Mapuche, il diritto alla terra non è una sfilata di moda
Sulla strada che da San Carlos de Bariloche scende a sud, verso la cittadina di Esquel, nella cuore della provincia del Chubut, c’è un museo. Un bel museo, a dir la verità. Sale ampie e ben illuminate, ricche di coloratissimi pannelli interattivi e di interessanti reperti storici. Un museo realizzato con criteri espositivi moderni, come non ne ho mai visitato in Argentina. La grande insegna stradale che indica al viaggiatore la sua presenza, è stata realizzata niente di meno che da Oliviero Toscani e rappresenta un anziano indigeno dall’espressione tanto saggia quanto triste.
IL MUSEO, CHE COME AVRETE capito è una creatura di Benetton, è interamente dedicato ai mapuche, il «pueblo desaparecido» che abitava queste immense terre di Patagonia prima che il generale Julio Argentino Roca scendesse da Buenos Aires con cannoni, fucili, preti ed esorcisti per civilizzare e cristianizzare quest’ultimo angolo di mondo ancora scampato alla colonizzazione. La «conquista del deserto», così è chiamata questa campagna militare che nei libri di storia argentina viene ancora oggi dipinta con i colori dell’orgoglio nazionalista, cominciò nel 1870 e si concluse 14 anni dopo con la resa degli ultimi due caciques ribelli: Inacayal e Foyel. Chi ha la pazienza di leggere le tavole esplicative del museo, apprende che gli ultimi mapuche sopravvissuti allo sterminio civilizzatore furono costretti a riparare nel Cile, dove ancora vivono i pochi discendenti di un popolo saggio e fiero che la storia ha spazzato via dalle terre ad oriente delle grande Cordigliera delle Ande.
PER RENDERSI CONTO CHE LE TAVOLE del museo Benetton non la raccontano proprio come sta, basta salire per qualche chilometro verso nord, seguendo quella magica Ruta 40 che, per chi si è innamorato dei libri di Chatwin e di Sepulveda, ha l’emozionante sapore dell’avventura. Proprio sul bivio sterrato che conduce al paese di El Maiten, il viaggiatore non può fare a meno di imbattersi in un enorme cartellone. Sotto la scritta «La libertad se defiende», Santiago Maldonado, col volto semicoperto da un paliacate, ti guarda dritto negli occhi. Ai piedi del cartellone, troviamo un altarino dedicato alla divinità più venerata dai rivoluzionari del Sudamerica: la Virgen de Las Barricadas, la Madonna delle Barricate, comunemente rappresentata col viso protetto da una maschera antigas.
PROPRIO A POCHI METRI DA QUI, nel vicino rio Chubut, il 17 ottobre del 2017, fu ritrovato il corpo di Santiago, desaparecido dal 1 agosto di quell’anno in seguito ad una operazione di polizia nei confronti del Pu Lof – «comunità» in lingua mapuche – de la Resistencia di Cushamen, che aveva recuperato uno dei tantissimi terreni rivendicati come proprietà da Benetton.
Santiago non era un mapuche, ma un attivista per i diritti umani della provincia di Buenos Aires. Da qualche anno si era trasferito a El Bolson, nella provincia del Chubut, dove lavorava come artigiano ed aveva preso a cuore le rivendicazioni dei popoli originari. Per la giustizia argentina, Santiago è morto annegato nel tentativo di guadare il rio Chubut per fuggire le cariche della gendarmeria e rimasto là, impigliato nella vegetazione della sponda del rio, sino al suo ritrovamento. Una versione che contrasta con quanto hanno affermato molti testimoni che avrebbero visto il 28enne argentino, essere caricato a forza in una camionetta della polizia. Sebastián, un pastore mapuche, mi ha accompagnato a vedere il luogo del ritrovamento. Sono andato ad incontrarlo nel Pul Of di Cushamen. «Se Santiago fosse stato qui prima del 17 ottobre lo avremmo visto. È un guado che usiamo spesso per raggiungere l’altra parte del rio», mi spiega. D’altra parte, anche la perizia medica che il corpo non era nelle condizioni di chi è rimasto nell’acqua per oltre due mesi e mezzo.
IL CASO DI MALDONADO SCOSSE l’opinione pubblica perché, 34 anni dopo la caduta delle sanguinosa dittatura militare, il Paese si ritrovava a rivivere l’incubo di una sparizione forzate. Le migliaia di pietre di inciampo «ni olvido, ni perdon» – non dimentichiamo, non perdoniamo – che a Buenos Aires come nelle altre città argentine commemorano l’orrore dei desaparecidos sembravano urlare «mai più». Manifestazioni che chiedevano giustizia e verità, si svolsero in tutta la Repubblica e furono anche cavalcate dall’opposizione per scalzare Mauricio Macri dal Governo. Ancora oggi, la sua immagine viene disegnata sui muri e volantini che chiedono «verità e giustizia» sono appesi in tutte le città della Patagonia argentina, così come nella sua nativa Buenos Aires.
MALDONADO, ABBIAMO DETTO, non era un mapuche ma un ragazzo di Buenos Aires. I morti mapuche non destano lo stesso scalpore. Anche se sono tanti. Rubén – nome di fantasia – ha il cappuccio nero e mi chiede di non fotografarlo. Lo trovo che fa la guardia al Lof Lafken Wilkul Mapu. Ha un corno con cui segnala ai compagni e alle compagne mapuche che lavorano nei campi, più a monte, l’arrivo di militari o di gendarmi.«Arrivano quasi tutte le sere. Qualche volta si fanno solo vedere, altre volte attaccano. Qualche giorno fa hanno ferito un bambino di dieci anni. Noi continuiamo a resistere. Questa terra è nostra». Il Lof di Rubén, altro terreno recuperato ai latifondisti, si trova sulla sponda dell’omonimo lago e ti regala un panorama che ti toglie il respiro, di quelli che solo in Patagonia puoi vedere. «L’altra parte del lago è tutta perduta – mi spiega – Il Governo ha istituito un ente parco che, con la scusa di tutelare il territorio, l’ha regalata ai privati che la riempiranno di alberghi per ricchi turisti. Hanno già recintato tutto. Ma noi qui resistiamo».
I RECINTI, APPUNTO. Nella Patagonia argentina, o meglio, Wallmapu, come la chiamano i nativi, quelli che continuano ad esistere pure se Benetton e Toscani affermano di no, i latifondisti hanno messo tanto di quel filo spinato da farci due volte il giro della Terra. Tutte le strade, tutti i sentieri delle provincie del Rio Negro o del Chubut, sino all’entrata delle cittadine, corrono tra tra due linee ininterrotte di filo spinato. Per i mapuche, che vivono di pastorizia errante, significa morte. Morte del lavoro, morte della comunità, morte individuale, morte della cultura e delle tradizioni.
LA SVENDITA DELLA PATAGONIA è cominciata nel 1996, quando il Governo di Carlos Menem, decise di aprire le porte al liberalismo più sfrenato e di seguire i consigli del Fondo Monetario internazionale, privatizzando tutto quello che si poteva privatizzare. Il «surplus di terra» – secondo le parole dell’allora presidente – della Patagonia fu svenduto prezzo di realizzo senza considerare le popolazioni native che lì vivevano, come ripetono da queste parti, sin dall’ Once de Octubre, dall’11 di ottobre. Cioè da prima che Colombo scoprisse il continente! Il maggior acquirente fu il nostro Luciano Benetton che mise la sua bandiera di novello conquistadore su 924 mila ettari di terreno. Come dire più di mezzo Veneto. Ma in realtà sono molti di più perché ci sono intere aree che, pur non essendo di proprietà di Benetton, sono interamente circondate dai suoi possedimenti e quindi inagibili per i pastori mapuche. Intere comunità hanno dovuto abbandonare le loro case perché circondate dai possedimenti di Benetton che impediva loro di accedere all’acqua dei fiumi.
QUESTI IMMENSI LATIFONDI SONO stati trasformati dall’azienda trevigiana in pascolo per 260 mila pecore da lana e 16 mila bovini da carne. Inoltre sono stati piantati ettari di alberi da legna ad alto rendimento. Specie alloctone che hanno devastato l’ecosistema. Come se non bastasse, negli ultimi anni, la Benetton ha dato il via allo sfruttamento di giacimenti di oro e di altri minerali preziosi attraverso la Compañia Mineras Sur Argentino.
I MAPUCHE HANNO REAGITO a quella cosa per loro inconcepibile che è stata la vendita della terra e dell’acqua che danno nutrimento a tutti i figli di Wallmapu, abbattendo il filo spinato e recuperando i terreni alle comunità. Ma questo significa resistere ai continui tentativi di sgombero da parte della polizia o delle milizie private che Benetton ha istituito per difendere le sue proprietà. «Senza uno stretto rapporto con la madre terra – spiega il lonko, capo spirituale, Mauro Milan – un mapuche non esiste. Noi non lottiamo soltanto per difendere i pascoli necessari alla sopravvivenza della comunità. Noi stessi siamo la terra e l’acqua che difendiamo. Noi stessi siamo questo vento che su Wallmapu non cessa mai di soffiare».
Un campeggio contro il «terricidio» nel solco di Greta
Quattro giorni di incontri all’aria aperta in un paesino del Chubut, per discutere di clima, ambiente e «buen vivir», con una delegazione di attivisti italiani
Non solo operazioni di «recupero» delle terre svendute dal Governo ai grandi latifondisti per restituirle alle comunità. I mapuche combattono anche una battaglia culturale contro quello che chiamano il «terricidio», cioè la distruzione sistematica non solo degli ecosistemi tangibili e di tutte le forme di vita che li abitano ma anche dell'ecosistema spirituale dei popoli. L’ultimo e definitivo crimine del capitalismo, commesso non soltanto contro l’umanità ma contro lo stesso pianeta terra. «Pueblos Contra El Terricidio» è stato il tema portante del «Campamento climatico» che si è svolto a metà febbraio nel territorio recuperato di Pillañ Mauhiza, ad un paio d’ore di cammino dalla cittadina di Cordovado, nella provincia del Chubut. Quattro giorni di in- contri all’aria aperta, che hanno visto la partecipazione di oltre 200 tra attiviste e attiviste in rappresentanza di tanti popoli originari del Sudamerica, dal Brasile al Paraguay, dal Cile al- la Bolivia. All’evento, organizzato dal Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir, hanno partecipato anche 25 giovani italiani condotti dall’associazione Ya Basta Êdî Bese, con rappresentanze di Fridays For Future e di Non Una DI Meno. Il Campa- mento mapuche infatti è stato una idea- le continuazione del Climate Camp, svoltosi al Lido di Venezia i primi di settembre e conclusosi con la simbolica occupazione del tappeto rosso della Mostra del Cinema. Al Climate Camp lagunare aveva partecipato infatti Moira Millan, portavoce del Movimiento de Mujeres Indígenas, che ha voluto replicare l’esperienza in Argentina. «La presenza di attiviste e attivisti internazionali - ha spiegato - è fondamentale per tenere viva l’attenzione del mondo sulla battaglia che il nostro popolo conduce contro un capitalismo che sta uccidendo la terra. In questo senso, la laguna di Venezia e la cordigliera delle Ande sono meno lontani di quello che potrebbe sembrare perché il pianeta è uno solo e, come dicono le ragazze di FfF, non ne abbiamo uno di riserva».
PER RENDERSI CONTO CHE LE TAVOLE del museo Benetton non la raccontano proprio come sta, basta salire per qualche chilometro verso nord, seguendo quella magica Ruta 40 che, per chi si è innamorato dei libri di Chatwin e di Sepulveda, ha l’emozionante sapore dell’avventura. Proprio sul bivio sterrato che conduce al paese di El Maiten, il viaggiatore non può fare a meno di imbattersi in un enorme cartellone. Sotto la scritta «La libertad se defiende», Santiago Maldonado, col volto semicoperto da un paliacate, ti guarda dritto negli occhi. Ai piedi del cartellone, troviamo un altarino dedicato alla divinità più venerata dai rivoluzionari del Sudamerica: la Virgen de Las Barricadas, la Madonna delle Barricate, comunemente rappresentata col viso protetto da una maschera antigas.
PROPRIO A POCHI METRI DA QUI, nel vicino rio Chubut, il 17 ottobre del 2017, fu ritrovato il corpo di Santiago, desaparecido dal 1 agosto di quell’anno in seguito ad una operazione di polizia nei confronti del Pu Lof – «comunità» in lingua mapuche – de la Resistencia di Cushamen, che aveva recuperato uno dei tantissimi terreni rivendicati come proprietà da Benetton.
Santiago non era un mapuche, ma un attivista per i diritti umani della provincia di Buenos Aires. Da qualche anno si era trasferito a El Bolson, nella provincia del Chubut, dove lavorava come artigiano ed aveva preso a cuore le rivendicazioni dei popoli originari. Per la giustizia argentina, Santiago è morto annegato nel tentativo di guadare il rio Chubut per fuggire le cariche della gendarmeria e rimasto là, impigliato nella vegetazione della sponda del rio, sino al suo ritrovamento. Una versione che contrasta con quanto hanno affermato molti testimoni che avrebbero visto il 28enne argentino, essere caricato a forza in una camionetta della polizia. Sebastián, un pastore mapuche, mi ha accompagnato a vedere il luogo del ritrovamento. Sono andato ad incontrarlo nel Pul Of di Cushamen. «Se Santiago fosse stato qui prima del 17 ottobre lo avremmo visto. È un guado che usiamo spesso per raggiungere l’altra parte del rio», mi spiega. D’altra parte, anche la perizia medica che il corpo non era nelle condizioni di chi è rimasto nell’acqua per oltre due mesi e mezzo.
IL CASO DI MALDONADO SCOSSE l’opinione pubblica perché, 34 anni dopo la caduta delle sanguinosa dittatura militare, il Paese si ritrovava a rivivere l’incubo di una sparizione forzate. Le migliaia di pietre di inciampo «ni olvido, ni perdon» – non dimentichiamo, non perdoniamo – che a Buenos Aires come nelle altre città argentine commemorano l’orrore dei desaparecidos sembravano urlare «mai più». Manifestazioni che chiedevano giustizia e verità, si svolsero in tutta la Repubblica e furono anche cavalcate dall’opposizione per scalzare Mauricio Macri dal Governo. Ancora oggi, la sua immagine viene disegnata sui muri e volantini che chiedono «verità e giustizia» sono appesi in tutte le città della Patagonia argentina, così come nella sua nativa Buenos Aires.
MALDONADO, ABBIAMO DETTO, non era un mapuche ma un ragazzo di Buenos Aires. I morti mapuche non destano lo stesso scalpore. Anche se sono tanti. Rubén – nome di fantasia – ha il cappuccio nero e mi chiede di non fotografarlo. Lo trovo che fa la guardia al Lof Lafken Wilkul Mapu. Ha un corno con cui segnala ai compagni e alle compagne mapuche che lavorano nei campi, più a monte, l’arrivo di militari o di gendarmi.«Arrivano quasi tutte le sere. Qualche volta si fanno solo vedere, altre volte attaccano. Qualche giorno fa hanno ferito un bambino di dieci anni. Noi continuiamo a resistere. Questa terra è nostra». Il Lof di Rubén, altro terreno recuperato ai latifondisti, si trova sulla sponda dell’omonimo lago e ti regala un panorama che ti toglie il respiro, di quelli che solo in Patagonia puoi vedere. «L’altra parte del lago è tutta perduta – mi spiega – Il Governo ha istituito un ente parco che, con la scusa di tutelare il territorio, l’ha regalata ai privati che la riempiranno di alberghi per ricchi turisti. Hanno già recintato tutto. Ma noi qui resistiamo».
I RECINTI, APPUNTO. Nella Patagonia argentina, o meglio, Wallmapu, come la chiamano i nativi, quelli che continuano ad esistere pure se Benetton e Toscani affermano di no, i latifondisti hanno messo tanto di quel filo spinato da farci due volte il giro della Terra. Tutte le strade, tutti i sentieri delle provincie del Rio Negro o del Chubut, sino all’entrata delle cittadine, corrono tra tra due linee ininterrotte di filo spinato. Per i mapuche, che vivono di pastorizia errante, significa morte. Morte del lavoro, morte della comunità, morte individuale, morte della cultura e delle tradizioni.
LA SVENDITA DELLA PATAGONIA è cominciata nel 1996, quando il Governo di Carlos Menem, decise di aprire le porte al liberalismo più sfrenato e di seguire i consigli del Fondo Monetario internazionale, privatizzando tutto quello che si poteva privatizzare. Il «surplus di terra» – secondo le parole dell’allora presidente – della Patagonia fu svenduto prezzo di realizzo senza considerare le popolazioni native che lì vivevano, come ripetono da queste parti, sin dall’ Once de Octubre, dall’11 di ottobre. Cioè da prima che Colombo scoprisse il continente! Il maggior acquirente fu il nostro Luciano Benetton che mise la sua bandiera di novello conquistadore su 924 mila ettari di terreno. Come dire più di mezzo Veneto. Ma in realtà sono molti di più perché ci sono intere aree che, pur non essendo di proprietà di Benetton, sono interamente circondate dai suoi possedimenti e quindi inagibili per i pastori mapuche. Intere comunità hanno dovuto abbandonare le loro case perché circondate dai possedimenti di Benetton che impediva loro di accedere all’acqua dei fiumi.
QUESTI IMMENSI LATIFONDI SONO stati trasformati dall’azienda trevigiana in pascolo per 260 mila pecore da lana e 16 mila bovini da carne. Inoltre sono stati piantati ettari di alberi da legna ad alto rendimento. Specie alloctone che hanno devastato l’ecosistema. Come se non bastasse, negli ultimi anni, la Benetton ha dato il via allo sfruttamento di giacimenti di oro e di altri minerali preziosi attraverso la Compañia Mineras Sur Argentino.
I MAPUCHE HANNO REAGITO a quella cosa per loro inconcepibile che è stata la vendita della terra e dell’acqua che danno nutrimento a tutti i figli di Wallmapu, abbattendo il filo spinato e recuperando i terreni alle comunità. Ma questo significa resistere ai continui tentativi di sgombero da parte della polizia o delle milizie private che Benetton ha istituito per difendere le sue proprietà. «Senza uno stretto rapporto con la madre terra – spiega il lonko, capo spirituale, Mauro Milan – un mapuche non esiste. Noi non lottiamo soltanto per difendere i pascoli necessari alla sopravvivenza della comunità. Noi stessi siamo la terra e l’acqua che difendiamo. Noi stessi siamo questo vento che su Wallmapu non cessa mai di soffiare».
Un campeggio contro il «terricidio» nel solco di Greta
Quattro giorni di incontri all’aria aperta in un paesino del Chubut, per discutere di clima, ambiente e «buen vivir», con una delegazione di attivisti italiani
Non solo operazioni di «recupero» delle terre svendute dal Governo ai grandi latifondisti per restituirle alle comunità. I mapuche combattono anche una battaglia culturale contro quello che chiamano il «terricidio», cioè la distruzione sistematica non solo degli ecosistemi tangibili e di tutte le forme di vita che li abitano ma anche dell'ecosistema spirituale dei popoli. L’ultimo e definitivo crimine del capitalismo, commesso non soltanto contro l’umanità ma contro lo stesso pianeta terra. «Pueblos Contra El Terricidio» è stato il tema portante del «Campamento climatico» che si è svolto a metà febbraio nel territorio recuperato di Pillañ Mauhiza, ad un paio d’ore di cammino dalla cittadina di Cordovado, nella provincia del Chubut. Quattro giorni di in- contri all’aria aperta, che hanno visto la partecipazione di oltre 200 tra attiviste e attiviste in rappresentanza di tanti popoli originari del Sudamerica, dal Brasile al Paraguay, dal Cile al- la Bolivia. All’evento, organizzato dal Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir, hanno partecipato anche 25 giovani italiani condotti dall’associazione Ya Basta Êdî Bese, con rappresentanze di Fridays For Future e di Non Una DI Meno. Il Campa- mento mapuche infatti è stato una idea- le continuazione del Climate Camp, svoltosi al Lido di Venezia i primi di settembre e conclusosi con la simbolica occupazione del tappeto rosso della Mostra del Cinema. Al Climate Camp lagunare aveva partecipato infatti Moira Millan, portavoce del Movimiento de Mujeres Indígenas, che ha voluto replicare l’esperienza in Argentina. «La presenza di attiviste e attivisti internazionali - ha spiegato - è fondamentale per tenere viva l’attenzione del mondo sulla battaglia che il nostro popolo conduce contro un capitalismo che sta uccidendo la terra. In questo senso, la laguna di Venezia e la cordigliera delle Ande sono meno lontani di quello che potrebbe sembrare perché il pianeta è uno solo e, come dicono le ragazze di FfF, non ne abbiamo uno di riserva».