Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Italiani veri. Parte la campagna per mettere in nero su bianco la cittadinanza

Un milioni di giovani italiani che non sono ancora italiani. Un milione di ragazze e ragazzi nate e cresciute nel nostro Paese, che hanno studiato nelle nostre scuole, che sono cresciute nelle nostre strade, che parlano la nostra lingua, che si sentono italiane ma che non hanno gli stessi diritti degli altri italiani. Non hanno gli stessi diritti perché non gli è ancora stata ancora riconosciuto un diritto fondamentale: quello alla cittadinanza. 


La campagna “Cittadinanza nero su bianco” vuole per l’appunto riportare all’attenzione dei media e della società civile il tema dello ius soli, chiedendo al Parlamento di “leggere la realtà e scrivere una nuova legge sulla cittadinanza per tutti gli #ItalianiVeri” che “promuova uguali diritti per tutti i cittadini Italiani”, come possiamo leggere nella pagina della piattaforma dove possiamo sottoscrivere la petizione.


Letta così, diciamocelo subito, la campagna sembra una minestra riscaldata. Giustissima, per carità, la battaglia per lo ius soli. La proposta di legge è ancora ferma tra la Camera e il Senato, e dal 2015 non dà più segni di vita. Periodicamente, le varie  associazioni per i diritti dei migranti si mobilitano per far procedere l’iter parlamentare ma  senza riuscire a superare l’ostracismo della destra e la poca volontà di certa sinistra. Ben vengano quindi anche le minestre riscaldate ma, attenzione!, “Cittadinanza nero su bianco” non lo è affatto. 

Perché, rispetto alle precedenti campagne, “Cittadinanza nero su bianco” presenta tre sostanziali novità: i proponenti, i referenti e il linguaggio. 


Cominciamo con i proponenti. “Cittadinanza nero su bianco” è stata lanciata da una azienda di cosmetici: la Lush, noto brand che fabbrica e commercia prodotti naturali per la cura del corpo. In quasi tutte  le città italiane potete trovare i suoi negozi e, in ognuno di essi, recuperare tutto il materiale di supporto alla campagna. La Lush ha lanciato l’iniziativa in stretta collaborazione con l’associazione per la tutela dei diritti dei migranti BlackPost. Che c’entrano le saponette con la cittadinanza ce lo spiega Bruna Kola Mece di BlackPost: “La Lush è una azienda che punta molto sulla sostenibilità e sull’ambiente. Oggi, questi temi non possono più essere distinti dai diritti civili. Così come il tema della  cittadinanza non può più essere affrontato sotto la lente delle ideologie. Per questo, ci ha fatto molto piacere che a scendere in campo non sia stato il ‘solito’ associazionismo di sinistra ma una azienda commerciale che chiede a chi ci governa semplicemente di leggere la realtà e di fare quello che non può più essere rinviato per il bene di tutti: dare la cittadinanza agli italiani". 


Bruna è una migrante di nuova generazione. I suoi genitori sono arrivati in Italia dall’Albania nel ’92 con lei che non  aveva neppure un anno di vita. “Ho fatto tutte le scuole in Italia e mi sento italiana. Ma per avere la cittadinanza ho dovuto aspettare 24 anni. In tutto questo tempo, mi sono sentita limitata in tante cose. Ho fatto scienze politiche ma non ho potuto tentare la carriera diplomatica perché non avevo la cittadinanza. Ho fatto l’attivista in tante consultazioni elettorali ma non potevo votare per lo stesso motivo. Oggi poi, con le leggi sulla sicurezza, i’iter è diventato ancore più lungo e complesso. E’ ora di finirla con queste assurdità che non aiutano nessuno e di concedere la cittadinanza italiana a tutte le italiane vere”. 


Il secondo punto è focalizzato sulle persone alle quali la campagna si rivolge. “Questa per la cittadinanza non può più essere vista come una lotta della destra contro la sinistra - spiega Bruna-. La questione è universale. Noi ci vogliamo rivolgere anche a coloro che hanno scelto di votare a destra ma che hanno avuto un vissuto di nuova generazione come il mio. Anche loro hanno sofferto, perché sentirsi italiani ma non essere riconosciuti come tali, crea disagio e malessere psicologico, oltre che precluderti tante strade. C’è un milione di ragazze e ragazzi italiani che non sono tutelati come gli altri coetanei e che sono vittime di un senso di isolamento perché si sentono cittadini di nessun posto. La cittadinanza non è solo concessione di diritti ma anche un riconoscimento identitario”. 


E qui veniamo alla terza questione: il linguaggio. “Cittadinanza nero su bianco” usa termini come “veri italiani”, “riconoscimento identitario” che sono cavalcati dalla destra sovranista. “Ti ripeti che la nostra campagna non è né di destra né di sinistra - conclude Bruna -. Noi chiediamo solo il riconoscimento di un diritto a dei giovani italiani. Se uno è di destra, non è razzista, ma crede in valori, sia pure a mio personale avviso discutibili, come il nazionalismo, tanto di più dovrebbe lottare perché venga riconosciuto il diritto ad un italiano di essere italiano”. 


Innovativi sono anche gli strumenti su cui gioca la comunicazione della campagna lanciata da BlackPost e Lush. Tanto per fare un esempio, i testi dei depliant informativi strizzano in più occasioni l’occhio alla celeberrima canzone di Toto Cotugno, quella dell’italiano vero. Ma va bene così. La cittadinanza è un diritto per tutte e tutti. E i diritti non  sono, o non dovrebbero essere, messi in discussione né da destra né da sinistra. E poi, a pensarci bene, quella canzone parlava anche di “un partigiano come presidente”. Neanche questa è una cosa che va messa in discussione. 

Saman Abbas, la casta, l’onore e la piaga dei matrimoni combinati

Ha pianto disperatamente, il padre di Saman, quando i familiari carnefici gli hanno annunciato che sua figlia era stata macellata. Quegli stessi carnefici ai quali lui l’aveva consegnata. Ha pianto anche la madre di Saman, ripetendo che “purtroppo non c’era altro da fare”. La rispettabilità della famiglia, i doveri della casta sono stati rispettati. Il “cosa dirà la gente” andava fatto tacere. Non era concepibile agire altrimenti.

Non è la prima ragazza pakistana che si era rifiutata di sottostare ad un matrimonio combinato, Saman, ad essere uccisa per l’onore e per la tradizione. Solo un paio d’anni fa, un’altra ragazza ribelle aveva anticipato la sorte di Saman. Sono in pochi oggi a ricordarsi della vicenda di Sana Cheema, di Brescia. Anche in quel caso, la madre piangeva e spiegava, disperata, che suo marito non era cattivo. Che lo aveva dovuto fare. A differenza di Saman, questa giovane era stata portata di forza in Pakistan, e là uccisa. E la giustizia di questo Paese ha assolto i suoi carnefici. Anche per i giudici pakistani si è trattato di un atto spiacevole ma che doveva essere compiuto.

Wajahat, regista ribelle
Sulla storia di Sana intervistai Wajahat Abbas Kazmi, regista ribelle di origini pakistane che mi spiegò come funzionano le caste, l’elemento centrale su cui ruota il sistema patriarcale pakistano, e quanto pesa, soprattutto per le comunità che si costituiscono all’estero, in piccoli paesi della provincia, la rispettabilità delle famiglie: “Per la comunità pakistana questi sono considerati delitti d’onore che rientrano semplicemente nei doveri di un genitore. Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima. Quelle che vengono mandate a frequentare le scuole superiori sanno già che dovranno sposarsi con un parente indicato dalla famiglia. Alcune vengono forzate a sposarsi già prima. Il padre dice loro che se vogliono andare a scuola prima si devono sposare. Così non scappano più. Tarpano loro le ali prima di farle uscire dal nido. Sono comportamenti difficili da spiegare agli italiani”.

Per le famiglie, il matrimonio combinato è anche una questione economica. Un modo per tenere insieme i beni della famiglia, intesa in senso allargato, e aiutare coloro che sono rimasti in Pakistan che magari hanno contribuito alle spese del viaggio che non sono mai indifferenti. Non è una caso che le coppie forzate vengano quasi sempre formate tra cugini di secondo e anche di primo grado. La religione, diciamolo subito, non c’entra niente. Anzi, a volerla dire tutta, per l’islamismo il sistema della casta è una bestemmia, considerato che Maometto stesso le ha proibite.

“In Pakistan non sanno una minchia di cosa sia il Corano! - mi ha spiegato ridendo Wajahat - È scritto in arabo e in arabo siamo obbligati a leggerlo ma nessuno di noi parla l’arabo! Quando studiamo il Corano ripetiamo a memoria delle frasi senza capirle! Dell’Islam sappiamo quello che ci viene raccontato e quello che ci viene raccontato è solo l’aspetto maschilista e patriarcale”.

Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema ma loro viene concessa sempre una scappatoia. “I maschi possono frequentare gli italiani - mi ha spiegato Wajahat -. Se hanno una storia, nessuno li accusa di nulla. Basta che la tengano fuori dalla comunità. Anzi, viene ammirato come uno che si da da fare con le donne italiane che, si sa, non nutrono una buona reputazione. Alle ragazze tutto questo non viene concesso. E poi mi incazzo quando sento ripetere da certi personaggi italiani che si definiscono di sinistra che bisogna rispettare le culture di tutti, che bisogna evitare di dare giudizi su pratiche come i matrimoni combinato o il burka! Che idiozia! Come si fa a dire che questa è liberà? Come si fa a dire che le donne pakistane o bengalesi sono sottomesse perché amano essere sottomesse per tradizione? Su questo tema, certa sinistra non capisce un tubo proprio come la destra. Accoppare la figlia perché non si vuole sposare con chi decidi, non è cosa che si possa giustificare con la cultura! Ma donne che si ribellano, in Italia come in Pakistan ce ne sono, e sono sempre di più. Aiutiamole!”

Fidanzata con un pakistano
Laura B, studentessa di legge di Bologna, è stata per due anni fidanzata con un ragazzo di origine pakistane. “Lui viveva due vite diverse. Aveva anche due profili completamente distinti nei social. Era nato in Italia e aveva la cittadinanza, così come i suoi genitori che venivano dal nord del Pakistan e vivono in un piccolo comune emiliano. Con me e con il mio gruppo di amici faceva l’italiano e manifestava idee politiche avanzate. Quando tornava in famiglia, cambiava completamente. Non mi ha mai voluta presentare ai suoi e se, fuori da Bologna, incrociavamo pakistani faceva finta di non conoscermi. Parlavamo di sposarci, non appena fossi laureata. Poi un giorno lo hanno portato in Pakistan con la scusa di far visita alla nonna che viveva ancora là. Era tutto pronto a sua insaputa e lo hanno fatto sposare con una sua lontana cugina che neppure conosceva. Quando è tornato a Bologna mi ha cercata per dirmi che ora lui era più libero. Che con sua moglie doveva farci solo dei figli. Che noi potevamo ricominciare come prima. Ovviamente io l’ho mandato a…”

Storia di Nazia
Le caste e i matrimoni combinati, se penalizzano anche i ragazzi, rimangono comunque funzionali al mantenimento di un sistema patriarcale. La storia di Nazia, che abbiamo già raccontato su Melting Pot, è esemplare di quanto accade a tante donne pakistane. Fatta sposare “rispettando la casta e la famiglia”, Nazia è stata spedita in Italia come un pacco postale. Il marito, con cittadinanza italiana, l’ha tenuta segregata in casa come si usa, per dieci anni. Manco la spesa da sola poteva fare e io ricordo ancora la sua felicità e sorpresa quando, per la prima volta, è entrata in una supermercato. Con quell’uomo, Nazia ha avuto due figli, cittadini italiani. Poi, quando si è stufato di lei e si è trovata una nuova compagna (questo agli uomini è concesso), le ha sequestrato tutti i documenti, compresi quelli dei bambini, l’ha riportata dal fratello con la solita scusa della visita alla famiglia e l’ha abbandonata là. Il suo destino sarebbe stato quello venir sposata una seconda volta. Ma una donna che ha già contratto matrimonio è merce scaduta. Sarebbe finita in una casa con un marito anziano con almeno due o tre mogli già a carico, a far da serva. Per i suoi figli, non riconosciuti dal nuovo marito, sarebbe andata ancora peggio perché la nuova famiglia li avrebbe sbolognati il prima possibile e senza dote. E’ questo il fenomeno che sta alla base delle spose bambine.

A Nazia è andata bene. Ha trovato il coraggio di ribellarsi e di scappare. Delle attiviste dell’associazione PortoAmico, l’hanno aiutata a recuperare i figli ed a tornare in Italia, grazie all’escamotage che i bimbi, pur senza documenti, erano cittadini italiani. Altrimenti non ci sarebbe stato nulla da fare. Così come è per le tante Nazie che non hanno avuto questa fortuna, donne sposate a forza e poi rispedite in Pakistan con un destino di umiliazioni e vendette trasversali. 
E c’è da sottolineare che leggi come quelle sulla sicurezza che hanno allungato e complicato l’ottenimento della cittadinanza non hanno fatto altro che il gioco di questo sistema patriarcale, penalizzando le vittime e aiutando i carnefici. Ma questo, chi le ha scritte lo sapeva bene, giusto?

Pakistano e gay
Ho conosciuto T. H. - giovanotto di origini pakistane e nato in Italia - qualche tempo fa ad un concorso di poesia dove si era classificato tra i primi cinque autori premiati. Due anni dopo l’ho ritrovato per puro caso in una città di cui non farò il nome. Era in fuga. “Sono riuscito a scappare da casa solo perché sono un uomo e di casta alta. Mi volevano obbligare a sposare una cugina. Ma io sono gay e ho già un ragazzo. Mi dicevano che non importava, che una volta sposato potevo fare quello che volevo ma che la famiglia mi imponeva di sposare questa mia cugina che era ancora in Pakistan. Io l’ho sentita via Skype - di nascosto perché parlare con la futura moglie è vietatissimo -. Neanche lei voleva sposarmi. Così ho deciso di scappare quando ho visto che mi avevano comperato il biglietto per Islamabad. Siccome sono un uomo, ero io gestire i miei documenti. Per le ragazze invece spetta al padre conservarli e loro non ne possono entrare in possesso. Sono un’arma di ricatto. Poi, essere di casta alta - non che la cosa a me importi, eh? - mi ha aiutato nella fuga perché quelli più in basso non possono permettersi di agire contro di me, perlomeno non immediatamente. Così sono scappato. Adesso vivo qui. La città è grande e, grazie a dio, non c’è una comunità pakistana strutturata. Ho trovato un lavoro e il mio ragazzo mi ha raggiunto. Ma ho ancora paura della vendetta della famiglia, continuo a nascondermi e se posso non uso il mio nome. Ho terrore di sapere cosa possano aver fatto a quella povera ragazza rimasta ad Islamabad. Le vendette in Pakistan sono sempre trasversali”.

Il dramma della seconda generazione
Le ragazze ed i ragazzi di seconda generazione vivono una doppia vita che causa loro grandi sofferenze: italiani in classe e pakistani in famiglia. Sono tante le ragazze che cercano di ribellarsi, che vorrebbero continuare gli studi, lavorare, essere indipendenti e scegliere da loro la loro vita. Drammi ai quali la società è indifferente. “La cosa peggiore è l’indifferenza degli italiani. Il loro non voler capire - mi ha spiegato un giovanotto pakistano di nome Hamed -. Gli basta che lavoriamo e che non nutriamo pretese, comprese quelle sindacali, e va tutto bene”.

Il padre non manda più la figlia a scuola? Ho sentito presidi rispondere che spetta al genitore decidere sulla figlia, dopo gli anni dell’obbligo. Il padre ed i fratelli non permettono alla ragazza di frequentare educazione fisica perché il futuro marito potrebbe avere da ridire? Ci sono prof che si considerano progressisti che ti spiegano che bisogna rispettare le loro culture! Poi ci sono i cosiddetti mediatori culturali pakistani. Fanno comodo alle amministrazioni perché tengono sotto controllo le comunità ma a che prezzo avvenga questo controllo non gliene importa niente a nessuno.

Come Saman
Storie come quelle di Saman, sono frequenti in chi lavora all’interno della comunità pakistana. Racconta Grazia Satta, attivista di PortAmico, che ha lavorato tanti come professoressa in una superiore di Portomaggiore, in classi con alta densità di studenti di origine pakistana: “Capita che anche le mediatrici di cui ti fidi e che ritieni in gamba facciano il doppio gioco. Si è rivolta a me una ragazza che, come Saman, non voleva accettare il matrimonio combinato perché era innamorata di una ragazzo pakistano che aveva conosciuto a scuola. Il padre l’aveva chiusa in casa ed io ho chiesto aiuto alla mediatrice pakistana. Ma le cose non si muovevano. Quando sono riuscita a rimettermi in contatto con Sarah, chiamiamola così, questa mi ha detto, impaurita, che la mediatrice faceva il gioco della famiglia! Sarah, si è salvata perché ha rinunciato ai suoi progetti. Quando ho interpellato la mediatrice, questa mi spiega che la ragazzina è viziata e che il padre è un buon padre e che sa lui cosa è meglio per la figlia. O forse pretendevo di conoscere meglio io, che non sono pakistana, la situazione? La notte prima dell’inizio dell’esame di maturità Sarah mi manda un messaggio: ‘se non sarò a scuola mandate i carabinieri a casa, mio padre non vuole che io mi diplomi e mi ha chiuso in casa’. Il padre ha intercettato il messaggio, ma ha avuto paura dei carabinieri e le ha permesso di venire a scuola. Ma poi Sarah ha dovuto cedere e accettare il matrimonio”. 
“Sarah dopo il matrimonio è tornata in Italia e ci siamo incontrate ad una festa - continua Grazia -. Mi ha abbracciato, mi ha detto che stava bene, che ora la famiglia l’amava e che era contenta. Poi improvvisamente si è tolta la maschera e ha cominciato a piangere a dirotto. Mi ha confessato che era disperata e mi ha confessato che, prima di sposarsi, aveva proposto al suo ragazzo di fuggire assieme. ‘Ma lui non ha avuto il coraggio. Diceva che ci troveranno e ci ammazzeranno entrambi’. Poi Sarah ha smesso di parlare e ha continuato solo a piangere”.

Società infettate dal patriarcato
All’interno della comunità e all’ombra del patriarcato si sviluppano relazioni sociali malate. E’ una costante di tutte le comunità patriarcali. Il maschio che non sa imporre la sua autorità diventa l’oggetto di chiacchiere, risate malevole, fino ad arrivare ad un vero e proprio mobbing. E anche la moglie e i figli ne subiscono le conseguenze perché sono moglie e figli di un uomo che non sa fare l’uomo. La ribellione di una giovane figlia è la cosa peggiore che possa capitare in questi contesti. tutta la famiglia sarà esclusa dalle relazioni sociali e additata con disprezzo e malevolenza. Tutto questo avrà conseguenze anche per i parenti che vivono in Pakistan. In ambienti piccoli dove le comunità ricostruiscono un Little Pakistan, l’effetto è devastante. Lo è molto meno, per fortuna, nelle città dove le relazioni interculturali hanno maggiori occasioni per svilupparsi. Ma non è una uso che gli omicidi capitino in paesi piccoli dove si registra una grande percentuale di migranti.

Dalla parte di chi si ribella
“Su queste situazioni - conclude Grazia Satta - i servizi sociali sono impreparati, il più delle volte non sanno neppure che esistono le caste e i matrimoni combinati, non capiscono queste relazioni mai codificate e sotterranee, non hanno mezzi per intervenire e hanno anche paura di essere attaccati da destra e pure da sinistra, perché, per tanti, questi discorsi non sono politicamente corretti. Una seria riflessione sulle migrazioni nel nostro Paese è difficile da fare perché il dibattito è drogato da paure immotivate e fake news cavalcate dalla destra. Se affermi che in una democrazia come la nostra una ragazza deve poter decidere chi sposare e che il sistema della caste è semplicemente incompatibile con i valori in cui crediamo, rischi di venir accusata di essere anti islamica e di fare il gioco dei sovranisti. Ma l’Islam non c’entra niente qui. E neppure il Pakistan. Un italianissimo come Pillon plaudirebbe questo sistema. Il vero nemico è il patriarcato. Ragazze che si ribellano ce ne sono e tante. I veri colpevoli siamo noi che non sappiamo, non vogliamo dar loro un appiglio, una leva per spezzare le loro catene”.


Verona: cronache di ordinaria ingiustizia

L’amministrazione chiude i dormitori invernali e lascia per strada 80 ospiti. Poi la riapertura, ma entra solo chi ha il "permesso"
Un bel regalo, quello che il Comune di Verona, ha fatto ai lavoratori migranti, per il primo maggio, festa del lavoro! “Siamo tornati al dormitorio come ogni sera, dopo aver passato la giornata a raccogliere fragole nei campi della Bassa, e ci siamo sentiti dire che dovevamo raccogliere le nostre cose e di andarcene, perché il Comune aveva deciso di chiudere la struttura”, raccontano. E così, una settantina di migranti si è trovata di punto in bianco, sbattuta per strada. Si tratta di manodopera considerata indispensabile dai produttori agricoli locali. Lavoratori insindacalizzati, sfruttati (se va bene) con contratti capestro o addirittura senza nessun tipo di tutela. Lavorano dal sorgere del sole al tramonto per pochi euro, per rifornire i nostri supermercati di frutta e di verdura. Il trattamento economico al quale devono soggiacere, non permette loro neppure di pensare ad affrontare le spese di un affitto.

E così erano costretti a vivere nel dormitorio che il Comune aveva predisposto per affrontare l’emergenza freddo. Con l’approssimarsi della primavera, le associazioni per i diritti dei migranti avevano chiesto all’amministrazione di prolungare l’apertura del dormitorio o, come sarebbe preferibile, adoperarsi per trovare una soluzione alternativa e meno precaria a questa sistemazione d’emergenza.

“Ci avevano anche assicurato di sì - spiega Giorgio Brasola, portavoce del laboratorio Paratodos - ed invece poi si sono rimangiati la parola, hanno cambiato idea e, senza nessun preavviso, hanno chiuso la struttura lasciando la gente in strada!” 


Per i lavoratori migranti, non c’è solo l’innegabile disagio di dormire per strada, senza un tetto sulla testa. Si tratta persone con un permesso di soggiorno regolare ma in via di rinnovo. Un certificato di residenza è indispensabile per ottenere questo rinnovo. Il nostro sistema di (mala) accoglienza sembra strutturato per “clandestinizzare” i lavoratori migranti. “Tutto è pensato perché non possano mai uscire dal precariato - commenta Giorgio Brasola - e il loro lavoro possa continuare ad essere sfruttato senza nessuna garanzia sindacale. Devono rimanere invisibili, senza diritti”. 



La risposta che l’amministrazione comunale di Verona non ha saputo o, più probabilmente, voluto dare, l’hanno data centinaia di cittadini che hanno aperto le porte dei loro spazi comuni, che hanno portato brande, coperte, materassi, ma anche saponi, detergenti, carta igienica, cibo. Soprattutto, hanno portato solidarietà, sostegno e, non meno importante, qualche sorriso. Infermieri e medici volontari del Cesaim, l’ambulatorio di medicina che accoglie immigrati sprovvisti di assistenza sanitaria, hanno fornito assistenza medica e praticato i tamponi che sono fondamentali in tempi di pandemia come questo che stiamo attraversando. Fondamentali non solo per chi vi si sottopone, ma per tutta la comunità per un possibile tracciamento del contagio.

Persone senza nessun ruolo istituzionale che hanno saputo inventarsi quelle risposte che le istituzioni, con tutti i mezzi a loro disposizione, non hanno voluto dare.

Diciassette di questi migranti hanno trovato casa negli spazi del Laboratorio Paratodos. “Ci stiamo chiedendo però dove sono finiti gli altri - conclude Giorgio Brasola -. Non eravamo preparati ad affrontare una emergenza di queste proporzioni. Ci sentiamo piccoli ma non accettiamo di cedere ad un sentimento di impotenza. Grazie a tutte le persone che ci hanno aiutato ad accogliere questi migranti. Non solo per i generi di prima necessità che ci hanno donato ma soprattutto per averci dato forza e coraggio”.

Proprio la grande risposta venuta dalla gente comune, ha spinto l’amministrazione a riaprire la struttura, sia pure con criteri di ammissione diversi. In altre parole, il dormitorio è stato riaperto ma… non per tutti!

Il freddo non è più una emergenza e solo alle persone "in regola" è stato permesso il ritorno nel dormitorio. Chi non ha fatto distinzione tra possessori o meno di un regolare documento, sono le attiviste e gli attivisti del Paratodos che continua ad ospitare chi ha bisogno di un tetto. Tre dei ragazzi sono ancora ospiti del laboratorio autogestito.

Per loro, ma anche per tutti gli altri lavoratori migranti che non possono e non devono accontentarsi di un posto letto precario in un camerata, la lotta continua, spiegano al Paratodos. “Al Comune di Verona chiediamo di investire più risorse nei servizi sociali e di mettere a punto una seria politica che risolva strutturalmente il problema dell’accoglienza e del diritto alla casa per i tanti, che siano migranti, disoccupati, precari sottopagati, che non riescono ad averla, nella consapevolezza anche che allo scadere del blocco degli sfratti la situazione diventerà esplosiva. Alla Prefettura ed alla Questura di snellire le procedure per l’ottenimento del permesso di soggiorno per chi ha fatto domanda di sanatoria, nonché di agevolare le pratiche per il rinnovo, in quanto la mancanza di questo documento condanna le persone alla precarietà, alla ricattabilità e all’invisibilità".

Paratodos in fondo, significa ”Per tutti” e riprende un noto slogan zapatista: “Para todos todos, nada para nosotros”. Tutto per tutti, niente per noi. Perché, proprio in questi tempi di pandemia, se c’è una cosa che il Covid dovrebbe averci insegnato è che i diritti, come quello alla salute, o sono di tutti o non sono di nessuno.

Le intercettazioni ai giornalisti non sono solo uno scandalo. A Trapani è stata intercettata la democrazia

La losca vicenda delle intercettazioni ai giornalisti che si occupano della Libia non può essere circoscritta ai colleghi spiati che pure sono stati profondamente lesi nei lori diritti di cittadini, oltre che nell’aperta violazione della loro carta deontologica che gli impone la tutela delle fonti.

Questa storia non può neppure riguardare, più in generale, la sola categoria professionale degli iscritti all’Ordine, ma investe la stessa tenuta democratica del nostro Paese perché nasconde un preciso piano di insabbiamento della verità, colpendo chi questa verità ha il dovere di scoprire e diffondere. Un modus operandi che non è nuovo a chi segue le vicende della politica italiana e che ci ricorda tanti altri insabbiamenti il cui fine è sempre stato quello di ingabbiare la democrazia del nostro Paese. Mi riferisco, per fare un esempio, alle stragi fasciste, ma anche a casi celebri come l’abbattimento di Ustica o all’assassinio di Ilaria Alpi. Tutte vicende che hanno visto interi apparati militari e polizieschi operare per coprire sanguinosi segreti di Stato.

Le centinaia e centinaia di pagine di intercettazioni finite nei brogliacci che gli inquirenti hanno depositato alla procura di Trapani nell’ambito dell’inchiesta su presunti traffici di migranti compiuti dalle navi delle ong, non possono essere giustificate come errori o verifiche eccessive attuate al solo scopo di completare le indagini in corso. I giornalisti intercettati non erano e non sono indagati per questa vicenda, e nessuno aveva motivo di ritenere che potessero essere implicati nei reati contestati alle ong. Reati che, tra l’altro, non ci sono.

Perché, diciamolo come va detto, siamo davanti soltanto all’ennesima montatura politica per criminalizzare il lavoro di chi salva i migranti in mare.

Ma proprio per questo, proprio perché siamo di fronte ad una persecuzione giudiziaria usata come arma per far politica, l’inchiesta pubblicata su Domani del giornalista Andrea Palladino, fa ancora più paura. Fa paura perché siamo di fronte ad un potere che sa benissimo da che parte sta la ragione. Lo sappiamo noi e lo sa anche chi governa che non sono le ong che violano i trattati internazionali sul soccorso in mare. Non sono le ong che finanziano politiche assassine di esternalizzazione delle frontiere [1]. Non sono le ong che finanziano bande di delinquenti come la guardia costiera libica [2] o che sostengono regimi corrotti, fascisti e massacratori in cambio degli ultimi barili di petrolio rimasti su questo pianeta agli sgoccioli.

Non sono le ong, ma le politiche migratorie dell’Unione Europea che dovrebbero finire nel banco degli imputati per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalle convenzioni i internazionali. Intercettare i giornalisti che, inseguendo quella che il codice deontologico chiama la “verità sostanziale dei fatti”, non possono fare altro che raccontare quanto accade in Libia e nel Mediterraneo, non può nascondere altro che un tentativo del potere di nascondere o tacitare questa verità. E nascondere e alterare la verità, lo sappiamo bene, è la prima regola di uno Stato fascista. Perché la libera informazione è uno degli scudi più potenti a difesa della democrazia.

Ma c’è anche un secondo aspetto, ancora più pericoloso che va messo in luce. L’inchiesta della procura di Trapani è cominciata nel 2017 su pressione del Servizio Centrale Operativo (Sco) alle dipendenze dell’allora ministro Marco Minniti. Un nome che non ci tranquillizza affatto, considerando che la “stretta” sulle politiche migratorie, perseguita poi da Matteo Salvini, è avvenuta proprio con questo egregio rappresentante del Pd.

Vien da chiedersi allora come lo Sco intende o intendeva usare queste intercettazioni. Scoprire le fonti che fornivano informazioni ai giornalisti? Per lo più si tratta di persone che vivono situazioni già pericolose che hanno un rapporto fiduciario col giornalista professionista che ha l’obbligo deontologico di tutelarli. Far trapelare questi nomi significa mettere loro, e spesso anche le loro famiglie, a rischio della vita.

Nello Scavo di Avvenire, è stato intercettato mentre chiedeva ad un migrante detenuto in un lager libico se fosse possibili avere dei video che denunciavano le brutalità commesse dagli aguzzini. Altri giornalisti sono stati intercettati mentre pianificavano con contatti locali un viaggio in Libia.

L’aspetto più inquietante della faccenda è che i giornalisti non sono stati soltanto intercettati ma ne sono stati rilevati anche gli spostamenti. Davvero queste sono informazioni “basilari” nell’ambito di una indagine farlocca sulle ong? No. Questa giustificazione non è assolutamente sostenibile. Sottolinea Beppe Giulietti in un suo tweet “Non abbiamo risposta alla domanda essenziale: perché venivano registrati i colloqui tra una cronista come Nancy Porsia e la sua legale Alessandra Ballerini (l’avvocata della famiglia Regeni. ndr) e perché sono state trascritte le parti relative ad un prossimo viaggio in Egitto “senza scorta” dell’avvocata?”. La risposta fa paura.

Normali abusi di frontiera. Ma stavolta tocca a degli italiani subirli

Diritti e frontiere non stanno mai dalla stessa parte della barricata. Lo imparano a proprie spese le migliaia di persone migranti che cercano rifugio in Europa e sono costretti a sottostare ad ogni genere di abusi. Ma, proprio come i diritti che o sono di tutti o non sono di nessuno, anche gli abusi quando sono tollerati finiscono per colpire anche te, che hai la pelle bianca e sei europeo, che non vieni da un Paese in guerra, che non hai mai sofferto la fame e che non sei stato costretto a scappare per disperazione. Tu, che hai avuto la fortuna di nascere dalla parte “giusta” di questa terra e che hai in tasca un passaporto valido per l’espatrio.

Andrea Garuccio, studente di Erice all’ultimo anno del corso di laurea magistrale in Cooperazione Sviluppo e Migrazioni dell’Università di Palermo, è uno di questi “fortunati”. Lo sa bene e, un pochino, se ne vergogna pure. “Se penso ai miei amici del Gambia, del Senegal, della Palestina, persone che sono passati per la Libia o da altre rotte e che hanno dovuto sopportare di tutto per arrivare in Europa, mi sento quasi in imbarazzo a riferire quanto è accaduto a me. Eppure questi comportamenti vanno comunque denunciati. Anche perché quello che hanno fatto passare a me, lo fanno passare anche ai mie amici migranti. E mentre se io vengo respinto alla frontiera torno a casa mia, in Italia, loro vengono rispediti in Paesi dove non vengono riconosciuti né diritti, né assistenza, né lavoro. O peggio ancora sono costretti a far ritorno nei luoghi in cui sono dovuti scappare per la guerra o per la fame”.

Andrea si era imbarcato verso Tunisi sabato 27 marzo. Non era una vacanza, la sua. Andrea ha vinto una borsa di studio nell’ambito del progetto Erasmus+ e stava per raggiungere l’Università El Manar della capitale tunisina e completare il secondo semestre per ottenere il Doppio Titolo di Laurea in Relazioni Internazionali. “Pensavo ingenuamente che sarei stato accolto a braccia aperte - racconta - ed invece, arrivato alla dogana tunisina, non faccio in tempo a infilare il mio bagaglio nel metal detector che la polizia mi ferma e mi porta in altro ufficio per ulteriori controlli”.

Qui, gli viene sequestrato il passaporto - che gli sarà consegnato soltanto poco prima che la nave riparta alla volta dell’Italia - e viene subissato di domande. Dove vai? Dove risiederai? Hai il biglietto di ritorno? Quanti soldi in contanti hai con te? “Io ho mostrato tutti i documenti che avevo e che mi aveva mandato l’Ufficio Internazionalizzazione in collaborazione con l’Agenzia Nazionale Indire che gestisce il canale Erasmus+, ma per loro era solo carta straccia. Avrei dovuto fermarmi Tunisi sino a fine luglio. Che senso aveva fare il biglietto di ritorno adesso? E va bene, mi sono detto. Ho fatto il biglietto col cellulare davanti ai loro occhi. Ma ancora non andava bene. Ho chiamato il mio docente dell’Università El Manar che ha garantito per me… ma niente da fare. Mi hanno tenuto per 12 ore in dogana e poi mi hanno rispedito a casa”.

A condividere la brutta avventura con Andrea c’erano altre sette persone, tutti sbarcati dalla stessa nave: quattro italiani, due olandesi e un argentino. “Tra gli italiani c’era una donna incinta in condizioni precarie di salute. Era di origine tunisina e sposata con un italiano. Piangeva disperata ed è stata trattata ugualmente in modo disumano. Se molti progetti umanitari prevedono e garantiscono il ricongiungimento familiare, davanti ai miei occhi si stava consumando una separazione arbitraria, senza nessun motivo. Ci sono volute quattro ore prima che le permettessero di sedersi”.

Ti è sembrato che cercassero di spillarvi qualche banconota? “Io avevo 600 euro con me. L’ho dichiarato quando me lo hanno chiesto ma, sinceramente, non mi è sembrato che volessero derubarmi. Al signore argentino invece, che ha dichiarato un migliaio di euro, ne hanno espressamente chiesti 500. Lui però non ha pagato”.

Alla fine, il nostro Andrea è stato l’unico ad essere respinto. “Gli olandesi avevano un appuntamento col ministro del turismo ed è dovuto intervenire lui in persona per farli sbarcare. Gli altri sono riusciti a passare dopo quell’assurdo fermo di 12 ore. C’è chi ha dovuto fare una prenotazione di 600 euro in Hotel anche se ad attenderlo aveva la famiglia ed una casa dove avrebbe risieduto. Perché io sia stato costretto a tornare in nave, non lo so e non me lo hanno voluto dire”.

Anche il ritorno non è stato dei più felici. La nave Catania della Grimaldi ha fatto scalo a Salerno e lo studente ha dovuto rimanere a bordo 4 giorni, prima di rincasare a Palermo.

“Per fortuna, il personale della Grimaldi è stato gentilissimo con me e mi ha aiutato in tutti i modi, ed anche di più di quanto avrebbero dovuto ad esempio fornendomi supporto nella traduzione con la dogana e provando a convincerli in tutti i modi che fossi uno studente, stampa degli ulteriori documenti richiesti, internet, ma fondamentale è stato il calore e la solidarietà umana che ci uniscono in questi casi di sofferenza che potrebbero essere benissimo evitati. Sono stato ospite per i restanti giorni del commissario Claudio Ferrara che con la sua crew mi hanno fornito anche una cabina vista mare. Non ho dovuto sborsare altri soldi per tutto ciò. Ma per me stata comunque una perdita e non solo di tempo. Non potendo partecipare alle lezioni universitarie a Tunisi, la mia borsa di studio ne risentirà”.

Cosa farai adesso? “Credo che ritenterò di raggiungere la Tunisia per concludere i miei studi. Una volta passata la rabbia per l’ingiustizia che ho subito, sono convinto che questa brutta avventura, alla fin fine, mi abbia insegnato molte cose. Che le frontiere siano luoghi dove i diritti sono sospesi, ad esempio. Non è bello né semplice rimanere alle disposizioni di istituzioni straniere che non sai mai di preciso cosa vogliono. Capisco che queste misure sono altresì inasprite dalla confusione delle attuazioni delle restrizioni dovute alla pandemia in corso. Comunque è chiaro che tra il Governo tunisino e chi si trova ad implementare le sue leggi c’è un gap evidente. In questo spazio comunque ci sono individui che potrebbero non perdere l’entusiasmo con i quali si spostano in questi momenti difficili. O che i soprusi non capitano solo ai più disperati e che vanno sempre e comunque denunciati e combattuti”.

Proprio per questo Andrea Garuccio e gli altri colleghi di sventura hanno deciso di fare rete ed attivare una email - italiani.respinti@gmail.com - dedicata a chi è convinto di aver subito ingiustizie ed abbia voglia di raccontare la sua esperienza nelle zone di frontiera.

Le navi prigione della quarantena coatta

Quando anche la pandemia serve a trar profitto dai migranti mentre avanzano le politiche di selezione


Immaginatevi una nave da crociera di gran lusso: Una di quelle con la piscina riscaldata, i ristoranti stellati ed i night club dove tirar tardi la notte. Immaginatevela e poi… gettate nel cestino tutto quello che avete immaginato! Le navi quarantena dove i migranti vengono isolati col pretesto di contenere la pandemia sono tutta un’altra cosa. Attualmente, ce ne sono in attività sei, tutte appartenenti alla Gnv, la società marittima Grandi Navi Veloci: la Splendid, l’Excellent, la Rapsody, l’Allegra, l’Adriatica e la Suprema. Sino a qualche mese fa era in attività anche l’Azzurra che attualmente si trova in un cantiere turco per impellenti opere di ristrutturazione. Il che dà una idea delle condizioni in cui sono questi catorci del mare. Ma il punto non è tanto questo. In fondo, le condizioni in cui i migranti vengono confinati in queste navi non sono poi molto diverse da quelle che devono affrontare negli hotspot di terra. Il punto è che il nostro sistema di accoglienza non funziona proprio. Non funzione perché si fa di tutto per non farlo funzionare. Le navi quarantena sono solo l’ultima assurda ingiustizia di un sistema giù assurdo ed ingiusto. E costoso, naturalmente. Già. Soltanto l’utilizzo di una sola nave costa 50 mila euro al giorno. Capita, come è successo per Azzurra che nello scorso a dicembre aveva a bordo soltanto un migrante di origine ivoriana, che vengano utilizzate per pochissime persone. 


“Mi domando quante cose si potrebbero fare con tutti questi soldi nel campo dell’accoglienza. Ed invece preferiscono regalarli agli armatori. E mi domando anche cosa ne sia stato di tutte le promesse fatta dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, che diceva di voler rimediare ai disastri causati dai decreti sicurezza e di voler impostare un modello basato sull’accoglienza diffusa. Ed invece… siamo ancora al modello ghetto”. 


Commenta così Yasmine Accardo, referente della campagna LascieteCIEntrare, da sempre impegnata nella difesa dei diritti dei migranti e dei rifugiati. 


“Le navi quarantena sono solo uno spreco immane di denaro pubblico. Non costruiscono nulla sul territorio, non favoriscono l’inclusione ma, al contrario, causano nuove ingiustizie e tensioni. Nessuno contesta la quarantena come mezzo utile per contrastare la pandemia, per carità, ma bisogna proprio noleggiare una nave? Non ci son o altri luoghi isolati dove far attendere la gente?” 


Tu sei in contatto con i migranti nelle navi? 


“Forse una delle sole cose positive dello stare in una nave, è che lasciano tenere il cellulare alla gente. Molti migranti ci possono contattare direttamente. Altri casi ci vengono segnalati dai nostri amici tunisini di ‘Terre pour tous’. Così abbiamo mondi di far intervenire i nostri avvocati Alessandra Ballerini, Gianluca Vitale e Gaetano Maria Pasqualino. Siamo riusciti ad ottenere dei congiungimenti e ad anellare dei respingimenti. Ma, esattamente come per gli hotspot, le navi rimangono luoghi dove i diritti sono negati. Le persone non ricevono assistenza legale o informazioni sulle procedure per inoltrare richiesta di protezione. Solo al momento dello sbarco sanno quale sarà il loro destino: il rimpatrio immediato, come accade per quasi tutti i tunisini, il respingimento o il cpr. Gli mettono un foglio in mano, scritto in italiano che magari non sanno neanche leggere, e li costringono a firmare. Molti di loro si trovano sbattuti per strada, magari perché erano inserito in un sistema di accoglienza e ora hanno perso il posto. Ci sono stati casi di minori non accompagnati o di persone con gravi vulnerabilità”. 


La nave quarantena offre un servizio sanitario?


“E come potrebbe? Mica è un ospedale! Anche il personale è limitato. Nella Splendid attualmente ci sono solo 18 operatori per 800 migranti che non soltanto non vedono un legale, ma neppure un medico o uno psicologo. Le condizioni igieniche, stando ai video che ci mandano i migranti, sono disastrose. Ci sono famiglie con bambini. Chi è ammalato deve arrangiarsi. Sono molti i casi che registriamo di autolesionismo o di cure negate. Ricordiamo quella signora, anche lei con problemi psichici, che da Lampedusa è finita in una nave, sempre senza assistenza, e che dopo aver saputo che sarebbe stata rimpatriata si è gettata dal terzo piano. Oppure quel ragazzo che aveva la tubercolosi, che è stato ricoverato d’urgenza appena sbarcato ma che morto poco dopo in ospedale. Chi lo doveva assistere o diagnosticare la malattia mentre era a bordo? Senza contare dei tanti casi che abbiamo segnalato di minori non accompagnati tenuti illegalmente a bordo, privati delle protezioni di legge. Si capisce che in queste condizioni, scoprono rivolte e che la gente si butti dalla nave per tentare di raggiungere la terra pur di fuggire da quel limbo senza risposte e senza futuro”.  


La pandemia è solo una giustificazione? 


“Ripeto. Tenere in quarantena una persona che è  stata esposta al virus è sacrosanto, ma queste navi non servono a questo. Sono soltanto un sistema per infliggere a delle persone che non hanno commesso alcun reato, e per di più in condizioni di bisogno e vulnerabilità, una sorta di  pena detentiva prolungabile sino a quando fa comodo. O, se preferite, un escamotage per tenere la gente fuori dalle scatole il tempo necessario per organizzare il rimpatrio forzato. Ci sono persone per le quali questa cosiddetta ‘quarantena’ è durata 50 o anche 60 giorni. Che senso ha da un punto di vista epidemiologico? Senza contare che, se a bordo i positivi ed i negativi sono sistemati in zone separate della nave, quando sbarcano sono tutti mescolati! Come al Cara di Caltanissetta dove, appena sbarcati, hanno fatto dormire tutti insieme, e pure per terra, positivi e negativi!”


Non servono a contenere la pandemia, non servono all’accoglienza. A cosa servono queste navi, oltre che a far guadagnare gli armatori?


“Potrei risponderti che servono egregiamente a ledere i diritti, ma la verità è che tutto il sistema di accoglienza è mal impostato e le navi sono una parte di questo sistema ma con una valenza in più. L’idea stessa di ‘nave’ restituisce l’immagine di qualcosa che è lontano, che è fuori dai nostri confini, che non ci appartiene. Sono un perfetto esempio di quella disumana esternalizzazione della frontiere che abbiamo visto anche in Libia, in Turchia o nel deserto del Niger, che è il cardine dell’agenda politica dell’Unione Europea sui migranti”. 

Abbandonati al freddo, impauriti ed annaffiati dalle pompe dei netturbini: così si muore sulle strade di Vicenza

 E con questo sono cinque in un mese e mezzo. L’ultimo è stato un signore cinquantenne, anche lui senza casa, anche lui costretto a vivere al gelo, abbandonato, per le strade di Vicenza, anche lui in precarie condizioni di salute. Se ne è andato qualche giorno fa. I volontari di Welcome Refugees, nei suoi ultimi momenti di vita, erano riusciti a farlo ricoverare in ospedale ma le sue condizioni erano troppo compromesse e non ce l’ha fatta. E prima di lui, altri quattro senzatetto sono morti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, uccisi dalla fame, dal freddo e dalla miseria, portando ad un totale di cinque le vittime mietute dalla povertà, dal disagio psichico e dall’inverno nella città berica. Una percentuale da strage, se si considera che i senza tetto a Vicenza sono poco più di una ventina. Ma è proprio a loro che il Comune ha dichiarato guerra in nome di un concetto di “decoro urbano” che sarebbe tutto da discutere.

Una crociata per il decoro, questa orgogliosamente sbandierata dagli amministratori di Palazzo Trissino, che ha fatto presa anche su fasce violente di bande giovanili, tanto è vero che sono sempre più numerosi gli episodi di brutalità contro di loro.

Pestaggi, angherie, furti ed incendi di coperte, gavettoni gelati…

Le volontarie ed i volontari di Welcome Refugees e delle altre associazioni, come la Caritas, che si occupano di persone senza fissa dimora sono i primi ad aver coscienza di questo diffuso clima di violenza perché non trovano più i loro assistiti nei consueti luoghi in cui si rifugiano per superare il freddo notturno. “Hanno paura e cercano di nascondersi dove possono - spiega Elena Guerra di Welcome Refugees Vicenza - . Dobbiamo cercarli per tutta la città e quando li troviamo sono terrorizzati. Non si fidano più di nessuno. Hanno paura di vessazioni e di ricevere multe per violazione del coprifuoco o per il decoro che non possono pagare. Ma come possono stare a casa se una casa non ce l’hanno? Molti di loro portano addosso il segno delle botte ricevute, oppure stanno tremando dal freddo perché qualcuno gli ha gettato nelle immondizie le coperte che noi gli avevamo portato. E capita anche di trovarli bagnati fradici perché i netturbini che vanno a pulire le strade li hanno annaffiarti con le pompe”.

Accusa molto grave, questa dei volontari di Welcome Refugees, che è rimbalzata nei giornali locali e che è stata subito respinta dal Comune in una nota - non firmata da un assessore specifico o da un dirigente ma, genericamente, dall’amministrazione - in cui si ribatte che “quanto denunciato non trova riscontro nella realtà” ma proviene da un inaffidabile “chiacchiericcio tra i volontari”.

Altro che chiacchiericcio! - ribatte Elena -. Il fatto è ben documentato da tante testimonianze dei senzatetto e anche da operatori della Caritas che hanno assistito ai fatti! I netturbini arrivano con le autopompe scortati dai vigili urbani e aprono il getto senza stare troppo a preoccuparsi di coloro che non sono veloci a scappare”.

“Ma quello che ci preme non è fare polemiche con l’amministrazione conclude l’attivista -. Non vogliamo più essere costretti a cercarli per la città con il rischio di trovarli morti per freddo. Questa crociata per il decoro sta causando morti e sofferenze. Lo scorso anno, in cui le strutture di assistenza erano messe peggio di oggi e c’era oltre un centinaio di senza tetto per le strade, abbiamo avuto solo un decesso e per overdose. Quest’anno siamo già a cinque morti e l’inverno è ancora lungo da finire. Invitiamo la Giunta ad affrontare la questione serenamente, a non complicare il nostro lavoro, a non spargere odio contro questa umanità, a mettere in campo interventi capaci di migliorare la loro qualità di vita, a non considerarli più, come ci ha sottolineato uno di loro, ‘auto senza targa’”.

Le testimonianze video

Il Consolato italiano a Dakar appalta l’agenda degli appuntamenti ad un sito (che non funziona)

Impossibile ottenere un documento senza passare attraverso la multinazionale dei Visa, VFS Global

Internet ti semplifica la vita? In alcune occasioni, può anche darsi. Ma è anche vero che per incasinare davvero le cose non c’è nulla di così efficace come la rete. E se poi, le complicazioni sono funzionali a non far funzionare nulla - scusate il bisticcio -, siamo proprio a posto.

Ne sa qualcosa l’avvocata Giuseppina Lupo, di Taranto, che ha contattato Melting Pot per raccontare la battaglia che sta conducendo da almeno 4 mesi contro un infernale portale informatico. Non è una guerra solo sua, quella che ci ha raccontato. E’ una guerra che coinvolge migliaia di migranti che hanno necessità di validare un qualsiasi documento dalla loro ambasciata d‘origine. Documento il cui rilascio, in molti casi, è indispensabile per ottenere ricongiungimenti familiari o proroghe per rimanere nei Paesi in cui si trovano.

Ma andiamo con ordine. Questa estate Giuseppina Lupo ha deciso di adottare un ragazzo del Gambia ed ha avviato le pratiche. «Ho predisposto tutti i documenti necessari - ci spiega -, anche perché avevo già adottato un altro ragazzo africano e so bene come ci si deve muovere. Ho predisposto tutto con la massima cura. Ho chiesto ed ottenuto i certificati in lingua originale e con la relativa traduzione, quindi li ho fatti legalizzare dal ministero degli Affari Esteri del Gambia. A questo punto ho pensato che fosse fatta, bastava solo portare queste carte al consolato italiano di Dakar che ha giurisdizione anche per il Gambia». 
Sembrava una pura e semplice formalità. Basta prendere appuntamento con l’ambasciata e farsi fare due timbri. Giusto? No. Sbagliato.

Dal primo luglio, il servizio appuntamenti del consolato è stato… privatizzato! “Gentile avvocato - si legge nella mail di risposta inviata alla Lupo dalla segreteria del consolato - i documenti originali devono essere portati, anche da persona delegata, a Dakar”. Quindi prosegue con tanto di sottolineatura “previo appuntamento da prendere tramite il seguente portale…” e segue in lungo indirizzo url che fa riferimento al sito di una azienda privata, la VFS Global.

«Sono quattro mesi ininterrotti che provo ad entrare in questo portale. Ci ho provato a tutte le ore del giorno e anche della notte. Ci ha provato dal Gambia anche il ragazzo che voglio adottare. Ma non c’è nulla da fare. Ad un certo punto, compare una schermata che ti avvisa che la richiesta non può essere processata e ti invita gentilmente a riprovare più tardi!»


L’avvocata ha provato anche rivolgersi al console italiano. «Persona gentilissima e disponibilissima - spiega - ma anche lui non ci ha potuto fare niente. Per avere un appuntamento bisogna per forza passare attraverso questo maledetto portale!».

Abbiamo provato anche noi, per un intero pomeriggio, a “loggarci” ed a prenotare un appuntamento ed, in effetti, non c’è stato nulla da fare. “Servizio non disponibile al momento. Riprovate cortesemente più tardi”.

Come abbiamo sottolineato in apertura, non è solo la nostra avvocata ad essere respinta dal portale. La “barriera informatica” sta causando ritardi nell’erogazione di visti e documenti, con tutte le conseguenze che vi potete immaginare, a tantissimi migranti. Non solo senegalesi o gambiani, ma anche originari di Capo Verde, del Mali e della Guinea. Tutti Paesi che, non avendo un proprio consolato, devono fare riferimento a Dakar ed a questo famigerato portale.

Ma chi è questa VFS Global che alla quale l’Italia ha appaltato il servizio di appuntamenti del suo consolato a Dakar? Trattasi di una società di servizi tecnologici e di outsourcing che serve Governi e missioni diplomatiche in tutto il mondo. L’acronimo sta per “Visa Facilitation Services”. E non possiamo fare a meno di sottolineare che “Facilitation” non è esattamente un nome azzeccato! L’azienda vanta comunque quasi 9 mila dipendenti, tra i quali, immaginiamo, non ce ne deve essere nemmeno uno in grado di far funzionare il sito. Si tratta di una multinazionale con fatturato miliardario, nata a Mumbai, in India, nel 2001 che ha sede operativa a Dubai, Emirati Arab Uniti.

Nel 2005 la polizia inglese si è accorta che bastava ritoccare l’indirizzo url della società per accedere a milioni di dati sensibili come numeri di passaporto, nomi, indirizzi e dettagli di viaggio di tutti coloro che, come me (se non avessi fornito una mail “usa e getta”!) si sono iscritti. L’indagine si è conclusa con la manifesta preoccupazione del Governo di Sua Maestà dei “protocolli di sicurezza poco brillanti” utilizzati dall’azienda.

Nel luglio 2015, ci è arrivata anche la polizia italiana che ha scoperto che il sistema consentiva pressoché a chiunque di accedere alle informazioni personali dei richiedenti dei moduli di visto per l’Italia.

Il costo esorbitante dei suoi servizi che la Global eroga in regime di monopolio, l’hanno vista finire sotto accusa in ambito comunitario per presunte "estorsioni" e "maltrattamenti" nei confronti di persone vulnerabili, in particolare provenienti dalla Nigeria. D’altronde, basta andare su Wikipedia inglese per leggere che “ex dipendenti della VFS hanno affermato che la società di outsourcing è sistematicamente ingannevole nei confronti dei richiedenti il visto e che i passaporti sono stati in varie occasioni maneggiati o persi a causa di una cattiva organizzazione”. 
Ecco, questa è la società alla quale il nostro italianissimo consolato ha appaltato il servizio di gestione degli appuntamenti! 

«Viene da pensare che l’abbiano fatto apposta, per complicare la vita dei migranti. Troppo facile telefonare in Ambasciata e concordare un giorno e un’ora? C’era bisogno di appaltare tutto alla VFS Global? - conclude l’avvocata Lupo -. A questo punto, cosa posso fare per far arrivare qui mio figlio? Farlo andare a Dakar per cercare qualcuno che, dietro lauta remunerazione, gli faccia avere un appuntamento al consolato? Purtroppo in quei Paesi le cose funzionano così». 
Anche in Italia, ho paura.

Abbandonati senza diritti. La migrazione ai tempi del Covid

 Abbandonati a se stessi, dimenticati da tutti. Il titolo del rapporto sulla detenzione dei migranti in Italia ai tempi del Covid è già un perfetto riassunto della situazione: “Non ci guarda più nessuno”. Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello che hanno portato a termine lo studio, per descrivere la situazione di uomini e donne rinchiusi nei centri di detenzione italiani ai tempi del Covid, hanno trasformato un aggettivo in un verbo. I migranti, scrivono, sono stati “invisibilizzati”.

Sono stati nascosti agli occhi della società civile. Costretti a trasformarsi da persone ricche di affetti, aspirazioni ed aspettative, in oggetti invisibili, quasi inesistenti. Oggetti di non vale la pena nemmeno di prendersi cura. E il Covid che ha costretto l’intera popolazione italiana, per non dire mondiale, ad isolarsi ed a chiudersi nelle proprie case, è stato solo uno strumento per rafforzare e amplificare quei meccanismi preesistenti di controllo e carcerazione che hanno colpito soprattutto un target sociale ritenuto marginale ed indesiderato: senza tetto, malati psichici, persone detenute per piccoli reati.

Del tutto ignorate le richieste di organismi internazionali, citiamo su tutti l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che hanno lanciato ripetuti appelli invocando la chiusura dei centri per migranti e il rilascio di tutte le persone trattenute. Inascoltate le osservazioni di studiosi ed epidemiologici che hanno evidenziato come tali strutture, prive di un vero presidio sanitario e perennemente sovraffollate, siano incompatibili con le misure di contenimento del contagio. Eventualità che, tra l’altro, si è puntualmente verificata in vari centri. Ricordiamo, uno per tutti, i fatti dell’ex caserma Serena a Treviso. Le situazioni allarmanti che si sono create - e che avrebbero potute essere evitate - altro non hanno ottenuto che di scatenare la destra che ha cavalcato ancora una volta razzismo e xenofobia, trasformando le vittime in colpevoli e additando i migranti come pericolosi “untori”.

Il rapporto “No one is looking at us anymore”, finanziato da Open Society Foundation, mette in evidenza le contraddizioni del Governo italiano e l’assurdità di una gestione militare delle migrazioni. Assurdità ancora più palese in tempo di Covid. Trattenere i migranti in queste strutture carcerarie - spiegano i sopracitati autori - è una scelta politica che si è rivelata, dannosa per le persone, inefficienti ai fini preposti e gravata da elevatissimi costi finanziari.

Il rapporto analizza uno per uno questi effetti sottolineando come i detenuti siano stati abbandonati a se stessi all’interno delle strutture, considerando che in moltissimi casi lo stesso personale di assistenza è dovuto rimanere distante per evitando rischi di contagio. In tante occasioni ai migranti detenuti non sono state fornite adeguate informazioni sul virus e gli strumenti per proteggere la propria salute come delle semplici mascherine. Anche le visite di amici, parenti, attivisti o dei legali sono state sospese, aumentando quel senso di infinito abbandono che già aleggiava su queste strutture prima della pandemia. D’altra parte, si legge nel rapporto, proprio “l’abbandono e dell’incuria sono meccanismi cruciali di potere nel funzionamento quotidiano di questi siti”.

Una “invisibilizzazione”, questa dei migranti nei centri, forzata e crudele di cui la pandemia ha messo a nudo non solo tutta la sua inutilità ma anche la pericolosità nella diffusione dell’infezione.

Che la migrazione possa essere gestita in maniera diversa, lo ha dimostrato la Spagna che già dal mese di aprile ha chiuso, sia pure temporaneamente, i sui centri, liberando le persone trattenute al loro interno. “Nonostante tutte le limitazioni associate a questo processo, e principalmente il fatto che la chiusura dei Cie fosse una misura temporanea legata al Pandemia e che ora le persone hanno ricominciato a essere detenute, crediamo che questo sia un evento significativo - conclude il rapporto - . Ciò ha dimostrato che possiamo vivere senza queste istituzioni carcerarie. E ha dimostrato anche che non è troppo difficile porre fine alla detenzione dei migranti e lasciare che le persone si muovano e vivano liberamente nelle nostre comunità: è uno scenario concreto, non utopico. È uno scenario collettivo che sosteniamo ora e che dobbiamo sostenere con forza nel futuro”.

Fratello Duch e gli orrori del Campo S-21

Intervista all’avv. Maria Stefania Cataleta, legale italiana al Tribunale speciale per la Cambogia

Il suo nome era Kaing Guek Eav ma si faceva chiamare con il suo nome di guerra: Duch. Anzi, “Fratello Duch”; tutti i dirigenti dei Khmer Rouge usavano questo appellativo davanti al loro nome. Lo stesso Pol Pot si faceva chiamare Brother Number One. Si è spento lo scorso 2 settembre in una cella della prigione cambogiana dove scontava la condanna all’ergastolo.

Il suo processo, avviato il 17 febbraio 2009 e conclusosi con la sentenza emessa il 26 luglio 2010, fu il primo ad essere celebrato davanti all’Extraordinary Chambers in the Court of Cambodia (Eccc), meglio conosciuto come Tribunale speciale per la Cambogia. Una corte di giustizia composta da personale internazionale ma istituita in accordo con le leggi nazionali del Paese.

Il processo a Duch suscitò molto scalpore perché porto alla luce gli orrori compiuti dal regime dei Khmer Rossi in Cambogia. Con la sua morte si chiude una delle pagine più nere della storia dell’umanità. Ne parliamo con l’avvocata Maria Stefania Cataleta, unica legale italiana ammessa all’Eccc e che nel 2009 ha fatto parte dell’equipe che ha difeso le vittime di Kaing Guek Eav.

Per capire cosa sia successo in Cambogia in quegli anni sanguinari, torniamo a quel 17 aprile del 1975, quando l’esercito rivoluzionario uscì dalla foresta e conquistò Phnom Penh, prendendo il potere su tutta la Cambogia. Molti, in Europa, salutarono con favore l’arrivo dei rivoluzionari che si prefiggevano di sradicare la corruzione, ripristinare la giustizia e l’eguaglianza, e affermare l’indipendenza nazionale.

Fu davvero così?

In realtà, si trattò della rivoluzione più radicale e segreta della storia. Il movimento dei Khmer Rouge era un universo vietato agli osservatori internazionali e così rimarrà fino al suo smantellamento, nel 1979. I leaders che lo componevano erano di modesta origine contadina o intellettuali che avevano studiato anche in Europa, come il loro leader Pol Pot. Subito dopo il loro ingresso in città, i Khmer Rouge, evacuarono Phnom Penh e i due milioni e mezzo di abitanti, in colonne sterminate, furono costretti a dirigersi verso le risaie. Fu una vera e propria deportazione per liberare Phnom Penh dai complici dell’imperialismo e dai fautori della borghesia e del capitalismo.

Ma perché svuotare la città?

Non fu solo per attuare un’ideologia ottusa, improntata a un ruralismo primitivo, ma anche per ovviare alla carestia. Phnom Penh aveva viveri solo per una settimana e i rivoluzionari non avrebbero saputo come sfamare la popolazione, che fu costretta a lasciare la città senza cibo, bevande, medicinali e non trovare alloggi nei villaggi dove avrebbero dovuto collocarsi. Era l’attuazione di una ruralizzazione coatta, il cui slogan era che il cibo era nei campi e che lì il popolo avrebbe dovuto guadagnarselo con il lavoro. Nulla contava che il popolo cittadino mancasse di competenza, formazione, allenamento, tecnica e utensili per lavorare nelle risaie. E con la capitale, vennero svuotate tutte le cittadine in una frenesia irragionevole di disurbanizzazione. Le città erano viste come centri del piacere, del profitto e dell’emulazione dei modelli stranieri.

I Khmer Rouge costrinsero l’80 per cento della popolazione cambogiana a trasferirsi nelle risaie che divennero dei veri e propri campi di conferimento e di sterminio. Come si viveva e come si moriva in questi luoghi?

La razione giornaliera era di due ciotole di riso per sfamarsi dopo dieci ore di lavoro ad una temperatura di 30°- 40°. Era vietato integrare questa dieta con pesce, carne o frutta, così come era vietato toccare i beni collettivi riservati ai quadri della rivoluzione. La pena per ogni trasgressione era la morte immediata, come quella di una bambina uccisa a colpi di vanga per aver raccolto una mela da terra. Era proibita la vita di famiglia e i bambini, anche di 8 anni, venivano strappati alla scuola e assegnati a centri di lavoro produttivo, come fabbriche, officine e cooperative agricole. Veniva interrotta ogni forma di insegnamento secondario o superiore, attività considerate reazionarie e figlie del colonialismo e dell’imperialismo e vietata ogni attività religiosa, con distruzione dei luoghi e simboli. I bonzi vennero destinati al lavoro agricolo e le pagode trasformate in stalle e porcili.

In una società senza più classi, nuove forme di esecuzione capitale e nuove forme di tortura vennero create: la trottola, per via del movimento della vittima mentre cade dopo aver subito un colpo di vanga alla nuca; il sacco, per via del sacco di plastica con cui viene incappucciata la vittima che muore soffocata; l’altalena, detta della vittima a cui si legano insieme mani e piedi e che viene appesa ad un albero dopo essere stata trascinata da un veicolo. Alcuni carnefici, prima che sopraggiungesse la morte della vittima, gli estraevano il cuore o le viscere per mangiarli.

Possiamo considerarlo un vero e proprio genocidio?

E’ stato configurato il genocidio del popolo cambogiano limitatamente ad una parte sociale di questo popolo, ma, se non vi fosse il limite giuridico della discriminazione politica, questo sarebbe certamente un genocidio, come molti storici l’hanno definito, a dispetto dei giuristi. Il mantra della rivoluzione, così come trasmesso dai media, si basava su tre principi cardine: indipendenza-sovranità; contare sulle proprie forze; difesa e costruzione della patria. Il popolo, sotto i Khmer Rouge, si componeva di due parti: da un lato, l’antico, ovvero gli aristocratici, la borghesia, gli sfruttatori; dall’altro, il nuovo, costituito dalle masse contadine e operaie. Gli studiosi hanno definito questa dei Khmer Rouge come la più estremista e violenta delle rivoluzioni.

Torniamo a Kaing Guek Eav. Il suo ruolo era quello di direttore del centro di detenzione di Tuol Sleng a Phnom Penh, chiamato anche col nome di Campo S-21. E’ proprio da qui, dai circa 4 mila verbali di confessioni rinvenuti, che, come ci ha spiegato lo storico David Chandler, sono emerse le principali testimonianze degli orrori perpetrati sotto il regime della Kampuchea Democratica, come si chiamò la Cambogia tra 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979, in cui furono massacrate 3 milioni di persone. Cosa sappiamo di questa prigione?

L’S-21 era una scuola ma durante il regime dei Khmer Rouge fu adibito a centro di detenzione e tortura. La mole incredibile di documenti ci racconta che circa 14mila tra uomini, donne e bambini sono transitati da quella prigione tra il 1975 e i primi del 1979. I prigionieri venivano interrogati, torturati lungamente per ricavarne delle confessioni e, nella maggior parte dei casi, giustiziati. Solo nel 1978 giunsero nel centro almeno 5mila prigionieri. La lunghezza delle confessioni e dei dossier dipendeva dalla gravità delle accuse, che potevano anche consistere nel semplice fatto di indossare gli occhiali. Ciascuno dei detenuti era costretto, attraverso la tortura, a confessare crimini mai commessi contro il partito, quasi sempre si trattava dell’ammissione di essere controrivoluzionari o spie al soldo delle potenze straniere.

C’è qualche parallelo con le purghe staliniane?

Il trattamento dei detenuti si richiamava proprio alle purghe di Stalin degli anni ’30 e ai processi farsa dell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale. In Cambogia erano stati adottati esattamente quegli esempi. I metodi di tortura erano particolarmente ingegnosi e crudeli, tanto da costringere persone del tutto innocenti a confessare qualunque crimine. Per tali ragioni, queste confessioni non sono considerate dagli storici delle fonti attendibili. Un’altra ragione della loro inattendibilità è che tutti i prigionieri risultavano colpevoli. Quei carteggi sono inattendibili eccetto che per la cura meticolosa con cui i detenuti venivano identificati, schedati e fotografati sia prima che dopo le torture. Le confessioni dimostrano la fobia del partito verso coloro che considerava traditori, tanto che la S-21 era un’operazione del tutto supportata dai leaders del partito.

Quali furono le responsabilità di Kaing Guek Eav in queste operazioni?

Lui era il direttore del centro S-21 e quindi responsabile di quanto avveniva all’interno. Non solo da un punto di vista organizzativo. Duch prendeva parte personalmente alle torture. Considerava tutti i cambogiani dei traditori bugiardi. Aveva un passato da insegnante e si faceva supportare da torturatori per lo più giovani e poco istruiti. La corte lo ha condannato in primo grado a 35 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, come persecuzione a carattere politico, sterminio, riduzione in schiavitù, detenzione illegale, tortura e trattamento inumano, omicidio ed altre condotte illecite. La condanna, su appello della Procura, è stata in seguito commutata in ergastolo dalla Camera della Corte Suprema, il 3 febbraio 2012.

Come si è giustificato Kaing Guek Eav sul banco degli imputati?

Ha ammesso le proprie responsabilità e chiesto scusa alle vittime.
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