Sotto scroscianti applausi
20-01-2025, 23:55Americana, Berlusconi, fascismo, memoria del 900, tvPermalinkNel giorno dell'incoronazione, spendo un pensiero per la persona che più di tutte ha incarnato la sconfitta: l'ex vicepresidente Kamala Harris. Le sue responsabilità in questo disastro (che forse annuncia la fine della democrazia in Occidente) sono tante e tali che è difficile metterle in ordine dalla più grave. Come membro più prestigioso dello staff di Biden, Kamala Harris avrebbe potuto sollecitarlo molto prima a rinunciare a una candidatura insostenibile alla sua età e nella sua condizione; e non l'ha fatto. Il che ha privato i Democratici della possibilità di indire delle Primarie che forse avrebbero portato aria nuova, e messo sotto i riflettori almeno un candidato più interessante di Biden o di lei. Dopodiché Biden si è squagliato al primo confronto televisivo con Trump, così che la Harris si è trovata, senza un'investitura popolare, a interpretare il ruolo di contendente al titolo presidenziale; col senno del poi possiamo anche supporre che si sia sobbarcata di un ruolo di perdente cui nessun altro notabile democratico aspirava. Non è neanche escluso avesse qualche possibilità di vincere; nel caso, le ha bruciate. Come aveva annunciato già prima delle elezioni, in qualità di Vicepresidente avrebbe ratificato la sua sconfitta e la vittoria di Trump; cosa che ha fatto qualche settimana fa, e ad alcuni è sembrata una vittoria della democrazia. Non a me.
Per me la democrazia finisce con Kamala Harris, che più di altre figure si è prestata a interpretare il ruolo di chi cede il potere perché avrebbe troppa paura di usarlo. Lo cede a un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, il che è vergognoso; ma d'altra parte se non lo cedesse dovrebbe richiedere l'uso della forza contro un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, e non ne ha evidentemente il coraggio. Una democrazia seria, e preoccupata della sua sopravvivenza, avrebbe identificato in Trump una minaccia almeno dal 6 gennaio 2020; e invece per tutto questo tempo la minaccia è stata lasciata in pace, forse nell'illusione che qualche processo penale avrebbe potuto alienargli la base e i finanziatori: uno dei tanti calcoli sballati dello staff di Biden. Quindi la democrazia finisce così? Perché non ha avuto il coraggio di difendersi?
Noi italiani conosciamo il dilemma meglio di altri. Anni fa, Alberto Asor Rosa fu pubblicamente deriso per aver obiettato a quei politici, veramente poco avveduti, che continuavano a ripetere di voler e poter sconfiggere Berlusconi nelle urne (con che risorse? con che giornali? con che televisioni?): poiché lo stesso Berlusconi aveva già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di truccare la competizione elettorale, disponendo dei media ben oltre i termini di legge (che modificava a suo piacimento nei periodi in cui era al governo), poiché era evidente quanto il suo conflitto d'interessi fosse una minaccia alla democrazia, Berlusconi andava arrestato dalla forza pubblica, che anche a questo dovrebbe servire. Asor Rosa era molto ingenuo, ma secondo me aveva ragione, e Trump andrebbe arrestato. Qualcuno da fuori potrebbe considerarlo un colpo di Stato, ebbene esistono situazioni di emergenza in cui lo Stato deve difendersi da minacce concrete. Qualcuno all'interno potrebbe insorgere: è il rischio da correre. Se Trump deve trionfare, che almeno questo succeda perché i suoi sostenitori sono disposti a morire per lui. Se la democrazia deve cedere il passo, che almeno faccia resistenza. Armata. Quella che Kamala Harris non consentirebbe mai: suppongo che tra Trump e una guerra civile, lei veda in Trump il male minore. Neanche esattamente un male. Il suo partito continuerà a interpretare il ruolo dell'opposizione parlamentare, istituzionale, pacata, inutile; e a emarginare il dissenso a sinistra. Inoltre l'amministrazione Biden si era infilata in due gineprai – l'Ucraina e Gaza – che dev'essere un sollievo per i Democratici lasciare ai trumpiani la responsabilità di uscirne.
In questi giorni sembra obbligatorio lasciare un'opinione sulla fiction di Joe Wright, M il figlio del secolo. A me il Mussolini grottesco di Marinelli tutto sommato sembra che funzioni. L'aspetto più discutibile, fino alla quarta puntata, mi sembra l'assenza degli industriali. In due ore si sono visti in scena per cinque secondi, in un siparietto brechtiano in cui coprono Mussolini e Cesare Rossi di banconote in cambio del loro sostegno contro i socialisti che insistevano a vincere le elezioni. A me i siparietti brechtiani vanno benissimo, ma Mussolini era in buoni rapporti con Fiat e Ansaldo già da quando nel 1914 aveva cambiato idea sulla Grande Guerra, trascinando tanti socialisti come lui nella follia suicida dell'interventismo. Capisco che gli autori abbiano preferito scorciare, semplificare (la fiction comincia nel 1919), ma anche durante la marcia su Roma sembra che Mussolini sia un uomo solo tra gli esagitati in camicia nera e le istituzioni, un equilibrista che riesce a bleffare e ingannare un re che avrebbe potuto schiacciarlo con un tratto di penna. Sarà andata davvero così? Il re ne aveva paura, o preferiva davvero il buffone ai socialisti? E gli industriali, nel frattempo, non avevano dato qualche segnale?
Forse qua sopra ho commesso un errore simile, attribuendo ai Democratici di Kamala Harris lo stesso ruolo tremebondo di re Vittorio, che avrebbe ceduto la nazione non perché tutto sommato gli conveniva, ma per paura. Come se non ci fossero interessi ben più potenti delle nostre paure. I democratici si sono arresi perché il Capitale aveva scelto Trump, e contro il Capitale non avevano nessuna intenzione di combattere. Vincere contro Trump avrebbe significato interpretare le necessità di gruppi sociali che vogliono un welfare state come ce l'hanno gli stati normali; che non capiscono la necessità apocalittica di sostenere Israele in un'operazione di pulizia etnica; che sanno di non poter vivere ancora di idrocarburi per un'altra generazione. Non ho idea di quanto queste istanze siano diffuse nel popolo americano (che per lo più non vota); ma di sicuro non erano istanze che i Democratici potevano difendere. Il loro programma era un blando capitalismo dal volto umano, ma per l'umanità c'è sempre meno mercato. La democrazia è una società aperta: si dovrebbe difendere mantenendo il pluralismo, combattendo chi sparge paure e ci specula sopra. Non è mai stato chiarito se sia compatibile col capitalismo: forse no, non a lungo perlomeno. In Italia è stata sconfitta vent'anni fa da Berlusconi; negli Usa forse oggi.
Ponziano l'antisismico
19-01-2025, 00:13catastrofi, santiPermalink19 gennaio – San Ponziano di Spoleto, protettore dei terremotati e martire (II secolo)
Metti che esistano davvero, i santi intendo. Tutti su radunati su una specie di piano astrale, o in tanti uffici come nel racconto di Buzzati, pronti a recepire le richieste di chi li invoca e a inviarle al piano superiore. In una situazione del genere, Ponziano di Spoleto dovrebbe aver passato secoli molto tranquilli, conosciuto com'era soltanto ai suoi concittadini e neanche tutti, al punto che lui stesso potrebbe essersi posto il problema: ma sarò esistito davvero? Perché di me sussistono notizie veramente molto vaghe. Dovrei essere il rampollo di una famiglia della Spoletium romana, ai tempi di Marco Aurelio. Quando un giudice mi arresta con l'accusa di cristianesimo, io avrei risposto sprezzante "mi chiamo Ponziano, ma puoi chiamarmi Cristiano". Vengo perciò condannato a essere divorato dalle bestie nell'anfiteatro locale, ma i leoni si limitano a leccarmi i piedi. Mi fanno camminare sulle braci, e non mi scotto; mi rinchiudono in una torre senza cibo, ma gli angeli mi portano pane e acqua; per cui quando mi portano sul ponte poi detto "Sanguinario" per tagliarmi la testa, chissà che sorpresa anche per me quando la testa mi è caduta davvero. Anche se invece di cadere nel fiume Tessino, la mia testa sarebbe rimbalzata fin sul colle Ciciano, dove avrebbe fatto sgorgare una fonte miracolosa e dove sarebbero poi sorti una chiesa romanica e un monastero a mio nome. Non fosse che ecco, tutte queste storie somigliano parecchio a tante altre leggende di santi medievali, specie in ambito umbro, dove a un certo punto un monaco deve averne scritte parecchie in serie, per giustificare tutta una serie di santuari di cui non si sapeva più molto. Tra cui il mio – e se fossi uno di quei santi inventati? Probabilmente no, perché quel tipo di santi di solito li inventano i vescovi della città per attirare i fedeli in una chiesa importante, e invece il mio santuario è già in collina. C'è chi dice che potrei essere lo stesso San Ponziano papa, ma perché mai gli spoletini mi festeggerebbero in gennaio, se la sua festa è in agosto?
Forse sarebbe ancora immerso in dubbi del genere, San Ponziano, se nel gennaio 1703 l'Italia centrale non fosse stata sconvolta da uno degli sciami sismici più estesi e micidiali a memoria d'uomo. La prima scossa importante avviene il 14 gennaio, con epicentro a venti chilometri dall'Aquila. Per il capoluogo abruzzese è l'inizio di un vero bombardamento che culminerà con la scossa del giorno di Candalora (il due di febbraio), quando anche a Roma caddero due arcate del Colosseo; le scosse di assestamento proseguiranno per tutto febbraio, ma dell'Aquila ormai non resisteva pietra su pietra. Lo sciame aveva colpito anche a est dei monti Sibillini, causando più di un migliaio di morti tra Norcia e Cascia: invece Spoleto era stata risparmiata, e dando un'occhiata a una cartina moderna non è difficile capire il perché: la faglia passa da un'altra parte. Ma i folignati comunque per un mese continuano a sentire scosse molto forti e a udire notizie di città distrutte a poche miglia di distanza. Proprio in quell'occasione in città comincia a circolare una profezia che avrebbe pronunciato Ponziano, non si sa bene quando ("Spoleto tremerà ma non crollerà"), e alla sua leggenda viene aggiunta una scossa di terremoto che avrebbe salutato la decapitazione del santo. Che non è la storia più assurda che ci si possa inventare per confortarsi durante uno sciame sismico, ve lo posso testimoniare. Ponziano viene quindi acclamato santo protettore dai terremoti, e come tale non deve più avere avuto molto tempo libero lassù. Gli spoletini continuano a festeggiarlo il 14 gennaio, e per l'occasione evitano di tagliare il pane col coltello.
Non capiva una cosa
18-01-2025, 13:47raccontiPermalinkAveva notato che sempre più spesso, negli ultimi tempi, colleghe e superiori tendevano a interromperlo con l'espressione "Tu non hai capito una cosa".
La novità non era che lo interrompessero, anzi era una costante della sua vita professionale. Ma questa espressione gli sembrava relativamente nuova. Forse non ci aveva fatto caso. Forse l'avevano sempre usata, con lui, ma solo negli ultimi tempi se ne era reso conto: e se ne era reso conto perché gli dava fastidio. Quindi forse fino a un certo punto non gliene aveva dato, dopodiché sì.
"Senti, tu non capisci una cosa".
Il fastidio non era tanto causato dall'accusa implicita – di non essere svelto a capire, o non abbastanza sottile per capire "una cosa". E anche il fatto che la "cosa" che veniva accusato di non capire si rivelasse invariabilmente una "cosa" di cui era consapevole, a volte persino esperto. Il fastidio muoveva, come sempre nella sua vita, dalla reiterazione. Era come se tutte si fossero messe d'accordo per dire la stessa cosa, ovvero che lui non aveva capito una cosa. Come se si fossero accorte che il refrain lo innervosiva. Magari era il tormentone di qualche nuovo comico su qualche nuova piattaforma, va' a sapere. Magari era lui almeno una volta ad aver reagito in un modo comico, e le interlocutrici avevano registrato, anche solo inconsciamente, che se volevano gustarsi una reazione divertente dovevano ripetere la formula. In ogni caso era molto fastidioso e non c'era un vero modo per farle smettere. Se avesse iniziato a farlo notare, avrebbe rimarcato ancor di più che l'espressione lo innervosiva; e inoltre, come avrebbe potuto obiettare a un'accusa tanto vaga? Forse che sapeva tutte le cose? Certamente no; e quindi prima o poi chi lo accusava di "non aver capito una cosa" avrebbe avuto ragione.
Sto usando il genere femminile perché, in effetti, tutte quelle che lo rimproveravano di "non capire una cosa" erano donne. Il dato non aveva rilevanza statistica, dal momento che la maggior parte delle sue colleghe (e delle sue superiori) erano donne. Ciò non gli aveva mai dato fastidio, anzi, forse era lui stesso ad aver cercato sempre di trovarsi in ambiti del genere, sin dai tempi della scuola: contesti dove le donne non solo fossero la maggioranza, ma anche le responsabili e le organizzatrici. In ogni caso a volte si domandava come sarebbe andata a sessi inversi: non si sarebbe trattato di mansplaining?
E se lo fosse stato, avrebbe avuto una ragione in più per innervosirsi (pensano che non capisca perché non ho il pene), o una ragione in meno (non ce l'hanno davvero con me come individuo, ma solo come categoria)? In altre parole: a cosa serviva davvero un'etichetta, come ad esempio mansplaining? A difenderti dal fastidio, a farti sentire meno sola ("tranquilla sorella, non ce l'hanno con te in quanto individuo, è solo un complotto delle persone col pene") o esacerbare lo stesso fastidio? Un nero, quando si rende conto che ce l'hanno con lui perché è nero, si consola o si incazza ancora di più? Bisognerebbe chiederlo ai neri, i quali tuttavia potrebbero incazzarsi per la domanda, e quindi non lo sapremo mai. Molto probabilmente dipenderà da caso a caso. Ci sarà la donna stupida che quando le dimostrano che è stupida (fornendo riscontri oggettivi) non ci crede perché lo scambia per mansplaining. E ci sarà la donna insicura che scambia il mansplaining per una critica oggettiva. La maggior parte delle donne oscillerà tra questi due poli ponendosi per tutta la vita il problema che lui si stava ponendo soltanto in quel momento, perché tanto alla fine lui non era una donna, e anche se avesse trovato una risposta definitiva, non gli sarebbe servita un granché. Lui aveva un altro problema. Non sopportava che le colleghe gli dicessero che "non capiva una cosa".
E se glielo avesse detto un uomo?
Non gli sembrava che fosse mai successo; aveva la sensazione che un uomo non avrebbe osato dirglielo in faccia. Non sul luogo di lavoro, dove effettivamente gli uomini erano pochi e abituati a sviluppare una solidarietà cameratesca. Si dicevano ovviamente le peggio cose: essendo uomini non avevano difficoltà a salutarsi con un "non hai mai capito un cazzo" il cui tono scherzoso era chiaro sin dall'inizio, perché "non aver mai capito un cazzo" è un'adynaton, una cosa letteralmente impossibile. Invece "non aver capito una cosa" è possibilissimo, anzi inevitabile: nessuno capisce tutte le cose. Non c'è modo di dire "non hai capito una cosa" in senso scherzoso, è una frase repellente all'ironia: chi lo dice deve crederci veramente. Un uomo che ti dice "non hai capito una cosa", ti sta sfidando: e un uomo che ti sfida sul luogo di lavoro, di solito sceglie altri luoghi di lavoro. Perlomeno lui la pensava così. Ma forse non aveva capito.
Ma insomma si trovava in una situazione senza apparente via d'uscita. Ogni tanto, quando finalmente toccava a lui parlare, e dire qualcosa di lungamente ponderato, di necessario, qualcuna lo avrebbe interrotto sostenendo di "non capire una cosa"; dopodiché lui avrebbe reagito con autoironica sopportazione: "eh, sapessi quante cose non capisco", soffocando un disagio crescente, che prima o poi non avrebbe saputo nascondere alle interlocutrici. Le quali da lì in poi sarebbero accorse ancora più numerose, come squali attirati da un filo di sangue, a rimarcare che lui "non aveva capito una cosa".
Ma cosa?
Ogni tanto ci rifletteva. Doveva trattarsi di un dettaglio apparentemente trascurabile, perché in effetti lui lo trascurava, e mai aveva capito quale fosse realmente "la cosa". Avendo ormai acquisito, con l'età, una certa ripugnanza per le polemiche sul luogo di lavoro, in tutte le discussioni cercava di intervenire soltanto quando lo riteneva necessario, e soltanto per esprimere opinioni costruttive o che perlomeno sbloccassero una situazione. Tanto più lo innervosiva l'idea che a questo insieme di opinioni mancasse un dettaglio, un quid, che doveva essere evidente a tutte tranne a lui, come la punta del proprio naso. Cosa gli mancava? Cosa impediva alle colleghe di tacere per più di dieci secondi, quando lui prendeva la parola? Finché un giorno realizzò, e fu un'illuminazione:
Questa cosa, che non sapeva cosa fosse, era comunque una cosa.
Quindi era vero.
Non capiva una cosa.
Povero Valditara, povera scuola
17-01-2025, 00:54contro la lingua italiana, governo Meloni, lingue morte, scuolaPermalink– Valditara che dice che la sua riforma non è "ideologica" è esattamente il pesce che ti chiede cosa sia questa acqua di cui tutti parlano.
– Se domani il Ministro dello Sport convocasse i giornalisti per spiegare la sua riforma del regolamento del giuoco del Calcio, la quale prevedesse l'introduzione di due tempi regolamentari di 45 minuti l'uno, la possibilità di effettuare almeno due sostituzioni e il divieto di retropassaggio al portiere in area, i giornalisti immagino che si gratterebbero la testa imbarazzati, perché le regole del calcio un po' le conoscono. La scuola invece no, non la conoscono purtroppo: perché ieri il Ministro Valditara ci ha spiegato che da qui in poi studieremo le poesie di Pascoli a memoria, le saghe e le leggende, ma anche Stephen King: come se in tutte le antologie per la scuola dell'obbligo (apritele!) non ci fossero poesie di Pascoli, saghe, leggende e Stephen King: insomma come se i primi ad aver pensato che Pascoli e King potessero essere letture interessanti per i nostri studenti fossero i membri della nuova commissione. Come se non leggessimo già queste cose più o meno da sempre: si vede che per i giornalisti non lo facciamo. Chissà cosa pensano che facciamo. Aeroplanini di carta?
– Ogni volta che il ministro di turno propone la sua riforma dei curricula scolastici, i giornalisti (se fossero interessati davvero alla questione) dovrebbero per prima cosa verificare se non si tratti anche stavolta di riforme a costo zero, ovvero se non vengano per caso aggiunte ore di scuola ai ragazzi, o create nuove cattedre. A ogni proposta insomma bisognerebbe avere la malizia di rispondere: come la finanzierete?
– Ad esempio, Valditara ha ritenuto spiegarci che il latino diventerà curriculare alle medie. Però "opzionale". Ovvero: i genitori potranno scegliere di farlo. Sarà una materia in più, nel pomeriggio? Ma significherebbe pagare altri insegnanti (o pagare di più quelli che insegnano già al mattino). O il latino "opzionale" andrà a sostituire altre discipline che quindi diventeranno altrettanto "opzionali"; e in questo caso, quali? Quali materie togliamo dalle 30 ore curriculari per il fondamentale rosa rosae senza il quale la civiltà occidentale è al tracollo? Una lingua straniera? Tecnologia? Scienze? Ovviamente non religione cattolica: e quindi cosa? In questo caso si formerebbero inevitabilmente classi differenziali, ed è inevitabile che quelle col latino sarebbero frequentate più spesso da italiani di origine italiana; inoltre, qualche insegnante perderà il posto perché la sua disciplina complessivamente sarà meno insegnata, per cui insisterei sulla domanda: chi domani sceglierà di studiare latino, cosa sceglierà di non studiare?
– La Commissione convocata da Valditara a quanto pare ha inserito nelle sue linee guida lo studio del testo Percy Jackson e gli eroi dell'Olimpo, che in prima media non è probabilmente il peggior libro che si possa leggere; ma consentitemi di manifestare una certa perplessità nei confronti di una Commissione che ritenga necessario consigliare non tanto un determinato genere letterario (fantasy young adult con una spolverata di mitologia per tenersi aggiornati sulle radici occidentali), ma proprio uno specifico autore, manco fosse Tolstoj, e uno specifico testo, Percy Jackson e gli eroi dell'Olimpo: a quel punto poteva anche specificare l'editore, che guarda un po', è Mondadori. Meno male che il concetto di conflitto di interessi è stato abolito.
– Secondo Valditara e la commissione (i cui membri immagino e spero molto imbarazzati) la grammatica insegnerebbe il rispetto per le regole. Ora se c'è una disciplina che ti mette di fronte al carattere arbitrario e difettoso delle regole è proprio la grammatica: e studiando latino ti accorgi proprio che è dall'eversione delle regole latine che è nata la lingua italiana, di cui siamo tutti spero molto contenti e orgogliosi.
– Geostoria alle superiori è sempre stato un patetico espediente per togliere ore alla geografia, per cui anche qui la vera domanda è: aggiungete un'ora di geografia, e nel caso la togliete a chi? O la abolite proprio?
– Il motivo per cui abbiamo sempre studiato poca Bibbia a scuola non è accidentale né il prodotto di una decadenza dei costumi con inevitabile tramonto occidentale, bensì una conclusione ovvia alla quale pervennero gli intellettuali cristiani già nel quinto secolo, e parliamo di intellettuali cosmopoliti, tra cui parecchi africani, a cui Valditara non sarebbe degno di annusare la punta delle scarpe: Agostino da Ippona, Sofronio Eusebio Girolamo, stiamo parlando di gente così.
– Costoro (che a differenza di Valditara e commissione la Bibbia la conoscevano, e in certi casi ritenevano anche necessario credere a quello che c'era scritto) (e a differenza di Valditara e commessi vari, avevano insegnato davvero ed erano esperti di didattica sul campo) si rendevano bene conto del problema. Studiare significa, tra le altre cose, comprendere; comprendere la Bibbia significa, tra le altre cose, notare che non sembra affatto scritta da Dio, bensì da un gruppetto di compilatori di leggende mediorientali; e per concepirla invece scritta da Dio occorre costruirle tutto un insieme di congegni – le interpretazioni allegoriche, morali, anagogiche – che necessitano di personale già formato: gente che sappia già cosa deve insegnare agli alunni, dopodiché possono usare Pascoli, Stephen King, l'elenco telefonico: riusciranno comunque a interpretare l'elenco telefonico affinché dica le cose che gli alunni devono sapere.
– Detto in parole povere: la Bibbia era vietata ai dilettanti. A scuola era molto meglio insegnare Aristotele, che peraltro era fatto apposta.
– Questo è il motivo per cui ancora oggi la Chiesa cattolica può aggiornare le sue opinioni senza grosse difficoltà dottrinarie, ragione per cui dopo qualche spiacevole incidente nel Seicento, non ci sono più state grosse difficoltà ad accettare le teorie scientifiche che una lettura letterale della Bibbia non consentirebbe.
– Se vogliamo un esempio di una società in cui ai dilettanti è stato permesso lo studio della Bibbia, non abbiamo che dare un'occhiata all'universo protestante: se da una parte non c'è dubbio che nei secoli abbiano letto di più e studiato di più, è anche vero che sono proprio alcune comunità protestanti ad essersi concepite in contrasto con la scienza, come se la Bibbia, siccome non contiene Darwin o Einstein, fosse un'alternativa a Darwin e Einstein. Il protestantesimo in linea di massima conduce a un bivio: o accetti che la Bibbia non è opera di Dio – e nel giro di una generazione non sei più né cristiano né protestante – oppure accetti che Dio sia quell'Entità abbastanza inquietante che la Bibbia descrive. Quella via di mezzo tra fanatismo e ateismo, che il cattolicesimo ha percorso per millenni, nell'universo protestante non è praticabile, e ce ne accorgiamo tutti i giorni.
– In alcune (non tutte) le antologie per la scuola secondaria di primo grado compare almeno una lettura dalla Bibbia, nella sezione dedicata ai miti e alle leggende. Capite il problema? Se ne studiamo di più, e certo possiamo, dovremo ribadire ancora di più che la Bibbia è un libro di leggende. Dopodiché entra il prof di religione cattolica che potrebbe voler insegnare l'esatto contrario, e perché no, è giusto che la scuola ospiti opinioni diverse. Dopodiché vostro figlio sceglierà, anche se non credo che è quello che desideravano Valditara e i suoi commessi. E pazienza.
Il mendicante dal vangelo d'oro
15-01-2025, 00:00santiPermalink15 gennaio: San Giovanni Calibita (V secolo), finto povero.Terminato il periodo eroico dei martiri – quando per diventare santi bisognava farsi torturare e ammazzare – si fa strada che l'idea che la santità si possa raggiungere attraverso la povertà. Ci aspetteremmo dunque una serie di santi proletari, e invece no: appena i ricchi si accorgono che la povertà è di tendenza, eccoli pronti a travestirsi da mendicanti, togliendo spazio a chi mendicava per necessità.
Meritis et nomine Felix
14-01-2025, 01:06santiPermalink14 gennaio: San Felice da Nola (III secolo), protettore di Paolino.
Di MentNFG - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento |
Dopo tanti anni possiamo anche dircelo, che le leggende dei martiri si assomigliano un po' tutte. Molto prima dell'introduzione di intelligenze artificiali in grado di produrre agiografie in serie, i monaci e i cronisti si stavano già conformando a standard precisi: vite più o meno simili, miracoli a volte identici, e poi durante una persecuzione un eroico coming out davanti a un magistrato romano se non allo stesso imperatore – quest'ultimo presto o tardi diventa Diocleziano. Il caso di Felice da Nola è un'eccezione che ci mostra proprio quanto fosse vincolante la regola: la sua storia è molto diversa dalle altre proprio perché invece di ricadere nella procedura standard con cui venivano redatte le Passiones, a Felice capita per una circostanza fortuita di diventare, un secolo dopo, il santo preferito di uno scrittore molto diverso dai mediocri compilatori di agiografie: Ponzio Meropio Paolino, esponente dell'aristocrazia senatoriale galloromana.
Paolino nasce a Burdigala (Bordeaux), rampollo di una ricchissima famiglia le cui proprietà si estendono dalla Spagna fino alla Campania. Da quel che scrive – ma non dobbiamo credergli per forza – San Felice è una presenza costante nella sua vita, sin dall'infanzia, quando è tutt'uno col ricordo di quel piccolo santuario che aveva visitato già da bambino. Vi ritorna ventenne, dopo la morte del padre, per il taglio della barba, una cerimonia che sancisce l'entrata nella vita adulta. Negli anni successivi intraprende una carriera politica, o forse vi è costretto dal suo lignaggio e dalle circostanze: ma sono anni difficili, l'Occidente scricchiola, e Paolino non è il solo ad avere un presentimento della fine. Dopo essere tornato a Nola come governatore della Campania, Paolino deve tornare a Burdigala dove succede qualcosa che la sua pur cospicua corrispondenza non ci aiuta a chiarire. Paolino si converte (benché avesse caro il santuario di San Felice, fino a quel momento non era ancora battezzato) e sposa una ricca cristiana, Terasia, ma nel contempo comincia a vendere tutte le sue immense proprietà, in previsione di un ritiro alla vita contemplativa che non si concretizzerà mai. È una decisione clamorosa, che lascia sbigottiti gli ex sodali pagani, ma che potrebbe anche essere stata dettata dalla necessità di riabilitarsi in seguito a una caduta in disgrazia. Forse Paolino, come altri rilevanti personaggi della Chiesa gallica, aveva da farsi perdonare una 'sbandata' per Priscilliano, il carismatico vescovo di Avila che verso il 380 cadde in disgrazia e condannato a morte nel 385 con l'accusa di stregoneria; per la prima volta un eretico veniva giudicato e giustiziato dalle autorità imperiali. Priscilliano magari aveva davvero pasticciato con concetti cristiani e astrologia pagana, ma a renderlo indigesto alle autorità religiose e politiche era anche la la veemenza con cui le accusava di corruzione. In ogni caso dopo la condanna nessuno più osò riabilitarlo; nello stesso periodo Paolino perse un fratello in circostanze mai chiarite, decise di mettere all'asta gran parte dei suoi possedimenti e se ne andò prima a Complutum, in Iberia; poi, dopo la morte precoce dell'unico figlio, di nuovo a Nola. Qui ritrova San Felice, ed è come ricongiungersi come un amico d'infanzia.
Paolino sceglie di festeggiare il 14 gennaio il suo nuovo compleanno, celebrandolo anche con una serie di poesie dedicate a San Felice. Le informazioni sarebbero ricavate dalle narrazioni orali dei contadini che il 14 gennaio accorrevano a Nola da tutta la Campania. Ne risulta una storia piuttosto diversa da quella tipica delle Passiones: basti pensare che per quanto fosse venerato come martire, Felice non era stato ucciso dai suoi persecutori. La sua vita risulta più simile a quella del militante di un'organizzazione passata in clandestinità: tratto in arresto, Felice non aveva rivelato nemmeno sotto tortura il luogo nella foresta dove si era nascosto il vescovo di Nola, Massimo. Liberato da un angelo, Felice viene condotto miracolosamente nel nascondiglio, dove Massimo rischia di morire di fame. Felice lo salva grazie al succo di un'uva cresciuta miracolosamente, se lo carica sulle spalle e lo riporta in città, dove la persecuzione sembra essersi temporaneamente placata. Quando le cose tornano a farsi pericolose, Felice si nasconde in una cisterna: una donna che non lo conosce gli porta comunque il cibo per sei mesi. Quando finalmente l'editto di Costantino pone termine alle persecuzioni, i nolani propongono a Felice la carica di vescovo, ma lui rifiuta e si ritira in campagna, dove continua ad aiutare i contadini non lesinando i miracoli. In qualche aspetto della vita di Felice, Paolino poteva rispecchiarsi – se non si è inventato tutto di sana pianta, come aveva fatto qualche anno prima uno dei punti di riferimento di Paolino, Sant'Ambrogio, inventandosi i martiri milanesi Gervaso e Protasio per nobilitare la cattedrale che stava costruendo.
La figura di Felice diventa, per Paolino, quella di un maestro di vita, lontano dalle complicazioni teologiche che l'intellettuale rifuggiva (e che forse lo avevano messo nei guai). Le poesie di Paolino ci mostrano che il culto per i santi, già nel terzo secolo, era radicato nei ceti più popolari e si praticava anche in assenza di testi scritti, che arrivarono più tardi, omologando riti e credenze. La fissazione di Paolino per Felice data da molto prima del suo battesimo, e dalla sua reale adesione ai valori cristiani: può darsi che in essa sussista la devozione che i pagani avevano per i Lari, gli dèi della casa; in effetti, per quanto Paolino possa invocare Felice anche quando si trova altrove, appare chiaro che Felice è legato al suo luogo di appartenenza, proprio come i Lari. Paolino non ha inventato le campane, come qualche agiografo suggerisce, ma è probabilmente il primo a definire Felice il suo "patronus", in un periodo in cui la parola aveva una pregnanza ancora legata al mondo classico; patronus poteva significare "avvocato", ma soprattutto il ricco protettore che si circondava di clientes. In questo modo Paolino, affermando di essere rinato in Felice, celebra sé stesso: non più governatore della Campania ma vescovo di Nola (un ruolo che forse si inventa, visto che è l'unico a disporre di informazioni sul vescovo che l'avrebbe preceduto). I grandi capitali di cui doveva disporre dopo la vendita delle sue proprietà vengono reinvestiti nella costruzione del complesso delle basiliche di Cimitile, dove Paolino si farà seppellire accanto ai resti del suo santo protettore.
Due preti a Dachau
09-01-2025, 01:28memoria del 900, santiPermalink9 gennaio: Beati Jozef Pawlowski (1890-1942) e Kazimierz Grelewski (1907-1942), martiri polacchi nel campo di concentramento di Dachau.
Dachau |
Il caso del sacerdote più giovane, don Grelewski, è più indicativo perché in nessuna biografia, nemmeno tra quelle in lingua polacca, si riesce a trovare qualcosa di più antinazista del fatto che "insegnava clandestinamente", essendo prefetto di una scuola che i nazisti avevano chiuso. Il fatto è che nel 1941 un prete polacco non aveva bisogno di aiutare gli ebrei o di opporsi al regime per essere perseguitato. Anche insegnare catechismo e lingua polacca in molte situazioni era proibito. La Chiesa cattolica era già nel mirino dei nazisti: e se la quantità delle vittime (quasi tremila, più o meno il 18% del clero polacco) non è paragonabile a quello delle altre minoranze perseguitate, la repressione era comunque già sistematica e concentrata sugli insegnanti. La soppressione del clero era parte di una politica di persecuzione dell'intero popolo polacco, perché se è vero che i tedeschi dal 1942 consideravano lo sterminio degli ebrei come prioritario, l'eliminazione dell'etnia polacca era già stata avviata nel maggio del 1939 con l'operazione Tannenberg. Ai tre milioni di ebrei polacchi caduti nei campi di sterminio vanno aggiunti circa due milioni di polacchi non ebrei (perlopiù cattolici). Pawlowski e Grelewski fanno parte del gruppo di 108 martiri polacchi beatificati da Giovanni Paolo II nel 1999.
Due vescovi scozzesi, e i loro pesci
07-01-2025, 11:48santiPermalink8 gennaio: San Nathalan, vescovo in Scozia (VII secolo)
Prima di diventare vescovo di Aberdeen, Nathalan era il tipico nobile che pretendeva di aver trovato Dio nella campagna. Altro che libri e preghiere: zappare bisogna, seminare e raccogliere, e quel che avanza darlo ai poveri. Per un po' Dio sembra dargli corda: poi un giorno di mietitura gli manda la grandine, forse per metterlo alla prova o per altri suoi misteriosi disegni. Nathalan questa cosa non la prende bene, insomma si lascia sfuggire almeno un'imprecazione: pentitosi immediatamente, decide di espiare ammanettandosi la mano destra alla gamba sinistra e gettando la chiave nel mare.
A questo punto, se già immaginate che qualcuno verso la fine della leggenda pescherà un pesce con una chiave dentro, non è un caso: la pesca miracolosa è uno dei topos più diffusi nelle leggende dei santi. Probabilmente nel martirologio ce n'è una alla settimana, a cercare bene. Comunque Nathalan a recuperare la chiave non ci pensa nemmeno: la sua idea è quella di recarsi così ammanettato fino alle tombe degli Apostoli a Roma, e solo lì farsi sciogliere le catene dal papa o da un fabbro. Ma appunto una volta arrivato a Roma, cosa gli capita di acquistare al mercato? Un pesce, esatto: e dentro il pesce indovinate cosa c'è? La nomina a vescovo di Aberdeen! No, scherzo, c'è la chiave. La nomina arriva dal papa, richiamato dal clamore per un miracolo in realtà così tipico, il pesce con la sorpresa. Probabilmente quando fai il papa un miracolo così lo senti una volta al mese.
13 gennaio: San Kentigern protovescovo di Glasgow (518-603), anche conosciuto come "Mungo"
Quando ho scritto che nel calendario c'è probabilmente una pesca miracolosa alla settimana, avrete pensato vabbe', esagera. E invece sentite cosa combina San Chentigerno (che a Glasgow tutti chiamano col soprannome affettuoso "Mungo", dal gaelico "mio caro").
Languoreth, regina di Strathclyde, si rivolge a lui disperata perché suo marito Riderico vuole vedere l'anello che le ha regalato. Languoreth in effetti aveva avuto la sconsiderata idea di regalarlo al cavaliere suo amante (altro tipico tropo delle leggende medievali), che però non lo trova più. Quello che non sa è che il re lo ha visto al dito del cavaliere mentre dormiva: glielo ha sfilato senza svegliarlo e lo ha gettato in mare. L'abate Mungo si fa raccontare la storia, manda un suo monaco a pescare, il monaco trova l'anello nel pesce, l'onore di Languoreth è salvo.
Ora, un santo tipico magari avrebbe perso tempo a fare una paternale alla regina, che non solo ha tradito il suo marito, ma anche il suo re, e oltretutto per giacere con un deficiente che si addormenta in giro con una prova del tradimento al dito. Ma questo non è un santo tipico: è Mungo, fondatore di Glasgow e patrono non solo di questa città tanto difficile, ma anche delle donne infedeli. Infedele era stata sua madre, la principessa Teneu, che aveva avuto una relazione con un principe già maritato, Owain (quest'ultimo già sposato). Il padre di Teneu, re Lleuddun, li aveva scoperti un attimo dopo il concepimento di Mungo, e aveva fatto gettare la figlia dal Traprain Law, un'altura su cui i Romani avevano costruito un forte.
Lleuddun era precipitata sino al mare, in una zattera su cui aveva attraversato l'estuario del Firth of Forth: e anche questo (il tuffo da un'altura fino al mare) è un tropo medievale o anche più antico. Secondo un'altra fonte Teneu era stata violentata da Owain, e questa versione molto più cruda potrebbe essere l'originale, poi corretta nel momento in cui Owain, ribattezzato Ywain, finisce nel Ciclo Bretone e diventa un cavaliere senza macchia e senza paura. Perché siamo appunto nelle brume dell'Inghilterra arturiana: uno degli antagonisti pagani di Mungo potrebbe essere il modello su cui poi è stato inventato mago Merlino. Ma non è un caso che tra tanti miracoli di questo uomo pio, i suoi concittadini ricordino più volentieri la storiaccia di corna in cui conferma la versione di una fedifraga, la leggenda del "pesce che non nuotò", al punto da disegnare il salmone con l'anello nello stemma cittadino. Lo stesso motto della città ("Let Glasgow flourish") deriva da una frase pronunciata dal santo quando ne fondò l'abbazia: Che Glasgow fiorisca dalla predicazione della Tua parola e dall'invocazione del Tuo nome. Gli abitanti, forse consapevoli di non essere i devoti che Mungo si sarebbe meritato, hanno mantenuto soltanto la prima parte: che Glasgow fiorisca.
Genoveffa resiste
03-01-2025, 00:00Francia, santiPermalink3 gennaio: Santa Genoveffa di Parigi (420-512)
Santa Genoveffa disarma Attila (Etienne-Hippolyte Maindron, 1857) |
"Genoveffa" suona buffo, non tenterò di negarlo. Sembra uno di quei nomi escogitati dai famigliari per chiarire sin dall'inizio che la bambina è destinata al chiostro, come il manzoniano Gertrude. Le cose non stanno proprio così; per prima cosa, in francese "Geneviève" suona molto meglio, o David Crosby non lo avrebbe usato per una delle sue più evocative canzoni. Non sappiamo esattamente cosa significhi: in qualche dialetto paleogermanico suonerebbe "moglie di razza", ma anche "molto irrequieta", il che le si addice di più. Perché Genoveffa non è la tipica monaca reclusa, no. O meglio: monaca non lo era perché il monachesimo non aveva ancora preso piede; reclusa in teoria sì (apparteneva a un gruppo di "vergini cristiane" che vivevano coi genitori, digiunavano spesso e mettevano il velo). Ma le circostanze la portano più volte a uscire di casa e ad assumere un ruolo di protagonista.
In effetti la leggenda di Santa Genoveffa apre uno spiraglio, forse illusorio, sul momento più buio della storia di Parigi, suggerendoci che in assenza di uomini atti al comando, una donna abbastanza irrequieta avrebbe potuto sobbarcarsi dell'incarico. Tutto questo, mille anni prima che Giovanna d'Arco espugnasse Orléans; millequattrocento anni prima che Louise Michel esortasse i comunardi di Parigi alla resistenza. È abbastanza curioso che le donne più irrequiete e volitive delle cronache medievali provengano dalla Francia, il regno che più recisamente aveva escluso le donne dalla successione al trono. E siccome questa esclusione avviene proprio negli stessi anni, con la legge Salica emessa da re Clodoveo, è singolare che la storia della Donna Molto Irrequieta sia stata messa per iscritto proprio su richiesta della regina Clotilde, moglie di Clodoveo. Una mossa per controbattere il patriarcato, almeno sul piano della narrazione? Oppure una suddivisione di ruoli: voi maschi vi tenete il trono, noi ci prendiamo le leggende. Tutto questo nel caso che la Vita sanctae Genovefae sia stata davvero scritta, come sostiene l'autore, appena 18 anni dopo la morte della santa; il che ne farebbe una delle rare testimonianze letterarie della Francia nel tenebroso VI secolo. Non tutti gli storici si dicono d'accordo; alcuni la post-datano anche di duecento anni, il che avrebbe un senso perché la Vita contiene già quei tipici elementi che di solito vengono aggiunti alle agiografie in un secondo momento, ad esempio i dettagli sull'infanzia. L'autore in effetti ci tiene a ricordare che l'eccezionalità di Genoveffa fu riconosciuta subito da un legato papale, San Germano di Auxerre, che la consacrò a sei anni (quando ancora viveva a Nanterre coi genitori) e tornò a salutarla quando ne aveva 27, i genitori erano morti e si era trasferita da una parente a Parigi, appena prima che avesse inizio la fase propriamente eroica della sua vita. Sono appunto i classici particolari che i cronisti aggiungono alle leggende per omologarle, rassicurando i lettori sull'ortodossia di una santa che si trovava a operare in un momento in cui il cristianesimo romano non era necessariamente la religione maggioritaria: Franchi e Visigoti erano di credo ariano.
In ogni caso Genoveffa rimane un caso a parte; non è una martire, né una monaca di stirpe regale; non è nemmeno così strano che la storia della sua vita faccia un po' a pugni con quel che sappiamo della storia di Parigi, perché di Parigi in quel periodo non sappiamo così tanto. Non è nemmeno chiarissimo chi la governasse quando nel 451 in città divampa il panico: stanno arrivando gli Unni, l'obiettivo di Attila è saccheggiare tutte le città dal Reno al mare. Quando gli "uomini" propongono di evacuare la città, Genoveffa si fa sentire: "Che gli uomini fuggano, se vogliono e se non sono più capaci di battersi. Noi donne pregheremo Iddio così tanto che ascolterà le nostre suppliche". A quel punto, benché qualcuno proponga di buttarla nella Senna, la maggior parte degli abitanti decide di resistere all'assedio. Attila effettivamente risparmierà Parigi, non è chiaro il perché: durante la campagna del 451 penetrò molto più a ovest. Forse cominciava a sentirsi in trappola: tra le truppe serpeggiava un morbo simile al colera, e Romani e Visigoti lo stavano per sconfiggere ai Campi Catalaunici (non è chiaro dove ma un po' più a est, magari nella Champagne). È difficile trovare una logica nel percorso di un re che dava molta importanza ai presagi: arrivato alle porte di Parigi, avrebbe sentito che la citta non gli portava fortuna. Solo molto più tardi gli artisti avrebbero iniziato a raffigurarla in scene in cui incontra fisicamente il re degli Unni – insomma Genoveffa sarebbe per Parigi quello che Leone Magno è per Roma. Un'altra cosa a cui Attila dava molta importanza, oltre ai presagi, era l'oro; in effetti a quel punto gli Unni non erano l'orda disorganizzata che ci piace immaginare, ma un esercito che si spostava con obiettivi abbastanza precisi, e prima di praticare la razzia domandavano sempre se la città non preferisse pagare un riscatto in metalli preziosi. Forse l'intervento di Genoveffa servì a risolvere la questione; più che una profetessa, si tratterebbe di una nobildonna che non essendosi sposata aveva mantenuto per sé i privilegi politici del padre, membro della curia di Parigi. Il suo discorso risolutivo, Genoveffa lo avrebbe pronunciato quindi nell'assemblea più importante della città. Non è nemmeno escluso che grazie a contatti tra i ranghi dei Franchi e dei Visigoti, Genoveffa possedesse informazioni sui movimenti degli eserciti che gli altri notabili non avevano, e che l'esortazione a non evacuare la città fosse basata su osservazioni oggettive.
Che Genoveffa occupi una posizione di potere ce lo lasciano sospettare gli avvenimenti successivi: quando cinque anni dopo sono i Franchi ad assediare Parigi, la santa conduce personalmente un'imbarcazione lungo la Senna, fino ad Arcis-sur-Aube, per fare scorta di grano. La situazione sembra intonarsi più all'immagine di una matrona dotata di coraggio e spirito d'iniziativa più che a un'asceta che mangiava due volte alla settimana. Quando si tratta di riscattare dei prigionieri, è Genoveffa che tratta col re Childerico, e poi col figlio Clodoveo che avrebbe operato la fondamentale conversione dei Franchi dall'arianesimo al cristianesimo romano. È facile immaginare che Genoveffa, con la sua autorevolezza, abbia svolto un ruolo chiave in questa conversione che tanta fortuna portò ai regnanti della dinastia merovingia: è facile immaginarlo, ma l'autore della Vita non lo scrive. Si limita a raccontare che Clodoveo chiese di essere sepolto nella basilica dei Santi Apostoli, che aveva fatto costruire intorno alla tomba di Genoveffa, morta a novant'anni se non più. Venerata come co-patrona di Parigi, Genoveffa avrebbe subito la volubilità dei parigini, che durante la Rivoluzione fusero l'oro del rivestimento della cassa e ne distrussero i resti; per fortuna un avambraccio e qualche falange erano stati regalati ad altre parrocchie, perché è tutto quello che resiste di lei nella tomba che ora si trova in Santo Stefano al Monta (St.-Etienne-au-Mont), nel quinto arrondissement.
Gregorio il disarcivescovocostantinopolizzato
02-01-2025, 00:02santiPermalink2 gennaio: San Gregorio di Nazianzo (329-390), patriarca riluttante.
Mosaico alla Martorana di Palermo, Di Jastrow - Opera propria, CC BY 2.5. |
Il secondo giorno di gennaio ci ripropone uno degli interrogativi più enigmatici della nostra infanzia, forse il solo che presto o tardi non ha ricevuto alcuna risposta, ovvero: se l'arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovocostantinopolizzasse, vi disarcivescovocostantinopolizzereste voi?
Voi come rispondevate? Sì, mi disarcivescovocostantinopolizzerei subito, ci mancherebbe altro... o piuttosto: no, dovrebbero venire a disarcivescovocostantinopolizzarmi con la forza. Magari era un test sul temperamento, va' a sapere. Come molti scioglilingua, non siamo in grado di risalire all'autore. Riteniamo che non debba essere molto antico, perché a differenza di tanti altri – forse di tutti gli altri – la filastrocca non si basa su cacofonie o omofonie di origine dialettale. In effetti la sua peculiarità è proprio che non contiene né cacofonie (nessuna sillaba ripetuta) né omofonie (nessun suono che possa avere due significati, e pertanto si possa equivocare). Potete verificare facilmente quanto questi siano gli ingredienti di base di ogni scioglilingua popolare, tranne appunto quello dell'arcivescovo, che rientra in una categoria tutta sua: un gioco su due fenomeni linguistici più tipici dell'italiano scritto che di quello colloquiale o dialettale. Il primo fenomeno sono le parole sdrucciole (cioè con l'accento sulla terzultima), che non sono poi così infrequenti, ma conferiscono un tono particolarmente aulico quando sono pescate da un lessico specifico, in questo caso storico: "arcivescovo" e "Costantinopoli". L'altro fenomeno è il famigerato periodo ipotetico di secondo tipo, quello che ci costringe a flettere i verbi al congiuntivo imperfetto ("disarcivescovocostantinopolizzasse" e al condizionale presente "disarcivescovocostantinopolizzereste"), una regola che non interiorizziamo a sufficienza, a giudicare non solo dalla quantità di errori che commettiamo, ma dall'imbarazzo con cui li gestiamo. Ci sarebbe anche un terzo fenomeno, ovvero quello che ci consente di inventare nuove parole componendo parole più brevi, salvo che non è veramente un fenomeno tipico dell'italiano, quanto ad esempio del tedesco; per cui non mi stupirei se la filastrocca provenisse da un ambito germanofono (ma per ora non l'ho trovata) o da un ambiente liminare in cui la lingua tedesca poteva ispirare parodie (il Lombardoveneto?)
L'enigma non riguarda soltanto l'origine dello scioglilingua, ma si estende anche al suo contenuto: chi è l'arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato, e per quale motivo avrebbe dovuto disarcivescovocostantinopolizzarsi? La Storia ci consegna più di un prelato che avrebbe potuto ispirare l'autore: uno dei più celebri è senz'altro Giovanni Crisostomo, che fu disarcivescovocostantinopolizzato a forza dall'imperatore Teodosio II. Ma potrebbe anche trattarsi di Gregorio Nazianzo, che si disarcivescovocostantinopolizzò spontaneamente, appena qualcuno gliene fornì un pretesto. Da qui in poi lo chiamerò Greg, come nei miei vecchi appunti di quando frequentavo Storia del Cristianesimo (a dire il vero lo chiamavo Greg Nazi, per distinguerlo da Greg Nissa, Greg Magno e Greg Tours, ma non vorrei terrorizzare l'algoritmo).
Dando un'occhiata alla famiglia, Greg doveva diventare santo per forza. Santo il papà (Gregorio il Vecchio), santa la mamma (che si chiamava Nonna), santa la sorella Gorgonia, santo il fratello Cesario, santo il migliore amico Basilio che si festeggia anche lui il 2 gennaio, santo persino il fratello del migliore amico, Gregorio di Nissa, insomma il Nazianzeno non aveva scelta: che figura ci avrebbe fatto con amici e parenti? Ovviamente sto barando: tutta questa caterva di santi cappadoci sul calendario c'è arrivata soprattutto grazie alle orazioni funebri di Greg, che di tutti era il più bravo con le parole e ci avrebbe convinto anche a canonizzare il cane, se avesse voluto. Ma rimane la sensazione che si trovasse un po' a disagio col suo destino di santità, in quel turbolento quarto secolo in cui si conquistava soprattutto amministrando diocesi e difendendo l'ortodossia nicena dagli eretici ariani. Greg, uomo di lettere, non si sentiva tagliato per nessuna delle due cose.
Quando Basilio lo implora di assumersi gli oneri di vescovo almeno nella piccola città di Sasima, Greg cede alla richiesta dell'amico ma se la squaglia subito (entrare a Sasima, controllata dagli ariani, non sarebbe stato semplice). Più dell'amico può la famiglia: a Nazianzo c'è bisogno di lui, il padre è troppo anziano, Greg gli dà una mano ma alla sua morte (374) si ritira nel monastero di Santa Tecla, forse per evitare che a qualcuno venga in mente di offrire al figlio l'incarico del padre. In questo modo però si ritrova libero da grossi incarichi e incapace di dire di no quando cinque anni più tardi Basilio gli chiede di sedere sulla cattedra più scomoda di tutte, quella di Costantinopoli. In effetti nella capitale gli ariani sono la maggioranza, e anche se il nuovo imperatore Teodosio si è schierato dalla parte dei cristiani ortodossi, salire sulla cattedra scortato dalle guardie imperiali è oggettivamente rischioso.
D'altro canto, dire di no a Basilio sarebbe come tradire la Trinità, e quindi il raffinato scrittore si ritrova in prima linea contro gli ariani, che non piacciono più all'imperatore ma in compenso hanno il polso del popolo. Contro di loro, Gregorio impugna tutta la sua eloquenza in un ciclo di omelie che sono considerate il suo capolavoro – anche se il brano per cui in assoluto è più citato non l'ha scritto lui, ma il suo collega e amico Gregorio di Nissa. In un modo o nell'altro riesce a conservare la cattedra fino al concilio ecumenico del 381: la sua intenzione era approfittare del concilio per sottoporre la sua nomina all'assemblea dei vescovi, e invece si ritrova a sorpresa a dirigerne i lavori perché l'unico prelato che lo sopravanza in prestigio, l'arcivescovo di Antiochia, nel frattempo è morto. Bisogna eleggerne un altro, il che richiede grandi doti di mediazione e forse Greg non le ha, o non vuole più averle, insomma quando i rappresentanti di una fazione avversa mettono in dubbio la legittimità della sua carica, visto che si era arcivescovocostantinopolizzato quando era ancora formalmente vescovo di Sasima, invece di ridergli in faccia (a Sasima non ci era proprio mai entrato), scrive una grossa tirata contro le divisioni della Chiesa e si disarcivescovocostantinopolizza seduta stante. Aveva da poco passato la cinquantina: si ritirò a Nazianzo, dove finalmente lo lasciarono studiare e scrivere in pace. Morì sei anni più tardi, disarcivescovocostantinopolizzato e felice (questo pezzo è stato scritto senza copia-incolla).