Il giorno degli arcangeli

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29 settembre – SS. Michele, Gabriele e Raffaele, angeli o arcangeli

[2013]. Neanche troppo tempo fa, il 29 settembre si festeggiava soltanto Michele Arcangelo, il primo vero supereroe, con le sue ali bianche e la sua lancia sempre conficcata in qualche drago: è l’anniversario della dedicazione del suo più famoso santuario, nel 493 (anche se più probabilmente è di epoca longobarda), a Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. I due colleghi, Gabriele e Raffaele, che nessun passo della Bibbia qualifica come “arcangeli”, avevano entrambi il loro giorno dedicato, rispettivamente 24 marzo e 24 ottobre. A riunire i festeggiamenti in un giorno solo ha provveduto il Concilio Vaticano II. Cordova, città particolarmente devota a Raffaele (dopo essere stata la capitale europea dell’Islam), continua a festeggiarlo in ottobre. Un accorpamento del genere, in mancanza di altre ragioni pratiche o economiche, tradisce un certo fastidio dei teologi. Chi sono questi angeli? Da dove vengono? Cosa pretendono? Le scritture ne parlano pochissimo. Meglio diffidare. Non è un atteggiamento particolarmente moderno: l’insofferenza dei cristiani per l’angelologia è antica quanto il cristianesimo, visto che già il suo fondatore, Paolo di Tarso, metteva in guardia i colossesi dal “compiacersi in pratiche di poco conto e nella venerazione di angeli”.

Le generazioni seguenti dovettero probabilmente scegliere tra due categorie di personaggi venerabili: i martiri o gli angeli. Scegliere gli angeli significava immancabilmente offrirsi alle derive gnostiche che circolavano liberamente in quei secolo, un tripudio sincretico e new age di personaggi alati associati ovviamente al giorno della settimana, al segno zodiacale, al punto cardinale, al tuo umore, e domani incontrerai qualcuno e dovrai fare una scelta importante. Venerare i martiri significava la guerra a tutti i paganesimi: c’è un solo Dio e vale la pena di morire per testimoniarlo. Vinsero evidentemente i più estremisti, ma gli angeli non scomparirono del tutto. Ogni tanto ritornano, sembra che i fedeli non ne possano fare a meno. Certo, nei quadri le ali fanno la differenza. I santi non ce le hanno, anche quando volano sembrano semplicemente sospesi in aria: vuoi mettere con un Michele che svolazza?

Ma chi è poi questo Michele? Il suo nome è a sua volta una domanda, dato che in ebraico suona più o meno “Chi come Dio?” La sua prima apparizione è in un testo biblico abbastanza tardo (II sec. aC), il Libro di Daniele, che gli ebrei non hanno nemmeno incluso nel canone della loro Bibbia – i cattolici sì, ma son di bocca buona. Qui è presentato come il luogotenente del Dio degli eserciti, il suo condottiero più fidato. Nello stesso testo esordisce anche Gabriele, “Dio è potente”. A lui la voce del Signore ordina di spiegare una visione al profeta. Sembra il classico intermediario tra la divinità e l’uomo, e la redazione in greco usa per definirlo il termine classico, ánghelos. Con la stessa funzione lo ritroviamo nel vangelo di Luca, nell’apparizione angelica più celebre: è lui a informare Maria della sua gravidanza. Michele torna invece in un passo dell’Apocalisse (un testo che ha molti debiti col libro di Daniele), sempre con funzioni di alto ufficiale dell’esercito divino: i quadri che lo raffigurano nell’atto di sconfiggere un drago-serpente traggono spunto da lì. E Raffaele? Di lui parla soltanto il libro di Tobia, un altro testo dell’Antico Testamento rigettato dal canone ebraico e recuperato in quello cristiano. Nel libro Raffaele (“Dio Guarisce”) fa da mezzano tra il giovane Tobia e la tenera Sara, una brava ebrea deportata con un piccolo problema: è posseduta da un demone, Asmodeo, che ammazza tutti i suoi mariti la prima notte di nozze. Raffaele sconfigge Asmodeo e cura la cecità del padre di Tobia, un novello Giobbe, tanto pio quanto sventurato. Di storie a lieto fine nella Bibbia non è che ce ne siano tantissime, d’amore poi; sicché la favoletta di Tobia e Raffaele diventa piuttosto popolare nel medioevo: ai giovani sposi viene proposto di praticare l’astinenza per le prime tre notti di nozze, dette le “notti di Tobia”. Raffaele viene invocato come guaritore, anche se in questo campo la concorrenza è presto agguerritissima. Questo è più o meno tutto quello che la Bibbia ci dice su Michele, Gabriele e Raffaele.

E la guerra con gli angeli ribelli? Lo scontro con Lucifero? I testi canonici non ne parlano: a far luce sulla vicenda è un libro apocrifo, attribuito al patriarca Enoch, considerato da quasi la totalità di ebrei e cristiani una patacca già nel primo secolo dC. Gli unici ad averlo incluso nella loro Bibbia sono gli etiopi, ed è nella lingua etiope che il testo ci è arrivato nella sua interezza. Se l’avesse veramente scritto Enoch, settimo discendente di Adamo, bisnonno di Noè, sarebbe il libro più antico della storia: invece è probabilmente stato redatto nel primo secolo avanti Cristo. Il libro contiene i nomi di ben sette arcangeli (Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Sarcaele, Gabriele, Remiele); e del resto Raffaele a Tobia si era presentato come “uno dei sette angeli ammessi alla presenza della maestà del Signore”. A questo punto ogni giorno della settimana e ogni pianeta conosciuto poteva avere il suo arcangelo di riferimento – e tuttavia i vescovi diffidano. Non è che mettano in dubbio l’idea di uno scontro preistorico tra demoni e angeli, ma rigettano il racconto di Enoch e decidono di omologare soltanto i tre nomi attestati nella tradizione biblica. Nel 380 il concilio di Laodicea censura l’invocazione degli angeli come “segreta idolatria”. I barbari però vanno matti per Michele (i longobardi specialmente), un angelo guerriero nel quale è forse più facile per loro riconoscersi. Nel 745 papa Zaccaria scopre che a Magdeburgo un vescovo invoca nomi angelici non consentiti: getta l’anatema e mette per iscritto il divieto di invocare angeli o arcangeli che non siano Michele, Gabriele e Raffaele. Ma poi passano i secoli e nel 1516, alla vigilia della riforma protestante, avviene un ritrovamento straordinario. Due canonici della cattedrale di Palermo, Antonio Lo Duca e Tommaso Belloroso, notano nella piccola chiesetta di Sant’Angelo le tracce di un affresco antichissimo. Tra gli episodi biblici, c’è anche una foto di gruppo del pool angelico:

"Al centro Michele, il Vittorioso, in atto di calpestare il dragone. Da un lato, in ordine: Gabriele, Nunzio, con specchio di diaspro e fiaccola, Barachiele, che viene in aiuto, con rose da distribuire; Uriele , forte Compagno, con spada e fiamma. Dall’altro lato: Raffaele, Medico che guida Tobia e porta un vaso di medicinali; Geudiele, Rimuneratore, con una corona e una flagello; Sealtiele, Orante, raccolto in preghiera".

È un vecchio affresco di epoca bizantina, segno che la venerazione dei Sette Arcangeli aveva resistito a qualche divieto. A sette secoli di distanza, invece, Lo Duca non sa nemmeno che nominarli è proibito. Anzi, il ritrovamento di questi nomi misteriosi getta i semi di una renaissance angelologica, proprio nel momento storico meno adatto: Lutero sta per mettere in questione la venerazione dei santi, figurarsi quella degli angeli. A Palermo però nasce una “confraternita dei sette angeli” a cui si affretta a iscriversi pure Carlo V imperatore; Lo Duca si mette a girare in lungo e in largo per diffondere i nomi angelici e raccogliere i fondi necessari all’erezione di una cattedrale angelica. A Roma, dove è passato a servizio di un cardinale, scartabella finché non trova in qualche antico libro una conferma: i quattro arcangeli misteriosi si chiamano Uriele (“Dio infiamma”), Barachiele (“benedizione di Dio”), Geudiele (“lode di Dio”), Sealtiele o Salatiele (“Dio comunica”). In effetti ne parlava anche lo Pseudodionigi, non esattamente un manoscritto perduto. E tuttavia i soldi per la cattedrale non si trovano; i papi hanno già il loro daffare a finire quella enorme in Vaticano. Vendere indulgenze non è bastato, anzi ha fatto protestare i tedeschi e ha lacerato per sempre la cristianità. A un certo punto Lo Duca (che a Roma chiamano Del Duca) ha un’illuminazione, non in senso figurato: una visione luminosa che gli ordina di dedicare agli arcangeli i ruderi delle terme di Diocleziano, dove i Sette avrebbero assistito sette martiri. È un’ottima idea, anche abbastanza economica, perché le Terme sono ancora in piedi e prima o poi si sarebbe dovuto decidere cosa farne, restaurarle o buttarle giù. Farne una chiesa è il modo migliore per conservarle, vedi quel che successe al Colosseo che finché non fu dedicato ai martiri rimase una rovina. Del Duca però dovrà aspettare parecchio prima di trovare un papa interessato al progetto: Paolo III era scettico, Giulio III addirittura adibì le vecchie terme a maneggio per i cavalli dei nipoti. Alla fine Pio IV diede il beneplacito, e Paolo IV assegnò il restauro all’archistar per eccellenza, Michelangelo Buonarroti.

La basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri sta in piazza della Repubblica, se siete mai venuti a Roma per un corteo ci siete passati davanti di sicuro. Si era ormai in piena Controriforma: riscoprire i nomi degli angeli e degli arcangeli e di altre misteriose entità intermediarie era un modo di reagire alle teologie protestanti che negavano la necessità di qualsiasi intermediario tra Dio e il fedele, sacerdoti compresi. Eppure i sette arcangeli, malgrado gli sforzi di Del Duca e degli altri devoti, non diventeranno mai mainstream. Uriele, il portatore di fuoco, avrà una certa fortuna letteraria: Milton lo adopererà nel Paradiso Perduto. Gli altri tre ricadranno immediatamente nel dimenticatoio, anche per via di quei nomi così brutti. Dal Seicento in poi la venerazione per gli arcangeli sarà progressivamente assorbita da quella, più ortodossa, per l’angelo custode: i tre più famosi continueranno a essere venerati nelle città a loro dedicate, e a conservare un giorno tutto loro sul calendario, fino alla stretta del Vaticano II. In seguito Giovanni Paolo II ha gelato ulteriormente gli angelologi, facendo sapere via decreto che “è illecito insegnare e utilizzare nozioni sugli angeli e sugli arcangeli, sui loro nomi personali e sulle loro funzioni particolari, al di fuori di ciò che trova diretto riscontro nella Sacra Scrittura; conseguentemente è proibita ogni forma di consacrazione agli angeli ed ogni altra pratica diversa dalle consuetudini del culto ufficiale”. Erano già gli anni Novanta, l’esigenza di smarcarsi dallo stucchevole immaginario new age era molto sentita. L’avverto io stesso, nel giorno in cui mi decido a scrivere un pezzo sugli angeli e mi rendo conto che proprio non è cosa, cioè ci sono santi simpatici e santi antipatici, ma gli angeli io proprio non li soffro. Quel che è affascinante del cristianesimo è l’essere una religione di uomini e donne, vergini e martiri, peccatori che inciampano e a volte per miracolo sembra s’alzino in volo. Invece questi tizi, questi primi della classe creati senza peccato originale e con le ali di serie, sembrano usciti da un romanzo fantasy, nel quale peraltro recitavano la parte dei bacchettoni: nel libro di Enoch gli angeli ribelli intendevano fornicare con le femmine umane, in ciò consisteva la ribellione. Gli angeli invece non fornicano, perché dovrebbero? Non ne hanno bisogno, sono eterni. Ma simpatici, no. A me almeno.
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Due chirurghi in paradiso

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 26 settembre: Santi Cosma e Damiano (III secolo), guaritori gratis

(Beato Angelico)

Ho cominciato a tirar giù i santi da novembre, tra un po' è ottobre. Ormai mi sono tagliato tutti i ponti alle spalle. Ne ho presi in giro più di trecento, e quando poi avrò bisogno di qualcuno di loro, a che altare piangerò? Chi non mi volterà le spalle? Cosma e Damiano, per esempio, dovrei proprio trattarli con riguardo. Oltre a essere santi di una certa importanza, sono anche dottori: e le leggende che li riguardano mettono in chiaro che non guarivano coi miracoli, perlomeno non necessariamente, ma con la scienza medica che lo Spirito Santo aveva loro ispirato a studiare. 

C'è anche un'altra particolarità che li rese popolarissimi in età tardoantica, e che dovrebbe ispirarmi una certa deferenza: erano medici anargiri – ovvero curavano a titolo gratuito. Questo è il vero miracolo: il diritto alla salute, che avrebbe ispirato una serie di servizi di quella che oggi chiameremmo pubblica assistenza. La basilica di Cosma e Damiano a Costantinopoli era una specie di pronto soccorso, in cui i malati entravano senza pagare e venivano curati e operati di notte, nel sonno (di che tipo di sonno si trattasse non lo sappiamo: la speranza è che qualcuno avesse già scoperto le virtù anestetiche di qualche estratto vegetale, qualcosa che ti impediva di svegliarti mentre ti tagliavano un'appendice o una gamba).

Tanto ferreo era il loro proposito di curare senza lucro che un giorno litigarono perché Damiano aveva accettato tre uova da una paziente, tale Palladia. Ai rimproveri del collega (secondo alcune fonti era suo fratello), Damiano spiegò che aveva accettato le uova per non offenderla, ma Cosma non volle sentire ragioni e dichiarò che non intendeva essere sepolto insieme a Damiano. Forse presentiva già il martirio, che sarebbe sopraggiunto ai tempi di Diocleziano imperatore, con una certa fatica perché nessun supplizio sembrava funzionare contro i due medici: le pietre rimbalzavano, il fuoco non si appiccava, le frecce rimbalzavano sul plotone degli arcieri, il forno non li cuoceva, il fiume in cui provarono a gettarli non li inghiottiva, così alla fine li decapitarono. I discepoli che riuscirono a recuperare i loro resti, memori delle volontà di Cosma, caricarono il corpo di Damiano su un dromedario per seppellirlo lontano dal collega, ma il dromedario si rifiutò, dicendo: Nolite eos separare a sepoltura, quia non sunt separati a merito, ovvero: non vogliate separare con la sepoltura coloro che non sono separati dal merito – precisamente, il dromedario parlò. È un miracolo. Lo riporto per dovere di completezza, tal quale si trova descritto nella predella della pala di San Marco del Beato Angelico, non ho intenzione di farci qualche facile ironia, voi magari avete una salute di ferro e la vostra Ausl funziona che è un piacere, ma io non posso permettermi di fare ironia su Cosma e Damiano. 

Costoro continuarono a fare miracoli anche dopo la morte, e in particolare ebbero un soprassalto di popolarità nel sesto secolo, quando Giustiniano si convinse di essere guarito da qualche malattia grazie a loro e si mise a costruire chiese in suo onore un po' dappertutto, Roma compresa. In Italia poi furono più tardi adottati come santi protettori dalla famiglia Medici, il che li rese una presenza ubiqua nelle pale d'altare. Uno dei miracoli più sensazionali attribuiti ai due medici è un trapianto di gamba che avrebbero effettuato un secolo dopo la loro morte, su un diacono chiamato Giustiniano che soffriva di cancrena: nel sogno vide i due chirurghi operarlo e quando si svegliò, in effetti aveva una gamba nuova; ma siccome i fratelli avevano adoperato la gamba di un africano, ora aveva due gambe di due colori diversi. Il donatore della gamba era appena morto, dice la tradizione: però a Valladolid, nel collegio di Santa Cruz, c'è un quadro del Cinquecento in cui l'africano non è affatto morto, ma piange di dolore mentre si tiene il ginocchio appena mozzato con la mano destra. Ora, queste sono illazioni che mi sento assolutamente di smentire. Cosma e Damiano erano due medici integerrimi, magari inclini a forme di sperimentazione che possono sembrarci bizzarre, ma mettevano al primo posto sempre il benessere dei pazienti e senz'altro non avrebbero amputato un africano per ottenere una gamba da montare su un diacono. Vergognatevi a pensare a queste cose di due medici così santi e così gratis – Cosma e Damiano, proteggetemi.
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Pio, l'uomo che sanguina

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Cattelan, non sei nessuno
23 settembre - San Pio da Pietrelcina, 1887-1968, taumaturgo.

[2012]. Giovanni XXIII non aveva mai potuto soffrire Padre Pio. Già da monsignore era riuscito a evitarlo, anche quando batteva la campagna pugliese come responsabile della Propaganda Fide. Una volta divenuto Papa doveva considerare quel cappuccino sanguinante e odoroso di acido fenico, con la sua corte di faccendieri e isteriche, un esempio di ciò che la Chiesa conciliare doveva lasciarsi alle spalle. Tutto questo anche prima di ricevere da qualche volenteroso spione una bobina di intercettazioni ambientali in cui la voce del frate e delle sue più zelanti devote era frammista al rumore di sbaciucchiamenti. Senza essere stata particolarmente sollecitata, la bobina sembrava concepita appositamente per turbare un pontefice refrattario alla sola idea del contatto fisico con individui dell'altro sesso. "L'accaduto", scrive, "...fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente..."
"Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili".
Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI - quest'ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l'umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell'ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant'Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall'attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.

L'ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell'organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun "immenso inganno", come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po' astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l'arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l'animo del pontefice:
“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!
Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po' credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D'altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull'erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.

Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita. Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48°), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello un po’ renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi intellettuali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte quelle ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da cui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che comunque il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni Venti. E anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.


Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le cimici del 1960, un tentativo abbastanza patetico, vista l’età ormai avanzata). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli si ritrovasse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore della Cattolica, si trattava di “un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia”, insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande Guerra mediante fenomeni di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il Concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era bene in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.

Ma c’è anche l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, Padre Gemelli, avesse il suo. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il “campo della coscienza”. Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita (come assicura il suo biografo più zelante e maneggione, Emanuele Brunatto) qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla, anche prima che il Vaticano si comprasse l’intera tiratura del volume di Brunatto; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del Santo. Così che sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, ascoltava. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e ascoltare le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito tanto nel riuscire a esaudirne qualcuno, ma nel capirli tutti.



Non so perché, ma ci vedrei bene un monomarca Cavalli.

Padre Pio viene spesso accostato a Teresa di Calcutta, non solo in quanto esponente di una santità postmoderna che ha avuto il suo instancabile propagatore in Giovanni Paolo II; più spesso si tratta di un accostamento di icone, sulla stessa parete o mensola della cucina. In comune i due santi hanno il paesaggio di origine, lo scabro retroterra mediterraneo; una povertà praticata per tutta la vita, e poco altro. Teresa carambolò per il mondo su aerei a reazione, propagandando il suo francescanesimo radicale, abbracciando lebbrosi senza mai tentare di guarirne uno. Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. Ma la sua cella rimase la stessa: non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa gigante di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro per la quale gli storici dell’arte del futuro dovranno forse coniare una nuova categoria, l’Arte Tamarra. I cattolici, anche quelli più progressisti di Pio da Petrelcina, credono nella resurrezione dei corpi. Devono dunque presupporre che Pio si sveglierà intravedendo, oltre la maschera in silicone che ne protegge il corpo in momentanea putrefazione, il più farlocco dei cieli dorati. Avrà nuove mani per alzarle al cielo, nuovi piedi per inseguire i suoi confratelli e prenderli a calci nei secoli dei secoli, nuove orecchie per non ascoltare le loro ragioni: in fondo è solo una leggerissima foglia d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere e tutti assieme erano veramente brutti e inquietanti da guardare. E tuttavia era oro, aveva un prezzo, si poteva vendere e reinvestire in flebo, cateteri, siringhe monouso, in sollievo dalla sofferenza. Teresa nei suoi lazzaretti non accettava ascensori e frigoriferi. Francesco “Pio” Forgione mi riesce, malgrado tutto l’arredo barocco, più umano e simpatico. Ma forse è un problema mio.

Fàmola postmoderna.

Io credo nella corruzione dei corpi, li vedo ogni giorno disfarsi e soffrire, e ogni giorno passa nella fatica di distogliere lo sguardo. Una vita come la visse padre Pio, tutta trascorsa seduta davanti allo spettacolo del dolore e alla sofferenza, mi sembra l’inferno in terra. Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto di provincia. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande Guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, e men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta, in questa impresa padre Pio ci ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi in generale. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.

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Roberto, inquisitore e gentiluomo

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17 settembre – San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo

[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.

E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.

Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.


Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. 

Sappiamo molto di più sull’altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto da tempo – avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all’austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d’Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. Ma durante la Controriforma succedeva anche questo, che bisognava essere prudenti, ma non troppo prudenti, ovvero anche la prudenza andava presa con prudenza, insomma un periodaccio. C’era anche in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l’equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell’elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l’elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant’Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo.

In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.
Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.
Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?

Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.

Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
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Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'Aldilà

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Ma sul serio ti prendevamo sul serio?
9 settembre: Giovanni Lindo Ferretti, eremita punk, nato 70 anni fa – non è ancora un santo ma cominciamo a metterci avanti.

[2013] Giovanni Lindo Ferretti prende forse il nome da San Giovanni, che come lui perse la testa, o dall'Evangelista, che invecchiando appartato scrisse di rivelazioni e apocalissi con l'aria di chi la sa lunga e invece magari bastava variare il dosaggio; da Lindo, ovvero "pulito", perché seppe ripulirsi di tanta rumorosa malvagità diffusa negli anni della perdizione; e dai Ferri di cavallo, che lo sostennero nei terreni impervi quando più facile era ricadere nelle paludosi valli della concupiscenza.

GLF nacque, se Wikipedia non tira i pacchi, a Cerreto, in culo ai lupi, nel decennale del primo giorno della Resistenza antifascista; e fu buon figliolo e chierichetto e spesso deliziava i parrocchiani cantando gli inni a maggior gloria di Dio eccetera. Crescendo nell'appennino reggiano fu avviato sin dalla più tenera età alla professione maggiormente richiesta in quelle terre benedette da Dio, ovvero l'operatore psichiatrico, cioè psico-socio-assistenziale, cioè assisteva i matti in manicomio anche se non si può più chiamare manicomio e non è giusto chiamarli matti e però andateci voi sul Crinale, andateci, poi ditemi. Fu forse operando in quel settore strategico dell'economia reggiana che incrociò per la prima volta il demonio, che stese la sua ala sopra di lui e gli disse, Lindo, dam rèta, i matti che cerchi non sono qui, va' in stazione e prendi il primo treno per Berlino, amarcmand, Ovest. Lui obbedì ma in cuor suo temeva che una volta arrivato nell'avamposto della civiltà occidentale non si sarebbe trovato a suo agio per la mancanza di cavalli e l'inveterata tendenza dei nativi a parlare in tedesco. Ma non temere Lindo, gli disse il demonio, ti manderò un tizio che conosce il reggiano come te, puoi chiamarlo Zamboni, insieme passerete il Muro e scoprirete il fascino vintage dei colbacchi e della cartellonistica del socialismo reale con quindici anni di anticipo su tutti i potenziali competitors. Poi tornerete in Italia e trasferirete lo stesso tipo di ironia sull'Emilia oppressa dal giogo del Partito Comunista Più Grande d'Occidente. E così fu, e per anni GLF divenne il punto di riferimento di una generazione di sconquassati che non sempre andando a furiosa caccia di gomitate in mezzo alla pista percepivano l'ironia demoniaca di chi cantava Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia.

Fu forse lo stesso demonio a rendersene conto, nel mentre che l'Unione Sovietica liquidava il Comecon, e gli disse: Lindo, qui cominciano a mancare i punti di riferimento, basta pankeggiare contro tutti, qui tra un po' ci sarà fame di guru e tu hai la fisionomia giusta. Cosa devo quindi fare? Chiese GLF. Boh, rispose il demonio, prova a a prendere le cose più sul serio, riscopri i valori veri in cui crede la gente, che ne so, la Resistenza, la pace nel mondo, la natura incontaminata. "Posso metterci i cavalli?" chiese GLF. Va bene, perché no, se ci tieni, infilaci pure i cavalli, e il tramonto dell'Occidente. E mi raccomando, ieratico. "Cioè?"
"Eh, come faccio a spiegarti, hai presente Battiato quando ha cominciato a sedersi sul tappetino in mezzo al concerto?"
"Forte Battiato, posso metterci anche Battiato?"
"Certo, mi fa piacere se ti piace, è un altro mio cliente".

E fu così che GLF sempre più ieratico e assorbito da mistiche comunioni equine nelle luci crepuscolari dell’occidente in guerra sopravvisse al crollo del Muro, e un mattino d’agosto si svegliò e il suo disco era primo in classifica e Jovanotti voleva fare un tour con lui, perché lo sentiva profondamente affine e inoltre Madre Teresa gli aveva dato buca. Il suo gruppo poi si sbandò, ma ormai il marchio GLF poteva camminare sulle sue gambe: tutto andava per il meglio, dal punto di vista del demonio, quando finalmente il Signore si tolse i tappi dalle orecchie, percepì l’abominio e gli inviò un orribile male, che per qualche tempo lo tolse dalle scene. Ma quando i dottori lo guarirono, grande fu la sua riconoscenza nei confronti del Signore.

“No, aspetta”, dissero i medici. “Cosa c’entra il Signore? Ti abbiamo guarito noi”.
“Voi non siete che strumenti nelle Sue mani”.
“Ma vaffanculo, mai che succeda il contrario, fosse mai venuto uno oggettivamente guarito da Padre Pio a ringraziare noi dottori, no, sempre il contrario, noi salviamo la gente e Cristo passa all’incasso, ma che senso ha?”
“È un senso più grande di voi”.

Guarito così nel corpo e nell’anima, si fece eremita nei luoghi della sua infanzia, circondato dall’affetto dei suoi cavalli (il loro scalpitìo è l’unica musica che so apprezzare, confessava) e ogni tanto inviava a valle lettere accorate sullo sterminio degli embrioni e sul tramonto dei valori veri: motivo di scandalo e turbamento per tutti i vecchi panchettoni che avevano creduto in lui ai tempi in cui nemmeno lui credeva in sé stesso.

Di lui si ricordano diversi miracoli: i Marlene Kuntz in classifica, Mara Redeghieri che non stona per un disco intero e da Villa Minozzo diventa la voce di una generazione per quasi un quarto d’ora; e quella volta che invocando Benedetto XVI fece schiantare nella boscaglia una pala eolica che gli turbava la concentrazione: e agli ingegneri e ai “managers” sbigottiti che si domandavano: com’è possibile, dev’esser stato un inverno particolarmente rigido, diceva: ma che particolarmente e particolarmente, questo è l’Appennino, convertitevi e leggete Ratzinger:

l’inverno per sua natura può essere rigido e il vento furioso, saperlo è obbligatorio, invocarlo a propria discolpa equivale a reclamare doverosa punizione. Per la manifesta incapacità, l’incuria nel costruire, il risparmio sui materiali fino alla frode, posso solo rallegrarmi, avessero fatte le cose per bene sarebbe ancora lì e chissà per quanto. Più si incupisce il mondo tra crisi economica e inconsistenza politica, più risulta evidente che abbiamo costruito sulla sabbia e si persevera. L’ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine morale non basta a penetrare un mistero che contempla il male, il dolore, la caducità dell’umano operare. D’altra parte chi lenisce la propria disillusione con cinismo ed arroganza non può cogliere quanto di bene, quanto di bellezza e meraviglia la vita offre, comunque, e per quanto possa considerarsi libero ed autosufficiente non fa che offrire il proprio legame al nulla, al senza senso; la religione del nichilismo.

E andava avanti così per cartelle e cartelle, fino a stancarsi lui per primo. GLF è patrono dei cavalli, dei punk, dei cavalli punk e dei cavalli islamici punk. Lo invocano gli atei devoti e i musicisti che non sanno suonare, insomma tutti quelli a cui serve faccia tosta e follia. Buon compleanno.
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I cattivi cinematografi

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f4

Un mese fa su Raiplay era disponibile, solo per un 48 ore, Il cattivo poeta e probabilmente ve lo siete persi. Sarò sincero, anch'io non sono riuscito a finirlo, e dire che non era esattamente il periodo dell'anno più oberato di impegni. Ricordo di aver messo pausa su un fotogramma in cui il protagonista, per la quinta od ottava volta, ci dava la sua interpretazione personale e senza dubbio convincente dell'espressione f4 basito. In sostanza è un giovane gerarca che dopo una fulminea carriera scopre, tipo nel 1936, che i fascisti sono però parecchio cattivi e torturano la gente, immaginate se succedesse a voi di aver pensato fino al giorno prima che erano tutti bravi e buonissimi e poi, così, passavo per caso nei sotterranei della sezione federale che dirigo e ma come, ci sono camerati che torturano gente, sconvolgente nevvero. Nel frattempo Castellitto interpreta il vecchio D'Annunzio ed è bravissimo, ovviamente, ma mi domando se non sia parte del problema, e il problema è: perché facciamo dei film così? 

Uso la prima persona plurale perché l'industria cinematografica italiana campa anche dei miei contributi, e quindi perché invece di fare un film su D'Annunzio interessante (cioè parliamo di un poeta aviatore cocainomane, sessuomane che scappa dall'Italia per debiti, poi torna, conquista una città da solo e la gestisce per due anni finché non lo tirano via a cannonate, certo non è batman ma a occhio non è impossibile fare un film interessante su un personaggio così)... decidiamo scientemente di spendere dei nostri soldi per farne uno dove il protagonista per metà tempo attraversa corridoi, esattamente quel tipo di cose che il primo giorno di un corso di sceneggiatura dovrebbero insegnarti a tagliare, cioè il cinema dovrebbe isolare le cose interessanti della vita di una persona, che al 99% non sono traversate di corridoi. Ma ecco, in Italia succede questo, che abbiamo corridoi molto belli da mostrare, il film è girato al Vittoriale e ne è, in sostanza, una cartolina. Questa è un'altra parte del problema. 

Poi abbiamo questi attori molto bravi che li metti lì e fanno qualsiasi cosa, per cui non è così indispensabile inventarsi un contesto in cui farli brillare, Castellitto è un D'Annunzio credibilissimo che però non ha niente da dire tranne devo incontrare Mussolini e convincerlo a non far scoppiare la seconda guerra mondiale, presto! presto! che è una buona idea per un soggetto, però da qui a farci un'ora e mezza di film qualcosa deve succedere, qualche altra idea di contorno ti deve venire, e ribadisco, parliamo di un poeta aviatore cocainomane sessuomane e conquistatore di città, potremmo non lo so, mostrare degli aeroplani che sorvolano Vienna? eh ma costano. Delle orge a Fiume? No, la proloco di Fiume non sgancia un euro, dobbiamo stare a Gardone, ci hai messo la penisola di Sirmione al tramonto? ah, tramonta dall'altra parte? Sticazzi, metti un altro quarto d'ora di Sirmione. E tutto quello che ha fatto D'Annunzio di interessante nella vita a parte aggirarsi per i corridoi del Vittoriale, amori guerre letteratura teatro? eh, tutto quello che ha fatto... ò dimo. A me dispiace, non tanto per il film che alla fine è un prodotto dignitoso (non l'ho finito, magari la seconda metà riscatta) ma per un'industria che funziona così, con una mentalità da ristorante per turisti che se la mena con il pitoresco e intanto risparmia pure sulla pummarola.

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Lo stato dei social (agosto 2023)

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 Ok allora ricapitolando:

– Non fa affatto caldo, e anche se invece fa caldo comunque il riscaldamento globale non esiste, e se esiste comunque è colpa del sole, gli uomini non c'entrano niente, e se c'entrano comunque è responsabilità degli uomini cinesi, degli indiani, mica nostra, sono loro che devono fare qualcosa, e se fanno qualcosa comunque non è abbastanza, ecco perché fa caldo.

– Le auto elettriche, tu poveretto credi che non inquinino, perché non ti sei ancora chiesto da dove prendono l'elettricità, ebbene la prendono da centrali ottocentesche che vanno a carbone e i vagoni del carbone li spingono a mano i bambini ottocenteschi.

– Se spendi 50 euro di carta, poi qualcun altro spende sempre quei 50 euro di carta; invece se usi la diabolica carta di credito, le banche intascano commissioni su commissioni su commissioni che alla fine della giornata i 50 euro li hanno raccattati su loro, insomma è un complotto delle banche per farsi pagare i servizi, non usare la diabolica carta di credito, a proposito sono cento euro o centotrenta con fattura.


– La sinistra mondiale è in combutta con la Mattel, George Soros e Netflix per omosessualizzarci tutti, in tal modo si ridurrà la popolazione e verremo più facilmente invasi dai barbari, non è successa la stessa cosa con l'impero romano? ah no? perché a quel tempo ancora la Mattel non vendeva bambolotti di plastica, inoltre il diabolico colore rosa non era ancora stato inventato.


– I barbari se ne starebbero anche a casa loro, purtroppo Soros e altri agenti demoniaci pagano le ONG per andarli a prendere con il Pull Factor, che è una specie di pulmino del mare.


– Il covid ormai si è capito, ci sono gli studi di studiosi di fama internazionale, che è stato tutto un complotto della tachipirina ai danni del brufen, ovviamente sponsorizzato da Soros che non perde un'occasione per ridurre la popolazione eterosessuale. Per fortuna i portuali di Trieste, coadiuvati dai runner e col decisivo interessamento di Agamben, hanno sventato anche questo complotto, comunque i morti per il caldo di cui sentite parlare sono in realtà morti per i vaccini, siccome in realtà non fa caldo (vedi punto 1). 


– Gli ucraini non esistono, sono un'invenzione degli americani per mettere in difficoltà i valorosi russi, in realtà si tratta di nazisti che hanno bombardato ininterrottamente il Donbass dal 2010 in poi malgrado fosse un loro territorio, tanto che i russi si sono sentiti di dover intervenire, e in questo modo si sono trovati incastrati in questo guaio malgrado Putin sia un geniale leader e diplomatico e stratega.


– Greta Thurnberg è brutta e antipatica. Elly Schlein è antipatica e brutta. In generale tutte le donne che dicono qualcosa, se vai a vedere, sono brutte o lo diventeranno, e sempre antipatiche. Le donne dovrebbero essere più belle e simpatiche e disponibili nei nostri confronti, e invece ci tradiscono coi criptogheis che le portano a vedere i film della Mattel, e poi si lamentano del patriarcato, ma quale patriarcato, dov'è questo patriarcato quando abbiamo voglia di sc

– Malgrado tutti i punti di cui sopra si possano facilmente trovare tra i contenuti di qualche giornale di destra, e nei discorsi elettorali dei politici di destra, chi li sparge su facebook non è assolutamente di destra e quei giornali manco li legge, ci mancherebbe, chi dice queste cose è sempre un libertario "contro il coro" (che per una pura coincidenza è il sottotitolo del Giornale di Berlusconi) e nemico giurato del "mainstream". L'ipotesi di trovarsi a vivere in una bolla in cui anche se non leggi il Giornale ormai stai leggendo soltanto gente che lo legge è assolutamente da scartare.

... direi che per ora è tutto, la retorica della destra sui social in sostanza è questa cosa qua. Di grilli commestibili improvvisamente non si sente più parlare, ma potrebbe semplicemente essere un effetto di saturazione. Altri complottismi (scie chimiche, Ufo) sono ancora un po' borderline (ma stanno prendendo piede). Ponte sullo Stretto e Riapriamo le centrali nucleari sono argomenti meno condivisi, anche perché chi li spinge non è abbastanza trucido e continua a commissionare contenuti pseudotecnici, come se qui dentro ci fosse gente che si fa convincere dai dati.

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La scelta di Teresa

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9 agosto: Santa Edith Stein (Teresa Benedetta dalla Croce, 1891-1942), martire cattolica di origine ebraica

C'è stato un momento – spero sia passato – in cui la polemica sulla canonizzazione di Teresa Benedetta rischiava di mettere in ombra Teresa Benedetta stessa. Ancora oggi, ho la sensazione che sia una santa meno conosciuta di altre, come se negli ultimi anni vent'anni intorno a lei si fosse posato quel tipo di tessuto con cui proteggi una cosa che ti è cara, che forse un giorno ancora ti servirà, ma che in questo momento non sapresti dove mettere. Sensazione mia. Non è che non se ne senta parlare ogni tanto, ma non quanto meriti un personaggio così attuale ed eccezionale. Anch'io del resto qua sotto ho scritto molte parole che non riguardano quasi per niente la vita e l'opera di Teresa, al secolo Edith Stein. Alla fine la conosco poco, la capisco ancora meno.

Prima di entrare nell'ordine delle carmelitane scalze, Edith Stein è stata una filosofa che anche in epoca pre-nazista non riusciva a pubblicare le sue opere perché ancor prima di essere ebrea, era una donna – e questo malgrado Husserl l'avesse laureata summa cum laude e le facesse gestire i suoi appunti. La scoperta di Teresa d'Avila la porta a convertirsi al cattolicesimo e a cercare di conciliare fenomenologia e tomismo. Appena i nazisti prendono il potere lei scrive una lettera al papa (desecretata soltanto qualche anno fa) facendo presente che questi massacreranno gli ebrei; una cosa che nel 1933 era meno scontata di quanto sembri oggi. La situazione si complica e lei fugge in Olanda, come la famiglia di Anna Frank: dopo l'invasione tedesca finiranno entrambe ad Auschwitz. Edith Stein non è l'unica martire cattolica nei lager; ma mentre ad esempio Massimiliano Kolbe e diversi suoi colleghi furono internati perché preti polacchi (un'altra categoria che le SS perseguitavano sistematicamente), Edith Stein è arrivata nel lager in quanto ebrea. Per i nazisti l'ebraismo, ancor prima che una religione, era una razza, una questione di sangue; la conversione, che aveva salvato tanti ebrei dalle persecuzioni cristiane medievali e moderne, per loro non aveva nessun valore, il sangue non può convertirsi. Questo ha reso la sua canonizzazione una questione spinosa; per esempio l'Anti-Defamation League (una ONG ebraica americana) accusò nell'occasione la Chiesa cattolica di appropriazione culturale. È un'accusa che ha un senso, ma per quanto mi riguarda ho deciso che non sono d'accordo. 

Cercherò di spiegarmi, ma devo qui infilare una premessa: il dialogo interreligioso è un gioco di specchi. Abbiamo davanti una persona o una comunità di persone che ragiona in un modo completamente diverso dal nostro, che ha un progetto diverso, diverse priorità. Istintivamente, cerchiamo di calarci nei loro panni nel tentativo di produrre un discorso che abbia senso per noi, ma soprattutto per loro. Di qui a cercare di spiegar loro la loro fede il passo è breve, ed ecco: a un certo punto la Anti-Defamation League cercò di spiegare a Giovanni Paolo II quali santi canonizzare. 

Sul serio. C'è scritto così. "Perché Edith Stein e non Franz Jägerstätter, un umile cattolico austriaco decapitato dai nazisti nel 1943 perché rifiutava di militare nelle armate di Hitler? [Jägerstätter è stato in seguito beatificato da Benedetto XVI; si festeggia anche lui il 9 agosto perché morì esattamente un anno dopo la Stein]. Perché non un contadino polacco che nascose gli ebrei o a una domestica che adottò un bambino ebreo?" Che dire: grazie per i consigli, ma la santità è uno status attributo dalla Chiesa cattolica che ha valore soltanto per chi si riconosce nella Chiesa cattolica, la quale in casa sua fa un po' quel che le pare; immaginate se il papa cominciasse a spiegare agli ebrei chi merita di essere definito Giusto tra le nazioni. Scrivi cose del genere e poi ti lamenti che il dialogo interreligioso non sta funzionando, non so, hai anche consigli su come somministrare la comunione? Tra l'altro di solito il processo di canonizzazione non segue i ghiribizzi di un papa che si considera infallibile: per arrivarci servono due inchieste, bisogna chiarire un sacco di cose, occorrono miracoli documentati... questo tipo di obiezioni, io le sollevai spontaneamente appena lessi l'intervento dell'ADL. Una reazione istintiva a un approccio altrettanto istintivo: come vi permettete di spiegare voi come funzioniamo noi? E tuttavia.

E tuttavia noi siamo sicuri di sapere come funzioniamo? Perché se uno dà un'occhiata al processo bisogna ammettere che c'è qualcosa che non va, nella canonizzazione di Edith Stein. Ad esempio mancano i miracoli in vita: dovrebbero essere obbligatori, eppure non risultano. Scrivere un trattato sull'empatia in tre volumi come tesi di dottorato non vale (e del resto non glielo pubblicarono). Anche la lettera del 1933, per quanto possa sorprendere per la lucidità, non è esattamente un testo profetico: al tempo Hitler aveva già svelato i propri obiettivi e i propri metodi.  

Ma soprattutto c'è la questione del martirio, che dimostra quanto Giovanni Paolo II ne abbia esteso il concetto. Il martire, per definizione, muore per difendere la propria fede. Questo creava un problema coi cristiani caduti nei lager: definirli "martiri" significava implicare che fossero stati internati e uccisi a causa della loro fede. Ma i nazisti non uccidevano i cristiani "in quanto" cristiani. Se ne rendeva conto benissimo Paolo VI, che quando beatificò Massimiliano Kolbe lo definì un "martire della carità", e non della fede: Kolbe aveva scambiato la sua vita con quella di un altro prigioniero, finendo nella cella della morte al suo posto: un atto eroico, ma la fede non c'entrava. Quando però Giovanni Paolo portò a termine il processo di beatificazione, Kolbe fu definito un martire tout court; e la stessa cosa avvenne con Edith Stein. Che questo potesse risultare provocatorio lo dovevano avere immaginato anche in Vaticano, visto che nell'occasione fu prodotta una giustificazione storicamente accettabile, ma un po' forzata: l'arresto della Stein avvenne in seguito a un pronunciamento molto severo della conferenza episcopale olandese contro l'antisemitismo delle forze d'occupazione tedesche. I vescovi olandesi rimproverarono i nazisti; i nazisti reagirono includendo nelle liste dei deportati gli ebrei convertiti, che fino a quel momento erano stati risparmiati. 

In questo senso Edith Stein, e gli altri cattolici olandesi di origine ebraica, furono realmente sacrificati affinché la Chiesa olandese non mancasse al suo dovere di testimonianza; questa perlomeno è la storia come ha deciso di raccontarsela il Vaticano. All'ADL non andava bene, ma c'è sempre questo problema del gioco degli specchi. I portavoce dell'ADL davano per scontato che i rappresentanti della Chiesa cattolica debbano sentirsi colpevoli per la Shoah. I nazisti erano quasi tutti cristiani; alcuni addirittura cattolici; il clero fu un larga parte connivente, e anche quando espresse un dissenso (come nel caso del clero olandese), non lo espresse con abbastanza forza, dato che non funzionò. In ogni caso l'antisemitismo razziale dei nazisti si era innestato sull'antisemitismo religioso che predicatori cattolici avevano promulgato sin dalla tarda antichità, per cui perché non si cospargono semplicemente di cenere e non si limitano a praticare solenni atti di contrizione, invece di cercare di mettere le loro bandiere e le loro croci in luoghi che dovrebbero essere consacrati alla memoria dello sterminio ebraico? Addirittura in una struttura di Auschwitz, un vecchio magazzino di Zyklon B, c'è un convento di carmelitane scalze, dovevano proprio installarsi lì? Perché i cattolici non si limitano a confessare le loro colpe, perché addirittura osano sostituire le loro vittime alle nostre, o chiamare "martire" una ebrea imprigionata e uccisa in quanto ebrea?

Per il solito vecchio equivoco. La gente crede che il cattolicesimo sia la religione della colpa: fuochino, ma non è proprio così. Il cattolicesimo è la religione del perdono. La confessione a questo serve: non a crogiolarsi in un senso di colpa inestricabile, ma a farselo passare con rapidità ed efficacia. Forse non ha torto chi ritiene che la Shoah debba rimanere una ferita aperta in tutte le coscienze; che certe colpe non possano essere espiate e debbano essere periodicamente rimproverate. Non è sbagliato pensarla così, ma i cattolici sono abituati a pensarla in un altro modo. I peccati per loro non sono rovelli infiniti, ma accidenti quantificabili, parcellizzabili, e soprattutto eliminabili. Non sono condizioni o situazioni, ma azioni (o omissioni) verificatesi in un determinato spazio e tempo; se in un altro spazio e in un altro tempo è intercorso un sincero pentimento, nonché una volontà di rimediare, per quanto possibile, al danno inferto, il sacerdote ti assolve, ed è finita. Finita, capito? 

La Chiesa non si sente più in colpa per la Shoah; può ammettere determinate responsabilità storiche; se insistete, se può aiutare il dialogo interreligioso, la Chiesa può anche mettersi a piangere come una prefica a intervalli prestabiliti: ma è solo una cerimonia, non che le cerimonie non abbiano la loro importanza. Ma insomma la Chiesa non si sente in colpa né per la Shoah né per qualsiasi altra cosa abbia fatto, in generale; è un'organizzazione millenaria nata proprio per gestire questo problema del senso di colpa in un certo modo che non a tutti piace, ad esempio a Martin Lutero non piaceva, lo stesso Agostino di Ippona probabilmente avrebbe disapprovato, e anche le perplessità di molti ebrei sono comprensibili, ma insomma funziona così: di fronte a un'enorme tragedia storica, al massacro di milioni di persone, la Chiesa si pone il problema: cosa possiamo trarne di buono? Qualcuno dei nostri si è comportato male? Amen, se la vedranno con Dio, noi dimentichiamoli. Qualcuno dei nostri si è sacrificato in modo eroico? Ecco, ricordiamoci di loro, facciamo in modo che il loro esempio possa ispirare i nostri discendenti perché poi quel che conta è il futuro, il passato per quanto increscioso è... passato. 


Per gli ebrei – almeno per alcuni – la Shoah non può passare, sarebbe blasfemo pretenderlo. Nulla può più essere come prima, e nulla potrà cambiare il modo in cui è andata. Gli ebrei sono le vittime e i discendenti delle vittime; il resto del mondo deve prendere atto di essere stato carnefice o complice dei carnefici. Questo è quello che ho capito io, ma forse sono vittima di quel famoso gioco di specchi. Quel che posso dire è che i cattolici non ragionano così. Per loro la Shoah è una pagina di storia che senza dubbio ci interpella e ci domanda: da che parte stiamo? E noi siamo liberi di scegliere, ecco, questa cosa che i cattolici possano 'scegliere' di stare dalla parte delle vittime, per i portavoce dell'ADL, era scandaloso. "Anche nell'inferno di Auschwitz", scrivono, "Kolbe, in quanto cristiano, aveva possibilità di compiere delle scelte che gli ebrei non hanno mai avuto. L'Olocausto per gli ebrei consisteva nell'assenza della possibilità di scegliere" (The Holocaust for Jews was about the absence of choice).  Questo è appunto il senso della santità, sin dalle prime storie di martiri; dal vangelo stesso, in cui Gesù sceglie di morire sulla croce, e ancora prima, dagli ultimi testi dell'Antico Testamento in cui ci sono ebrei che muoiono già per testimoniare la loro fede e si aspettano già una ricompensa oltre la morte.  La scelta può costarci la vita, ma ci riscatta dai nostri errori: i cattolici la pensano così, non dico che si debba essere d'accordo, ma è utile capire come la pensano. Edith Stein poteva scegliere di essere cattolica – e lo scelse; non poteva scegliere di smettere di essere ebrea, e ne fu uccisa.

Io credo che i portavoce dell'ADL non avessero tutti i torti, quando accusavano le gerarchie cattoliche di puntare a una "cristianizzazione dell'Olocausto". Come ogni ideologia, il cattolicesimo macina Storia e cerca di produrre giustificazioni. C'è una frase, nella loro argomentazione, che mi mise istintivamente a disagio: "Noi, in quanto ebrei, sentiamo di aver perso Edith Stein due volte" [la prima con la sua conversione, la seconda con la canonizzazione]. Si può perdere soltanto qualcosa che si possedeva: in che modo qualcuno può reclamare di possedere Edith Stein? Potrei obiettare che la sua conversione fu una libera scelta, il punto di arrivo e ripartenza di un ben dettagliato percorso intellettuale: lo specchio mi risponde che non importano le scelte, la Stein era ebrea prima di poterlo scegliere, ed era ebrea dopo avere scelto diversamente, quando morì in una camera a gas insieme ad altre prigioniere ebree. Potrei ribattere che l'atto di nascita conta ben poco, che nella sua famiglia solo la madre aveva qualche dimestichezza con pratiche religiose che gli altri membri ignoravano, e che la conversione non fu nemmeno una conversione in senso proprio, visto che prima di rivolgersi al Dio dei cristiani, la Stein non ne adorava nessun altro; sin dall'adolescenza si era definita agnostica. Lo specchio mi ribatte che non importano le professioni di fede, né i riti; non è per questo che si moriva ad Auschwitz, certo, lo so: ma si moriva per il sangue. Lo specchio mi dice che Edith Stein è ebrea nel sangue e questo non lo accetto, questo è in pratica quello che pensavano i nazisti, accettarlo sarebbe un punto per loro: mi dispiace, posso capire, ma non sono d'accordo.
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Il disegnatore del Crepuscolo

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Se n'è andato Giuseppe Montanari, il disegnatore che in coppia con Ernesto Grassani ha contribuito a fissare nel nostro immaginario la figura e il mondo di Dylan Dog, semplicemente perché nel tempo in cui un Roi chiaroscurava qualche sua incantevole tavola à la Dino Battaglia e uno Stano terminava una delle sue meravigliose vignette da Schiele de noartri, Montanari e Grassani avevano già due albi inchiostrati e pedalare. E DD era un prodotto industriale, anche se noi lettori fingevamo di no. Parte del suo successo era dovuto proprio a questa ipocrisia, per cui con lire Milleottocento speravamo di portarci a casa una pregevole opera sapientemente illustrata da artisti della graphic novel – poi lo aprivi e una volta su quattro oh no!, ancora Montanari e Grassani.  

Montanari non era un artista della graphic novel, Montanari era un veterano delle edicole, veniva da Lanciostory, aveva disegnato Tiramolla e Lando e tanta altra robaccia che ancora era esposta in luoghi più equivoci del chiosco, e anche Dylan lo disegnava così, con uno stile tradizionale che inglobava senza scomporsi scene sexy e splatter che noi credevamo così dirompenti e innovative. Senza volerlo aveva azzeccato già negli anni '80 quell'aspetto crepuscolare di Dylan che sarebbe diventato evidente soltanto un po' più tardi, un'ostilità verso il tempo che passa che a livello superficiale diventa rifiuto per ogni cosa inventata dopo il 1986 – telefonini, internet, ma non è che il sintomo di un disagio più profondo. 

Come tutti i personaggi dei fumetti, DD non può invecchiare, ma a differenza di Tex Willer e Paperino, DD oscuramente sospetta di vivere nella capsula del tempo sepolta da qualche adolescente. Il mondo vero, da qualche parte, sta invecchiando senza di lui, abitante di una Zona del Crepuscolo dove ogni mese può venire ucciso e imbalsamato. Montanari e Grassani erano perfetti per comunicare questa inquietudine, perché con pochi tratti facevano sembrare Dylan Dog, il fumetto più venduto degli anni Novanta, il 567897° enigma poliziesco illustrato della Settimana Enigmistica: quella capsula del tempo che ormai, le rare volte in cui passiamo per un'edicola, finiamo per comprare: perché ci ricorda papà, perché i giornali fanno tutti schifo e comunque le notizie del giorno le sappiamo, perché DD magari lo leggeremmo ancora ma ci vergogniamo, tra un po' avrà 50 anni, noi li abbiamo già.

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Ai vecchi non gli tocchi le statue

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Concita De Gregorio ha esagerato, esageriamo tutti a volte, però è interessante dove l'ha fatto, come e perché. Si è rotta una statua, sono incidenti stupidi che capitano, ma ai lettori dei giornali sembra che le statue interessino in modo particolare, il mondo può anche sobbollire e squagliarsi ma le statue!, non gli devi toccare le statue. Probabilmente si specchiano nella loro rigidità

Ce lo siamo detto e stradetto, i giornali seri vendono poco, ormai li comprano solo i vecchi e i vecchi hanno gusti ben noti: vogliono sentirsi dire che sono stati i migliori, dopo di loro il diluvio, maledetti giovinastri e così via. In edicola ci sono giornalacci che questa cosa la fanno meglio, che strillano titoli sprizzanti odio, e presto o tardi anche il giornalismo cosiddetto serio ci si deve confrontare: l'odio senile tira, viceversa la serena compostezza della maturità te la tirano dietro, e quindi? E quindi dagli con l'odio senile, anche perché voglio dire, hanno fatto male a una statua, come si può sopportare questa cosa? Non sto suggerendo che dietro la De Gregorio ci sia un direttore senza scrupoli che chiede di più! Concita, di più! voglio vedere la bava che cola, facci Feltri, facci Facci, non sto dicendo questo. 

Sto dicendo che alla fine quando uno scrive di mestiere, se non ha 12 anni, il problema del pubblico se lo pone sempre: stai scrivendo ai vecchi, devi scrivere robe da vecchi; i vecchi preferiscono roba più biliare, tu ci metti la bile, al massimo il giorno dopo chiedi scusa. Il pezzo l'abbiamo letto tutti, ha fatto discutere, missione compiuta. 

Vi vedo però che storcete il naso.

Non dovreste. Tanto per cominciare, da quand'è che non comprate un giornale. Poi sì, il discorso sull'abilismo, lo capisco, come se improvvisamente avessimo smesso di darci dei cretini (termine che indicava una persona dal cervello più piccolo), degli scemi (termine che indicava una persona con un punto vuoto nel cervello), dei fessi (termine che indicava persone con una fessura del cervello). No, non abbiamo affatto smesso, anzi continueremo, perché il linguaggio orale viaggia sempre a cavallo dell'illecito, le censure esistono precisamente per il gusto di aggirarle o semplicemente violarle; però vorremmo che i giornalisti giocassero un gioco diverso, che ci stessero più attenti perché... perché? 

Vorremmo che pattugliassero una zona del discorso pubblico dove la gente si rispetta e non si offende, sì, ne avremmo bisogno. Avevamo anche sviluppato una serie di norme – niente di troppo rigido, questione di buonsenso – che aiutavano i professionisti a non perdere la brocca per strada, a non farsi sfuggire cose di cui si sarebbero pentiti appena in stampa, a evitare che un Facci definisse "fatta" una ragazza che ha denunciato una violenza, a evitare che una De Gregorio desse dei cerebrolesi a persone che ora potrebbero persino denunciarla (se non la denunciano i cerebrolesi per l'accostamento). 

Queste norme complessivamente andavano sotto il nome di ... "politically correct", state per dire. E invece no. All'inizio si chiamavano "educazione". Anzi, forse il momento in cui abbiamo perso la partita è stato quello in cui abbiamo cominciato a dire "politically correct" invece di "educato". Se invece di chiedere scusa per non essere stato "correct" al professionista toccasse dire, scusate, sono stato proprio un maleducato, un cafone... sentite che suona diverso? Almeno a me suona molto diverso, ai giovani d'oggi chissà. Son talmente scemi.

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