Una sentenza tedesca per non dimenticare il genocidio degli yazidi
Quello degli yazidi è stato un genocidio silenzioso, compiuto nell’indifferenza dell’Europa che non ha saputo, voluto o potuto intervenire. Ma proprio da questa Europa è arrivato un segnale di giustizia. Un jihadista iracheno è stato condannato all’ergastolo dall’Alto Tribunale regionale di Francoforte per genocidio. L’uomo aveva torturato una donna yazida e la sua bambina di cinque anni, lasciata morire di caldo e di sete. “È un’iniziativa giudiziaria coraggiosa”, spiega l’avvocata della Corte internazionale di giustizia Maria Stefania Cataleta.
Alcune correnti islamiche li chiamano “spegnitori di lampade”, alludendo ad una supposta promiscuità sessuale che praticherebbero negli oscuri anfratti in cui celebrano i loro riti religiosi. Altri – sunniti, cristiani e non solo – li etichettano, senza se e senza ma, come “adoratori del diavolo”. In realtà gli yazidi non sono nulla di tutto questo.
Ho viaggiato nel loro Paese nel 2013, un anno prima che il Califfato conquistasse Mosul e da qui invadesse le valli yazide, compiendo stragi ed infliggendo inimmaginabili torture a donne e bambini.
Da Erbil, nel cuore del Kurdistan iracheno, ho raggiunto Lalish, la città sacra degli yazidi, in un paio di ore di auto nel deserto, viaggiando tra ambulanze della Mezzaluna Rossa e mezzi militari peshmerga che sfrecciavano da tutte le parti. Mi sono tenuto il più possibile ad est, evitando la pista più diretta che correva troppo vicina alla città di Mosul dove già tirava una brutta aria.
A Lalish invece la gente era tutta per strada perché si celebrava non ricordo più quale anniversario dello sceicco Adi, figura cardine nella fede yazida, che è sepolto proprio nella cittadina. Donne – molte senza il velo in testa – e uomini in pellegrinaggio erano vestiti con abiti colorati e portavano stoffe leggere e lunghi fazzoletti di seta che pareva reggessero in mano piccoli arcobaleni. Entravano dentro una sorta di lunga e labirintica catacomba tutta coperta di bassorilievi che raffiguravano angeli caduti e risaliti in cielo, e il dio Pavone dalla grande coda. Qua e là, uomini dall’aspetto austero, accovacciati in bassi anfratti, ricevevano offerte di cibo o di denaro. I fazzoletti colorati venivano usati per adornare le tombe davanti alle quali i fedeli sostavano per pregare e fare dei piccoli nodi. La processione era tutt’altro che silenziosa e di tanto in tanto donne, uomini e bambini urlavano improvvisamente, emettendo un’irripetibile e gioioso grido di gola che doveva servire ad attirare l’attenzione della divinità.
Tra tutti i luoghi sacri che ho visitato – e non parlo solo di Medio Oriente ma anche di santuari cristiani e templi induisti e buddisti – questo è stato l’unico in cui mi è stato permesso di andarmene a curiosare dove volevo, come volevo e di parlare con tutti coloro che incontravo. Eppure, da secoli gli yazidi sono stati circondati da una fama che definire sinistra è dire poco. Odiati dai musulmani perché non hanno mai seguito i precetti di Maometto, aborriti dai cristiani che leggono nel loro Pavone, scacciato dal paradiso da un dio vendicativo, una manifestazione satanica. Anche Wikipedia li giudica con una certa supponenza: “Gli yazidi sono piuttosto diffidenti verso gli appartenenti ad altre religioni e gran parte del loro credo è caratterizzato da un’accentuata riservatezza”. Ma l’unica cortesia che mi hanno chiesto con un sorriso, prima che entrassi nel loro tempio, era di lasciare le scarpe all’entrata.
“Siamo un popolo perseguitato da sempre e da tutti – mi ripetevano –. Ma oggi il pericolo è ancora più grande perché abbiamo l’Isis alle porte. Se arriveranno sin qui ci massacreranno senza pietà. Abbiamo paura. Lo dica, quando tornerà in Europa”.
L’Isis è arrivato qualche mese dopo il mio viaggio a Lalish, il 3 agosto 2014. E come annunciato è arrivata anche la strage. Senza pietà. I numeri, per quel che valgono, sono ancora approssimativi. 400 mila profughi sono riusciti a fuggire riparando ad est, nel territorio controllato dai curdi (gli yazidi sono una comunità religiosa di etnia curda). Qui, molte donne yazide si sono arruolate nell’esercito curdo e hanno combattuto i fascisti dello Stato Islamico a costo della vita. Ma almeno 5000 civili, uomini, donne e anche bambini, furono torturati e massacrati. Di altre 2800 persone, in particolare giovani donne, non sono state trovate tracce.
“Un vero e proprio genocidio perpetrato con straordinaria sistematicità e rapidità, sorretto da un’ideologia totalitaria – spiega l’avvocata Maria Stefania Cataleta che collabora con la Corte Penale Internazionale –. Dietro la persecuzione vi era il progetto egemonico dello Stato islamico, che così si impossessava con metodi violenti di territori fino ad allora abitati da questa popolazione priva di appoggi da parte degli attori internazionali e, pertanto, particolarmente vulnerabile e indifesa”.
Un genocidio silenzioso, compiuto nell’indifferenza dell’Europa che non ha saputo, voluto o potuto intervenire a difesa di questo popolo indifeso. Ma proprio da questa Europa è comunque arrivato qualche settimana fa un segnale di giustizia. Un jihadista iracheno, Taha Al J., già membro dello Stato islamico, è stato condannato all’ergastolo dall’Alto Tribunale regionale di Francoforte per le torture inflitte ad una donna yazida e alla sua bambina di cinque anni che è stata legata ad una inferriata e lasciata morire di caldo e di sete.
“La sentenza del tribunale parla espressamente di genocidio – continua l’avvocata specializzata in diritti umani –. È un’iniziativa giudiziaria coraggiosa poiché la Germania ha aperto per prima al mondo un procedimento per i crimini ai danni degli yazidi in virtù della giurisdizione penale universale, segnando un primo importante passo verso la giustizia in favore di un popolo vittima di genocidio”.
“Secondo il principio adottato dal tribunale tedesco – sottolinea l’avvocata –, un accusato di crimini internazionali può essere processato dai giudici di qualunque Stato, anche in assenza di ‘contatti’ con questo Stato, che in genere sono il luogo di commissione del crimine, la nazionalità del reo o la nazionalità della vittima”.
In altre parole, in caso di reati eccezionali, come ad esempio il genocidio, non ha importanza la nazionalità della vittima o del carnefice, e neppure il luogo in cui è stato commesso il fatto. Un crimine contro l’umanità non può rimanere impunito in nessuna parte del mondo e, come in questo caso, la giustizia nazionale può arrivare prima di quella internazionale.
Il procedimento penale tedesco è stato avviato in virtù di una sollecitazione del Governo iracheno che si era dichiarato impossibilitato a perseguire i responsabili dei crimini jihadisti contro la popolazione civile.
“Adesso c’è da sperare che la sentenza dell’Alto Tribunale regionale di Francoforte, che ha condannato l’imputato per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, funga da esempio per altri Paesi – conclude l’avvocata –. I crimini contro gli yazidi non possono restare impuniti”.
Ho viaggiato nel loro Paese nel 2013, un anno prima che il Califfato conquistasse Mosul e da qui invadesse le valli yazide, compiendo stragi ed infliggendo inimmaginabili torture a donne e bambini.
Da Erbil, nel cuore del Kurdistan iracheno, ho raggiunto Lalish, la città sacra degli yazidi, in un paio di ore di auto nel deserto, viaggiando tra ambulanze della Mezzaluna Rossa e mezzi militari peshmerga che sfrecciavano da tutte le parti. Mi sono tenuto il più possibile ad est, evitando la pista più diretta che correva troppo vicina alla città di Mosul dove già tirava una brutta aria.
A Lalish invece la gente era tutta per strada perché si celebrava non ricordo più quale anniversario dello sceicco Adi, figura cardine nella fede yazida, che è sepolto proprio nella cittadina. Donne – molte senza il velo in testa – e uomini in pellegrinaggio erano vestiti con abiti colorati e portavano stoffe leggere e lunghi fazzoletti di seta che pareva reggessero in mano piccoli arcobaleni. Entravano dentro una sorta di lunga e labirintica catacomba tutta coperta di bassorilievi che raffiguravano angeli caduti e risaliti in cielo, e il dio Pavone dalla grande coda. Qua e là, uomini dall’aspetto austero, accovacciati in bassi anfratti, ricevevano offerte di cibo o di denaro. I fazzoletti colorati venivano usati per adornare le tombe davanti alle quali i fedeli sostavano per pregare e fare dei piccoli nodi. La processione era tutt’altro che silenziosa e di tanto in tanto donne, uomini e bambini urlavano improvvisamente, emettendo un’irripetibile e gioioso grido di gola che doveva servire ad attirare l’attenzione della divinità.
Tra tutti i luoghi sacri che ho visitato – e non parlo solo di Medio Oriente ma anche di santuari cristiani e templi induisti e buddisti – questo è stato l’unico in cui mi è stato permesso di andarmene a curiosare dove volevo, come volevo e di parlare con tutti coloro che incontravo. Eppure, da secoli gli yazidi sono stati circondati da una fama che definire sinistra è dire poco. Odiati dai musulmani perché non hanno mai seguito i precetti di Maometto, aborriti dai cristiani che leggono nel loro Pavone, scacciato dal paradiso da un dio vendicativo, una manifestazione satanica. Anche Wikipedia li giudica con una certa supponenza: “Gli yazidi sono piuttosto diffidenti verso gli appartenenti ad altre religioni e gran parte del loro credo è caratterizzato da un’accentuata riservatezza”. Ma l’unica cortesia che mi hanno chiesto con un sorriso, prima che entrassi nel loro tempio, era di lasciare le scarpe all’entrata.
“Siamo un popolo perseguitato da sempre e da tutti – mi ripetevano –. Ma oggi il pericolo è ancora più grande perché abbiamo l’Isis alle porte. Se arriveranno sin qui ci massacreranno senza pietà. Abbiamo paura. Lo dica, quando tornerà in Europa”.
L’Isis è arrivato qualche mese dopo il mio viaggio a Lalish, il 3 agosto 2014. E come annunciato è arrivata anche la strage. Senza pietà. I numeri, per quel che valgono, sono ancora approssimativi. 400 mila profughi sono riusciti a fuggire riparando ad est, nel territorio controllato dai curdi (gli yazidi sono una comunità religiosa di etnia curda). Qui, molte donne yazide si sono arruolate nell’esercito curdo e hanno combattuto i fascisti dello Stato Islamico a costo della vita. Ma almeno 5000 civili, uomini, donne e anche bambini, furono torturati e massacrati. Di altre 2800 persone, in particolare giovani donne, non sono state trovate tracce.
“Un vero e proprio genocidio perpetrato con straordinaria sistematicità e rapidità, sorretto da un’ideologia totalitaria – spiega l’avvocata Maria Stefania Cataleta che collabora con la Corte Penale Internazionale –. Dietro la persecuzione vi era il progetto egemonico dello Stato islamico, che così si impossessava con metodi violenti di territori fino ad allora abitati da questa popolazione priva di appoggi da parte degli attori internazionali e, pertanto, particolarmente vulnerabile e indifesa”.
Un genocidio silenzioso, compiuto nell’indifferenza dell’Europa che non ha saputo, voluto o potuto intervenire a difesa di questo popolo indifeso. Ma proprio da questa Europa è comunque arrivato qualche settimana fa un segnale di giustizia. Un jihadista iracheno, Taha Al J., già membro dello Stato islamico, è stato condannato all’ergastolo dall’Alto Tribunale regionale di Francoforte per le torture inflitte ad una donna yazida e alla sua bambina di cinque anni che è stata legata ad una inferriata e lasciata morire di caldo e di sete.
“La sentenza del tribunale parla espressamente di genocidio – continua l’avvocata specializzata in diritti umani –. È un’iniziativa giudiziaria coraggiosa poiché la Germania ha aperto per prima al mondo un procedimento per i crimini ai danni degli yazidi in virtù della giurisdizione penale universale, segnando un primo importante passo verso la giustizia in favore di un popolo vittima di genocidio”.
“Secondo il principio adottato dal tribunale tedesco – sottolinea l’avvocata –, un accusato di crimini internazionali può essere processato dai giudici di qualunque Stato, anche in assenza di ‘contatti’ con questo Stato, che in genere sono il luogo di commissione del crimine, la nazionalità del reo o la nazionalità della vittima”.
In altre parole, in caso di reati eccezionali, come ad esempio il genocidio, non ha importanza la nazionalità della vittima o del carnefice, e neppure il luogo in cui è stato commesso il fatto. Un crimine contro l’umanità non può rimanere impunito in nessuna parte del mondo e, come in questo caso, la giustizia nazionale può arrivare prima di quella internazionale.
Il procedimento penale tedesco è stato avviato in virtù di una sollecitazione del Governo iracheno che si era dichiarato impossibilitato a perseguire i responsabili dei crimini jihadisti contro la popolazione civile.
“Adesso c’è da sperare che la sentenza dell’Alto Tribunale regionale di Francoforte, che ha condannato l’imputato per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, funga da esempio per altri Paesi – conclude l’avvocata –. I crimini contro gli yazidi non possono restare impuniti”.