe il prezzo crolla. La civiltà mercantilista comunale è ormai egemone, il cattolicesimo non sarà più lo stesso, ma Francesco è un santo e i santi servivano esattamente a questo: a intercedere, chiedere e praticare strappi alla regola. 
Non potendo ritirare la promessa fatta, Onorio decide di limitarla a un giorno solo, e questo giorno sarebbe oggi (in realtà l'indulgenza scatta dal mezzogiorno del primo agosto, insomma 36 ore).

Io devo confessare un certo scetticismo. 

Non tanto sulla questione delle indulgenze – è teologia, non è di mia pertinenza – ma non credo che le cose siano andate così come le raccontano ad Assisi. In effetti, chi è che le racconta? Tutto si basa su un documento noto come Diploma di Tebaldo, emanato nel 1310 da questo Tebaldo che oltre a essere un francescano era anche il vescovo di Assisi, e aveva quindi tutto l'interesse a comprovare e a regolarizzare il flusso di pellegrini verso la chiesetta, che stava diventando molto importante (tanto che nel 1569 renderà necessaria la costruzione di Santa Maria degli Angeli, una grande cattedrale che contenga e conservi la piccola chiesa, il paradosso francescano in architettura). 

Quando compone il diploma, Tebaldo si trova già a obiettare agli scettici ("a motivo della maldicenza di alcuni detrattori che, animati dallo zelo dell’invidia o forse dell’ignoranza, con facce di bronzo parlano
contro l’Indulgenza di Santa Maria degli Angeli presso Assisi"). Francesco è morto 80 anni prima: un lasso di tempo in cui vita morte e miracoli sono stati scritti e riscritti così spesso che nel 1266 i francescani avevano deciso di mettere ordine, fissare una biografia ufficiale (quella di Bonaventura) e... distruggere tutte le altre. Eppure né nella Legenda di Bonaventura, né nelle precedenti, si accenna a un episodio tanto importante, in cui Francesco avrebbe conferito sia con Gesù Cristo sia con un papa. L'episodio messo per iscritto da Tebaldo sembra in effetti modellato su quello più famoso di Francesco che visita papa Innocenzo per chiedergli il permesso di fondare l'ordine, con qualche aggiunta di sapore già romanzesco (la promessa che una volta fatta non può essere ritirata, un topos dei romanzi cavallereschi) e un forte indizio della sua non autenticità. È lo stesso Tebaldo ad ammettere che quello che sta scrivendo non risulta in nessun documento antecedente, per cui non resta che nascondere il problema dietro la "semplicità" di Francesco, che una volta ottenuto il permesso papale, non avrebbe voluto chiedere un documento scritto, malgrado la protesta del Papa stesso: 
Mentre il Beato Francesco, fatto l'inchino, usciva dal palazzo, il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: "O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?". E il Beato Francesco rispose: "Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni".
Quindi per più di ottant'anni il Perdono d'Assisi sarebbe stato praticato senza testimonianze scritte. Potrebbe essere anche andata così, ma c'è da aggiungere che in quegli anni la pratica delle indulgenze non era così formalizzata come sarebbe successo in seguito. Viceversa Tebaldo scrive il suo Diploma in un periodo in cui il fenomeno delle indulgenze ufficiali ha conosciuto un vero e proprio boom, localizzabile nell'Italia centrale. 

È tutto iniziato nel 1294, durante il fulmineo pontificato di quella scheggia impazzita che era Celestino V, ovvero il monaco Pier da Morrone. Per festeggiare la sua improbabile elezione, Celestino aveva emesso la Bolla del Perdono, la quale stabiliva che chiunque si fosse recato presso la sua prediletta basilica di Collemaggio nella festa di San Giovanni Decollato (29 agosto) avrebbe ottenuto la sanatoria su tutti i peccati commessi dal battesimo in poi. Nel poco tempo in cui era rimasto papa, Celestino aveva combinato non pochi disastri organizzativi, ma questa idea di spalancare all'improvviso i cancelli di San Pietro doveva essere piaciuta, perché il suo successore Bonifacio VIII la fece propria quando in occasione del 1300esimo compleanno di Gesù lanciò il primo Giubileo, promettendo un'indulgenza plenaria a chiunque visitava Roma entro l'anno. Può darsi che questi due episodi (perdonanza a Collemaggio e Giubileo a Roma) abbia stimolato i francescani a rendere ufficiale quella che fino al 1300 era soltanto una tradizione orale, collegata alla figura di Francesco ma senza nessun aggancio effettivo alla sua biografia.

Nei secoli il Perdono d'Assisi è stato più volte ribadito dai pontefici, con documenti ufficiali che a dire il vero creano un po' di confusione, anche perché in certi periodi probabilmente la preoccupazione era quella di evitare che la piccola Porziuncola venisse invasa da migliaia di fedeli: da cui il proposito di estendere il Perdono ad altre chiese, e (per chi proprio vuole andare alla Porziuncola) a tutti i giorni del calendario. Oggi il 2 agosto rimane comunque un bollino nero per i turisti ad Assisi. 
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L'esercito delle donne nude

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Non solo i tesori che accumuliamo in vita non ci salvano dal transito mortale, ma è possibile che lo rendano più disagevole. In Cina stanno ancora scavando soldati di terracotta, non finiscono mai; l'imperatore che si fece seppellire con loro aveva forse un piano che pure ai contemporanei del terzo secolo avanti Cristo poteva risultare puerile: sul serio vuoi portarti i soldatini? Pensi che diventeranno guerrieri veri e ti aiuteranno a soggiogare l'Altro Mondo? O vuoi semplicemente lasciare il segno più grosso che puoi in questo? Non lo sapremo mai veramente, e nel frattempo ci troviamo a gestire la dipartita del nostro imperatore, e il suo esercito di donne nude. 

Secondo Repubblica l'ossessione di Berlusconi per i brutti quadri esplode in una fase molto tarda, in cui non solo il suo ruolo politico è diventato marginale, ma anche la liaison con Francesca Pascale è agli sgoccioli. L'ipotesi che si tratti di un tentativo di compensazione è servita su un piatto di cattivo gusto: come in politica e in amore, B. non perde tempo a farsi una cultura (tempo non ce n'è più) e si preoccupa soltanto della quantità: accende la tv e compra tutto quello che c'è. Nessun capitale potrebbe fare di lui un buon collezionista d'arte, mentre c'è ancora tempo e denaro per diventare il più grosso. Il suo consulente è un televenditore, e occasionalmente un critico d'arte più televisivo che accademico, Vittorio Sgarbi. La tv, questo vetro ormai appannato, rimane la sua sfera di cristallo per vedere il mondo e non è una tv qualsiasi, ma proprio quella equivoca e maleodorante dei primi Ottanta; quella che non ha inventato, ma che ha acquistato quasi in toto in pochi anni, creando un network che poteva rivaleggiare col servizio pubblico ma che perse quasi subito quella genuinità filibustiera che B. evidentemente rimpiangeva. 

Ora non c'è più: ci lascia un Paese allo sbando, percorso da onde di populisti senza scrupoli che continuano a promettere il Bengodi o al limite il 1982; un network poco competitivo che prima o poi verrà rilevato da qualche fondo; e un capannone pieno di brutti quadri, paesaggi madonne e donne nude, che forse sognava di poter portarsi con sé dall'Altra Parte: ehilà guardate tutti, come mi sono divertito. 

"E a noi che interessa?"

"Mah, speravo che... ma siete tutti soldati, qui?"

"Guardie dell'imperatore Qin. È lui che comanda quaggiù".

"Ma tu pensa. E... che tipo di quadri piacciono al tuo imperatore?"

"A lui piacciono le armi".

"Le armi, capisco, ho qui un Napoleone che passa le Alpi che sembra quasi l'originale, guarda che cavallo, che slancio... questo in camera da letto funziona, te lo posso dire in confidenza".

"L'imperatore non ha un letto".

"Beh questa è una vergogna cui dobbiamo assolutamente rimediare... se mi fai controllare qui dietro dovrei avere un baldacchino roccocò che è un bijou, pensa che me l'ha regalato..."

"Sparisci dal cospetto della guardia imperiale".

"Ma che maniere... se solo riflettessi su quanto sei fortunato".

"Io?"

"Sì, proprio tu, un soldato di terracotta a guardia del regno dei Morti da mille anni..."

"Duemiladuecento".

"Quel che è, come ti chiami?"

"Non lo so".

"Ti chiamo io Fedele per comodità. Fedele, io la vedo così. La sotto c'è un imperatore che si caga il cazzo da duemilaeduecento anni, e qui sopra c'è un bravo venditore con un sacco di roba veramente molto interessante, e in mezzo a questi due soggetti chi c'è?"

"Chi c'è?"

"Ci sei tu, Fedele, ti rendi conto?"

"Ci sono io?"

"Sei cinese, davvero? Ai cinesi poche parole e molti numeri. Tu mi fai passare, io comincio a piazzare prima due o tre pezzi, poi la voce si sparge, e tu ti prendi il cinque per cento".

"Non se ne parla".

"Ma Fedele, riflettici".

"Tu resti qui, mi dai un pezzo, io lo piazzo e ti rendo il cinquanta".

"Ma stai scherzando, ma io torno tra i Vivi piuttosto. Fedele tu sei una brava guardia, anzi sicuramente sei la migliore, sennò non saresti qui, ma non sei un venditore. Non ci si improvvisa venditore".

"E tu?"

"Io sono il migliore che c'è... la sai la barzelletta di quello che vende frigoriferi agli eschimesi?"

"Eri tu?"

"No io ho fatto di più. Io ho venduto la mafia agli italiani".

"Mi prendo il dieci per cento".

"Fedele, credimi, questo potrebbe essere l'inizio di una grande amicizia, ma devi avere fiducia in me. Il sette per cento dei primi cento pezzi e poi ti prendo in società. Qua la mano".

"Non posso mollare la spada, siamo della stessa argilla". 

"Ah ti capisco, anche io non riuscivo a mollare niente. Dai io vado eh? Da' un occhio qui al carico, ripasso appena ho fatto".


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All'ombra dei lanzichenecchi in fiore

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Non so se funziona anche fuori dai social, ma dentro quelli che frequento io si parla solo dell'avventura ferroviaria di Alain Elkann. Probabilmente andrà avanti così ancora per qualche giorno perché effettivamente da qualche parte doveva scoppiare quella bolla d'aria che è diventata Repubblica, e in generale i quotidiani 'autorevoli', e la cultura autopercepita che esprimono; poteva succedere in qualsiasi momento e con qualsiasi intervento, ma ha un senso che sia successo su un treno, mentre tutti partiamo per le vacanze, e a causa del padre del proprietario. È una storia insignificante, eppure dice tutto; ogni giorno si arricchisce di dettagli ancora meno significanti e ancora più eloquenti: il Comitato di redazione che prende le distanze, il Direttore che non pubblica la lettera del Comitato, il paginone culturale di due giorni dopo che ci spiega che Elkann è uno Scrittore, visto che non lo sapevamo, e il mio preferito fin qui è il tizio che esordisce scrivendo "vorrei fare il mestiere di critico che mi ha procurato una cattedra negli Stati Uniti", perché è professore emerito all'Università della Pennsylvania, mentre sulla pagina di Wikipedia silenziosa scompare l'informazione che anche Alain Elkann collaborava con la stessa università. E così via. 

Mi piacerebbe anche capire perché Dall-e,
se gli chiedi un Renoir, ti dipinge un Cezanne.

Ma insomma ne stanno parlando tutti, quindi cosa aggiungere? No, è che tra tante variazioni sul tema non ho ancora trovato qualcuno che si ponga il problema: chi sarebbe, Marcel, in quello scompartimento?

Marcel sarebbe un ragazzo seduto due file più al centro, un po' ubriaco perché qualcuno gli ha detto che un drink prima del viaggio ti risolve l'agorafobia ferroviaria, e allora ne ha presi due. A un certo punto ha scambiato sedile col suo amico Bloch (che continuava a prospettargli inverosimili avventure "al night") perché nel variopinto afrore dello scompartimento ha captato una chiara nota di muffa che gli ricorda uno scantinato del Bois de Boulogne, e ha capito che proviene dalla borsa o dagli indumenti di lino stazzonato di quel signore un po' fuori dal mondo che dal sedile su cui era prima appollaiato Bloch si può contemplare in tutto il suo appannato splendore. Ha le cuffiette perché finge di ascoltare una playlist di mauvaise musique, sperando che il tizio si lasci sfuggire una frase, un discorso, qualche considerazione sui bei tempi andati o sull'arte. Desidererebbe portarselo a casa, presentarlo alla nonna, ma sa che è una fantasia assurda – meno assurda è quella di vincere la timidezza, presentarsi con qualche pretesto, farsi introdurre in qualche atrio muscoso in cui vivrà con creature a lui simili che Marcel ora arderebbe dalla voglia d'incontrare – ma è anche vero che al Lido Hotel Bikini di Vieste ci stanno la Cicci e la Frenci e Bloch sostiene di potergliele presentare entro il tramonto.


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Scherza sui Santi a Belluno

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Buongiorno a tutti, con la consueta tempestività sono lieto di informarvi che venerdì 15 (cioè domani) alle 18:30 presento il Catalogo dei Santi Ribelli presso la Libreria degli Eddini a Belluno


La mattina dopo poi sempre a Belluno sarò al Vivaio Letterario, ma credo sia già tutto prenotato

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Priscilla e Aquila, i santi del futuro

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 8 luglio: Aquila e Priscilla (I secolo), collaboratori di Paolo apostolo


Vi tengo d'occhio, uomini

Aquila e Priscilla sono due santi con un grande potenziale ancora non sfruttato, secondo me. Per cominciare sono una coppia: marito e moglie. Ci sono altre coppie tra i santi, ma non così tante e non in una posizione così importante. Nei sei passi in cui sono nominati nel Nuovo Testamento (e sono tanti: certi apostoli godono di minore visibilità) compaiono sempre assieme, e da secoli gli studiosi si lambiccano per capire come mai di solito Aquila, il marito, venga nominato dopo di Priscilla: quel che è chiaro è che qualsiasi cosa decidono di fare, la decidono assieme e la fanno assieme. E fanno cose importantissime: ospitano Paolo di Tarso, forse si fanno convertire da lui, gli danno un lavoro, gli salvano, per sua ammissione, "la testa". Sono una coppia di imprenditori e viaggiano molto, per affari o perché questa cosa che ancora non si chiama cristianesimo è molto instabile e a volte li costringe a cambiare città: quando Paolo li incontra, sono appena stati espulsi da Roma per decreto imperiale, in quanto giudei. Ma probabilmente non sono entrambi giudei: lo è Aquila, ma Priscilla ha un nome veramente molto romano (forse è un vezzeggiativo: Paolo nelle lettere la chiama "Prisca"). Sono quindi la prima coppia multietnica del Nuovo Testamento, se non l'unica, e dimostrano anche in questo un dinamismo sociale che non sospetteremmo, se non avessimo appunto il Nuovo Testamento, uno dei pochi documenti a parlarci di questa classe media di professionisti completamente ignorata dalla storiografia ufficiale e snobbata dalla letteratura.

Paolo li incontra dopo il non incoraggiante soggiorno ad Atene, intorno al 50 dC. In Atti 18,2 Luca racconta che a Corinto (uno dei porti più importanti della Grecia), Paolo si imbatte in Aquila, "un giudeo oriundo del Ponto, giunto dall'Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma". Questo decreto di espulsione è citato anche da una fonte latina: la Vita di Claudio, scritta da Svetonio più o meno nel 112. Per una coincidenza singolare, le prime due tracce di cristianesimo nei testi latini compaiono tutte in una manciata di anni proprio intorno al 112: il carteggio tra Traiano e Plinio il Giovane che attesta la presenza di cristiani proprio nel Ponto, e il famoso paragrafo 44 del libro XV degli Annales di Tacito di cui abbiamo parlato pochi giorni fa, che dimostrerebbe la presenza di una importante comunità cristiana a Roma già nel 64 – se non fosse stato interpolato, il che non si può escludere. Svetonio è uno storico assai meno attendibile di Tacito, ma siccome a differenza di quest'ultimo rimase ben letto e ricopiato per tutto il Medioevo, è anche meno interpolabile. Sull'argomento, scrive semplicemente che Claudio espulse da Roma i giudei "continuamente tumultuanti, istigati da Cresto" ("Iudaeos, impulsore Chresto, assidue tumultuantes Roma expulit"). Potrebbero insomma già essere cristiani (ma Chrestus è un nome greco non infrequente al tempo), e dimostrerebbero un'attitudine riottosa e radicale che si adatta poco con l'etica paolina. Non è insomma chiaro se Aquila e Priscilla fossero già cristiani prima di incontrare Paolo a Corinto, o se li abbia convertiti lui. In ogni caso Paolo "si unì a loro" che facevano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende. Perché rispetto agli apostoli rimasti a Gerusalemme, che danno la sensazione di vivere soprattutto delle collette puntualmente sollecitate, Paolo ci tiene a ricordare che lui continua a lavorare. Il tempo libero lo passa invece a convertire (per lo più i pagani), e litigare (per lo più coi Giudei), finché questi ultimi non lo denunciano presso un magistrato che, come al solito, non capisce il punto del problema: stavolta si chiama Gallione, fa il proconsole e lo dice chiaro e tondo: "Se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende". 

Poco dopo Paolo lascia Corinto, dove ormai c'è una Chiesa ben avviata, e si lascia accompagnare a Efeso da Aquila e Priscilla, anzi Priscilla e Aquila (che fosse lei ad avere l'ultima parola? Oppure può darsi che il suo nome, in quanto latino, desse più lustro all'impresa famigliare). I due potrebbero aver accompagnato Paolo durante un viaggio di lavoro, o essere due apostoli in missione per conto di Dio: conoscendo Paolo, è possibile che cercassero di mandare avanti sia il commercio che l'apostolato. Prova ne è il modo in cui a Efeso gestiscono il caso Apollo. Paolo a quel punto non è più in città, ma è diretto verso Gerusalemme e poi Antiochia. A Efeso arriva un nuovo predicatore, Apollo di Alessandria, che "parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni". Senza perder tempo a chiedere istruzioni al loro capo, Priscilla e Aquila lo prendono in disparte e gli espongono "con maggiore accuratezza la via di Dio". Benché il passo suggerisca che Apollo abbia accettato le correzioni di P&A, in seguito Paolo si imbatterà a Efeso in cristiani che "conoscono solo il battesimo di Giovanni" (19,2) e a Corinto in cristiani che si considerano "di Apollo" (prima lettera ai Corinti 1,12).

Dopo il soggiorno a Efeso, P&A sarebbero tornati a Roma: altrimenti non avrebbe senso che Paolo dedicasse a loro uno dei suoi saluti più affettuosi, nella Lettera ai Romani (16,3-4): "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, i quali hanno rischiato la vita per me; a loro non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni". Paolo però li saluta anche nella Seconda Lettera a Timoteo, il che fa supporre un'ulteriore partenza da Roma (forse per evitare la persecuzione neroniana?) e un ulteriore soggiorno a Efeso. Dopodiché di loro non sappiamo più nulla, ma trattandosi di personaggi così ben attestati nelle Scritture ci si aspetterebbe di ritrovarli vittime di un sadico imperatore in qualche truculenta Passio tardoantica o altomedievale – invece niente. A volte Priscilla viene identificata con la martire romana dell'omonima catacomba, il che non sarebbe nemmeno così tirato per i capelli, visto che Priscilla una o due volte a Roma c'è stata anche secondo il Nuovo Testamento. Ma anche su questa cosa gli agiografi sembra che non si siano intestarditi più di tanto. È come se P&A non avessero trovato ancora il loro momento di gloria.

Potrebbe essere questo. Insomma abbiamo una coppia che gira per il mondo e dà un tetto e un salario a Paolo – non so se mi sono spiegato, Paolo di Tarso, quello che scrive che le donne devono stare sottomesse ai mariti, e mentre affermava queste cose è probabile che la padrona di casa facesse il buono e il cattivo tempo. In questi anni di crisi delle vocazioni, la Chiesa sta puntando sempre più sulle famiglie: non è nemmeno una strategia, è una scelta obbligata: il celibato funziona sempre meno. Abolirlo è molto difficile (non è che un papa possa dire ehi, per un millennio e più ci siamo sbagliati): ma si può molto più agevolmente trasferire parte delle funzioni pastorali ai diaconi, che da sempre possono avere famiglie. Allo stesso modo, è difficile pensare che la Chiesa possa istituire sacerdotesse, laddove le diaconesse sono attestate negli Atti degli Apostoli. Se solo nello stesso libro ci fosse una coppia esemplare che vive, lavora e catechizza come una cosa sola... ehi, ma in effetti c'è, una coppia così. Segnatevi questi due nomi: Aquila e Priscilla, anzi Priscilla e Aquila. Nei prossimi anni si dedicheranno chiese, si gireranno fiction; voi potrete dire di averli invocati quando ancora non erano cool. 
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La santa tirata per i capelli

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5 luglio: Santa Zoe, martire tirata per i capelli (III secolo)

Wikipedia spiega che
questo è un santino di
Alberto Boccali. Prima 
della guerra credo che
sarebbe stato considerato
indecente.
La Zoe romana è una comparsa della leggenda di San Sebastiano: è la moglie muta del carceriere Nicostrato. Per testimoniare la divinità di Cristo, Sebastiano le restituisce il dono della voce che aveva perso sei anni prima. A quel punto tutta la famiglia si converte e viene battezzata da un sacerdote chiamato Policarpo (non quello di Smirne). Più tardi viene incarcerata, ma la lingua che Sebastiano le aveva sciolto dopo sei anni di silenzio forzato non tradirà la nuova fede. Tra i tanti martiri sotto Diocleziano, Zoe si segnala per l'originalità del supplizio: siccome dopo cinque giorni in isolamento senza cibo, bevande e luce, non aveva ancora rinnegato il cristianesimo, il sesto sarebbe stata appesa a un albero per i capelli e affumicata su un fuoco di escrementi, fino al soffocamento. Così per gli Acta Sancti Sebastiani Martyris, testo che nessuno più attribuisce a Sant'Ambrogio e in generale è considerato poco attendibile.

Sed cum pertransissent sex dies suggesserunt de ea praefecto sarvienti: qui jussit eam a collo et capillis in arborem excelsam suspendi et subter fumum ex sterquilinio adhiberi. 

Si può davvero ammazzare una persona così? In assenza di prove empiriche è lecito dubitarne. Di altre sante (Giulia di Corsica, Giuliana di Nicomedia) si racconta che furono sospese per i capelli, anche se il testo di solito dice semplicemente qualcosa del tipo "le furono torti i capelli". L'affumicatura invece è per quanto ne so un hapax, ma non me ne intendo così tanto e forse nemmeno voglio cominciare a intendermene, quando ho iniziato questa cosa dei santi non pensavo di dover diventare un esperto di torture antiche e medievali. 

Mi incuriosisce, questo sì, il fatto che qualcuno sia riuscito a immaginare di uccidere una persona in questo modo. Il tormento di Zoe non ha avuto particolare successo nell'iconografia – l'immagine che più circola su internet è un santino del secolo scorso, e qui si potrebbe aggiungere che il nostro approccio alla capigliatura femminile è cambiato tantissimo a metà del Novecento, dopo una guerra in cui in molti Paesi d'Europa (compreso il nostro) la pena per le donne accusate di intelligenza col nemico era ancora la tosatura: tanto bastava a far perdere l'onorabilità, e se ci pensate tutte queste raffigurazioni di donne coi capelli molto corti o strappati nell'arte figurativa prenovecentesca non le avete mai viste; spogliate sì, nude di fronte agli strumenti di tortura, perché no; ma tirar loro i capelli era già considerata già una mutilazione, una cosa non concepita e non concepibile. 

Persino Iacopo da Varazze, uno che a una sevizia non diceva mai di no, aveva censurato il supplizio di Zoe nella sua vita di Sebastiano. Ne rimaneva invece traccia nel Martirologio romano, ma la voce della Bibliotheca Sanctorum (1961) avvertiva che "probabilmente si tratta di un personaggio inventato dall'agiografo e quindi la sua permanenza nel Martirologio è molto problematica". Infatti col tempo è sparita, credo a partire dalle versioni post 2000 che hanno tagliato tanti miracoli e dettagli leggendari, imponendo una svolta realistica che non a tutti sta piacendo, mi pare. Il sospetto è che a estromettere santa Zoe non sia tanto la dubbia storicità (comune a quasi tutte le vittime delle persecuzioni antiche) quanto appunto la scarsa plausibilità del tormento, che insomma, come dire, è proprio tirato per i capelli, ecco.
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(Come ho iniziato a) capire Nerone

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30 giugno: Primi martiri della Chiesa di Roma (64)


Col tempo purtroppo cominci a capire chiunque, perfino Nerone. Il quale Nerone, è possibilissimo che non abbia gestito al meglio il grande incendio del 64; del resto era fuori città quando fu appiccato, e anche una volta accorso non è che potesse fare miracoli. Il fuoco dilagava in dieci quartieri su quattordici, comportandosi in modi imprevisti che i Romani non avevano mai avuto occasione di osservare. Non c'era mai stato un incendio così grande in città, e la città stessa non era mai stata così grande. Col tempo ho cominciato a capire come reagiscono le persone di fronte a fenomeni che non hanno mai avuto occasione di osservare: improvvisano. Trasformano i sospetti in realtà indiscutibili, confondono i sintomi con le cause, se durante un'alluvione vedono il fiume in piena portare tanti tronchi decidono subito che l'alluvione è colpa dei tronchi, perché il Potere non pulisce i fiumi dai tronchi? È chiaro che il Potere è in combutta coi tronchi per causare alluvioni che poi costano un sacco di soldi allo stesso Potere, ma se lo fa ci sarà un motivo. Piove per mesi? È colpa degli aeroplani che lasciano le scie, chi li ha messi in cielo tutti quegli aeroplani, eh? Le epidemie sono sparse dal Potere in virtù del malvagio protocollo Tachipirina E Vigile Attesa. I terremoti si potrebbero prevedere, ma il Potere non lo vuole, insomma il Potere passerebbe il tempo a tramare alle nostre spalle, e non un complotto solo ma tanti complotti diversi, come se ogni mattina si svegliasse indeciso sulla sfiga da somministrarci: che faccio stavolta, gli mando un'inondazione, un terremoto, un'epidemia?

Tutte queste cazzate le ho sentite io nel XXI secolo; immaginate cosa potevano raccontarsi i Romani sfollati mentre si riparavano nei giardini privati di Nerone o in baracche costruite alla benemeglio dalle legioni di Nerone, con soldi che Nerone stava anticipando e che con molta fatica sarebbe riuscito a recuperare dalle casse delle province: è chiaro che l'incendio lo aveva causato lo stesso Nerone; non lo avete visto in cima alla torre? Pensavate che volesse semplicemente capire l'entità dei danni? Nooo, era lì a intonare un canto sull'incendio di Troia. Li avete ben visti i vigili demolire interi isolati – lo facevano per evitare che l'incendio si propagasse – eh, ma intanto saccheggiavano. Qualcuno avrà pure saccheggiato: anche a Messina nel 1908 i soldati che arrivarono a soccorrere gli abitanti dopo un po' non sapevano cosa mangiare, e cercavano tra le rovine. 



Nei mesi successivi Nerone avrebbe iniziato a ricostruire Roma non solo "più grande e più bella di pria" (in realtà ci vollero molti anni perché la popolazione superasse quella pre-incendio) ma soprattutto con standard di sicurezza mai visti fino a quel momento – strade più larghe, isolati più piccoli, divieto di pareti in comune tra fabbricati diversi, uso di pietre refrattarie, limite d'altezza per gli edifici, dislocazione di idranti collegati agli acquedotti. Nel frattempo doveva comunque affrontare un'opinione pubblica che sussurrava che l'incendio l'avesse appiccato lui, per rifare Roma a modo suo. Finché non decise di deviare l'attenzione su qualcun altro: e scelse i cristiani. Lo racconta Tacito negli Annali (scritti intorno al 110). Per Tacito i cristiani furono scelti "per soffocare ogni diceria", e perché "il volgo li detestava per le loro infamie". Questa "rovinosa superstizione" era dunque già arrivata a Roma, "in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende". Tacito sostiene che ne morì una "quantità enorme", e che più che la responsabilità dell'incendio veniva loro imputato l'"odio contro il genere umano". Quella ordinata da Nerone è la prima persecuzione di cristiani a Roma; i supplizi sono già quelli poi ripresi dalle leggende dei santi (del resto coerenti con i supplizi inflitti dai Romani agli schiavi ribelli): prigionieri "coperti di pelli di animali selvatici" per essere sbranati dai cani, o "crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna". Non c'era ancora il Colosseo e quindi Nerone dava questi spettacoli nei giardini del suo palazzo, "mescolandosi alla plebe in veste d'auriga". Tacito ammette che i cristiani così torturati destavano pietà, "perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo". Tutto questo si legge nel famosissimo paragrafo 44 del libro XV degli Annali, e quindi potrebbe anche non essere vero.

In effetti Tacito è un autore dalla fortuna abbastanza bizzarra. In epoca imperiale era molto stimato, vedi i complimenti di Plinio il Giovane. Ammiano Marcellino si considerava un suo continuatore. Ancora Girolamo lo ammira e ci lascia un indice delle sue opere. Dopodiché nel Medioevo sparisce completamente: nessuno lo legge più, nessuno lo cita più: e questo malgrado il valore pregevolissimo della sua opera, non solo documentario ma letterario. Una spiegazione è proprio la pessima figura che aveva fatto fare ai cristiani nel paragrafo 44, che Sulpicio Severo aveva ricopiato integralmente in una sua opera all'inizio del V secolo. Insomma siccome Tacito parlava male dei cristiani, i cristiani avrebbero deciso di non leggere più Tacito. Sappiamo che altre opere vennero censurate o rimaneggiate per lo stesso motivo (il Talmud, e probabilmente anche le Antiquitates di Giuseppe Flavio). E però l'importanza del paragrafo 44 era enorme: avrebbe dimostrato che i cristiani erano già numerosi e perseguitati a Roma nel 64, appena una trentina d'anni dopo la resurrezione di Gesù; avrebbe fornito una controprova importante alle agiografie che ambientavano nel 64 il martirio dei santi Pietro e Paolo. D'altro canto nel Medioevo di tutte queste controprove non si sentiva il bisogno: che Roma fosse la cattedra di Pietro era autoevidente. Non solo il paragrafo 44 dopo Sulpicio non viene più citato da nessuno, ma tutto Tacito scompare.


Una pagina del Laurenziano 68,2


Col Rinascimento la situazione si capovolge: Tacito diventa autore apprezzato e supercitato, anche perché la sua rassegnata adesione al regime degli imperatori suona molto congeniale agli umanisti perennemente in cerca di prìncipi da servire e riverire: è un Machiavelli prima di Machiavelli, questo Tacito, e però come fanno gli umanisti a conoscerlo e apprezzarlo, se per quasi mille anni nessuno ha conservato le sue opere? In effetti sembra che i riscopritori di Tacito siano arrivati giusto in tempo, perché se possiamo leggere qualcosa delle Historiae e degli Annales è solo grazie a due manoscritti: se avessimo perso anche quelli, niente Tacito. Forse a quel punto qualche falsario se lo sarebbe inventato: ce n'erano di bravissimi, tra gli umanisti. Da cui la doverosa domanda: siamo sicuri che nessuno se lo sia inventato? 

Per quanto riguarda i primi cinque libri delle Historiae sì, siamo abbastanza sicuri: il manoscritto che li riporta, rinvenuto in un monastero tedesco, ha tutta l'aria di una buona copia medievale dell'opera di uno storico latino che scrive "sine ira et studio" di cose avvenute non molti anni prima. E malgrado le Historiae comincino proprio dalla fine del regime di Nerone, e proseguano con un excursus sulla situazione a Gerusalemme in quel periodo (alla vigilia della distruzione del Tempio) qui Tacito ai cristiani non accenna, neanche di sfuggita. Anzi sostiene che in Giudea "tutto fu tranquillo sotto Tiberio", il che contraddice quanto leggiamo nel paragrafo 44.

Il discorso è un po' diverso per il manoscritto 68,2, oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, dove forse arrivò grazie a Giovanni Boccaccio. È un bel libro, scritto nella calligrafia tipica dei monaci di Montecassino: se fosse un falso, sarebbe un capolavoro anche in questa categoria. È il manoscritto più antico che contenga gli Annales che ci sono rimasti; lo stile somiglia a quello severo e franto delle Historiae nella prima parte, dopodiché diventa un po' più regolare, ma anche un po' sciatto verso gli ultimi libri, tra cui appunto il XV. Quest'ultimo contiene il preziosissimo paragrafo 44, già attestato in Sulpicio Severo. Che il manoscritto fosse un falso lo sospettavano già gli Illuministi nel Settecento (più per polemica anticristiana che per sensibilità filologica); nel 1878 uno studioso inglese, John Wilson Ross, sostiene di aver identificato il falsario: l'umanista quattrocentesco Poggio Bracciolini, che in effetti riscoprì e ricopiò il manoscritto 68,2. Per Ross non si limitò a riscoprirlo: lo avrebbe composto lui, su suggerimento di un cardinale che desiderava possedere un manoscritto unico e inestimabile – e lo avrebbe pagato molto bene. La ricostruzione di Ross è affascinante: spulciando nell'epistolario di Bracciolini, non solo si convince di aver trovato più di un'ammissione di colpevolezza, ma anche l'identità di un monaco tedesco invitato da Bracciolini a Firenze in quanto esperto di calligrafie medievali: la persona più adatta a ricopiare il falso Tacito. Tutto apparentemente plausibile, senonché gli strumenti che abbiamo oggi ci confermano che la pergamena del 68,2 è di qualche secolo più antica; certo, l'attenzione maniacale per i dettagli avrebbe potuto spingere Bracciolini a raschiare qualche codice medievale per scriverci sopra il suo falso d'autore, come se già immaginasse nel Quattrocento che cinque secoli dopo avremmo sottoposto i manoscritti a test col carbonio-14. È però più probabile che gli Annales siano autentici; che le oscillazioni di stile siano quelle normali di un autore; che la descrizione dell'incendio (tanto più realistica di quella degli autori successivi) sia basata su fonti scritte e orali cui solo Tacito, quarant'anni dopo l'incendio, poteva accedere. Nel suo Nerone, più verosimile proprio perché contraddittorio, è così facile riconoscere l'atteggiamento di un qualsiasi amministratore in un'emergenza: arriva magari un po' tardi, si fa prendere dal panico, poi finalmente prende decisioni anche dolorose ma sagge, le paga in termini di popolarità, cerca qualche capro espiatorio. Un ritratto tutto sommato realistico, che spiega anche come mai Nerone rimase dopo la morte un imperatore popolare e rimpianto da parte della popolazione. 

Quel che non torna, nel racconto di Tacito, sono i cristiani. Non somigliano veramente a quelli descritti negli Atti degli Apostoli; è difficile immaginare Paolo o addirittura Pietro a promuovere l'"odio per il genere umano", in una società che malgrado la svolta tradizionalista imposta dagli imperatori giulio-claudi era ancora abbastanza tollerante dal punto di vista religioso. Tacito ha idee stranamente definite sull'origine dei cristiani: "Derivavano il loro nome da Cresto, condannato al supplizio, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato". È curioso che Tacito ricordi il nome di Pilato – personaggio secondario – ma che lo definisca "procurator" e non "praefectus", anche perché prima di fare lo storico era stato avvocato e funzionario: la differenza tra un procuratore e un prefetto doveva conoscerla bene. Laddove un cristiano di quattro secoli dopo, ad esempio Sulpicio Severo, avrebbe avuto un'idea molto meno precisa del ruolo di Pilato, ma nessun dubbio sul nome, ormai eternato nei vangeli. Insomma c'è qualche argomento per sostenere che, se pure gli Annales in linea di massima fossero autentici, il paragrafo 44 sia un'interpolazione, un'aggiunta. Questa interpolazione avrebbe potuto essere effettuata in qualsiasi momento nel Medioevo, a Montecassino, in un periodo in cui il manoscritto di Tacito interessava a pochissimi lettori, e questi pochi magari si domandavano in buona fede come mai nel loro manoscritto mancava il paragrafo di Sulpicio, così importante per la Storia del cristianesimo: finché qualcuno mentre lo ricopiava avrebbe potuto essersi detto beh, se manca perché non aggiungerlo. Ricordiamo che in quel periodo Tacito non era più il grande Tacito, ma un cronista tra tanti, il valore della cui opera risiedeva nella quantità di informazioni storiche che conteneva, insomma per un monaco aggiungere il paragrafo aveva un po' lo stesso senso che ha per noi aggiungerne uno a una voce di Wikipedia; tanto più che era un paragrafo già attestato da un altro autore, e contenente verità indiscutibili. 

Ma la modifica avrebbe potuto essere anche più minimale, e magari operata da Sulpicio o da qualche autore precedente. Forse nell'originale Tacito non parlava veramente di cristiani, ma di un gruppo molto più oltranzista e arrabbiato, di cui non ci rimane più traccia perché... Nerone li ha fatti ammazzare tutti, appunto. Forse avevano davvero appiccato uno dei tanti focolai, o più facilmente intralciato gli interventi dei vigili. Oppure non erano affatto implicati nell'incendio, ma erano colpevoli di alimentare le dicerie sulla piromania di Nerone – finché quest'ultimo non avrebbe deciso di vendicarsi rovesciando l'infamia su di loro. Quest'ultima ipotesi fino a qualche anno fa non l'avrei mai presa in considerazione, mentre oggi mi sembra fin troppo convincente, perché? Perché più conosco gli uomini e più capisco Nerone. Ormai quando sento qualcuno parlare di scie chimiche, vorrei sciargliele addosso. E i negazionisti del riscaldamento globale, mi dispiace sinceramente vederli morire di vecchiaia, invece che disidratati. Tutti quelli che si immaginano un Potere malvagio deciso a rovinargli la felicità, mi fanno venir voglia di assumerlo io, quel Potere, e mandarli a dragare i fiumi finché non affogano. Meno male che non sono Nerone: ma comincio a capire come lo si diventa.
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