Terremoti e processi nel Kurdistan turco

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Diyarbakir, Turchia orientale - Che aria tiri in Turchia lo si capisce già all’aeroporto Ataturk di Istanbul. A farne le spese è l’avvocato romano Augusto Salerni, uno dei legali di Giuristi Democratici, che si era aggregato alla spedizione in terra curda promossa dall’associazione Verso Il Kurdistan. Al controllo del passaporto l’avvocato Salerni viene immediatamente riconosciuto come uno dei legali che al tribunale europeo dei diritti umani aveva perorato la causa del “terrorista” Ocalan. Già “terrorista”. Nella democratica Turchia del premier Erdogan, è obbligatorio tanto per i giornalisti quanto per gli stessi avvocati difensori di Abdullah Ocalan, anteporre sempre al suo nome l’attributo “terrorista”. A chiamarlo solo “signore” si finisce dritti in galera, come è capitato due mesi ad un redattore di un quotidiano d’opposizione. All’ombra di Santa Sofia, a fare il giornalista o l’avvocato si rischia di più che a rapinar banche.

L’avvocato Augusto Salerni ha la buona sorte di tenere in tasca un passaporto italiano e se la cava con una notte di fermo. “Quando abbiamo visto che lo hanno fermato ai controlli - spiega Antonio Olivieri, portavoce di Verso il Kurdistan - abbiamo immediatamente informato il console italiano che ci ha detto di stare tranquilli che ci pensava lui. Un’ora dopo mi ritelefona e mi dice, tutto contento, che è riuscito a sistemare la questione: domani rimandano il nostro avvocato in Italia! Non è esattamente quello che volevamo noi. Proibire l’accesso in in Paese ad un avvocato che non ha commesso alcun reato e che, per di più si recava a monitorare un processo assai discusso come quello avviato contro i sindaci curdi, è un atto proibito dalle normative internazionali e che, per di più, lede i diritti fondamentali dell’uomo”. Il problema sta tutto qua: nei diritti fondamentali dell’uomo che in Turchia, quando va bene, sono riconosciuti solo ai turchi. “A differenza dell’Europa e di altri Stati con ordinamento democratico, - mi ha spiegato Mehmet Emin, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir e uno degli ultimi difensori rimasti ai sindaci imputati. Intendo, uno degli ultimi rimasti ancora a piede libero - la giurisprudenza turca non è finalizzato a garantire principi di giustizia sociale ma a difendere la cosiddetta ‘turchità’ dello Stato. Chi non si allinea, sia esso un sindaco, un deputato, un giornalista o un povero contadino che per semplice ignoranza non sa parlare la lingua turca, viene inesorabilmente perseguitato. Gli avvocati non sono da meno. Solo osare difendere un politico curdo viene letto come un attentato alla turchità. L’arresto di 56 avvocati difensori per un singolo processo, mi riferisco a quello di Diyarbakir, credo sia un record imbattuto in tutti i Paesi del mondo. Vi ricordo che questo è anche il Paese in cui i pubblici dipendenti non possono scioperare perché il loro rapporto con lo Stato deve essere improntato solo su basi etiche”. Mehmet Emin è stato il protagonista di una divertente contestazione in un processo contro i curdi: davanti al pubblico ministero che accusava un imputato di adoperare la lettera W, che esiste nell’alfabeto curdo ma non in quello turco, e di inquinare così la purezza della lingua patria, Emin chiese cortesemente al presidente della Corte, a proposito dell’inquinante lettera W, quale fosse l’indirizzo web del sito del tribunale! Lo scherzo gli costò qualche mese di galera.
Sette anni di carcere invece se li è sorbiti il sindaco Abdullah Demirbas della municipalità Sur di Diyarbakir (l’amministrazione di una città turca è spartita tra varie municipalità. A Diyarbakir, ad esempio, ce ne sono 16) colpevole di aver pubblicato una brochure sui servizi offerti ai cittadini in quattro lingue: turco, armeno, curdo ed inglese. “Due giorni dopo la stampa, venne la polizia ad arrestarmi. E con me portarono dentro tutti gli assessori, anche quei due che non avevano votato la delibera con la quale finanziavamo l’opuscolo. Poi sciolsero d’ufficio il consiglio comunale”. Demirbas si fece i suoi anni di galera e poi si ripresentò alle elezioni ancora col Bdp, il partito Democratico del popolo che, in pratica, è l’ala politica del Pkk. Riconquistò la poltrona di primo cittadino ottenendo una fiducia ancora più ampia col 76% dei votanti. “Governare è dura per gli amministratori curdi perché lo Stato utilizza tutti i sistemi per non passarci una lira e poter dire poi alla gente: vedete a votare il Bdp! Non vi danno nessun servizio. Ed invece i nostri sindaci riescono ad amministrare bene lo stesso con pochissime risorse a disposizione. Come facciamo? Eliminiamo del tutto la corruzione che, nelle amministrazioni del partito di Erdogan assorbono l’80% delle risorse”. Sul groppone Demirbas ha ancora una ventina di processi in corso per un totale di 232 anni di galera. “Sono costi che chi fa politica in Turchia deve mettere in conto preventivo” ti dice con un sorriso.

A un giorno di camionetta da Diyarbakir, raggiungiamo la zona terremotata di Van, la città dei gatti sordi con gli occhi di due diversi colori. Una città che non esiste più. Le due scosse del 23 ottobre e 9 novembre hanno raso al suolo una trentina di villaggi sulle sponde del grande lago e l’intero centro storico di Van. Due terzi della popolazione, tutti coloro che potevano permettersi di andare via, hanno fatto le valigie e abbandonato la regione. Gli altri, quasi 30 mila persone, vivono sotto i tendoni e fanno la fila alle mensa comuni per cercare qualcosa da mangiare. Qualche giorno fa, alla lunga lista dei morti si sono aggiunti due bambine, bruciate vive in una tenda non ignifuga. Tira vento gelido e butta a neve dalla catena del monte Ararat che sovrasta Van. I curdi sono costretti ad accendere fuochi dentro le tende se vogliono cercare di sopravvivere al freddo.
Abbiamo incontrato il sindaco Bekir Kaya in un piccolo prefabbricato montato all’interno di quello che una volta doveva essere il parco cittadino e che ora è una stracciata tendopoli. Anche lui è reduce dalla galera. Dodici anni filati per sospetto terrorismo e subito dopo eletto sindaco con una percentuale che una volta avremmo definito “bulgara”. Nel piccolo studio c’è una stufetta a legna ma è fredda. Sulla sua scrivania un piccolo computer che, spiega, ogni tanto ha pure collegamento in rete. Inutile chiedergli la mail. Il Governo turco gliela ha vietata per “motivi di sicurezza”. Chiedergli come va è una domanda inutile. Gli domandiamo allora se gli aiuti internazionali sono arrivati fin quaggiù. Kaya tira gli occhi. “Noi curdi non possiamo ricevere aiuti perché per lo Stato turco non esistiamo. I finanziamenti arrivati dall’estero per aiutare i terremotati li gestisce il premier Erdogan in persona. Come sono stati usati? Non lo so. Mica posso rivolgermi al prefetto per chiedere informazioni! Sarebbe il modo più spiccio per tornare in carcere. Noi andiamo avanti con quello che ci dà la nostra gente e con quello che ci portano le associazioni che, sfidando il Governo, arrivano sino a qua. Proprio come hanno fatto gli amici di Verso il Kurdistan. Solo grazie a loro sopravviviamo”. Per la strada abbiamo visto due palazzi nuovi in fase di rifinitura. Il cartello diceva che erano realizzati dal Governo turco. “Ah, lei si riferisce a quei due bei palazzoni azzurri davanti al lago? Sono di una ditta privata cui Erdogan ha concesso in esclusiva l’appalto per la ricostruzione. Li hanno ultimati da poco e quei bastardi li hanno subito messi in vendita! Ma li hanno costruiti solo per i finanziamenti statali, eh? Mica sperano davvero di venderli o affittarli! San bene che nessuno di noi che è rimasto può permettersi una spesa simile! Ed infatti, neanche fanno la fatica di cercare un affittuario. Sono e resteranno vuoti”. Un bell’esempio di quello che Naomi Klein ha definito la Shock Economy, quel porcilaio economico che si mette in moto dopo un disastro che, alla fine dei conti, non è mai del tutto naturale.

Anche se il quadro della Turchia che ci siamo fatti sarebbe già sufficiente a rispondere alla fatidica domanda “sotto il profilo imprescindibile del rispetto dei diritti dell’uomo, la Turchia ha le carte in regola per entrare in Europa?”, torniamo ancora a Diyarbakir per seguire una seduta del processo contro i sindaci del Bdp. Per il Governo turco, è il processo al Kck, una sigla con la quale il pubblico ministero ha genericamente chiamato il cosiddetto terrorismo curdo. Qualche dato prima di tutto. Gli imputati in completo isolamento da 32 mesi, celle separate e passeggiata per il cortile ad orari diversi, sono in tutto 151. Tra questi troviamo 12 sindaci, 2 presidenti di provincia e 2 vice sindaci. Ci sono anche due imputati già giudicati estranei ai fatti, arrestati per mero scambio di persona. Alla richiesta della difesa di liberare almeno loro, il tribunale ha risposto: “No, perché si sono difesi in curdo”. Da sottolineare che la giurisprudenza turca riconosce in fase processuale il diritto alla traduzione a tutti ma non ai curdi arrestati per sospetto terrorismo. Come dire che se stupri o ammazzi hai più diritti che se stampi una brochure bilingue.
Dei 56 avvocati difensori dei sindaci curdi finiti in carcere con l’incontestabile accusa di essere avvocati difensori dei sindaci curdi abbiamo già accennato, ecco allora altri dati: il processo Kck è alla 28esima udienza. Il 95% delle accuse agli imputati si basa su mail anonime e su intercettazioni. Un imputato è dentro solo per essere uscito ed entrato più volte dal portone dell’ufficio di un avvocato, ora in carcere, di Ocalan. Il disgraziato abitava sotto lo studio del legale e, come pesante aggravante, era pure curdo.
Bisogna sottolineare che i 151 imputati di Diyarbakir sono solo la classica punta dell’iceberg. Di processi avviati dal tribunale speciale contro i curdi ce ne sono perlomeno un’altra trentina. Questo di Diyarbakir è il più importante perché si svolge proprio nel cuore del Kurdistan turco. Dall’aprile del 2009, data in cui il Pkk ha proclamato una tregua, sono oltre 5 mila i politici curdi arrestati e in attesa di processo. Il dato è dell’ordine degli avvocati di Istanbul. Più precisi nel numero non possiamo essere perché il Governo turco non ama che queste “faccende interne” siano risapute. Gli arresti inoltre, si susseguono tutti i giorni. Praticamente tutto il vertice politico del Bdp è in carcere. Difficile fare politica democratica in queste condizioni. “Lo scopo del processo - ci spiega il sindaco Abdullah Demirbas - è proprio questo: impedire ai curdi di seguire la via democratica e spingerci alla lotta armata per poter dire all’Europa ‘ecco vedete? i curdi sono solo terroristi. Non intendono altre ragioni che l’uso delle armi’. Ed infatti, come possiamo noi spiegare ai giovani che non devono cedere alla violenza? Più di duemila ragazzi negli ultimi due anni sono saliti sulle montagne. E con loro c’è anche mio figlio. E’ quello che il Governo turco vuole da noi. Non è un caso se un guerrigliero catturato col mitra in mano rischia al massimo 6 anni e 8 mesi di carcere mentre nessun imputato del Bdp ha accuse inferiori ai 35 anni. Il Governo ha paura della democrazia, non di una battaglia militare. Ci arrestano perché nel '99 noi curdi abbiamo conquistato 37 municipi, nel 2004 ne abbiamo presi 54 e nel 2009 addirittura 99 municipi. I nostri deputati nel '91 erano 16, nel 2007 22 ed ora, dopo le ultime elezioni, nel 2011, ben 36, anche se, per la maggior parte, carcerati. Questo fa paura ad Erdogan. Ma se ci mettono in galera solo perché siamo curdi, come possiamo continuare a percorrere la strada delle riforme democratiche?”

Un Governo, quello turco, con la galera facile e... silenziosa. Fatti interni dove gli europei non devono ficcare il naso. Il tribunale di Diyarbakir, il giorno della 28esima udienza, martedì 6 dicembre 2011, pare una cittadella fortificata. “Questioni di sicurezza” ci ripetono in continuazione mentre ci proibiscono qualsiasi cosa. Gli stranieri non possono assistere ai processi. Per fortuna, arrivano due neo eletti deputati baschi e una battagliera deputata svedese di discendenza curda del Left Party con operatori tv al seguito che piantano un casino della madonna. Due ore di discussione accesa e in conclusione la polizia consente l’entrata a deputati, avvocati e giornalisti ma solo fino all’esaurimento dei posti riservati al pubblico. Con la tessera dell’abbonamento all’Actv (quella dell’ordine l’ho dimenticata a casa) riesco a passare pure io. Sono uno degli ultimi. Poi la porta si chiude per tutti anche se i posti destinati al pubblico risulteranno riempiti solo a metà. Questioni di sicurezza. Tre o quattro perquisizioni dopo sono in aula. Requisite telecamere, macchine fotografiche, registratori e cellulari. Mi esaminano con sospetto persino il blocco per gli appunti. Gli imputati sono già al loro posto circondati da tre poliziotti ciascuno. Sono solo sei. Agli altri 145 non è concesso difendersi neppure al loro processo. Questioni di sicurezza. Uno di loro prende la parola per rispondere ad una domanda della Corte. Subito il microfono gli viene spento. Ha parlato in curdo. Il presidente del tribunale si incazza e ammicca al pubblico ministero seduto al suo fianco che gli fa cenno che va bene così. Qui le cose funzionano in questo modo. Al pubblico ministero viene anche consentito di entrare in camera di concilio assieme alla giuria. Lo scopo di tutto il baraccone è quello di difendere la turchità dello Stato. La giustizia non c’entra nulla. Prendono la parola gli avvocati difensori, mentre il palco destinato alla stampa turca è completamente vuoto. Dopo le ultime retate di giornalisti che si sono beccati accuse per pene ultra centenarie, a nessuno viene più in mente di fare l’eroe. Chi vuole vivere a lungo sta in redazione e passa la velina. Ma la presenza dei Giuristi Democratici e dei deputati europei ottiene comunque qualcosa. Alla prossima udienza, assicura il giudice, tutti gli imputati potranno assistere in aula al loro processo. Poi tutto viene rinviato al prossimo mese. La detenzione in attesa di giudizio in Turchia può prolungarsi sino a dieci anni. Dieci anni che poi non vengono neppure scontati dalla pena definitiva. Tanto vale prendersela comoda tanto gli imputati non possono andare da nessuna parte. “Una piccola vittoria - commenta Mehmet Emin nella sua veste di avvocato difensore -. Adesso attendiamo la prevedibile reazione della magistratura che colpirà anche noi avvocati. Oramai lo sappiamo bene: quando il procuratore ci convoca, salutiamo i nostri familiari perché non li vedremo più per tanto tempo”.

E questa è la democrazia con la quale il Governo turco chiede di entrare in Europa?
“Il fatto è che al Governo turco non importa più nulla dell’Europa” mi spiega l’avvocato Mahmut Taşçi che col collega Mazlum Dinç, sono gli ultimi due avvocati rimasti al “terrorista” Ocalan. Sino a due giorni fa ve n’era un terzo ma l’hanno ingabbiato giusto ieri e spedito a raggiungere gli altri 36 precedenti. Fare l’avvocato di Ocalan non è un mestiere per tutti. “Oramai il Governo sa bene che la distanza dagli standard europei in tema di diritti è troppo grande per continuare a fare carte false. Inoltre, entrare in Europa in questi tempi di crisi non è più vantaggioso come qualche anno fa. Per questo Erdogan, anche su sollecitazione degli Stati Uniti, si sta politicamente avvicinando ai governi del Medio Oriente. La sua ambizione è quella di rappresentare una terza via per i popoli mussulmani, tra la dittatura militare e il regime islamico. Erdogan aspira a rappresentare la via democratica. Ma se è democrazia questa... l’unica differenza con il regime militare precedente è che prima ammazzavano i curdi per le strade ora li incarcerano e li lasciano morire dietro le sbarre. La stessa differenza tra una morte immediata e una lenta agonia”.
Lei è uno degli ultimi avvocati di Ocalan attualmente detenuto nell’isola prigione di Imrali. Ha qualche notizia del suo assistito? “Da luglio nessuno sa più nulla di Abdullah Ocalan. Gli ho spedito una lettera ma dubito che gli sia stata recapitata. E’ in isolamento completo dal febbraio del 1999, data del suo arresto. Non può ricevere o spedire lettere o mail, leggere i giornali, collegarsi ad internet. Non può neppure scrivere, leggere libri o parlare con qualcuno. All’inizio gli erano concesse due ore di aria al giorno, ora non so. Come vuole che stia Abdullah Ocalan? I miei colleghi avvocati che sono andati a visitarlo sono stati subito dopo incarcerati con l’accusa di far da tramite tra il ‘terrorista’ Ocalan e il Pkk. E comunque, come le ho spiegato, da luglio nessuno sa neppure se è vivo o se è morto. Neanche i suoi familiari. Alle nostre regolari richieste di incontrarlo, ci rispondono con scuse del tipo che il traghetto non funziona o che c’è mare grosso. O più semplicemente tirano in ballo le solite questioni di sicurezza. Ma Ocalan non è un terrorista. Lui voleva solo gettare un ponte tra il popolo curdo e quello turco. E per il Governo, proprio questo è stato il suo crimine”.
Prima di fare ritorno in Italia, la delegazione italiana torna a salutare il sindaco Abdullah Demirbas. Un gruppo di valsusini gli regala una bandiera No Tav in segno di fratellanza tra due popoli che combattono per difendere la loro terra e le loro tradizioni. “Tempo fa abbiamo cercato di far venire Abdullah in val di Susa per un dibattito - mi racconta uno di loro -. Aveva il biglietto e tutti i documenti in regola ma all’aeroporto Ataturk lo hanno fermato per accertamenti sino a che non ha perso il volo. Non c’è niente da fare. La Turchia non vuole che i sindaci curdi raccontino al mondo come si vive e si lotta in Kurdistan”.
Nonostante tutto questo, i curdi continuano a lottare con coraggio e determinazione. Il perché ce lo spiega chiaro proprio Demirbas. “Noi non vogliamo uno Stato curdo. Non vogliamo l’ennesimo Stato nazionalista fondato su principi di razza e di religione che magari dopo finisce per opprime altre sfortunate etnie minoritarie. Noi combattiamo per un modo diverso di vivere. Oggi la Turchia ha una precisa ideologia ufficiale: tutta la Turchia è turca, la lingua della Turchia è solo il turco, la cultura della Turchia è solo quella turca. Altro non può esistere. Noi invece pensiamo che la Turchia sia multiculturale, multilingue e multireligiosa. Noi non siamo turchi ma siamo comunque cittadini turchi e vogliamo una Turchia più democratica, una costituzione più libera, il diritto all'educazione nella propria lingua, l'abolizione del reato di opinione, la libertà di culto, la possibilità di vivere liberamente le differenze. Vogliamo il rispetto dei diritti umani e una partecipazione più diretta del popolo attraverso i consiglio di villaggio per superare il corrotto centralismo dello Stato attuale. Per questo i curdi si battono. Qualche volta con la lotta politica, altre volte con la lotta armata. Ma noi imbracciamo le armi solo quando la lotta politica ci è preclusa. Non amiamo la violenza ma con la violenza rispondiamo alla violenza dello Stato”.

Gli ultimi balenieri di Lamalera

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Lawoleta, Isole della Sonda - Dall’altra parte del mondo, lontano, nel sud dell’Indonesia, c’è un villaggio di balenieri che si chiama Lamalera. Arrivarci è tutta un’avventura. Dall’isola di Bali bisogna salire in uno di quei piccoli aerei che, dopo qualche inevitabile scalo intermedio come neanche un autobus di linea, atterra a Maumere, nell’isola di Flores, a poche miglia marine a nord di Timor. Da qui, dovete cercare di infilarvi in uno dei coloratissimi “bemo”, sorta di pulmini taxi, e raggiungere il porto di Larantuka, dall’altra parte dell’isola. Se non riuscite ad entrarci dentro, il vostro bemo, saliteci tranquillamente sul tetto oppure aggrappatevi alla portiera. Reggetevi forte e intanto vedete se riuscite, voi, a capire come diavolo fanno a guidare col parabrezza coperto di adesivi e completamente ostruito con ninnoli e peluche da far sembrare spoglio un albero di natale.


Da Larantuka, in giorni e orari imprecisati, salpa uno scassato ferry boat che, dopo una giornata di viaggio tra le isole della Sonda - in un mare tanto azzurro da regalarvi il miraggio del sampang di Sandokan che insegue a vele spiegate la sua Perla di Labuan - vi sbarca a Lewoleba, la cittadina più importante dell’isola di Lembata. Quattrocento case, una dozzina di strade, il resto spiagge e palmeti. Non fatevi impressionare dalla minacciosa presenza dell’Ili Api, la “montagna di fuoco” dal perenne sbuffo di fumo. Rivolgetegli soltanto un breve augurio di “buon sonno” come fanno i nativi, e cercate di non pensare che si tratta di uno dei vulcani più a rischio di eruzione di tutta questa nostra terra ballerina.
A questo punto comincia la parte più dura del viaggio. Per raggiungere Lamalera bisogna attraversare la catena montuosa e la foresta che fanno da spina dorsale all’isola. Impossibile sbagliare mezzo. C’è solo un balordo camioncino che collega il porto con Lamalera. Impossibile sbagliare strada. Ce n’è una sola. Casomai potreste obiettare come si fa a chiamare “strada” quello sterrato con buche talmente fonde da seppellirci un elefante. Ma il vero problema è l’innata cortesia degli indonesiani. La frase “mi spiace ma non c’è più posto”, in queste isole, è un grave atto di maleducazione. Vale invece il principio: “Dove ci sta uno ce ne stanno cento. E fate salire anche la scrofa con i maialini”. Quelle sei o sette ore di camion lasceranno in voi un ricordo indelebile. Tornati a casa, passerete le nottate a cercare di immaginare come sia stato possibile trasportare in un solo camioncino 22 sacchi di cemento, 11 cesti di frutta, varie assi di legno, 8 galline e 2 maialini vivi infilati in sacchetti di plastica, una dozzina di grossi sacchi contenti radici e tuberi, uno strano animale imbalsamato, 26 passeggeri senza contare il guidatore e due “buttadentro” di equipaggio, con un numero imprecisato di bambini, sporte, bagagli e valigie al seguito. E faccio grazia dei frutti di durian, talmente putrescenti da dare il voltastomaco ad una puzzola. Quando proprio non ne potete più, siete arrivati a Lamalera. Siete arrivati nell’ultimo villaggio di balenieri ecologici del mondo che ancor oggi cacciano i grandi cetacei su piroghe di legno utilizzando come unica arma un arpione di bambù e tanto coraggio.
Se “balenieri ecologici” vi pare un ossimoro, considerate che per questa gente, il capodoglio, così come la pesca di squali e mante, rimane l’unica fonte di nutrimento. La stessa Greenpeace ha definito assolutamente ininfluente ai fini della conservazione della specie quei 10 o al massimo 15 cetacei che i balenieri di Lamalera riescono a fiocinare in un anno e che danno sostentamento a tutto il villaggio. La cattura di un capodoglio, a queste latitudini, è un avvenimento che coinvolge tutta la popolazione. Sono i pescatori al largo, i primi ad urlare “Baleo! Baleo!” quando all’orizzonte appare lo sbuffo di un cetaceo. Quando il grido arriva a terra, la gente lo ripete a squarciagola per darsi forza e coraggio mentre le lunghe “tena” vengono spinte in mare e l’equipaggio rivolge una preghiera a dio e si prepara a salpare. I rematori cominciano a pagaiare forte, il timoniere tiene salda la prua verso il mare aperto ed incita i marinai, prestando orecchio alle indicazioni della vedetta arrampicata sull’asta. A prua, il capo barca prepara il suo arpione di bambù e si tiene pronto a gettarsi sul cetaceo con tutto il peso del suo corpo per far penetrare in profondità l’asta mentre il mare si tinge di rosso e l’equipaggio colpisce con coltelli e machete l’animale per fiaccarne la resistenza. Una battuta di caccia può durare anche una intera giornata e trascinare la tena a molte miglia dalla costa. Al ritorno, il grosso cetaceo viene trascinato a riva dove viene immediatamente smembrato dalla gente del villaggio seguendo criteri antichi. La carne scura spetta ai balenieri, il grasso della testa all’arpionatore, ogni famiglia del villaggio, compresi eventuali ospiti, riceve la sua parte. Tutto viene utilizzato. Due giorni dopo la cattura, del grande cetaceo non rimane che qualche chiazza di sangue sulla sabbia. Il martedì successivo, le donne di Lamalera con secchi zeppi di grasso in testa e le lunghe ossa del capodoglio in mano, si recano al mercato di Wulandoni, a quattro ore di cammino. Qui, i pescatori e i contadini di Lembata si incontrano per barattare i rispettivi prodotti seguendo valori dettati da una tradizione millenaria. I primi, i pescatori di Lembata, sono tutti cattolici. Hanno nomi come Maria, Giuseppe oppure chiamano i bambini con i nomi dei calciatori del Milan di cui sono tifosissimi. Ho conosciuto personalmente un Pato e un Gennaro (Gattuso). Una tena è stata battezzata “Fly Emirates”, lo sponsor del Milan. Ho chiesto in giro, ma non ho trovato nessuno che sapeva che si trattava di una compagnia aerea. I secondi, i contadini dei vicini villaggi, sono invece mussulmani e tendono a tifare per l’Inter o per il Chelsea. Le magliette con i colori delle squadre del cuore sono uno dei regali più ambiti dopo il cellulare (che comunque qui prende solo per un’ora al giorno). Le cose cambiano anche a Lamalera. “Che cambi l’uomo è cosa buona e giusta - mi spiega Antonio, timoniere della Fly Emirates, in un inglese che è senz’altro meglio del mio - ma che cambi il mare no. Ai tempi di mio padre, catturavamo 20 o anche 30 balene all’anno. Adesso i re del mare fanno sempre più fatica ad arrivare alla nostra isola. Grandi navi chiudono loro la strada (baleniere giapponesi.ndr). Sparano loro con arpioni di fuoco che esplodono. I loro equipaggi prendono tutto quello che si può prendere dal mare, senza criterio. Quanto grande è il loro villaggio, mi chiedo? A quanta gente devono dare da mangiare? Ma non capiscono che se oggi uccidono il grande mare domani non ci sarà più nutrimento per nessuno?” Antonio scuote la testa e per tirarsi su mi snocciola la formazione del Milan. Mi chiede da dove vengo. “Italia. Ah, Italia. E’ vicino a Milan vero?” Poi mi dà di gomito e ride. “Italia bunga bunga?” Niente da fare. Neppure Lamalera è abbastanza lontana.

Le brigate mediche di Ya Basta

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Caracol de La Realidad, Chiapas - Il 1997 fu un anno decisivo per l’insorgenza zapatista nel Chiapas. Quel settembre, mille cento e undici guerriglieri dell’Ezln - l’esercito zapatista di liberazione nazionale - marciarono dalla selva Lacandona sino allo Zòcalo, l’immensa piazza posta nel cuore di Città del Messico. Gli “insurgentes”, protetti dal caratteristico passamontagna nero, denunciavano le continue aggressioni di militari e paramilitari alle comunità indigene del sud e chiedevano l’applicazione degli accordi di San Andrés che consentivano forme di autogoverno per i 56 popoli nativi del Messico. Accordi che il governo, l’anno precedente, aveva firmato e subito dopo disconosciuto, grazie anche all’appoggio esterno del Prd, il forte partito di centrosinistra allora all’opposizione. L’ingresso degli zapatisti nella capitale fu un’apoteosi di folla: quasi un milione di messicani si riversò sulle piazze per salutare, applaudire e sostenere los rebeldes del Chiapas.

Il quotidiano la Jornada scrisse che nemmeno un redivivo Emiliano Zapata avrebbe saputo infiammare di tale entusiasmo le strade di Mexico City. La risposta del governo fu immediata e violenta. L’80 per cento delle forze militari messicane, rinforzate da “consiglieri di guerra” Usa, fu dirottato nella regione del Chiapas per soffocare la rebeldia. I reparti speciali dell’esercito intensificarono le incursioni nelle comunità indigene e parallelamente, gruppi paramilitari finanziati dai latifondisti compivano sanguinose azioni terroristiche che culminarono nella strage di Acteal, dove il 22 dicembre furono torturati e ammazzati 45 indigeni tra cui 25 donne e 15 bambini. Appartenevano ad una associazione di matrice cattolica e pacifista. Nessuno di loro aveva mai partecipato ad alcuna azione di guerriglia e le uniche armi trovate nel villaggio furono due forconi e un machete.
E’ in questi anni tragici che l’associazione italiana Ya basta! attiva quelle che più tardi chiamerà le “brigate mediche” a sostegno delle rete sanitaria che gli zapatisti, tra tante difficoltà, cercavano di costruire nella selva.
“Il nostro primo impegno - ricorda Vilma Mazza, portavoce dell’associazione - fu la raccolta di fondi e di medicinali per realizzare la prima clinica indigena, la Guadalupana, situata nel municipio autonomo di Oventic. Successivamente, contribuimmo a costruire una seconda clinica a San José del Rio, nella zona Selva. Queste furono le nostre prime iniziative sul campo medico. Negli anni successivi portammo ambulanze, personale, medicine e strumentazioni seguendo sempre le indicazioni delle giunte di governo indigene che puntavano ad un modello sanitario diffuso e radicalmente opposto a quello offerto del governo messicano, arroccato sui grandi ospedali cittadini, quasi sempre privati e certo non usufruibili dagli indigeni”.
Significativa a questo proposito, la vicenda della grande clinica che il governo realizzò nel ’94 a Guadalupe Tepejac, un piccolo centro nel bel mezzo della selva Lacandona, ad una decina di ore di auto da San Cristóbal de las Casas. Fu una bella inaugurazione: giornalisti, ministri, televisioni, strutture moderne, stanzoni lindi e dipinti a fresco, noti primari delle cliniche di Città del Messico che illustravano ai tanti ospiti “vip” della televisione e della politica, le meraviglie delle apparecchiature presenti. Il giorno dopo la festa, i macchinari erano già imballati e pronti per essere rispediti alle cliniche private del nord che li avevano cortesemente prestati. Il personale medico e paramedico faceva ritorno alle proprie sedi di lavoro, e nel villaggio di Guadalupe Tepejac restava ad imputridire nel verde della selva un perfetto esempio di “cattedrale nel deserto”. Tre anni dopo, inoltre, il paesino fu occupato dall’esercito e presidiato con cannoni e carri armati: l’ospedale - che comunque era tutt’altro che operativo - fu definitivamente reso inaccessibile alle popolazioni indigene per le quali era stato costruito.
Contro queste ipocrite operazioni dettate esclusivamente da possibili ritorni elettorali e propagandistici, gli zapatisti si impegnarono a realizzare una rete di piccoli ma diffusi centri di salute, capaci di coprire l’intero territorio. In un ambiente ancora per buona parte selvaggio, come la selva Lacandona, dove le distanze tra le varie comunità si misurano in giorni di marcia a piedi o a dorso d’asino, un grande ospedale è una struttura senza senso pratico. Così come non ha senso l’introduzione di certi medicinali realizzati per l’utilizzo nelle nostre città. Un esempio è il veleno del serpente che gli indigeni chiamano “ocho pasos”, otto passi. Il nome sta ad indicare che chi viene morso può fare ancora otto passi ma non di più. L’antidoto esiste ma è costoso, deperisce rapidamente e comunque deve essere conservato in un frigorifero. Sotto tali condizioni, meglio rivolgersi alla medicina tradizionale che da secoli ha messo a punto rimedi realizzati con le erbe della foresta, magari non efficaci come un vero siero antiofidico, ma che comunque consentono di salvare la vita al malcapitato.
Nella costruzione delle rete sanitaria zapatista, si sono rivelate di fondamentale importanza le varie spedizioni dell’associazione Ya basta! che a partire dall’anno di nascita dei caracoles, hanno periodicamente portato nel Chiapas personale medico altamente qualificato non tanto per assistere i malati, quanto per formare operatori locali indigeni specializzati nelle patologie più frequenti nell’area. Siamo nel 2002. Sono trascorsi oramai otto anni da quel primo gennaio del ’94 in cui il Messico si trovò a fronteggiare una rivoluzione indigena che per tanti versi richiamava quella zapatista del 1910, e il mondo ascoltava attonito il grido di un uomo col volto coperto da un passamontagna che si faceva chiamare soltanto Marcos, che dalla finestra del municipio di una San Cristóbal occupata con le armi in pugno, urlava al mondo: Ya basta! - adesso basta! Dopo otto anni di guerriglia, di massacri e di accordi traditi, l’Ezln decide di rompere definitivamente col governo, con tutti i partiti e col potere politico, per intraprendere la strada di una autonomia che parta dal basso. Gli zapatisti fondano le loro isole di libertà costituite da 39 municipi autonomi raccolti in cinque regioni autogovernate chiamate caracoles ognuna delle quali retta da una “Junta de Buen Gobierno” eletta dagli indigeni col sistema della rotazione periodica degli incarichi. Per inciso, “caracol” significa “lumaca”, il cui guscio a spirale, secondo una tradizione cara alle popolazione del centroamerica, simboleggia una concezione orizzontale e democratica della politica, contrapposta a quella centralizzata e piramidale.
In questi anni, Ya basta! intensifica la sua collaborazione con l’Ezln portando avanti, oltre alle brigate mediche, anche tanti altri progetti vincenti come, solo per fare un paio di esempi, la diffusione in Italia del caffè Rebelde prodotto dai pueblos indigeni e le continue “carovane” di osservatori internazionali per rispondere alla disinformazione del governo messicano sulla rivoluzione zapatista in atto nel Chiapas.
Pervinca Rizzo, è una dottoressa specializzata in ginecologia. Non se ne avrà a male se la descriviamo come una “ginecologa da battaglia”, sempre in prima linea per tutto quanto riguarda i diritti e la salute delle donne, tanto nel suo ambulatorio nell’entroterra veneziano dove assiste le migranti quanto nella selva Lacandona con le indigene. Pervinca è stata una delle prime dottoresse a seguire le brigate mediche di Ya basta! nelle impervie montagne del Chiapas.
“Gli zapatisti ci avevano chiesto del personale in grado di formare una rete di ‘promotori di salute’ in grado di intervenire nelle patologie più frequentemente riscontrabili nei villaggi - spiega la dottoressa -. Fin dall’inizio era chiaro che non volevano un rapporto assistenziale né con noi né con nessun altro ente, ma che avrebbero gradito comunque un aiuto per essere messi il prima possibile in grado di camminare da soli. E questa è anche la filosofia che ha sempre guidato le nostre brigate mediche. Ogni anno, e spesso anche più di una volta all’anno, io e altri miei colleghi, selezionati in base alle specializzazioni richieste dalle Juntas de buen gobierno, ci rechiamo al caracol de la Realidad e ci mettiamo a disposizione per trasferire le nostre conoscenze scientifiche ai ‘promotori di salute’ indigeni. Non di rado, anche noi impariamo qualcosa dalla loro medicina tradizionale e dagli splendidi erbari che hanno realizzato all’interno delle loro strutture ospedaliere. I ‘promotori’ sono sempre persone motivate e ben preparate. Purtroppo per loro è impossibile compiere l’ultimo passo e diventare veri e propri medici. L’accesso all’università messicana gli viene sempre negato. Abbiamo cercato di farne venire qualcuno in Italia a studiare, offrendoci di coprire noi tutte le spese, ma per la nostra legislazione sono e restano sempre ‘immigrati clandestini’, purtroppo”.
A distanza di 16 anni dallo scoppio dell’insorgenza, i risultati ottenuti dalle Juntas de buen gobierno sulla vita quotidiana delle popolazioni indigene saltano all’occhio viaggiando da un villaggio controllato dall’esercito regolare ad un altro liberato dall’Eznl. La messa al bando degli alcolici, in particolare, con i quali i latifondisti “pagavano” e “pagano” tuttora in certe zone, il lavoro dei contadini, abbruttendoli e controllandoli con la dipendenza, ha migliorato le condizioni di vita dei nuclei familiari. I bambini non girano nudi a chiedere la carità, ma hanno scuole, vestiti e assistenza sanitaria. Le donne, in particolare sono state le prime protagoniste e le prime beneficiarie di questo cambiamento. Le promodoras de salud feminil raggiungono, camminando anche per intere giornate, i villaggi più sperduti, anche pueblos che non si professano zapatisti, per educare le donne ad avere cura del proprio corpo ed a vivere in maniera soddisfacente la propria sessualità con tecniche di contraccezione. Secondo una statistica ufficiale realizzata da un ente governativo sanitario messicano, prima dell’insorgenza, una indigena del Chiapas aveva in media una dozzina di bambini, di cui gliene sopravvivevano meno di metà. Oggi, nei villaggi zapatisti, le donne hanno 4 o 5 figli con alte probabilità di sopravvivere all’infanzia.
Sono conquiste come queste che hanno dato orgoglio, vita e speranza di futuro alla rivoluzione zapatista.
“Le donne del Chiapas hanno avuto il coraggio di riprendersi in mano la loro vita - spiega Pervinca - Un proverbio citato spesso da queste parti recita: quando avanzano le donne, nessun uomo può retrocedere. Ed è stato proprio così. Le donne del Chiapas sono state le prime a capire che così non potevano più andare avanti e che, per i loro figli, per il loro futuro, non avevano altra scelta che quella di fare la rivoluzione. Quando sono arrivata nella selva Lacandona per la prima volta, mi sono trovata davanti a situazioni tremende. Col beneplacito del governo, operavano sedicenti organizzazioni ‘umanitarie’ che sterilizzavano senza consenso le donne indigene che si sottoponevano a trattamenti medici operatori. Alle donne in allattamento, affermando che ‘faceva bene alla loro salute’, venivano praticate da medici che non esito a definire indegni, iniezioni di un farmaco chiamato depo-provera a base di ormoni progestinici con lo scopo di evitare che portassero avanti altre gravidanze. Questi farmaci sono medicinali pericolosissimi per la salute sia della puerpera che del bambino in allattamento, ma che venivano ugualmente iniettati in dosi massicce a donne inconsapevoli degli effetti. Per dire le cose come stanno, le indigene venivano trattate come bestie. Nessuna meraviglia che siano state le donne le prime a prendere in mano il machete e a mettersi il cappuccio in testa!”
Combattere la povertà (ammazzando tutti i poveri?) e favorire lo “sviluppo economico” delle aree arretrate del Chiapas. Era questo l’obiettivo perseguito da enti governativi e benemerite associazioni di medici - macellai, quasi tutte statunitensi e finanziate dai “programmi umanitari” di multinazionali. Agivano in collaborazione con il governo dello Stato del Chiapas e con i latifondisti, per legge costituzionale, padroni di tutta la terra, di tutta l’acqua e di tutti gli indigeni che vivevano nelle loro fincas e che dovevano pure pagargli l’affitto dei campi in ore lavorative. Un modo come un altro per dire schiavi. Era la loro voce, quella che il primo gennaio del 1994 gridava dalla finestra del municipio di San Cristóbal de las Casas: ya basta!

La sacra acqua degli himba

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Epupa Falls, Namibia - Nelle regioni settentrionali della Namibia, nell’arida regione del Kaokoland, tra la vasta e polverosa piana dell’Etosha a sud, e le sconfinate foreste pluviali dell’Angola a nord, vive il popolo degli himba. Gli herero, con i quali condividono la lingua ma non certo i costumi, antepongono al nome “himba”, il popolo, l’aggettivo “ova”, medicanti, che dà il termine “ovahimba”, ovverosia popolo di mendicati, con il quale sono denominati in Namibia. Ancora oggi gli herero occidentalizzati rinfacciano agli himba di aver abbandonato circa un secolo e mezzo fa, per paura delle aggressioni delle tribù dei nama, la terra degli avi e aver attraversato il sacro fiume Kunene per chiedere ospitalità alle tribù boscimani delle quali successivamente adottarono e rielaborarono gli stili di vita. Così che, quando, nel 1920, ritornarono nella terra natia, gli himba portarono con sé usi e costumi completamente diversi da quelli con i quali erano partiti.

L’esilio in terra boscimana permise al popolo himba di evitare l’occidentalizzazione forzata imposta dai colonizzatori tedeschi che, al contrario, fece piazza pulita dell’antica cultura herero al pari delle altre culture native del territorio occupato. Oggi, con una “tradizione” risalente tutt’al più al tardo ‘800, gli himba sono probabilmente il gruppo etnico più “moderno” che cammina su questa nostra terra.
I circa mille e cento himba ancora rimasti sono prevalentemente nomadi e pastori. Gli uomini seguono le vacche in lunghe transumanze che possono durare anche varie settimane. Le donne fanno tutto il resto: allevano capre e pollame, curano i bambini, raccolgono gli ortaggi, costruiscono le capanne con argilla, legno e sterco, cuociono e conservano il cibo, realizzano manufatti, si occupano della medicina tradizionale e delle pratiche religiose. Al centro dei villaggi himba, brucia sempre l’okuruwo, il fuoco sacro che con il suo bagliore allontana i cattivi demoni che avvelenano i cuori degli uomini e fanno ammalare i bambini. Ad aver cura giorno e notte del piccolo falò, che serve anche a far bollire le farine, è sempre una sciamana donna, scelta tra le più anziane della tribù.
Fino a poco tempo fa, una parte importante nella vita quotidiana degli himba, sia pure non paragonabile all’allevamento, ce l’aveva anche l’agricoltura. L’inverno tropicale portava con sé le “piccole piogge” che fecondavano la terra inaridita. Era il tempo della semina in attesa che le successive “grandi piogge” facessero germogliare e crescere i raccolti. Ma nel giro di due generazioni, mi ha raccontato una donna himba, tutto è cambiato. Le piccole piogge sono sempre più povere e più distanti. Le grandi piogge arrivano copiose, violente ed improvvise, non portano la vita ma allagamenti e disastri, sino ad isolare l’intera regione per un paio di mesi all’anno. Lei non può saperlo, ma in poche parole mi ha descritto il Climate Change, meglio di un rapporto dell’Ipcc. I villaggi himba hanno come base sociale un nucleo familiare allargato. Ogni uomo può sposare più donne: il primo matrimonio viene sempre combinato dagli anziani, per i successivi è necessario il consenso sia dello sposo che della sposa. Solo le donne possono possedere una capanna. Gli sposi debbono chiedere sempre il consenso alla moglie per dormirci la notte. In compenso, soltanto agli uomini maritati è consentito adoperare una sorta di scomodissimo cuscino “poggiatesta” in legno che gli himba considerato il massimo della comodità e il primo dei vantaggi della vita coniugale. L’acqua per gli himba, è sacra. Solo agli uomini sposati è consentito lavarsi. E soltanto come preparazione alle cerimonie religiose in particolari periodi dell’anno. Le donne si prendono cura del proprio corpo - operazione piuttosto complessa e per la quale impiegano buona parte della giornata - cospargendosi con una mistura di grasso di vacca, burro di capra, terra d’ocra, argilla più qualcos’altro (che ad un uomo come me pare che possa essere rivelato). Con una simile mistura che dona loro quel caratteristico colore rosso scuro, intrecciano anche i lunghi capelli. Le donne si limitano ad indossare per lo più un corto gonnellino ma non trascurano mai di ornarsi con grossi bracciali, lunghe collane e pesantissimi paramenti.
Va sottolineato che gli himba, non ignorano l’occidentalizzazione. Semplicemente la rifiutano. Ad Epupa o a Ondangwa, è consueto di vedere donne himba fare la fila nei supermercati o bersi una birra in un bar. Non di rado, la tribù possiede un furgone o comunque un mezzo meccanico per portare nei mercatini i loro prodotti artigianali, pur se non c’è verso di chiedergli la patente o l’immatricolazione. D’altronde, da queste parti non ci sono neppure strade così come le intendiamo noi. In certi casi, i capi tribù si rivolgono ad avvocati per tutelare i loro diritti e indicono frequenti conferenze stampa per denunciare le costanti pressioni omologative del governo centrale.
In una recente intervista alla Bbc, il ministro namibiano Hidipo Hamutenya ha spiegato che gli Himba “devono abbandonare le loro usanze e imparare a indossare camicie, cravatte e giacche come me e come tutti gli altri» e ha denunciato “l’ipocrisia dei soliti europei che vorrebbero che questa gente continuasse a vivere come bestie per soddisfare la proprie malsane curiosità”. A parte il fatto che gli himba non vivono come bestie e sono perfettamente in grado di compiere le loro scelte, l’attacco del ministro Hamutenya che, non a caso, ha la delega allo “sviluppo economico”, è una conseguenza della lotta che da anni la popolazione himba conduce contro il progetto di una enorme diga sulle Epupa Falls che priverebbe il Kaokoland dell’acqua necessaria al sostentamento dei villaggi indigeni, himba e non himba. Come denunciato da varie organizzazioni ambientaliste africane ed europee, d’altro non si tratta che del solito ecomostro dall’inaudito impatto ambientale e sociale che certo non serve al fabbisogno energetico della regione, già ampiamente soddisfatto, ma alle esigenze delle multinazionali petrolifere che, poco più a nord, stanno devastando le foreste pluviali. Un altro bell’esempio di capitalismo predatorio: un disastro ecologico per alimentare un altro disastro ecologico. Povertà e miseria per pagare altra povertà e miseria. E’ questa l’occidentalizzazione che gli himba rifiutano. Non è una villa a Beverly Hills, ciò che questo cosiddetto “sviluppo economico“ porterebbe loro, ma un letto di cartone ai bordi di una dei tanti “slum” africani.

Or non vuole uccidere

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Venezia - Ha soltanto 19 anni, Or Ben-David. Un musetto da ragazzina impertinente col piercing al naso e l’mp3 pieno di orrida musica hip hop. Chi la incontra, e conosce la sua storia, non può fare a meno di chiedersi dove abbia trovato, questo soldo di cacio qui, tutto il coraggio per fare quello che ha fatto. Perché Or è una “shmnistim”, termine ebraico che indica i diplomati alle scuole superiore rifiutano il servizio militare. “Mi hanno chiamata criminale, ebrea rinnegata, traditrice, ingrata e vigliacca perché altri stanno combattendo e morendo anche per la mia libertà. Ma io so che non è un crimine rifiutarsi di uccidere e dire no ad una società che costringe i ragazzi della mia età ad imbracciare le armi e sparare ai palestinesi”. Il suo “no” all’esercito israeliano le è costato caro: gravi minacce a lei e alla sua famiglia, pesanti conseguenze sul proseguo degli studi e sulla ricerca di un lavoro, quattro mesi di carcere militare. Eppure Or ha sempre tenuto duro. Alla fine, le autorità militari l’hanno congedata con un certificato di inidoneità per “gravi disturbi psichici”.


“E’ una prassi usuale. Quando vedono che non riescono a piegarti ti dichiarano pazzo. Poi ti fanno un discorso che potremmo riassumere così: va bene, hai vinto, ti lasciamo a casa, ma tu vedi di stare zitta e la pianti di denunciare quanto succede nell’esercito”.
Cosa che Or non ha mai neppure messo in preventivo di fare! Tanto è vero che appena uscita dalla galera ha accettato l’invito dell’associazione Payday per una giro di conferenze di denuncia in Europa. Or se ne è partita dalla sua Gerusalemme con un biglietto aereo pagato e una ventina di euro in tasca. Ma che non abbia paura di niente, questo oramai l’ha capito pure l’esercito sionista.
Dopo Londra e Bruxelles, Or è venuta in Italia. L’abbiamo incontrata a Venezia, martedì giugno 2010, in occasione di una iniziativa alla scoletta dei Calegheri, ospite dell’assessorato alla pace del Comune di Venezia. Nei prossimi giorni l’attendava un fitto calendario di incontri: dallo Sherwood festival di Padova al Presidio permanente contro la base Dal Molin di Vicenza.

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Or, perché non hai voluto fare il servizio militare?
Perché combattere per la pace è come scopare per la verginità. In Israele anche i bambini che non sanno ancora leggere e scrivere sono bombardati da una propaganda a favore della guerra. I palestinesi sono quelli che ti odiano e che ti vorrebbero cacciare dalla tua casa, ci dicono. Anche la storia viene falsata. La guerra terrorista che ha portato alla nascita dello Stato di Israele e che ha cacciato i palestinesi è spacciata come la gloriosa guerra di indipendenza. Nella scuole soprattutto, siamo di fronte ad un lavaggio del cervello vero e proprio. Pensate che ogni classe ha come insegnante di sostegno una soldatessa che fa continua propaganda per l’esercito, unico baluardo democratico contro il terrorismo arabo. Ogni classe, inoltre, all’ultimo anno di scuola, trascorre una settimana dentro una caserma che viene proposta come una specie di premio di fine corso. Tutto viene presentato come un gran divertimento. E in effetti, quella settimana è solo una goliardata. Niente di più che una gita scolastica dove i ragazzi, lontani da casa e senza obblighi di studio, si sentono autorizzati a fare un po’ di pazzie. I militari ti incoraggiano a sfogarti e tutto viene fatto passare come una festa. Non ti spiegano però che poi la vera vita militare sarà tutta un’altra cosa!

Ci sei andata anche tu?
Scherzi? Io gli ho tirato la manca. Ma l’ho pagata tutta perché la settimana in caserma è obbligatoria. Mi hanno affibbiato una tesina sull’esercito israeliano e mi hanno tolto 10 punti da tutte le materie. Arte e matematica compresi. Mi sono diplomata per il rotto della cuffia. Ho voluto partecipare però al viaggio che le scuole israeliane annualmente organizzano per visitare i campi di sterminio nazisti. Io ho scelto Birkenau, in Polonia, perché ci era stato mio nonno. Quel che ho visto mi ha fatto star male e per tante notti ho avuto gli incubi. Ma anche in questa terribile occasione, dopo la conferenza sull’olocausto, arrivava puntuale l’incontro con le autorità dell’esercito che ti raccontano come sia indispensabile arruolarsi e difendere con le armi la nostra patria perché non succedano più queste orrori. Ma, mi chiedo io, si può giustificare lo sparare ai palestinesi con l’olocausto?

Come hai maturato questa presa di posizione pacifista?
Non è stato un percorso facile perché sin da bambini ci insegnano ad aver paura. Io avevo 12 anni quando è scoppiata la seconda intifada. Sentivo di autobus che saltavano in aria, di manifestanti palestinesi che tiravano pietre ai nostri soldati. Anche tra i miei parenti e i miei amici si sono stati feriti. Io non riuscivo a capire cosa poteva spingere un uomo ad abbandonare il lavoro e a farsi saltare in aria in un bar solo perché era frequentato da ebrei. Ricordo di aver chiesto alla mia maestra perché succedevano questa brutte cose e lei mi rispose che era sempre stato così: i palestinesi odiano gli ebrei e gli ebrei si devono difendere da questo odio. Quando avevo 16 anni ero orgogliosa di essere israeliana ed ero pronta ad arruolarmi per fare il mio dovere e dare il mio contributo alla mia patria e alla nostra libertà. Quando la mia migliore amica che proveniva da una famiglia pacifista, mi disse che lei non avrebbe risposto alla chiamata di leva ricordo che mi arrabbiai moltissimo con lei. La chiamai traditrice ed ingrata. Le dissi esattamente tutte quelle cose che ora dicono a me. Ma un po’ alla volta cominciare a pensare e a pormi delle domande: davvero tutto quello che mi stavano insegnando a scuola corrispondeva alla verità? O piuttosto non erano tutte bugie che mi erano state messe in testa per farmi fare quello che volevano che facessi? Ma la storia si può falsare solo fino ad un certo punto. Le prepotenze e le ingiustizie perpetrate dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi sono talmente tante e talmente evidenti che solo chi non vuole vederle non le vede.

Quindi sei diventata una shmnistim?
Già. Ho spedito una lettera al ministero spiegando loro che non avrei risposto a nessuna chiamata dell’esercito. È cominciata una guerra psicologica. Sono stata convocata dal preside ed agli insegnanti che hanno cercato di farmi cambiare idea. Poi è toccato alle autorità dell’esercito. Tutti a dirmi che facevo una gran stupidaggine e che l’avrei pagata cara e che con me l’avrebbe pagata cara anche la mia famiglia. Ma io ho tenuto duro. Così mi hanno condannato ad una settimana di carcere militare a titolo dimostrativo e poi mi hanno mandata a casa. Era un modo per dirmi: vedi com’è brutta alla galera. Basterebbe accettare fare come tutti gli altri per evitarla. Ma tutte queste esperienze e queste pressioni mi spingevano ancora di più a tenere duro perché in fondo mi dicevano solo che avevo ragione io. Così sono tornata in prigione. Dopo quattro mesi di carcere mi hanno chiamata per un colloquio e mi hanno domandato se avevo cambiato idea e se fossi disponibile a fare il servizio di leva. Ho risposto di no. A questo punto mi hanno congedata con il certificato di inidoneità per gravi disturbi psichici di cui ti dicevo.

Quanti sono gli shmnistim israeliani?
Chi può dirlo? Di certe cose in Israele non si può parlare. E l’esercito di sicuro non rilascia statistiche. Molti rifiutano la leva ma, al contrario di me, fanno di tutto per nasconderlo. Vuoi perché hanno paura di ritorsioni verso di loro o verso le loro famiglie, o vuoi perché a dirlo pubblicamente hai solo svantaggi. Ti ripeto che non è una scelta facile. Isreale è un paese in guerra e non è la stessa cosa che fare l’obiettore in altre parti del mondo.

Come ha vissuto questa scelta la tua famiglia?
Vengo da una famiglia composta per la maggior parte da ebrei mizrachi (sono gli ebrei appartenenti alle comunità provenienti dai paesi arabi.ndr). In qualche modo, i mizrachi si sentono in dovere di dimostrare di essere più ebrei degli ebrei, quasi che avessero qualcosa da farsi perdonare. Sono per la grande maggioranza di destra e i miei non fanno eccezione. Detto questo, sono la mia famiglia e voglio loro bene tanto quanto loro ne vogliono a me. Mi considerano, nella migliore delle ipotesi, una testa calda ma non hanno mai smesso di dimostrarmi il loro affetto anche se non condividono la mia scelta. Mia sorella più piccola, ad esempio, non vede l’ora di fare la soldatessa quasi per rimediare allo sgarro compiuto da me.

Come vivono i giovani questa situazione di guerra continua?
Con rassegnazione. E’ difficile anche cercare il dialogo con i palestinesi. Bisogna considerare anche la barriera della lingua. Gli ebrei vedono i palestinesi solo come un pericolo: sono quelli che ti lasciano la bomba sotto il sedile dell’autobus, quelli sempre pronti ad accoltellarti alle spalle. I palestinesi, d’altro canto, conosce noi ebrei solo come i coloni o come i soldati che gli tirano giù la casa col bulldozer. Prendete Gerusalemme. E’ una città mista ma palestinesi ed ebrei non si incontrano mai, non hanno né luogo né occasioni di incontro.

Neppure nelle scuole?
Ma chi è l’ebreo che manderebbe suo figlio in una scuola dove ci sono anche i palestinesi? E magari a studiare l’arabo? L’incomprensione ha radici profondissime e l’esercito, che in Israele è una vera e propria vacca sacra, ha gioco facile nell’imporre proprio a partire dalle scuole una mentalità di guerra perenne e far fiorire stereotipi e incomprensioni. Anche tra i giovani, l’idea più diffusa, sia da una parte che dall’altra, è che così è sempre stato e così sempre sarà. Palestinesi contro ebrei, ebrei contro palestinesi. Anche all’estero, non si esce da questo luogo comune. Fateci caso, anche da voi, in Italia, si parla di Israele e Palestina come di una partita di calcio, da tifare per una parte o per l’altra. Ma non è così semplice.

Cosa significa fare il servizio militare in Israele?
Fare la guerra e portare altre ingiustizie a gente come i palestinesi che già ne hanno subite troppe. Ma non sono solo loro le vittime dell’esercito. Quello che in Israele non si può dire e che l’esercito non vuole che si sappia è il trattamento cui sono sottoposti i soldati di leva. Le violenze fisiche e psichiche sono quotidiane. In particolare sulle donne. Il reparto fureria, ad esempio, che è sempre femminile, viene chiamato il “reparto materasso”. E non c’è nulla da ridere perché son tutti stupri. Pensa che se ogni donna militare ha diritto ad un aborto gratuito (in Israele l’aborto è libero ma si paga.ndr), una che presta servizio in fureria ne ha due. E la medie per le ragazze in servizio di leva è proprio questa: due aborti in due anni di servizio militare.

Non usano sistemi anticoncezionali?
Ma che bel ragionamento da maschietto! Devi sapere, caro mio, che nessuna ragazza, sia ebrea o araba o di dove vuoi tu, prende la pillola perché mette in preventivo di essere violentata. Lo fa se vuole avere rapporti col suo ragazzo ma ti assicuro che in quello schifo di guerra e in quello schifo di vita, l’amore è l’ultima cosa che ti viene in mente! Il problema vero è che sotto le armi, lo stupro di un superiore o di un commilitone non è neppure considerato un reato. “Son cose che succedono – ti dicono – Ci son passate tutte e ci passerai pure tu”.

Scusa tanto. E i ragazzi di leva?
Capita che vengano stuprati pure loro, pur se con altre conseguenze che per le donne. Il trattamento alla fine dei conti non è molto diverso. Scarafaggi. Sono trattati come scarafaggi. E considera che nella logica dell’esercito deve necessariamente essere così, altrimenti non riuscirebbero a fargli fare tutto quello che fanno ai palestinesi. Più lo incarognisci e più il soldato ti torna buono per la guerra.

Ancora una domanda. Nel tuo giro per l’Europa hai incontrato molte associazioni che propongono il boicottaggio dei prodotti israeliani. Che ne pensi di questa politica?
Che da sola non serve a niente. Anzi, rischia di essere controproducente. Mi spiego meglio. Non sono contraria al boicottaggio se questo serve a smuovere l’opinione pubblica all’estero, ma devi considerare che in Israele viene visto solo come un atteggiamento antisemita che spinge gli ebrei a rinchiudersi ancor di più in se stessi. Ti faccio un esempio. Durante l’ultima intifada, la cantante pop Shakira ha annullato il suo tour in Israele per protestare contro le violenze dell’esercito israeliano nei territori occupati. Ma cosa è passato nei mass media ebraici? Solo la prima parte del discorso: “Shakira ha annullato il suo tour in Israele”. Di conseguenza, Shakira ce l’ha con noi ebrei. Shakira è antisemita. Via tutti i dischi di Shakira dalle nostre rivendite. E’ questo, mi domando, il risultato che si voleva ottenere? Meglio hanno fatto altre rock star che hanno tenuto ugualmente i loro concerti ma prima hanno parlato agli spettatori spiegano loro che non era giusto che i soldati israeliani facessero quello che stavano facendo. Per molti giovani, è stata la prima occasione di sentire una campana diversa da quella che gli suona la scuola o l’esercito. Per il boicottaggio la penso alla stessa maniera. Da solo, se non è supportato da iniziative di contro informazioni capaci di fare breccia nella società, non serve a niente se non a rafforzare il nostro atteggiamento di popolo in continua guerra contro tutti.

Pay Day e il movimento dei “refusing”

“Refusing to Kill is not a Crime”. Rifiutarsi di uccidere non è un crimine. Al contrario, è una scelta etica e coraggiosa perché, come ha scritto Or Ben-David nella lettera che ha inviato alle autorità dell’esercito israeliano per motivare la sua decisione di obiettare al servizio militare, “Rifiutare significa dire no: no alla guerra, no a una società che costringe i giovani a portare armi, a uccidere e a essere uccisi”. Una scelta etica e coraggiosa, dicevamo, perché chi rifiuta di imbracciare il fucile, viene immancabilmente incarcerato, perseguitato e diffamato. Per questo è importante che i refusing non siano lasciati soli e che associazioni, enti, partiti, movimenti e cittadini che si riconoscono nei valori della pace e del disarmo, si schierino a loro sostegno con iniziative che facciano conoscere la loro storia e la loro situazione. Anche una semplice cartolina, può essere determinante. “In tutti quei mesi che ho trascorso in carcere, sottoposto a torture fisiche e psicologiche - ha scritto un refusing curdo che si è rifiutato di prestare servizio militare nell’esercito turco – quello che mi ha dato la forza di tenere duro sono state le lettere di incoraggiamento che mi arrivavano da tutte le parti del mondo. Tante erano scritte in linguaggi incomprensibili ma tutte mi dicevano che al di là di mura c’era della gente che era d’accordo con me e che non mi considerava un traditore e un vigliacco ma un uomo libero che aveva scelto la pace alla guerra”. Sostenere i refusing e le loro scelte, è lo scopo è dell’associazione internazionale Payday (che significa “Giorno di paga”) che sostiene le lotte di tutti i refusing del mondo, dagli shministim israeliani ai militari inglesi e americani che si rifiutano di uccidere in Afghanistan, alla Turchia, alle Filippine, sino all’Honduras e alla Colombia.
Nel sito dell’associazione,
www.refusingtokill.net potete leggere le storie di tantissimi “signornò”. Storie che raccontano di come sia stata sofferta ma irrinunciabile la decisione di rifiutarsi di eseguire gli ordini dei loro superiori e di quanto gliela abbiano fatta pagare cara. Storie che nessun esercito vorrebbe mai far ascoltare.

Waorani, il popolo resistente

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Comunità Waorani Tobeta, Orellana, Ecuador - Dayuma era una bambina di cinque o sei anni quando quattro pastori evangelici l’hanno rapita e portata a New York. I primi mesi, Dayuma piangeva tutti i giorni e tutte le notti. Guardava quell’assurdo orizzonte di cemento e grattacieli sognando l’apparire di suo padre alla testa di tutti i cacciatori waorani con lance e machete, venuti per riportarla nella sua capanna sul grande rio Napo. Col lento trascorrere del tempo, la piccola Dayuma, cominciò ad accettare le premure di quegli strani uomini bianchi che l’avevano rubata alla sua foresta. Un poco alla volta, cominciò ad apprendere il loro linguaggio mentre i pastori annotavano diligentemente tutte le parole della lingua waorani che lei pronunciava e gliene chiedevano il significato. Dayuma raccontava loro la storia di Waengongi, il dio scimmia creatore della foresta e di tutto l’esistente ma che non doveva essere né temuto né adorato.

Narrava dell’ayahuasca e di come questa magica bevanda, con l’aiuto dello sciamano, ti permette di riappacificarti con il tuo Wenae, che sempre è dentro di te anche se qualche volta tace. Raccontava della morte e di come questa non deve essere temuta perché lo spirito che abbiamo nel cervello ascende al cielo e quello che abbiamo nel cuore diventa un giaguaro. Gli uomini bianchi ascoltavano attentamente quello che Dayuma diceva, prendendo appunti e scuotendo le teste. E intanto le parlavano del Cristo crocifisso dalla cattiveria degli uomini e del peccato originale che deve essere mondato dal bettesimo. La insegnavano che il vero dio era uno e uno solo, e non aveva la testa di giaguaro né l’astuzia della scimmia. E lui, Dayuma, era la prescelta da questo dio onnipotente ed infallibile per portare a termine una grande missione: convertire alla vera e unica fede il popolo waorani.
Quando Dayuma ebbe una quindicina di anni, i pastori evangelici le dissero che doveva essere felice perché era arrivato il gran giorno del suo ritorno al popolo waorani e che loro l’avrebbero accompagnata per aiutarla a convertire al cristianesimo l’ultima nazione indigena che ancora rifiutava ogni contatto con la civiltà. Così Dayma fece.
Adesso la sua tribù non esiste più. Con il vangelo arrivarono morte, malattie e una civiltà che non ammetteva confronti e relativismi. Arrivarono le ruspe, le strade, i coloni, i madederos (commercianti di legname pregiato) e poi anche le multinazionali del petrolio che adoravano uno strano dio chiamato ‘sviluppo economico’ che doveva portare ricchezza e benessere per tutti. Gli ultimi discendenti della tribù di Dayuma oggi ciondolano alcolizzati per le baraccopoli di Quito o di El Coca e non sanno più nulla di come, dopo la morte, lo spirito si reincarni nel giaguaro.
Questo accadeva negli anni ’40. Oggi Dayuma è una vivace novantenne che tira avanti bevendo litri di mate alla coca e si intrattiene volentieri con tutti coloro che le chiedono di narrare la sua storia. Solo, chiede di non essere fotografata per un qualcosa che ha a che fare con l’anima. Tira dalla cannuccia e racconta di quella giovane ragazza waorani ritornata alla sua tribù dopo oltre quindi anni di assenza per accorgersi che oramai non poteva più vivere né nella foresta né nelle città degli uomini bianchi. Racconta di uomini bianchi che credeva amici, che le avevano fatto da famiglia solo per usarla ed ingannarla. Racconta di un ritorno tanto sognato e di come con lei arrivarono le sciagure che sterminarono la sua gente.
Ma la storia di Dayuma non finisce qui. Col denaro che le avevano dato gli uomini bianchi, lei ha contribuito a fondare una comuna che oggi porta il suo nome e dove convivono fraternamente indigeni kichwa e campesinos ecuadoriani. E oggi questa comuna, spiega con orgoglio nonna Dayuma,è la più resistente di tutta l’Amazzonia ecuadoriana.
Grazie alla disponibilità del portavoce di Ya Basta! in Ecuador, Eugenio Pappalardo, abbiamo raggiunto la comuna Dayuma, che si trova a un paio d’ore di pick up da Puerto Francisco de Orellana (El Coca, per gli ecuadoriani), capoluogo di una provincia che nuota in un mare di petrolio. Le multinazionali, tra le quali, non dimentichiamo c’è l’italiana Agip, qui fanno il bello e il cattivo tempo. I loro sgherri piantano posti di blocco, chiedono documenti, si informano su chi sei e su dove vai. Non vogliono giornalisti o osservatori internazionali tra i piedi. Non è bello che si venga a sapere in giro per il mondo di quella specie di stupro sistematico cui i petroleros sottopongono quotidianamente il “polmone verde dell’umanità”! Così, ad ogni domanda, Eugenio ed io mentiamo regolarmente e spudoratamente. E pure senza sensi di colpa. La carretera scorre accompagnata da chilometri e chilometri di tubi. Tubi di tutte le misure e di tutte le dimensioni. Con un solo denominatore comune: sono fatiscenti e senza valvole di sicurezza. I petroleros puntano sulla quantità perché la qualità del crudo non è delle migliori e l’Amazzonia non ha rivali su questo fronte. Anche se una perdita inquina un’area grande come il lago di Garda, il profitto complessivo non ne risente. ”Ne risente il colono o l’indigeno che vede morire il bestiame e ammalare i figli e non può farci niente – mi racconta Diocles Zambiano, leader della rete per i diritti umani Angel Shingre -. Lamentarsi o sporgere denuncia è cosa poco intelligente. Arrivano gli sgherri dei petroleros e la polizia a menarti con l’accusa di aver sabotato i tubi”. Angel Shingre è il nome di un campesino che, per l’appunto, si è lamentato una volta di troppo.
Diocles è stato uno promotori del grande “paro” del 2007 che vide l’intera comunità di Dayuma –campesinos e indigeni insieme – bloccare per oltre una settimana la strada che collega El Coca con i pozzi. Gli sgherri stavolta non bastarono a riportare l’ordine. E neppure la polizia. Ci vollero mezzi blindati e 3 mila uomini dei reparti speciali ecuadoriani, espressamente inviati dal compagno presidente Rafael Correa (ma sì! quello che parla tanto di socialismo!). Prima di capitolare la comuna si difese utilizzando lo stesso tritolo con cui i petroleros effettuano la cosiddetta introspezione sismica, esplosioni a varie profondità per verificare la portata del giacimento, e riuscirono a far saltare in aria un paio di autoblindo.
Una targa, posta lo scorso anno all’entrata del municipio di Dayuma, commemora il grande “paro” e la durissima repressione che ne seguì.
“E’ vero, il compagno Correa ha nazionalizzato qualche impresa petrolifera ma le imprese statali si comportano come le multinazionali straniere se non peggio - mi spiega Diocles-. Ha mandato via gli americani dalla base di Manta ma ha chiamato i cinesi… Fa l’amicone con Chavez che è un altro bel tipo che massacra l’ambiente e calpesta i diritti dei popoli indigeni. La verità è che il comunismo è una mierda proprio come il capitalismo perché sotto sotto l’idea di economia insostenibile che perseguono è la stessa”.
Grazie alla junta paroquial (come dire, il consiglio comunale) di Dayuma, riusciamo a raggiungere, ad un solo giorno di viaggio, la comunità waorani Tobeta per parlare col loro “capo di guerra”
Marco (il suo nome spagnolo. Quello waorani proprio non l’ho capito…)
E’ un momento delicato. Due giorni prima (il 12 agosto), alcuni waorani presumibilmente “non contattati” hanno massacrato una intera famiglia di coloni. L’aggressione è avvenuta a pochi chilometri di distanza da Dayuma. Madre, padre, un figlio e una figlia tutti uccisi a colpi di lancia. Gli aggressori sono poi fuggiti nella foresta con il terzo bambino, un bebè di pochi mesi, lasciando otto lance di guerra piantate nel petto della madre.
Marco arriva in tarda serata e ci riceve dopo che abbiamo compiuto tutti i rituali di ospiti: bere la cicia, consegna dei regali (due bottiglioni di coca cola taroccata), presentazione agli anziani e alla sciamana. E’ preoccupato e soddisfatto al tempo stesso. Preoccupato perché teme che il massacro pregiudichi i mai idilliaci rapporti tra coloni e waorani. Soddisfatto perché poche ore, e grazie all’aiuto del suo cane, fa è riuscito a ritrovare il bambino ancora vivo abbandonato in una pozza d’acqua. “Abbiamo battuto la foresta gridando nella nostra lingua che anche noi siamo waorani, che vogliamo solo il bambino rapito e che non vogliamo fare del male a nessuno. Hanno lasciato il bimbo ma non ci hanno risposto. E se non vogliono farsi trovare non c’è niente da fare – racconta Marco – Certo, non posso giustificare il massacro di innocenti che hanno compiuto. Ma dobbiamo tener conto che sono terrorizzati. Vedono morire la foresta attorno a loro, non capiscono quel che succede e non sanno distinguere tra giusti e innocenti, tra petroleros e campesinos. Ma noi waorani Tobeta abbiamo gli occhi per vedere i nostri figli giocare sui tubi di crudo e ammalarsi. E abbiamo ancora la saggezza di ricordare l’epoca non lontana in cui mio padre guidava i nostri cacciatori contro i bianchi. Voi siete ospiti e amici, e potete fermarvi quanto volete, ma in cambio dovete dire al mondo che i waorani non lasceranno morire la foresta che è la loro vita. Siamo un popolo guerriero e siamo pronti a riprendere in mano le lance per cercare quanto meno una morte dignitosa”

Nuke Mapu, la Madre Terra mapuche

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El Maiten, Patagonia - Il viaggiatore che percorre quel tratto della polverosa ed infinita Ruta Nacional 40 che, scendendo dal nord dell’Argentina, porta ad Esquel, nello stato del Chubut, non potrà fare a meno di sorprendersi nel trovarsi di fronte, nel bel mezzo di quello sterminato niente che è la pampa della Patagonia, ad un enorme cartellone pubblicitario. Nelle ultime sette o otto ore di carreggiata, era già tanto se il nostro viaggiatore aveva incrociato un paio di gaucho a cavallo e tutt’al più una mezza dozzina di puzzolenti e solitari alpaca.

E adesso ecco spuntare all’orizzonte sconfinato della pampa quell’assurdo cartellone firmato niente meno che da Oliviero Toscani, che gli fa sgranare gli occhi increduli e dubitare di trovarsi di fronte ad uno di quei miraggi per i quali altri deserti sono famosi. A riportare il nostro viaggiatore alla realtà è il posto di blocco con autoblinde corazzate e militari in giubbotto antiproiettile che lo fanno scendere dal pick-up col mitra puntato, per controllargli carico e documenti. In sudamerica, non c’è niente di più efficace di un reparto dell’esercito in azione antiguerriglia per sgomberarti la mente dai sogni. Eppure, abbinato a tutto quello spiegamento di forze, quel cartellone che ostenta tutti quei toni spiccatamente mondialisti e pacifisti che contraddistinguono le opere del fotografo italiano, appare ancora più assurdo. Il grande manifesto ritrae il volto, saggio e tuttavia rassegnato, di un vecchio indigeno. A lato, una scritta sobria informa il viaggiatore che a quel punto delle carreggiata, una deviazione conduce a Leleque e al museo con cui l’azienda Benetton - che da queste parti si è comprata un territorio grande come tre provincie del Veneto - ha voluto commemorare la grande e triste storia dei mapuche, “el pueblo desaparecido”. Capirete che i mapuche, che non si sentono affatto “desaparecidos” - perlomeno non ancora - vedono come un calcio negli stinchi questo elegante museo che ha il solo scopo di mettere una pietra tombale sulle popolazioni indigene e sulle durissime lotte per continuare ad abitare quella terra che era loro da molto, molto prima che se la comprasse il signor Benetton. Da qui, si spiega anche il dispiegamento di poliziotti e militari incarogniti, costretti notte e giorno a far la tana sotto l’opera d’arte del maestro Oliviero Toscani.
Ma adesso un’altra storia. Continuiamo il nostro viaggio sulla Ruta 40 e scendiamo ancora più a sud di qualche decina di chilometri – che da queste parti è come, a Venezia, dire “un ponte e una calle”. Dietro una posticcia palizzata, attorno a una ventina di capanne di legno e di pelle, sventola la bandiera bianca e gialla del popolo mapuche. Qui vive, in terra mapuche “recuperata” la comunità indigena di Santa Rosa. Nel febbraio del 2007, questi mapuche hanno tagliato il filo spinato con il quale Benetton si è recintato mezza Patagonia come fosse il giardino della sua villa di Ponzano, e si sono ripresi 565 ettari di terra. Quel che per i mapuche è il “recupero” di Nuke Mapu, la Madre Terra grande e generosa che regala vita e ricchezza a tutti i suoi figli e che, in quanto Nuke Mapu, non può essere né comprata né venduta, per i legali dell’imprenditore trevigiano è “occupazione abusiva”. Ne è nata una dura lotta a colpi di carte bollate ma anche di manganelli, fucilate, case bruciate, persone bastonate.
Sono stati due anni duri, di assedio e di violenze a tutti i livelli, quelli sopportati dai mapuche di Santa Rosa. Un impero economico di statura mondiale che può permettersi di foraggiare plotoni di avvocati, contro un popolo che vive allevando pecore. Eppure, grazie anche all’aiuto di associazioni movimentiste come l‘italiana Ya Basta che, tra l’altro, ha un suo punto di forza proprio a Treviso, i mapuche hanno respinto tutti gli attacchi e continuano tutt’ora a fra sventolare la loro bandiera su Santa Rosa, riuscendo anche ad ingrandire la comunità iniziale. Ma la lotta continua. Se un giudice dà ragione ai mapuche, gli avvocati di Benetton non mollano e riaprono un’altra causa. L’ultima denuncia se la sono presa per un “abuso edilizio” in relazione alla costruzione di un ponte. Io l’ho visto quel “ponte”… quattro tronchi di legno legati insieme con una coda, lunghi due metri e 40 centimetri (misurati! Non sparo cifre a caso) per far passare le pecore al di là di un fossato…
Ma la seconda storia che ho promesso di raccontare la troviamo a qualche chilometro da Santa Rosa. Bisogna proprio che ci addentriamo ancor di più nella pampa patagonica. Tre o quattro ore di cammino senza alcun sentiero da seguire, attraversando luoghi che ti vien da pensare che doveva essere tutta così, la nostra Terra all’origine dei tempi, quando la specie dominante non era l’uomo ma i grandi sauri. All’orizzonte, al di là di laghi e foreste, si intravvedono le possenti propaggini della cordigliera andina. Ma quanto siano lontane, quanto siano immense, nessuno lo potrebbe dire. Ed è proprio qui che troviamo, solitaria, una capanna di legno. E’ il rifugio di un’anziana donna mapuche. Vedova da tanto tempo, cieca dalla nascita. Vive qui, dove ha sempre vissuto, e dove, nei giorni andati della sua lunga vita, sorgevano le capanne dei suoi figli e dei suoi nipoti. Mentre mi offre l‘inevitabile e amarissimo mate, e ci passiamo di mano in mano, la piccola zucca con la cannuccia di legno, mi chiede notizie dal mondo. I parenti che ancora vivono a Santa Rosa, la vanno a trovare spesso ma evitano di raccontarle tutti i guai che hanno con avvocati e, soprattutto, polizia ed esercito argentino. Non vogliono preoccuparla. Ma l’anziana mapuche ha capito che qualcosa è cambiato attorno a lei. Lo sente nel profumo dell’aria, nel sapore dell’acqua, nelle erbe che lei, nel buio della sua notte eterna, cerca a tastoni seguendo le radici degli immensi alberi. Erbe che bolliva in infusi per concedersi sollievo dai suoi acciacchi senili e che adesso non riesce più a riconoscere. La mia ospite è cieca. Non può vedere, non può sapere che lungo l’orizzonte che circonda la comunità di Santa Rosa, la pampa in cui vive non è più la pampa che l’ha vista nascere. Per migliaia e migliaia di ettari, sta crescendo un mare verde di pini ad alto rendimento economico, coltivati con tecniche intensive. Alberi le cui sementi vengono da lontano, alberi mai visti su queste latitudini e che consumano fiumi d’acqua, impoverendo la regione di quella che era la sua principale ricchezza. Alberi che, inevitabilmente ed irreparabilmente, stanno modificato il fragile equilibrio ecologico di questo angolo di mondo. Un mondo, mi ha raccontato l’anziana mapuche, che nel tempo antico era abitato da popolazioni di giganti che oggi sopravvivono solo nelle leggende. Sono scomparsi perché erano grossi ma sciocchi. Pensavano di poter crescere a dismisura, perché più crescevano e più credevano di diventare potenti. Si estinsero senza capire che Nuke Mapu, la madre terra, è generosa ma non è infinita.
Questa è l’altra faccia del museo Benetton. I “colori invisibili di Benetton” per scimmiottare uno degli slogan che hanno fatto la fortuna di questa azienda trevigiana, regina del contoterzismo in patria, e imperatrice del neo latifondismo in Argentina. L’avventura dei Benetton in terra patagonica cominciò negli anni della presidenza Menem, tra l’89 e il ’99, con l’acquisto per 50 milioni di dollari della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ricordate Carlos Menem? Gli argentini non se lo dimenticano più, uno così. Grande profeta del liberismo. Tanto da meritarsi in più occasioni il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Grande amico di Berlusconi che lo salutò come apostolo della pacificazione nazionale, in quanto aveva graziato tutti i militari riconosciuti colpevoli di omicidi e torture durante la dittatura, e come l’uomo che avrebbe portato l’economia argentina al passo con le potenze mondiali cavalcando il “rampante destriero della globalizzazione neo liberalista”, metafora sua. Menem, appena eletto, si preoccupò solo di privatizzare tutto quello che era privatizzabile e poi di privatizzare anche quello che non lo era. Svendette, a prezzi da liquidazione, tutte le aziende di base, tra cui le Poste e la Ypf, la compagnia petrolifera di stato, liquidando gran parte del patrimonio nazionale per una perdita stimata dalla stessa Banca Mondiale attorno ai 60 mila milioni di dollari.
Durante la presidenza Menem e del suo degno successore De La Rùa, il debito estero, l'inflazione, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la povertà crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. L’abolizione dei vincoli doganali, la coatta “dollarizzazione” dell’economia sino alla forzata parità del peso con il dollaro, furono il colpo finale che nel 2001 portarono l’Argentina sul baratro della più grave crisi economica che abbia mai investito un paese del Sud America. Il 2 gennaio del 2002, mentre Menem e la moglie Cecilia, ex miss Universo, riparavano in Cile inseguiti da una denuncia per vendita di armi all’estero e una lista di reati patrimoniali per elencare i quali non basterebbe il libro che avete tra le mani, il paese attraversò il suo periodo più nero e nel corso di quella sola settimana, il peso perse i due terzi del suo potere d’acquisto. Le banconote emesse dallo Repubblica d’Argentina valevano come carta straccia. Buenos Aires si riempiva di famiglie di cartoneros che ancor oggi vivono per strada e per sopravvivere frugano tra le immondizie in cerca di qualcosa da riciclare. Gli ex lavoratori andavano a rinfoltire le fila dei disoccupati e si trasferivano in massa nelle baraccopoli che cominciarono ad ingrandirsi a dismisura fino ad assediare l’intero perimetro di quell’oceano di case che è Buenos Aires. Attorno alla città, nasceva un’altra città di poveri ed emarginati.
Quei giorni di fame e miseria, li ho ritrovati egregiamente sintetizzati in un cartello di “bienvenido” ancor oggi appeso nell’entrata della baraccopoli bairense di Solano, quartiere in cui vi sconsiglio di passeggiare a tutte le ore del giorno a meno che non siate invitati. La scritta dice: “Benvenuta nella tua nuova dimora, classe media!”
Questi furono gli anni gloriosi della conquista di Benetton della Patagonia. Gli anni in cui si comprava tutto perché niente valeva. E pazienza se, in quella stessa terra che Benetton si preparava a recintare con chilometri e chilometri di filo spinato, le comunità mapuche, vivevano, per dirla col nome di una loro battagliera associazione di lotta, sin dall’Once de octubre. Cioè l’undici di ottobre, il giorno prima del giorno più infausto per i mapuche: quello della scoperta dell’America.
La brillante speculazione economica ebbe come apripista l’abolizione della proprietà collettiva e di tutte le strutture politiche, economiche e sociali del popolo mapuche avvenuta durante gli anni della dittatura militare. Anni di repressione, di violenze, sparizioni e di omicidi per tutto il popolo argentino ma in particolare per i mapuche, considerati de facto e senza distinzione oppositori al regime. Tra gli anni ‘70 e ’80, il numero della comunità mapuche si ridussero da più di 2 mila a 665. Il ritorno alla democrazia ha visto le comunità indigene della Patagonia – parliamo di quelle sopravissute – impegnarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità e difendere la propria terra. Una battaglia non solo durissima ma anche tutta da costruire, se teniamo conto che solo pochi anni fa, la Costituzione della Repubblica Argentina citava i popoli indigeni soltanto per ricordare che lo Stato aveva il dovere di convertirli al cattolicesimo.
Oggi, il Wall Mapu, il territorio dei mapuche, sembra cucito col filo spinato. Qua e là, cartelloni avvertono i viaggiatori che per di qua è “prohibido pasar”. La mitica Ruta 40 dove si sono avventurate generazioni di viaggiatori sulle orme di Chatwin, di Coloane e di Sepulveda, oggi scorre in mezzo a proprietà private acquistate a prezzi di liquidazione da lupi dell’imprenditoria straniera che hanno rubato la terra ad un popolo libero e i sogni all’intera umanità.
I torrenti che un tempo ruggivano lungo la sterminata pianura trasportando vita e prosperità, sono stati deviati per portare le loro ricchezze d’acqua solo dove lo impone la legge dello “sviluppo” – termine che scriveremo sempre tra virgolette – neo liberista. Il grande rio Chubut che attraversa il latifondo Benetton è diventato proprietà privata e ai mapuche non è consentito neppure avvicinarsi. Adesso l’acqua del rio è riservata alle 300 mila pecore e ai 16 mila bovini da macellazione dell’azienda Benetton e i greggi mapuche, composti sì e no da una dozzina di pecore, devono abbeverarsi 40 chilometri più a est. “Ma non è l’acqua che è nostra – ha precisato Ronald MacDonald, il gringo norteamericano che i Benetton hanno messo a capo del latifondo Leleque –. Quella, per legge, è di tutti e non potremmo vietare nemmeno la pesca. E’ la terra attorno al fiume che dobbiamo tutelare come proprietà privata in quanto appartiene alla nostra azienda. E qui è prohibido pasar”.
Questa che si combatte in terra mapuche, è anch’essa una guerra per l’acqua. Per l’accesso all’acqua, al di là del filo spinato. Per l’uso dell’acqua: la Patagonia, è vero, è ricca di questo bene prezioso ma non tanto da consentire la crescita di foreste di legname pregiato e il mantenimento di centinaia di migliaia di capi di bestiame. Ma anche per la purezza e la potabilità dell’acqua. I fiumi che escono dalle grandi “estancias” sono irrimediabilmente inquinati. Nel 2005, una ong riuscì a documentare numerosi casi di indigeni, donne e bambini in particolare, intossicati per aver bevuto l’acqua del fiume che attraversa l’estancia El Maiten di Benetton, inquinata dai liquidi di scarico e dai residuali di lavorazioni del bestiame non depurati da nessun filtro. Quello che in Italia ti farebbe finire in galera, in Argentina è concesso.
Ma se Benetton è oggi il più grande latifondista d’Argentina, non è il solo ad aver investito capitali per “dare un futuro anche agli abitanti di queste terre sottosviluppate”, come ha affermato in un’intervista. Attori famosi come Richard Gere, calciatori come Oscar Batistuta, stelle della televisione e del cinema hanno investito i loro soldi facilmente guadagnati nell’acquisto di terre in Patagonia senza mai porsi troppe domande se nelle terre in questione vivessero dei popoli nativi e, nel caso, che ne pensassero della loro idea di “sviluppo”.
“L’idea di vendere la terra è totalmente estranea alla nostra cultura” mi ha spiegato Mauro Milian, portavoce dell’Once, che ho incontrato a El Maiten in occasione dell’inaugurazione di radio Petü Mogeleiñ, la prima radio in lingua mapuche della Patagonia, realizzata grazie all’aiuto dell’associazione Ya Basta. “Come si può vendere una cosa che appartiene a tutti e, soprattutto, che serve a tutti? E come si può pensare di comperarla? Ce n’è tanta, di terra, in tutta la Patagonia. Se qualcuno vuole costruirsi una casa e allevare il suo bestiame lo può fare senza chiedere niente a nessuno. E tutta la comunità è pronta ad aiutare chiunque voglia mettere su casa. Vendere la terra? Che idea! Sarebbe come pretendere di vendere l’acqua, l’aria… Ma già! Gli uomini bianchi fanno pure questo! Poi mandano la polizia e l’esercito. E dicono a noi, che abitiamo queste terre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, che dobbiamo fare le valigie. Dobbiamo andarcene via perché un ricco signore che abita in terre tanto lontane da fuggire alla nostra immaginazione, ha comperato tutto e ora afferma che è tutto suo. Ma noi non ce ne andiamo. Non ce ne andiamo perché questa terra è Nuke Mapu. E’ la nostra terra: è la madre di tutti i mapuche ed è la madre di tutto ciò che qui cresce. Senza di lei, potremmo forse continuare a chiamarci Mapuche? Potremmo continuare ad essere ciò che siamo?”
Cosa ne è di un mapuche senza la sua Nuke Mapu? domanda Mauro Milian. Qualcuno china la testa e accetta di lavorare proprio nelle grande “estancias” dei nuovi padroni, lasciandosi sfruttare dai latifondisti e dai loro sgherri come manodopera a basso costo e senza diritti sindacali. Altri prendono la strada delle grandi metropoli dove li attendono giorni di miseria e di discriminazione nelle baraccopoli dei bianchi.
E’ un genocidio anche questo. Un genocidio perpetuato senza camere a gas o stermini di massa ma perpetuato con la non meno efficace arma della globalizzazione. Salvo poi inscatolarne la memoria nelle vetrine di un museo e ricordare in qualche convegno quanto era nobile e saggio l’antico popolo dei mapuche. El pueblo desaparecido.
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