Gregorio il disarcivescovocostantinopolizzato

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2 gennaio: San Gregorio di Nazianzo (329-390), patriarca riluttante. 

Mosaico alla Martorana di Palermo,  
Di Jastrow - Opera propria, CC BY 2.5. 

Il secondo giorno di gennaio ci ripropone uno degli interrogativi più enigmatici della nostra infanzia, forse il solo che presto o tardi non ha ricevuto alcuna risposta, ovvero: se l'arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovocostantinopolizzasse, vi disarcivescovocostantinopolizzereste voi?

Voi come rispondevate? Sì, mi disarcivescovocostantinopolizzerei subito, ci mancherebbe altro... o piuttosto: no, dovrebbero venire a disarcivescovocostantinopolizzarmi con la forza. Magari era un test sul temperamento, va' a sapere. Come molti scioglilingua, non siamo in grado di risalire all'autore. Riteniamo che non debba essere molto antico, perché a differenza di tanti altri – forse di tutti gli altri – la filastrocca non si basa su cacofonie o omofonie di origine dialettale. In effetti la sua peculiarità è proprio che non contiene né cacofonie (nessuna sillaba ripetuta) né omofonie (nessun suono che possa avere due significati, e pertanto si possa equivocare). Potete verificare facilmente quanto questi siano gli ingredienti di base di ogni scioglilingua popolare, tranne appunto quello dell'arcivescovo, che rientra in una categoria tutta sua: un gioco su due fenomeni linguistici più tipici dell'italiano scritto che di quello colloquiale o dialettale. Il primo fenomeno sono le parole sdrucciole (cioè con l'accento sulla terzultima), che non sono poi così infrequenti, ma conferiscono un tono particolarmente aulico quando sono pescate da un lessico specifico, in questo caso storico: "arcivescovo" e "Costantinopoli". L'altro fenomeno è il famigerato periodo ipotetico di secondo tipo, quello che ci costringe a flettere i verbi al congiuntivo imperfetto ("disarcivescovocostantinopolizzasse" e al condizionale presente "disarcivescovocostantinopolizzereste"), una regola che non interiorizziamo a sufficienza, a giudicare non solo dalla quantità di errori che commettiamo, ma dall'imbarazzo con cui li gestiamo. Ci sarebbe anche un terzo fenomeno, ovvero quello che ci consente di inventare nuove parole componendo parole più brevi, salvo che non è veramente un fenomeno tipico dell'italiano, quanto ad esempio del tedesco; per cui non mi stupirei se la filastrocca provenisse da un ambito germanofono (ma per ora non l'ho trovata) o da un ambiente liminare in cui la lingua tedesca poteva ispirare parodie (il Lombardoveneto?)

L'enigma non riguarda soltanto l'origine dello scioglilingua, ma si estende anche al suo contenuto: chi è l'arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato, e per quale motivo avrebbe dovuto disarcivescovocostantinopolizzarsi? La Storia ci consegna più di un prelato che avrebbe potuto ispirare l'autore: uno dei più celebri è senz'altro Giovanni Crisostomo, che fu disarcivescovocostantinopolizzato a forza dall'imperatore Teodosio II. Ma potrebbe anche trattarsi di Gregorio Nazianzo, che si disarcivescovocostantinopolizzò spontaneamente, appena qualcuno gliene fornì un pretesto. Da qui in poi lo chiamerò Greg, come nei miei vecchi appunti di quando frequentavo Storia del Cristianesimo (a dire il vero lo chiamavo Greg Nazi, per distinguerlo da Greg Nissa, Greg Magno e Greg Tours, ma non vorrei terrorizzare l'algoritmo).

Dando un'occhiata alla famiglia, Greg doveva diventare santo per forza. Santo il papà (Gregorio il Vecchio), santa la mamma (che si chiamava Nonna), santa la sorella Gorgonia, santo il fratello Cesario, santo il migliore amico Basilio che si festeggia anche lui il 2 gennaio, santo persino il fratello del migliore amico, Gregorio di Nissa, insomma il Nazianzeno non aveva scelta: che figura ci avrebbe fatto con amici e parenti? Ovviamente sto barando: tutta questa caterva di santi cappadoci sul calendario c'è arrivata soprattutto grazie alle orazioni funebri di Greg, che di tutti era il più bravo con le parole e ci avrebbe convinto anche a canonizzare il cane, se avesse voluto. Ma rimane la sensazione che si trovasse un po' a disagio col suo destino di santità, in quel turbolento quarto secolo in cui si conquistava soprattutto amministrando diocesi e difendendo l'ortodossia nicena dagli eretici ariani. Greg, uomo di lettere, non si sentiva tagliato per nessuna delle due cose. 

Quando Basilio lo implora di assumersi gli oneri di vescovo almeno nella piccola città di Sasima, Greg cede alla richiesta dell'amico ma se la squaglia subito (entrare a Sasima, controllata dagli ariani, non sarebbe stato semplice). Più dell'amico può la famiglia: a Nazianzo c'è bisogno di lui, il padre è troppo anziano, Greg gli dà una mano ma alla sua morte (374) si ritira nel monastero di Santa Tecla, forse per evitare che a qualcuno venga in mente di offrire al figlio l'incarico del padre. In questo modo però si ritrova libero da grossi incarichi e incapace di dire di no quando cinque anni più tardi Basilio gli chiede di sedere sulla cattedra più scomoda di tutte, quella di Costantinopoli. In effetti nella capitale gli ariani sono la maggioranza, e anche se il nuovo imperatore Teodosio si è schierato dalla parte dei cristiani ortodossi, salire sulla cattedra scortato dalle guardie imperiali è oggettivamente rischioso. 

D'altro canto, dire di no a Basilio sarebbe come tradire la Trinità, e quindi il raffinato scrittore si ritrova in prima linea contro gli ariani, che non piacciono più all'imperatore ma in compenso hanno il polso del popolo. Contro di loro, Gregorio impugna tutta la sua eloquenza in un ciclo di omelie che sono considerate il suo capolavoro – anche se il brano per cui in assoluto è più citato non l'ha scritto lui, ma il suo collega e amico Gregorio di Nissa. In un modo o nell'altro riesce a conservare la cattedra fino al concilio ecumenico del 381: la sua intenzione era approfittare del concilio per sottoporre la sua nomina all'assemblea dei vescovi, e invece si ritrova a sorpresa a dirigerne i lavori perché l'unico prelato che lo sopravanza in prestigio, l'arcivescovo di Antiochia, nel frattempo è morto. Bisogna eleggerne un altro, il che richiede grandi doti di mediazione e forse Greg non le ha, o non vuole più averle, insomma quando i rappresentanti di una fazione avversa mettono in dubbio la legittimità della sua carica, visto che si era arcivescovocostantinopolizzato quando era ancora formalmente vescovo di Sasima, invece di ridergli in faccia (a Sasima non ci era proprio mai entrato), scrive una grossa tirata contro le divisioni della Chiesa e si disarcivescovocostantinopolizza seduta stante. Aveva da poco passato la cinquantina: si ritirò a Nazianzo, dove finalmente lo lasciarono studiare e scrivere in pace. Morì sei anni più tardi, disarcivescovocostantinopolizzato e felice (questo pezzo è stato scritto senza copia-incolla). 

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L'anno che vissi due volte

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Si avvicina l'anno nuovo, il che non significa niente: è una scelta arbitraria che abbiamo fatto a un certo punto, di cominciare gli anni in gennaio. Ma nel conteggio che va per la maggiore in Occidente, il prossimo anno è il... 2025. Che per questo blog non è esattamente un anno qualsiasi, vero?

(Perché questo è un blog, ogni tanto va ricordato. Si tratta di un tipo di sito internet a carattere prevalentemente testuale che andava per la maggiore... vent'anni fa. Anzi ormai possiamo dire che ha smesso di andare per la maggiore proprio vent'anni fa).

Si tratta di un anniversario che non posso fingere di ignorare: ma nemmeno posso fingere che non mi causi un certo fastidio. Diciamo che il 2025, su questo blog, è stato già coperto. Vent'anni fa infatti successe questa cosa bizzarra: prima annunciai che non avrei scritto più "per un po'" – una bieca strategia per attirare l'interesse – salutando i lettori con un criptico "Ci si vede tra vent'anni": dopodiché cominciai a scrivere pezzi che erano ambientati vent'anni dopo, in un futuro che al tempo mi sembrava molto lontano. Andai avanti più o meno per tutto il 2005, producendo una specie di narrazione che non funzionava molto (l'aspetto più frustrante della cosa è che me ne rendevo conto mentre la scrivevo). Tuttora, quando mi ritrovo davanti a qualche vecchio pezzo, mi viene la tentazione di cancellare l'intera annata; come se poi fosse così tanto peggio dell'annata precedente, o della successiva... beh, sì. È abbastanza peggio. 

Siccome in quei dodici mesi il blog rimase ambientato in un futuro distopico, sarebbe interessante verificare la differenza tra questo futuro e la realtà. Il problema è che non ho proprio voglia di rileggermi, per cui vado a memoria: l'Italia non era più una penisola, bensì una specie di arcipelago, sorretto da un regime definito Teopop (erano sigle che andavano per la maggiore al tempo, c'erano i Neocon e i Teodem). A capo di questo regime c'era Berlusconi (non riuscivo evidentemente a immaginarlo defunto), un Berlusconi ringiovanito dai prodigi della chirurgia estetica, addirittura capellone, non più Presidente ma Pontefice Massimo (in un primo momento non avrebbe dovuto essere il papa, ma il vicario di un Wojtyla in sospensione criogenica, vittima di un perpetuo accanimento terapeutico; dopodiché in aprile morì anche lui). Il protagonista, cioè io con vent'anni in più, vivacchia di due o tre mestieri (proprio come facevo in quel periodo), tra cui la riscrittura del passato recente (cioè il 2005). Insomma ero una specie di Winston, che invece di tenere un diario continuava ad aggiornare il vecchio blog, cioè questo. L'idea non era così malvagia, ma serviva un'esecuzione più brillante, e soprattutto avrei dovuto sapere sin dall'inizio dove andavo a parare. Invece no, non lo sapevo: mi ero buttato. Già ai tempi mi struggevo di questa cosa, di non essere in grado di costruire un intreccio. È un deficit grave per una persona che vorrebbe scrivere. Se fossi un disegnatore, sarei quello che riesce a disegnare solo oggetti in primo piano ma è incapace di inserirli in un ambiente. È come se mi mancasse un'intera dimensione – se sapessi spiegarmi meglio, probabilmente non soffrirei di questo problema. Ambientare il blog nel futuro, costringermi a diventare un personaggio di una storia, era un modo per forzarmi la mano: avevo un anno a disposizione per scrivere una storia. Tutto il tempo che negli anni passati avevo dedicato al blog, ora ero costretto a dedicarli a una storia. Se non ci fossi riuscito, avrei distrutto il blog, che in quel momento era una delle cose a cui tenevo di più.

Faccio un ulteriore passo indietro. I blog, nei primi anni '00, erano una cosa interessante, quasi alla moda, persino giovane. Io tanto giovane non ero neppure allora, ma quasi per caso ero stato uno dei primi ad aprirne uno in lingua italiana, in un 2001 in cui successero diverse cose interessanti, che ci fecero davvero immaginare di trovarci a una svolta secolare: Berlusconi vinse le elezioni (non sorprendentemente) poi ci fu il vertice G8 a Genova e mi capitò di aggiornare questa paginetta nella sala stampa del Forum Sociale, pochi istanti prima che i poliziotti venissero a sgomberare tutto e a massacrare gente che già si era messa in sacco a pelo. Sembrava già abbastanza, dopodiché in settembre ci fu un attentato che reimpostò completamente la nostra visione del mondo. Io nel frattempo scrivevo le mie cose più o meno come faccio adesso, salvo che al tempo ero persino meno bravo di adesso e soprattutto eravamo molto pochi a farlo in pubblico. Quando un anno dopo il fenomeno prese piede, io mi ritrovai inserito in tante liste di blog importanti, il che mi consentì di accedere al famoso quarto d'ora di celebrità: i giornalisti mi intervistavano, gli studenti volevano scrivere le tesi (giuro), la gente mi invitava alle feste e alle feste le ragazze volevano conoscermi. Nel frattempo Google continuava a rivedere verso l'alto il mio ranking, per cui verso il 2003 un mio pezzo qualsiasi rischiava di girare sull'internet molto più degli articoli di diversi quotidiani italiani. Fu un periodo abbastanza stimolante, ma era chiaro da subito che non sarebbe durato. In effetti i più furbi si stavano semplicemente creando una reputazione che poi avrebbero investito in una carriera più remunerativa. Io già allora non ero tanto furbo: in particolare non riuscivo, e tuttora non riesco, ad astrarmi dalla quotidianità e pensare a un progetto a medio-termine. Il blog per me non era un mezzo, ma un destino: avrei passato la vita a commentare il fatto del giorno. La cosa mi impensieriva già allora. Soprattutto nell'autunno del 2004, quando i contatori smisero di salire: l'internet italiana era completamente saturata, chiunque volesse leggere un blog lo stava già leggendo, non c'era più in giro nessuno spazio nuovo da coprire. Bisognava decidere cosa fare da grande, e io non lo sapevo. Alla fine gli sbocchi per chi scriveva come me erano due: giornalismo o narrativa. Per il giornalismo mi sentivo troppo schierato: quanto alla narrativa, sapevo di avere dei limiti ma pensavo che in un qualche modo li avrei superati. Non avevo forse tenuto conto del fatto che oltre a internet avevo anche una vita fisica, in quel periodo più complicata che in seguito: un dottorato all'università, supplenze alle scuole medie, una specie di famiglia da costruire. 

Così insomma mi buttai. E dopo un paio di mesi mi sembrava di non avere più fiato. In estate presi una pausa, cercai di vedere le cose da un'angolazione diversa, per cui la seconda parte della storia è ambientata in una specie di inferno a pedali in cui una voce narrante mi dispensa il classico "spiegone": il 2025 non esiste, è una simulazione (anzi una simulazione di una simulazione di una simulazione). In questa fase viene anche pubblicata l'unica previsione che si è avverata, ovvero che quando i cinesi fossero passati massicciamente alle fonti rinnovabili (pensavo all'idrogeno), gli occidentali avrebbero trasformato il consumo di idrocarburi in una vera e propria religione. Ci abbiamo messo più di vent'anni ma tutto sommato sta succedendo. Alla fine il mio esperimento si concluse con cinque o sei finali diversi (ogni lettore poteva scegliere il proprio), compreso uno che consisteva in un centinaio di ctrl+z: uno per ogni post scritto nel 2025, ovvero nel 2005. Ero riuscito a scrivere una storia completa? Non mi sembrava. In compenso avevo distrutto il blog, o almeno la sua reputazione e il suo bacino di lettori. Non fu questa tragedia, nei mesi successivi ne recuperai gran parte. E in ogni caso la stagione eroica dei blog era finita: proprio nel 2005 Youtube rivoluzionò internet trasformandolo in un network di immagini, e non più di testi. Gli studenti cominciarono a scrivere tesi sugli youtuber e i blogger divennero nel giro di pochi mesi una minoranza protetta, simpatica ma in via d'estinzione. 

Tra loro c'ero io: oltre a non avere più molto futuro come blogger, sapevo di non essere capace come narratore. Di solito i fallimenti narrativi restano nei cassetti; ma il mio era avvenuto in pubblico, era il rischio che avevo deciso di correre. Vorrei poter dire che ho imparato qualcosa, ma credo di avere imparato tutt'al più di essere scarso. Chi frequenta questa pagina da più tempo sa che l'inattitudine al romanzo è la più grande frustrazione. Ci provo da sempre e non ci sono riuscito mai: nessun trucco fin qui ha funzionato. 

Per cui insomma andò così: se vi imbattete in qualche pezzo mio targato "–2025", non scambiatelo con quelli del 2025 vero. E non siate troppo cattivi: avevo vent'anni di meno, cosa potevo saperne. Un giorno o l'altro davvero cancello tutto. Oppure vado avanti come ho sempre fatto, seppellendo il passato imbarazzante sotto tonnellate di altri scritti che tra vent'anni m'imbarazzeranno, ma a quel punto sarà troppo tardi in ogni caso.
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I giornalisti devono essere liberi (e vivi)

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Ifj.org

– Vorrei Cecilia Sala libera immediatamente. Vorrei tutti i giornalisti liberi di fare il loro mestiere.

– In questo specifico caso, la situazione è complicata dal fatto che gli iraniani più che ai soldi danno la sensazione di volere uno scambio con il presunto agente che gli avremmo appena arrestato: ma il fatto è che l'abbiamo arrestato su ordine degli americani, in base ad accuse avanzate dagli americani, insomma lo hanno preso loro.

– Se si trattasse di soldi una soluzione la troveremmo, l'abbiamo quasi sempre trovata; ma se si tratta di disobbedire agli americani ci vorrebbe un governo in grado di assumere una posizione non prona nei confronti di Washington, il che esclude il Signor Presidente Meloni: lui la voce grossa la può giusto fare alla recita di fine anno davanti al suo raduno di cosplayer.

– Tra qualche mese sarà il ventennale di quella volta che abbiamo cercato di liberare la giornalista Giuliana Sgrena (pagando un riscatto) e agli americani forse la cosa non andava a genio, o perlomeno accadde che un soldato americano a un posto di blocco accolse la giornalista Giuliana Sgrena e l'agente Calipari con una sventagliata di mitra che uccise quest'ultimo.

– Come sempre spero di sbagliarmi, anzi di più: ma il fatto che gli organi di stampa più vicini al governo abbiano iniziato a gettare fango su di lei, senza trovare niente di meglio che un tweet di nove anni fa, suona come l'ammissione che no, non sarà facile liberare Cecilia Sala.  

– Sul Foglio (un giornale che non compra nessuno e che continua a pubblicare propaganda antistatalista a spese del contribuente) vedo che c'è un commosso editoriale in suo onore di Giuliano Ferrara: lo stesso buffo personaggetto che chiese a Un Ponte Per... di fare una colletta per restituire i soldi del riscatto di Simona Pari e Simona Torretta. A lui nessuno chiederà di fare una colletta simile, non solo perché nessuno scenderebbe al suo livello, ma perché davvero, chi gli darebbe un soldo?

– Come scritto più sopra, io vorrei che non solo Cecilia Sala, ma tutti i suoi colleghi fossero liberi di lavorare. In Israele quest'anno ne sono morti ammazzati circa un centinaio, senza che il Foglio Fondato da Giuliano Ferrara ci trovasse nulla di sbagliato. Auspico che la Sala sia libera al più presto, e che trovi finalmente lo spazio che merita senza più avere nulla a spartire con personaggetti del genere. 

– La mia opinione sul lavoro di Cecilia Sala è poco interessante, probabilmente dovrei tenerlo per me: semplicemente non la conosco abbastanza. Sono sicuro che abbia un senso documentare la condizione delle donne in Iran, e la repressione della femminilità che viene praticata dal regime; e allo stesso tempo ho la sensazione che si tratti spesso di un argomento isolato ad arte (non vengono represse soltanto le donne, e non sono solo le donne a protestare) per ragioni di proiezione e propaganda, da gente che per liberare le donne iraniane non esiterà un domani a bombardarle. La stessa Sala ha avuto modo di sperimentare, negli scorsi mesi, la reazione stizzita di tanti propagandisti nel momento in cui lei chiedeva appena un po' di spazio per verificare e approfondire una notizia. Alcuni di questi agitatori stanno già scrivendo che ben le sta, che non doveva fidarsi degli iraniani. Anche per loro nessuno proporrebbe mai una colletta: che forse è il motivo per cui non si fidano di nessuno e se ne restano comodi a casa, a far la morale agli altri.

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Erode 2024

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28 dicembre: Santi martiri innocenti

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Oggi il calendario cattolico ricorda i martiri innocenti, ovvero i bambini che Erode il Grande avrebbe fatto uccidere perché tra loro, non si sa mai, avrebbe potuto esservi il Messia. Ovvero? Per quanto poteva saperne Erode, doveva trattarsi di un grande leader che avrebbe liberato gli ebrei dai loro oppressori, il che significa perlomeno che Erode si considerava tale: un oppressore degli ebrei. 
Ma non era ebreo anche lui? 

È un discorso complesso. Basti vedere come tratta la questione la pagina italiana di Wikipedia (che a quanto pare è diventata ufficialmente la trincea dell'Internet libera). Prima nega del tutto la nozione: "Erode il Grande non era di sangue reale né tantomeno di origine ebraica". Poi ammette che era stato "educato in quanto tale": quindi ebreo per educazione... ma si può essere ebrei per educazione? Non lo dovrebbe essere per nascita perché "suo padre, Erode Antipatro, era un edomita, mentre sua madre, Cipro, una nabatea". Questione chiusa? Ma subito dopo aggiunge che "Gli edomiti o idumei, biblici discendenti di Esaù (fratello di Giacobbe), erano stati in continuo e aspro scontro con gli israeliti, finché Giovanni Ircano I, nel 110 a.C., non li convertì con la forza alla religione ebraica". Va bene, insomma, un suo antenato era stato convertito a forza, ma a questo punto era ebreo... "Benché incorporati ufficialmente nella nazione giudaica, gli edomiti erano considerati comunque inferiori agli israeliti, ed erano pertanto disprezzati e descritti come "razza turbolenta e disordinata, sempre proclive a sommosse e lieta di sconvolgimenti" [citazione da Flavio Giuseppe]. Il suo stesso nome, "Erode", non è di origine ebraica, bensì greca, e significa "discendente da eroi", e questo dimostra quanto fosse scarso lo spirito del giudaismo in suo padre, che mise un nome attinente alla religione ellenica a suo figlio circonciso". Quindi circonciso, re della Giudea (col benestare dei Romani), e quindi dei Giudei: che è il motivo per cui la possibilità che nascesse tra loro un Messia poteva destabilizzarlo. Ma ebreo no, non proprio, forse per sbaglio, anche perché portava un nome greco (come diversi apostoli, che erano sicuramente ebrei). 

Se la cosa non vi sembra chiara, ho una brutta sorpresa: l'identità ebraica non è mai chiara. È sempre un terreno di scontri tra fazioni che spesso preferiscono non definire troppo il loro concetto di ebraicità; in effetti se si trattasse di un'etnia, potrebbero essere accusati di razzismo; se invece si trattasse di una religione che si può liberamente scegliere, dovrebbero ammettere che il loro rapporto con la terra "dal fiume al mare" da un punto di vista storico è un po' più labile di quel che vorrebbero. Questa ambiguità del resto si estende spesso ai loro detrattori, che accusano i sionisti di voler costituire uno Stato etnico, ma poi spesso sembrano riferirsi al palestinesi come ai legittimi proprietari della Palestina... per lo stesso motivo: lo proverebbero infatti le indagini sul DNA. Io credo che il DNA andrebbe tenuto il più possibile lontano dalla contesa; è pacifico che la maggior parte dei palestinesi sono autoctoni, ma se fossero anche arrivati qualche anno fa avrebbero comunque il diritto di vivere una vita come ce l'ho io; se invece fossero i discendenti di un'invasione araba, parliamo comunque di una cosa avvenuta più di mille anni fa (ma è più probabile che si siano soltanto convertiti alla religione che gli arabi esportavano con le loro invasioni). Anche gli ebrei ovviamente provengono dallo stesso posto; eventuali "colli di bottiglia" nel DNA askenazi dimostrerebbero semplicemente quanto gli askenazi, nell'Europa medievale, se la siano vista male e siano sopravvissuti in comunità più chiuse che altrove: qualcosa che gli storici ci stavano già raccontando. Tutto questo ha un valore molto relativo per me, perché alla fine tutti veniamo da ovunque, la mia Patria è il mondo intero e gli Stati nazionali hanno senso soltanto finché sanno garantire pace e benessere ai propri abitanti. Da questo punto di vista – solo da questo punto di vista – mi pare che Israele abbia fallito; come avamposto coloniale invece non c'è dubbio che stia vivendo uno dei suoi più grandi successi.

Questo successo implica che Israele debba terminare l'opera cominciata nel 1948, eliminando le sacche in cui i palestinesi si ostinavano a vivere e moltiplicarsi con un fattore di crescita superiore a quello degli israeliani di origine ebraica. L'ideale probabilmente sarebbe stata un'espulsione di massa – un concetto che è fin troppo familiare alla cultura ebraica, da Babilonia in poi – ma siccome i Paesi arabi confinanti non collaborano, o chiedono troppo (perché in effetti l'espulsione di milioni di persone avrebbe costi enormi) – non resta che eliminarli un po' alla volta. Compresi i bambini? 



È una domanda che molti addetti ai genocidi a un certo punto si fanno, e storicamente la risposta è sempre sofferta, ma è sempre sì: anche i bambini. Lasciarli vivi, significherebbe far sopravvivere il ricordo di uno sterminio. Chi accetta nel suo cuore la vendetta, chi ne fa uno dei principi della propria esistenza e del proprio progetto politico, prima o poi deve accettare come corollario questa cosa che i bambini si uccidono. L'alternativa sarebbe lasciare in vita persone autorizzate a vendicarsi su di noi, e sui nostri figli, il che non possiamo assolutamente consentirlo: o noi o loro, ma non è neanche una scelta, la scelta l'hanno fatta i nostri antenati che probabilmente hanno ucciso altri bambini affinché un giorno potessimo vivere noi. Sono circostanze che preferiremmo non tramandare, ma non possiamo tradire. Davvero una bambina deve essere lasciata morire di ipotermia perché abbiamo bombardato tutti gli ospedali e spariamo sulle ambulanze? Sì, anche quella bambina un giorno potrebbe diventare il leader di una rivolta contro di noi, insomma il Messia. Erode probabilmente non ha mai davvero incontrato i Magi, non ha mai saputo la storia della stella, non ha mai ordinato di uccidere tutti i figli nati in quell'anno; non importa; Erode è una leggenda, un giorno lo saremo anche noi. 
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Ad Bethlehem

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Ci avete fatto caso anche voi? Da quando al governo è tornata la Destra, e che Destra, la guerra al Natale sembra essersi bruscamente interrotta. Forse da qualche parte effettivamente una scuola non ha fatto il presepe, o il coro non ha cantato una canzone necessariamente cristiana; forse qualcuno da qualche parte ha risposto "Buone Feste" e non "Buon Natale" a chi gli faceva gli auguri; ma tutto ciò improvvisamente non fa più notizia; e del resto era strano che facesse notizia prima. Magari mi sbaglio, magari non sfoglio con la dovuta attenzione i giornali peggiori; ma davvero sembra che il Natale scivoli molto più liscio da due anni in qua. Magari perché aa Meloni veglia, affinché i suoi sudditi cristiani non siano defraudati di addobbi e regali.

Oppure perché questa cosa di festeggiare un bambino, che di tutti i posti del mondo è nato proprio a Betlemme, ci dà sempre più fastidio. Passiamo così tanti giorni all'anno, così tante ore al giorno, a fingere che tutto vada bene; che non stiamo collaborando a un massacro proprio là – e lui proprio là deve nascere; sembra quasi che lo faccia apposta.

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Il santo sotto il portico

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23 dicembre: San Servolo, paralitico e mendicante (VI secolo)

La basilica di San Clemente a Roma

Con l'approssimarsi del Natale, i santi importanti sembrano volersi ritirare dal calendario. Come se tutti fossero impegnati a cercare i regali, montare gli addobbi, l'albero, il presepe. C'è una spiegazione più plausibile: la Chiesa cattolica non consente celebrazioni solenni di santi nella novena di Natale (dal 16 al 24 dicembre). Perciò ai pezzi grossi conviene morire in altri periodi. Se proprio non ci riescono (come Torlaco patrono d'Islanda, appunto defunto il 23/12/1193), molto spesso le loro celebrazioni vengono spostate in altri mesi. Così sotto Natale chi rimane? Santi appena arrivati, perché dall'Ottocento in poi le date sono diventate cose serie ed è diventato più difficile modificarle; patriarchi e profeti dell'Antico Testamento; e poi figure di secondo piano, personaggi molto umili persino tra i santi, come questo Servolo o Servulo, che portava già il nome più modesto possibile ("piccolo schiavo"). Essendo nato paralitico, o essendolo diventato molto presto, nella società romana del tardo VI secolo si trovò una sua nicchia disagevole ma non priva di un certa dignità sociale: quella del mendicante. 

Il suo posto fisso era nel portico che conduceva alla basilica di San Clemente: chi doveva entrarci passava da lì e poteva ricevere i saluti, i ringraziamenti e i saggi consigli di Servolo. Se si trattava di un sacerdote, Servolo poteva domandargli di leggere qualche passo di un volume delle Scritture che era riuscito a procurarsi. La figura del mendicante annidato sotto un portico, che nasconde sotto il mantello un testo sacro, potrebbe avere ispirato a qualche agiografo la leggenda di San Giovanni Calibita, anche lui mendicante, ma di buona famiglia, che custodiva sotto i suoi panni lerci un Vangelo d'oro. I romani  hanno sempre avuto un debole per i santi mendicanti. Ma Servolo non è un personaggio leggendario. Le poche cose che sappiamo di lui ce le ha tramandate Gregorio Magno, in un'omelia e in un passo dei suoi Dialoghi, senza nessuna concessione al sensazionale o al miracolistico. Gregorio lo definisce "povero di mezzi, ricco di meriti, disfatto da una lunga malattia", e mostra di stimarlo come mendicante professionista, che con l'aiuto della madre e del fratello distribuiva i proventi della sua attività ai poveri. La Sacra Scrittura non gli era capitata tra le mani per miracolo; se l'era comprata, e doveva essersi trattato di un sacrificio economico notevole, con quel che costava un codice scritto a mano. Servolo è insomma un personaggio fortemente innovativo, che dimostra la determinazione con cui la Chiesa già nel VI secolo si dedicava a valorizzare esistenze irregolari che nel mondo pagano erano considerate irrimediabilmente inferiori: non soltanto gli schiavi, ma anche gli schiavi paralitici potevano contribuire attivamente alla missione assistenziale della comunità, diventando esempi di successo.    

Gregorio ci racconta che quando Servolo capì che era l'ora di andare, chiese ai pellegrini che sostavano nel portico di alzarsi e cantare qualche salmo. Anche lui si mise a cantare, e poi improvvisamente ammutolì. "Tacete", disse: "non udite le lodi che cantano in cielo"? Secondo un agiografo più tardo, alla sua morte Servolo sarebbe finalmente riuscito a entrare nella basilica di San Clemente per trovarvi sepoltura, in una cappella dove sarebbero state dipinte scene della sua vita; ma non ci è rimasto niente. Servolo dovette godere di una certa popolarità, prima di essere soppiantato nella devozione dei romani da mendicanti leggendari dalla vita più romanzesca, come Sant'Alessio, e più tardi ancora da Benoit-Joseph Labre. Siete naturalmente liberi di trovare questa passione dei cattolici per i mendicanti un po' pelosa: come se le elemosine davvero avessero il potere di salvare il mondo, o di alleviare qualcosa che non sia il nostro senso di colpa, mentre le concediamo. Nel frattempo anche stavolta è l'antivigilia di Natale, i Santi importanti sono tutti al calduccio nelle loro comode nicchie, e in piazza c'è un Servolo a ogni angolo. Buone feste anche a voi. 

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Una cattolica in America

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Lei è Cristiana Dell'Anna. 
22 dicembre: Santa Francesca "Saverio" Cabrini (1850-1917), missionaria italoamericana

Frequento una scuola cattolica, e per qualche motivo l'Arcidiocesi di cui facciamo parte ha deciso che era assolutamente necessario che noi vedessimo questo film, per cui ha prenotato un casino ("a shit ton") di cinema per più scolaresche. A quanto pare, tutto questo è stato pagato da una ricca famiglia cattolica che voleva davvero che andassimo a vedere il film, e in più sembra che dietro a tutto questo ci sia anche Angel Studios, la compagnia che lo ha prodotto. Penso che abbia a che fare con il fatto che vogliono che i loro investitori credano che questo tipo di film abbia successo, quindi immagino che forzare un sacco di scuole cattoliche a portare i loro studenti al cinema aiuti in questo senso. Onestamente, non sono sicuro di come funzioni tutto ciò, è solo quello che ho sentito da varie fonti. (La seconda "più popolare" recensione di Cabrini su Letterboxd). 

Malgrado questo e altri sforzi distributivi, Cabrini è stato un fiasco al botteghino. Un po' mi dispiace, anche se trovavo inquietante l'idea che il regista del film più cospirazionista degli ultimi anni avesse deciso di dedicare un biopic alla patrona degli emigranti italiani (e dei migranti in generale). Diciamo che se avesse avuto un successo paragonabile a quello di A Sound of Freedom, avrebbe fatto notizia anche in Italia, dove Santa Francesca Cabrini è tuttora un'illustre semisconosciuta. A quel punto magari il film sarebbe stato distribuito seriamente anche da noi, e non soltanto qua e là per tre miseri giorni d'ottobre. E forse sarei riuscito a vederlo, ehm, legalmente, scoprendo se si tratta di un buon film o di una puttanata intercontinentale; perché se le recensioni americane sono migliori di quanto ci si aspetterebbe, bisogna sempre ricordare che per loro un film agiografico è una novità, probabilmente non conoscono Luigi Magni e potrebbero essersi anche dimenticati di Zeffirelli o Liliana Cavani. Ma soprattutto non si sono fatti gli ossi con le fiction di Lux Vide. Così magari approfittando del film avrei finalmente trovato l'ispirazione per il pezzo su Santa Francesca Saverio che ogni tanto qualcuno mi chiede di scrivere (una frase, mi rendo conto, molto blog-anni-zero: però davvero, in tanti anni, due o tre persone me l'hanno chiesto. Un numero infinitamente superiore a quelli che mi hanno preteso un pezzo su San Michea). 

E invece no. La santa dei migranti (che è anche la prima santa statunitense) ha dimostrato nell'occasione di non avere lo stesso appeal della cospirazione pedofila di Sound of Freedom, della mitomania del veterano di American Sniper, o del Gesù splatter di Passion of the Christ. Evoco questi tre titoli perché erano probabilmente i tre argomenti che rendevano plausibile la sfida produttiva di Cabrini; film che hanno avuto uno spaventoso successo ai botteghini proprio perché pensati per un pubblico diverso, al di fuori dei circuiti abituali della distribuzione; gente che al cinema non ci va mai, al punto che in certi casi la distribuzione deve affittare le corriere, come se si trattasse di un pellegrinaggio – ecco, questi film sono paragonabili a pellegrinaggi postmoderni, e se i primi tre erano rivolti soprattutto a un pubblico bianco e protestante, Cabrini guardava appunto al bacino inesplorato delle comunità cattoliche. Alcune scuole, come si legge sopra, devono aver risposto all'appello: ma non è stato sufficiente 

Per quanto riguarda le mie impressioni su questo film, era tutto sommato accettabile. Hanno stipato tutta la mia classe in una sala, quindi mi aspettavo fosse un caos, ma a parte un ragazzo che ha portato un altoparlante e ha suonato dei suoni divertenti di tanto in tanto, non è andata male. Non penso che Cabrini fosse brutto, ma non mi ha colpito particolarmente. Ha chiaramente un messaggio importante da trasmettere, ma nella pratica non risulta così. Inoltre, qualsiasi film che devo vedere per scuola automaticamente mi rende meno interessato, purtroppo.

Francesca Saverio è un personaggio enorme. Ancora prima di sbarcare in America, e non aveva quarant'anni, aveva già combinato abbastanza per passare alla Storia, almeno come fondatrice del primo ordine femminile missionario. L'idea fissa intorno a cui girava sin da bambina era la conquista cristiana della Cina, proprio come l'inquieto gesuita da cui aveva preso il nome. Il vescovo di Piacenza la dirotta verso New York, dove sbarca la prima volta nel 1889, in un momento in cui le prime ondate di immigrati dall'Italia sono confinate al livello più infimo della catena alimentare, guardati con diffidenza anche dalla diocesi cattolica, saldamente in mano alla comunità irlandese. Nel giro di pochi anni Francesca riesce ad accreditarsi come il volto umano della comunità. Dietro all'apparenza ascetica conferitale dalla tubercolosi c'è una grande lavoratrice e organizzatrice. Se gli italiani vedono in lei un'emissaria della carità, gli anglosassoni ne ammirano le capacità imprenditoriali: credo sia l'unica santa di cui si racconta che sia morta alla scrivania, come un vero businessman (eppure morì di malaria, una malattia così italiana ai tempi). Il film in effetti è stato finanziato, tra l'altro, da un milionario della Pennsylvania, J. Eustace Wolfington, che considera la Cabrini la sua grande ispiratrice: non certo in quanto suora, ma in quanto imprenditrice. "Volevano farne una favola, ma io dovevo realizzare un film migliore. Dovevo catturare chi era lei davvero, una donna che non accettava un 'no' come risposta, neanche dal papa, né dall'arcivescovo, né dal sindaco di New York o dal presidente del senato in Italia. Non c'era bisogno di mostrarla mentre predicava e pregava, perché la sua vita è il vero sermone". Ecco, questo mi interessava del film: capire se l'ideologia degli investitori protestanti era riuscita a snaturare la vita di una missionaria cattolica con una spiccata vocazione assistenziale. 

Se ogni santo somiglia a un precedente e a un successivo, Francesca Cabrini ha tutte le carte per essere considerata il precedente ottocentesco di Teresa di Calcutta: una piccola donna di fragile salute, che davanti a un continente intero di sofferenza non si perde d'animo e comincia a colonizzarlo fondando conventi su conventi, diventando un personaggio mitico e santificato già in vita. 

Si tratta di un precedente molto più epico e avventuroso perché alla fine per Teresa i poveri della terra erano a portata di aeroplano, mentre la Cabrini per raggiungerli in America dovette attraversare l'oceano in transatlantico una ventina di volte, attraversare le Ande a dorso di mulo, ecc. E se il culto di Teresa si è sviluppato in un secolo scettico, davanti a osservatori disposti a mettere in discussione le sue imprese, nel caso di Francesca Cabrini, e in generale di tutti i santi/benefattori ottocenteschi, è veramente difficile riuscire a filtrare qualcosa di oggettivo da tutti i resoconti biografici che per partito preso non potevano parlarne che bene. Quel che sembra di capire è che con la Cabrini la Chiesa cattolica accetta finalmente che le donne possono fare le missionarie, muoversi in un mondo da evangelizzare senza perdere la rispettabilità; magari un po' tardi rispetto a una società in evoluzione, ma giusto in tempo per assumere un ruolo fondamentale nella società delle nuove metropoli americane, dove il Welfare State è perlopiù demandato alla beneficenza dei ricchi, al buon cuore dei pochi che ce l'hanno fatta e non si dimenticano della miseria su cui poggiano le proprie radici. Servono intermediari affidabili tra milionari e poveracci, gente al di sopra di ogni sospetto in grado di percepire donazioni e lasciti e ridistribuirli in modo efficace: le suore missionarie del Sacro Cuore svolgono questa funzione necessaria e diventano un punto di riferimento di tutte le comunità italoamericane. Ai poveri parlano in italiano, ma sono disponibili a insegnare ai loro figli l'inglese. Morta nel 1917, viene beatificata quasi subito ed entra nel calendario già nel 1946: e siccome nel 1909 aveva ottenuto la cittadinanza USA, è anche la prima santa statunitense.

Non è difficile capire perché una santa italiana così importante in America non abbia mai 'forato' qui in patria; la sua leggenda dal 1889 in poi attraversa una delle pagine più imbarazzanti della nostra Storia: quella in cui i migranti eravamo noi, brutti, sporchi e criminali. Oggi la Cabrini viaggerebbe sulle navi che Salvini ordinava di speronare. Ma perché uso il condizionale. Oggi la Cabrini viaggia sulle navi che Salvini ordina di non soccorrere. 

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Michea il provinciale

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21 dicembre: San Michea, profeta di provincia (VIII sec. aC)

Basilica della Natività, Betlemme, Palestina. 

Ma insomma Gesù veniva da Nazareth o da Betlemme? Perché sono a più di 100 km di differenza. Non solo, ma anche a quei tempi sorgevano in due Stati diversi, benché controllati dallo stesso impero, in questo caso il romano. Nazareth è in Galilea, un territorio che grosso modo coincide con l'attuale distretto settentrionale di Israele. Dai vangeli risulta chiaro che il Gesù predicatore provenisse da lì; più volte viene chiamato "Gesù di Nazareth" e "nazareno". Ora, può anche darsi che in un primissimo momento – un momento in cui i vangeli non erano ancora stati scritti, e si tramandavano oralmente – la parola greca "nazoràios" associata a Gesù non indicasse una provenienza geografica. "Nazoràios" potrebbe derivare da "nazarà", una parola aramaica (Gesù e i suoi primi seguaci parlavano aramaico). Quest'ultimo termine potrebbe sì, alludere a una cittadina della Galilea che a quel tempo sarebbe stato poco più di un villaggio: ma potrebbe anche essere il contrario, che il villaggio abbia preso il nome dall'epiteto di Gesù, visto che in precedenza né nella Bibbia né in altri documenti era mai stato nominato. 

"Nazarà" potrebbe derivare dall'ebraico nazir, "separato", e alludere al carattere scismatico del movimento fondato da Gesù, che si era separato dall'ebraismo tradizionale. Oppure dall'ebraico netzer, germoglio, che in Isaia 11,1 allude proprio alla nascita del Messia ("Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse"). Non si può nemmeno escludere che Gesù non fosse "nazareno", ma "nazireo", ovvero consacrato per la vita al Signore secondo un rituale descritto dalla Torah: il nazireo più famoso è l'eroe Sansone, e come Sansone anche Gesù è spesso raffigurato coi capelli lunghi. Ai nazirei non era consentito partecipare ai funerali, il che potrebbe spiegare come mai Gesù non si presenti a quelli dell'amico Lazzaro. Più difficile immaginare un Gesù totalmente astemio, visto che i nazirei non potevano consumare prodotti della vigna; ma in effetti se Gesù più volte fa bere gli altri, non è mai descritto nell'atto di bere; e sulla croce rifiuta persino una spugna intrisa d'aceto. 

Per quanto insomma non si possa escludere che sia stato Gesù "Nazoràios" a dare il nome al suo luogo d'origine, e non viceversa, nel momento in cui la sua vita viene messa per iscritto ormai l'idea è che "Nazoràios" alluda a un luogo in Galilea. Per questo motivo Ponzio Pilato, non sapendo bene come gestire il prigioniero, tenta di trasferire il caso a Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, che pur essendo il Tetrarca della Galilea (una sorta di viceré) preferiva risiedere a Gerusalemme. La Galilea era già al tempo una regione molto periferica. Gli abitanti erano più vicini ai porti del Libano che a Gerusalemme e dovevano scontare un forte pregiudizio da parte dei giudei gerosolimitani, di cui resistono tracce nel Vangelo di Giovanni; "da Nazareth non può venire niente di buono", dice Natanaele all'apostolo Filippo; "dalla Galilea non sorgono profeti", spiegano i farisei a Nicodemo. E i due Vangeli che raccontano dell'infanzia di Gesù (Matteo e Luca), pur accettando l'idea che provenisse dalla Galilea, lo danno per nato a Betlemme, in Giudea, a poche miglia da Gerusalemme.

Entrambi gli evangelisti si preoccupano di risolvere questa contraddizione, offrendo però soluzioni diverse: secondo Matteo fu Giuseppe a decidere di trasferirsi con la famiglia dopo il soggiorno egiziano, su ispirazione di un sogno; secondo Luca invece i genitori di Gesù risiedevano entrambi a Nazareth, e a Betlemme ci erano capitati per caso mentre andavano a compilare il censimento a Gerusalemme. Il che fa un poco a pugni con la geografia: rispetto alla capitale, Nazareth è a nord, Betlemme a sud. Ma potrebbero davvero esserci arrivati in giornata mentre cercavano un alloggio per la notte. 

Il perché sia così importante ambientare il Natale a Betlemme lo mette per iscritto Matteo: dipende tutto da un versetto del profeta Michea risalente a sette o otto secoli prima (5,1), una delle profezie più impegnative dell'Antico Testamento perché mentre di solito i profeti si mantenevano nel vago, Michea non ci era riuscito e aveva messo nero su bianco che il futuro dominatore di Israele sarebbe nato a Betlemme. Matteo è l'evangelista più legato alla tradizione ebraica: per lui è fondamentale che la profezia si avveri. Luca a questa storia del dominatore di Israele non sembra crederci molto, ma la sua sensibilità sociale potrebbe essere rimasta colpita dal fatto che secondo Michea Betlemme era "il più piccolo dei capoluoghi di Giuda": l'idea già fiabesca per cui il Re dei re sarebbe apparso in una piccola città, tra pastori e carpentieri.

In effetti se di ogni profeta è lecito isolare un tratto distintivo, per cui Isaia è il poeta, Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, Osea il cornuto... Michea, nato anche lui in un villaggio ai confini con la Filistea, è decisamente il provinciale. A tutti i profeti capita di prevedere la disgrazia di una città, ma Michea sembra provarci gusto a decretare la rovina di Samaria (capitale del regno di Israele), la disgrazia di Gerusalemme (capitale del regno di Giuda), insomma di tutti i centri abitati cinti da mura e che non si riducano a un crocicchio di sentieri. Il fatto che tutto sommato ci abbia preso (Samaria fu distrutta dagli Assiri, Gerusalemme dai Neobabilonesi) non scaccia il sospetto che Michea parli a nome di tutti gli abitanti dei contadi, e dia una forma scritta alla loro profonda diffidenza per queste assurde sfide alla natura che sono le grandi città.

I ricchi della città sono pieni di violenza,

i suoi abitanti affermano il falso

e la loro lingua non è che inganno nella loro bocca.

Perciò anch'io ti colpirò, ti produrrò gravi ferite

e ti devasterò a causa dei tuoi peccati.

Tu mangerai, ma senza saziarti

e la fame ti rimarrà dentro;

porterai via, ma non salverai

e ciò che avrai salvato lo darò in balìa della spada.

(Michea 6,12-14)

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Zefirino e la Trinità

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20 dicembre: San Zeffirino o Zefirino, papa dal 198 al 217.


In alcuni periodi Zef(f)irino è stato considerato un martire: una festa di Zefirino "papa e martire" in agosto è resistita nel calendario romano fino alla revisione del 1969. Può darsi che una leggenda andata perduta lo considerasse vittima delle persecuzioni che ripresero verso la fine del regno dell'imperatore Settimio Severo. Ma siccome per tutte le altre fonti risulta spirato serenamente, al termine del pontificato più lungo del terzo secolo, e addirittura sepolto nel nuovo cimitero sulla via Appia che i cristiani avevano avuto il permesso di comprare, il termine "martire" doveva avere creato imbarazzo già a qualche cronista antico. 

Il titolo, dice la Wikipedia inglese, se lo sarebbe comunque meritato per gli sforzi e i dolori patiti nel condurre la Chiesa di Roma per quasi vent'anni: un lungo periodo in cui forse non vi furono persecuzioni (quella di Settimio Severo potrebbe veramente essere stata poco più che una crisi diplomatica, risolta con un compromesso e senza molte vittime) ma uno scontro estenuante tra correnti teologiche nel quale anche gli esperti faticano a raccapezzarsi: e tra questi esperti pare non vi fosse Zeffirino. Da millenni pesa su di lui l'epiteto affibbiatogli dall'autore di un Trattato contro tutte le eresie, che lo definisce senza mezzi termini "ignorante", "illetterato" e "inesperto dei provvedimenti ecclesiastici". Chi abbia scritto questo Trattato non lo sappiamo con certezza, ma per accusare di inesperienza il titolare di un pontificato ventennale bisogna veramente credersi chissà chi, così un po' tutti pensiamo che l'abbia scritto Sant'Ippolito – chi altri a Roma poteva avere una così alta concezione di sé stesso? Ippolito in effetti era un teologo raffinato che stava già partecipando alla disputa teologica del secolo: la questione trinitaria. Si trattava di una questione spinosissima – Dio è uno solo o sono tre? – che Ippolito era convinto di poter risolvere con la pura speculazione filosofica; dal suo studio dove immaginava di dialogare coi dottori della Chiesa, Ippolito doveva guardare con un certo disprezzo ai compromessi a cui scendevano gli uomini delle istituzioni come Zefirino e il suo braccio destro, l'usuraio bancarottiere Callisto. 

A sua discolpa, Zefirino doveva destreggiarsi in una situazione in cui veri e propri dogmi non c'erano, col rischio ricorrente di lasciarsi andare ad affermazioni che in seguito avrebbero potuto essere interpretate come eresie. Che Dio fosse uno e trino non era affatto chiaro, nel 200, e se dobbiamo essere onesti non lo è nemmeno adesso. Certo, leggendo le Scritture risulta abbastanza evidente che Gesù Cristo non sia il Dio dell'Antico Testamento; se quest'ultimo è il Creatore, Gesù più volte lo chiama "Padre" (anche sulla croce) e ribadisce di essere sceso sulla terra per una missione di riconciliazione. Non solo, ma lo stesso Gesù avvertiva che dopo la sua dipartita, il Padre avrebbe inviato agli apostoli uno "Spirito" che li avrebbe sorretti e ispirati. Dunque Dio è Padre, Figlio e Spirito; e allo stesso tempo è anche Uno Solo. L'ipotesi di tre Dei diversi, magari parenti, è da escludere nel modo più reciso; contrastava non solo con l'orgoglioso monoteismo dei cristiani di origine ebraica, ma anche col monismo propugnato dai filosofi neoplatonici che negli stessi anni stanno conquistando l'egemonia culturale nel mondo pagano. Dunque un solo Dio, diviso in tre... in tre cosa? manifestazioni? sostanze? persone? Se uno è Padre, significa che all'inizio c'era soltanto Lui, e poi ha creato gli altri due? Ma in tal caso non potrebbe essere veramente un Dio solo, ecc. La questione era abbastanza complessa e non sarebbe stata definita dogmaticamente che nel 325: nel frattempo chi aveva incarichi istituzionali, come Zefirino, navigava a vista cercando di non scontentare nessuno, né di sbilanciarsi con affermazioni troppo recise (un po' come quando chiedono alla Schlein del campo largo, a voi non viene la nausea?) 

Nel frattempo si sviluppavano diverse scuole di pensiero che i vincitori del dibattito avrebbero in seguito definito eresie: gli adozionisti monarchiani, ad esempio, erano così affezionati all'idea che Dio fosse Uno che credevano che Gesù fosse nato uomo e fosse stato "adottato" da Dio dopo il battesimo. All'estremità opposta, i modalisti/patripassiani consideravano Gesù soltanto un "modo" di essere di Dio Padre, che quindi aveva patito personalmente sulla croce. Può risultare difficile immaginare che i cristiani del II secolo litigassero intorno a definizioni così complesse. Non si può escludere a priori che il dibattito coinvolgesse anche il popolo minuto (come nota Gregorio di Nissa, un secolo più tardi, scrivendo dalla Cappadocia: vuoi sapere quanto costa una pagnotta, ti rispondono: “Il Padre è il maggiore, e il figlio gli è soggetto”). Ma dobbiamo ricordare che ogni dibattito è un iceberg. Immaginate di atterrare oggi sulla Terra, e di assistere senza preconcetti a un litigio tra un interista e uno juventino. Di calcio sapreste molto poco, ma dal fervore con cui i due argomentano, e dalla dovizia di episodi che citano, potreste dedurre di trovarvi davanti a due esperti, due studiosi che hanno dedicato anni di studio alla materia. Deducete quindi che si tratti in primo luogo di una disputa dottrinale sul giuoco, sulla sua filosofia e le sue regole, e in un certo senso è così: ma sotto c'è anche dell'altro; materiale meno astratto e quindi meno facile da immaginare per chi arriva da lontano. Ci sono storie complicate e intrecciate, la secolare rivalità tra due sensi di appartenenza, rancori mal sopiti, a volte persino coscienza di classe: di tutto questo stanno litigando, l'interista e lo juventino, e magari anche di beghe personali che col calcio non c'entrano niente. Così probabilmente i monarchisti e i modalisti rappresentavano milieu sociali e visioni del mondo che ormai non riusciamo più a definire; perché ai cronisti del tempo interessava più la dimensione dottrinale che la composizione sociale dei gruppi che lottavano per affermare la propria prominenza. Inoltre, non ci parlano quasi mai di soldi.

Ed è un vero peccato, perché di soldi ne giravano. Intellettuali come Ippolito potevano anche permettersi di non preoccuparsene, ma queste nuove religioni monoteiste stavano diventando un business interessante. Sin dall'inizio il cristianesimo aveva funzionato mediante le collette dei fedeli più abbienti, ai quali veniva già chiesto di meritarsi la Grazia con le opere di bene; nelle grandi città in cui si concentravano grandi masse di schiavi e semischiavi, la Chiesa aveva assunto rapidamente un ruolo assistenziale a cui nessun altra istituzione si sobbarcava. Dobbiamo ipotizzare che le comunità religiose avessero ormai cospicui patrimoni da gestire: questo spiega il successo di personaggi ambigui come Callisto, che da usuraio diventerà il successore di Zefirino, con grande scandalo di Ippolito; ma spiega anche il proliferare di confessioni religiose alternative, che col pretesto non riconoscersi in una determinata dottrina, consentivano ad altri personaggi di tagliare fette importanti da una torta sempre più grossa. In fondo bastava convincere i fedeli più facoltosi di essere i veri possessori della realtà rivelata; se ci pensate è un trucco che funziona da millenni. 

Il caso più eclatante in quegli anni era il Montanismo, una setta nata verso il 150 dalla predicazione del greco Montano e di altre due profetesse, che si ritenevano in comunicazione con lo Spirito Santo. Di Montano si dice che fosse molto ricco e che avesse conquistato così i suoi fedeli; ma potrebbe essere un caso di inversione causa/effetto, ovvero Montano avrebbe potuto diventare molto più ricco proprio grazie al seguito che aveva saputo conquistarsi. Con le sue rivelazioni choc sulla solita fine del mondo, il montanismo riuscì a irretire anche un vecchio baluardo dell'ortodossia come Tertulliano, e per molto tempo non fu considerato un'eresia: a Roma fu Zeffirino a condannarlo. Quanto agli adozionisti, il loro leader romano era un cambiavalute, Teodoto il Cuoiaio: sembra proprio che le organizzazioni religiose attirassero i faccendieri esperti in gestione della liquidità. A tal proposito Eusebio di Cesarea racconta del pentimento di un chierico, il confessore Natalio, che Teodoto aveva portato dalla sua parte offrendogli l'incarico di vescovo adozionista. Molto più del titolo, a convincere Natalio doveva essere stato lo stipendio mensile previsto da Teodoto: 150 denari d'argento, sei volte la paga di un legionario. Eppure non bastarono a sedare il senso di colpa di Natalio, che continuava a sognare Gesù che lo rimproverava, finché gli angeli non lo flagellarono per una notte intera, convincendolo ad andare a chiedere perdono a Zeffirino. 

Il quale Zeffirino, dovendosi barcamenare tra tante fazioni, non era così ansioso di districare il problema trinitario: messo alle strette, ammetteva di riconoscere un solo Dio, il "Signore Gesù Cristo". Ovviamente per i modalisti questa affermazione suonava come una pericolosa concessione ai monarchiani, e viceversa. Il dibattito sarebbe durato ben oltre la morte di Zeffirino, anzi fu proprio la successiva elezione di Callisto a causare il primo vero scisma perché Ippolito, indignato, decise di fondare una Chiesa tutta sua di cui si autonominò papa. A riportare l'unità tra i cristiani di Roma sarebbero state paradossalmente le persecuzioni degli anni Venti e Trenta, durante le quali Ippolito si ritrovò condannato alla stessa miniera del papa in carica, Ponziano: in quell'occasione i due si riconciliarono ufficialmente e chiesero ai rispettivi seguaci di fare altrettanto.
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Beato Guglielmo, ma povera mula

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19 dicembre: beato Guglielmo di Fenoglio (1059-1120)

Incaricato dal suo priore di raccogliere le offerte e portarle al monastero di Casotto, il giovane Guglielmo, monaco certosino, si lamenta che i boschi intorno Mondovì pullulino di briganti che già in precedenza lo avevano derubato. Il priore gli ordina di difendere le offerte in qualsiasi modo, "anche con la zampa della mula". Guglielmo è un converso, ovvero un confratello laico che non ha preso i voti sacerdotali, e come tale deve obbedire al superiore anche se l'ordine è assurdo; perciò, quando i briganti arrivano Guglielmo stacca miracolosamente la zampa alla mula e mulinandola in testa ai malintenzionati riesce a metterli in fuga. Dopodiché riattacca la zampa e riprende la via del monastero: e solo quando a Casotto il priore gli fa notare che la zampa zoppica, si accorge di averla attaccata a rovescio. Nessun problema: davanti agli occhi esterrefatti del superiore, Guglielmo stacca l'arto e lo riattacca correttamente, senza che la mula accenni a un lamento. Questo è senz'altro il più famoso dei "miracoli burleschi" attribuiti a Guglielmo, anzi fin qui è l'unico che sono riuscito a trovare, benché tante agiografie suggeriscano che ne abbia fatti tanti altri: e immaginate quanto sarei felice di riportarli, questi miracoli burleschi: ma non li ho ancora trovati. 

Purtroppo su Internet è successo qualcosa di paragonabile a quello che ha fatto la Legenda Aurea di Iacopo di Varazze con i testi medievali: i copisti hanno smesso di copiare quelli più antichi perché la Legenda era più comoda e sembrava un lavoro ordinato ed esauriente, e il risultato è che ci siamo persi parecchie leggende per strada. Molte probabilmente erano poco più che barzellette, come il miracolo della zampa della mula, che sembra alludere soprattutto al tema dell'obbedienza: un valore fondamentale della vocazione monastica, che Guglielmo doveva incarnare anche e soprattutto in quanto patrono dei conversi. Comunque, ovunque io cerchi notizie sui miracoli di Guglielmo, trovo sempre ripetuta la storia della mula (che almeno ha fornito ai pittori un espediente originale per renderlo riconoscibile: mettergli in mano una zampa di mula o, nel caso della certosa di Pavia, un intero cosciotto simile a un prosciutto gigante). A volte chi ha più spazio aggiunge anche, indovinate, che una volta Guglielmo strinse un patto con un diavolo per costruire un ponte in cambio dell'anima del primo peccatore che ci transitasse: ecco, quello del ponte del diavolo è proprio il classico miracolo che si inventa chi non sa quali altri raccontare – peraltro finisce sempre nello stesso modo, cioè con il santo che beffa il demonio facendo transitare sul ponte un animale, che in questo caso ovviamente è la povera mula. Mettetevi del resto nei panni di un agiografo tardomedievale che deve riempire una colonna sulle gesta di Guglielmo di Fenoglio, e non ne sapete niente tranne che girava per le Langhe con una mula... la prima cosa che vi verrebbe in mente, appunto, è farla transitare su un ponte del diavolo.

Con tutto questo non voglio negare che Guglielmo non sia stato un santo popolare, nei suoi primi secoli, per motivi che in parte ci sfuggono: in quanto patrono dei conversi certosini, era invocato e conosciuto in tutta Europa; ma nel suo territorio, più che per i "miracoli burleschi", è verosimile che i pellegrini fossero attratti dalla sua fama di guaritore. A un certo punto però deve essere sorto un problema, una complicazione, qualcosa che ha spinto i monaci della Certosa di Casotto a un gesto davvero insolito: ne hanno occultato il cadavere. Si può pensare che non apprezzassero più di tanto il viavai dei pellegrini, che pure portavano doni ed ex voto. Di solito la tomba di un santo è un motivo di vanto per una località, il che spinge più spesso i religiosi a trovarne i resti che a nasconderne. La leggenda però suggerisce che dopo tre secoli i certosini di Casotto avessero maturato una certa insofferenza per il culto del santo, dato che più volte avrebbero cercato di trasferirne la tomba: invano, perché le sue spoglie si rimaterializzavano sempre al loro posto, in ottimo stato di conservazione. (Può anche trattarsi di un altro espediente per rimarcare il patronato del Santo: il luogo dove le sue spoglie ostinatamente tornavano era la "casa bassa", la sede dei conversi). Dopodiché la situazione cambia e il corpo viene nascosto, ufficialmente per evitare le profanazioni in epoca napoleonica: è ancora da qualche parte entro i muri della certosa, ma nessuno sa dove.

Qualcosa di curioso è successo anche a livello di burocrazia vaticana: Guglielmo è un raro caso di Beato declassato. In effetti in una Bolla del 1568, papa Pio V lo aveva chiamato, senza mezzi termini, "santo", ratificando il termine che circolava già nelle agiografie medievali. Quando però nel 1860 Pio IX ne approva ufficialmente il culto (fissando la festa al 19 dicembre, cioè oggi), Guglielmo risulta soltanto "beato". 

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