La sacra acqua degli himba
Epupa Falls, Namibia - Nelle regioni settentrionali della Namibia, nell’arida regione del Kaokoland, tra la vasta e polverosa piana dell’Etosha a sud, e le sconfinate foreste pluviali dell’Angola a nord, vive il popolo degli himba.
Gli herero, con i quali condividono la lingua ma non certo i costumi, antepongono al nome “himba”, il popolo, l’aggettivo “ova”, medicanti, che dà il termine “ovahimba”, ovverosia popolo di mendicati, con il quale sono denominati in Namibia. Ancora oggi gli herero occidentalizzati rinfacciano agli himba di aver abbandonato circa un secolo e mezzo fa, per paura delle aggressioni delle tribù dei nama, la terra degli avi e aver attraversato il sacro fiume Kunene per chiedere ospitalità alle tribù boscimani delle quali successivamente adottarono e rielaborarono gli stili di vita. Così che, quando, nel 1920, ritornarono nella terra natia, gli himba portarono con sé usi e costumi completamente diversi da quelli con i quali erano partiti.
L’esilio in terra boscimana permise al popolo himba di evitare l’occidentalizzazione forzata imposta dai colonizzatori tedeschi che, al contrario, fece piazza pulita dell’antica cultura herero al pari delle altre culture native del territorio occupato. Oggi, con una “tradizione” risalente tutt’al più al tardo ‘800, gli himba sono probabilmente il gruppo etnico più “moderno” che cammina su questa nostra terra.
I circa mille e cento himba ancora rimasti sono prevalentemente nomadi e pastori. Gli uomini seguono le vacche in lunghe transumanze che possono durare anche varie settimane. Le donne fanno tutto il resto: allevano capre e pollame, curano i bambini, raccolgono gli ortaggi, costruiscono le capanne con argilla, legno e sterco, cuociono e conservano il cibo, realizzano manufatti, si occupano della medicina tradizionale e delle pratiche religiose. Al centro dei villaggi himba, brucia sempre l’okuruwo, il fuoco sacro che con il suo bagliore allontana i cattivi demoni che avvelenano i cuori degli uomini e fanno ammalare i bambini. Ad aver cura giorno e notte del piccolo falò, che serve anche a far bollire le farine, è sempre una sciamana donna, scelta tra le più anziane della tribù.
Fino a poco tempo fa, una parte importante nella vita quotidiana degli himba, sia pure non paragonabile all’allevamento, ce l’aveva anche l’agricoltura. L’inverno tropicale portava con sé le “piccole piogge” che fecondavano la terra inaridita. Era il tempo della semina in attesa che le successive “grandi piogge” facessero germogliare e crescere i raccolti. Ma nel giro di due generazioni, mi ha raccontato una donna himba, tutto è cambiato. Le piccole piogge sono sempre più povere e più distanti. Le grandi piogge arrivano copiose, violente ed improvvise, non portano la vita ma allagamenti e disastri, sino ad isolare l’intera regione per un paio di mesi all’anno. Lei non può saperlo, ma in poche parole mi ha descritto il Climate Change, meglio di un rapporto dell’Ipcc. I villaggi himba hanno come base sociale un nucleo familiare allargato. Ogni uomo può sposare più donne: il primo matrimonio viene sempre combinato dagli anziani, per i successivi è necessario il consenso sia dello sposo che della sposa. Solo le donne possono possedere una capanna. Gli sposi debbono chiedere sempre il consenso alla moglie per dormirci la notte. In compenso, soltanto agli uomini maritati è consentito adoperare una sorta di scomodissimo cuscino “poggiatesta” in legno che gli himba considerato il massimo della comodità e il primo dei vantaggi della vita coniugale. L’acqua per gli himba, è sacra. Solo agli uomini sposati è consentito lavarsi. E soltanto come preparazione alle cerimonie religiose in particolari periodi dell’anno. Le donne si prendono cura del proprio corpo - operazione piuttosto complessa e per la quale impiegano buona parte della giornata - cospargendosi con una mistura di grasso di vacca, burro di capra, terra d’ocra, argilla più qualcos’altro (che ad un uomo come me pare che possa essere rivelato). Con una simile mistura che dona loro quel caratteristico colore rosso scuro, intrecciano anche i lunghi capelli. Le donne si limitano ad indossare per lo più un corto gonnellino ma non trascurano mai di ornarsi con grossi bracciali, lunghe collane e pesantissimi paramenti.
Va sottolineato che gli himba, non ignorano l’occidentalizzazione. Semplicemente la rifiutano. Ad Epupa o a Ondangwa, è consueto di vedere donne himba fare la fila nei supermercati o bersi una birra in un bar. Non di rado, la tribù possiede un furgone o comunque un mezzo meccanico per portare nei mercatini i loro prodotti artigianali, pur se non c’è verso di chiedergli la patente o l’immatricolazione. D’altronde, da queste parti non ci sono neppure strade così come le intendiamo noi. In certi casi, i capi tribù si rivolgono ad avvocati per tutelare i loro diritti e indicono frequenti conferenze stampa per denunciare le costanti pressioni omologative del governo centrale.
In una recente intervista alla Bbc, il ministro namibiano Hidipo Hamutenya ha spiegato che gli Himba “devono abbandonare le loro usanze e imparare a indossare camicie, cravatte e giacche come me e come tutti gli altri» e ha denunciato “l’ipocrisia dei soliti europei che vorrebbero che questa gente continuasse a vivere come bestie per soddisfare la proprie malsane curiosità”. A parte il fatto che gli himba non vivono come bestie e sono perfettamente in grado di compiere le loro scelte, l’attacco del ministro Hamutenya che, non a caso, ha la delega allo “sviluppo economico”, è una conseguenza della lotta che da anni la popolazione himba conduce contro il progetto di una enorme diga sulle Epupa Falls che priverebbe il Kaokoland dell’acqua necessaria al sostentamento dei villaggi indigeni, himba e non himba. Come denunciato da varie organizzazioni ambientaliste africane ed europee, d’altro non si tratta che del solito ecomostro dall’inaudito impatto ambientale e sociale che certo non serve al fabbisogno energetico della regione, già ampiamente soddisfatto, ma alle esigenze delle multinazionali petrolifere che, poco più a nord, stanno devastando le foreste pluviali. Un altro bell’esempio di capitalismo predatorio: un disastro ecologico per alimentare un altro disastro ecologico. Povertà e miseria per pagare altra povertà e miseria. E’ questa l’occidentalizzazione che gli himba rifiutano. Non è una villa a Beverly Hills, ciò che questo cosiddetto “sviluppo economico“ porterebbe loro, ma un letto di cartone ai bordi di una dei tanti “slum” africani.
L’esilio in terra boscimana permise al popolo himba di evitare l’occidentalizzazione forzata imposta dai colonizzatori tedeschi che, al contrario, fece piazza pulita dell’antica cultura herero al pari delle altre culture native del territorio occupato. Oggi, con una “tradizione” risalente tutt’al più al tardo ‘800, gli himba sono probabilmente il gruppo etnico più “moderno” che cammina su questa nostra terra.
I circa mille e cento himba ancora rimasti sono prevalentemente nomadi e pastori. Gli uomini seguono le vacche in lunghe transumanze che possono durare anche varie settimane. Le donne fanno tutto il resto: allevano capre e pollame, curano i bambini, raccolgono gli ortaggi, costruiscono le capanne con argilla, legno e sterco, cuociono e conservano il cibo, realizzano manufatti, si occupano della medicina tradizionale e delle pratiche religiose. Al centro dei villaggi himba, brucia sempre l’okuruwo, il fuoco sacro che con il suo bagliore allontana i cattivi demoni che avvelenano i cuori degli uomini e fanno ammalare i bambini. Ad aver cura giorno e notte del piccolo falò, che serve anche a far bollire le farine, è sempre una sciamana donna, scelta tra le più anziane della tribù.
Fino a poco tempo fa, una parte importante nella vita quotidiana degli himba, sia pure non paragonabile all’allevamento, ce l’aveva anche l’agricoltura. L’inverno tropicale portava con sé le “piccole piogge” che fecondavano la terra inaridita. Era il tempo della semina in attesa che le successive “grandi piogge” facessero germogliare e crescere i raccolti. Ma nel giro di due generazioni, mi ha raccontato una donna himba, tutto è cambiato. Le piccole piogge sono sempre più povere e più distanti. Le grandi piogge arrivano copiose, violente ed improvvise, non portano la vita ma allagamenti e disastri, sino ad isolare l’intera regione per un paio di mesi all’anno. Lei non può saperlo, ma in poche parole mi ha descritto il Climate Change, meglio di un rapporto dell’Ipcc. I villaggi himba hanno come base sociale un nucleo familiare allargato. Ogni uomo può sposare più donne: il primo matrimonio viene sempre combinato dagli anziani, per i successivi è necessario il consenso sia dello sposo che della sposa. Solo le donne possono possedere una capanna. Gli sposi debbono chiedere sempre il consenso alla moglie per dormirci la notte. In compenso, soltanto agli uomini maritati è consentito adoperare una sorta di scomodissimo cuscino “poggiatesta” in legno che gli himba considerato il massimo della comodità e il primo dei vantaggi della vita coniugale. L’acqua per gli himba, è sacra. Solo agli uomini sposati è consentito lavarsi. E soltanto come preparazione alle cerimonie religiose in particolari periodi dell’anno. Le donne si prendono cura del proprio corpo - operazione piuttosto complessa e per la quale impiegano buona parte della giornata - cospargendosi con una mistura di grasso di vacca, burro di capra, terra d’ocra, argilla più qualcos’altro (che ad un uomo come me pare che possa essere rivelato). Con una simile mistura che dona loro quel caratteristico colore rosso scuro, intrecciano anche i lunghi capelli. Le donne si limitano ad indossare per lo più un corto gonnellino ma non trascurano mai di ornarsi con grossi bracciali, lunghe collane e pesantissimi paramenti.
Va sottolineato che gli himba, non ignorano l’occidentalizzazione. Semplicemente la rifiutano. Ad Epupa o a Ondangwa, è consueto di vedere donne himba fare la fila nei supermercati o bersi una birra in un bar. Non di rado, la tribù possiede un furgone o comunque un mezzo meccanico per portare nei mercatini i loro prodotti artigianali, pur se non c’è verso di chiedergli la patente o l’immatricolazione. D’altronde, da queste parti non ci sono neppure strade così come le intendiamo noi. In certi casi, i capi tribù si rivolgono ad avvocati per tutelare i loro diritti e indicono frequenti conferenze stampa per denunciare le costanti pressioni omologative del governo centrale.
In una recente intervista alla Bbc, il ministro namibiano Hidipo Hamutenya ha spiegato che gli Himba “devono abbandonare le loro usanze e imparare a indossare camicie, cravatte e giacche come me e come tutti gli altri» e ha denunciato “l’ipocrisia dei soliti europei che vorrebbero che questa gente continuasse a vivere come bestie per soddisfare la proprie malsane curiosità”. A parte il fatto che gli himba non vivono come bestie e sono perfettamente in grado di compiere le loro scelte, l’attacco del ministro Hamutenya che, non a caso, ha la delega allo “sviluppo economico”, è una conseguenza della lotta che da anni la popolazione himba conduce contro il progetto di una enorme diga sulle Epupa Falls che priverebbe il Kaokoland dell’acqua necessaria al sostentamento dei villaggi indigeni, himba e non himba. Come denunciato da varie organizzazioni ambientaliste africane ed europee, d’altro non si tratta che del solito ecomostro dall’inaudito impatto ambientale e sociale che certo non serve al fabbisogno energetico della regione, già ampiamente soddisfatto, ma alle esigenze delle multinazionali petrolifere che, poco più a nord, stanno devastando le foreste pluviali. Un altro bell’esempio di capitalismo predatorio: un disastro ecologico per alimentare un altro disastro ecologico. Povertà e miseria per pagare altra povertà e miseria. E’ questa l’occidentalizzazione che gli himba rifiutano. Non è una villa a Beverly Hills, ciò che questo cosiddetto “sviluppo economico“ porterebbe loro, ma un letto di cartone ai bordi di una dei tanti “slum” africani.