Iraq: l'anafabetismo è donna

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Ebil, Iraq - Prima dell’invasione delle truppe Usa, nell’aprile del 2003, l’Iraq era la nazione più avanzata del mondo islamico dal punto di vista dell’alfabetizzazione. Nell’82, quando ancora il nome del dittatore Saddam Hussein compariva nella lista Stelle e Strisce dei “buoni” e combatteva il “cattivo” di turno, l'ayatollah Khomeyni, irriducibile nemico degli Stati Uniti, il Paese mediorientale si era aggiudicato il premio Unesco per l’istruzione.

Il tasso di analfabetismo delle donne era sceso dal 91 per cento nel 1957 al 12 per cento e le studentesse universitarie erano passate dal 16,6 per cento del totale della popolazione femminile di pari età nel 1977 al 35,7. Un dato di poco inferiore alla media europea.
“L’occupazione americana ha distrutto 40 anni di conquiste di diritti civili per le donne in Iraq. Oggi più del 50 per cento delle donne sono analfabete e disoccupate per l’oscurantismo medievale di questo governo corrotto filo iraniano che gli Stati Uniti ci hanno imposto solo perché gli sciiti li hanno aiutati ad impossessarsi del Paese” denuncia Souad Al Azzawi, 62 anni. Souad ai tempi di Saddam ricopriva un ruolo oggi inconcepibile per una donna: vice-rettore della Mamoun University e docente d'ingegneria ambientale presso l'Università di Baghdad. Nel 2003 la docente è stata insignita del premio internazionale Nuclear Free Future Award.
“A partire dagli anni Settanta - continua Souad -, le leggi promulgate dal partito baathista sull’istruzione obbligatoria avevano portato la condizione della donna ad uno dei livelli più alti del medio oriente. Nel 1980 le donne rappresentavano il 46 per cento degli insegnanti iracheni, il 29 per cento dei medici, il 70 per cento dei farmacisti. Nel 1991, quando io stessa sono rientrata in Iraq dal Colorado per divenire direttrice dei Programmi di dottorato della Facoltà di Ingegneria ambientale dell’Università di Baghdad, le docenti donne nelle facoltà e nei centri di ricerca
erano più del 30 per cento del totale. L’emancipazione era stata resa possibile anche dalle garanzie costituzionali di pari opportunità, con un sistema di istruzione misto per maschi e femmine, che ha rafforzato nelle donne l’autonomia e la sicurezza in se stesse. Nel 1990 le donne rappresentavano il 67 per cento del corpo docente iracheno fra elementari, superiori e università”.
L’arretramento della condizione delle donne in Iraq è cominciato con la prima guerra del Golfo del 1991 durante la quale i bombardamenti anglo-americani hanno devastato le infrastrutture civili irachene, non ultime quelle educative, ed è proseguito dopo il conflitto con 12 anni di durissimo embargo economico. Il colpo di grazia è arrivato nel 2003 con l’arrivo degli americani che, come leggiamo nel rapporto Unesco del 2010 sulla condizione dell’istruzione in Iraq, hanno trasformato le università e ben 738 scuole superiori in caserme per il loro esercito. Inoltre, smantellando le forze di sicurezza irachene, il Paese è piombato nel caos e l’istruzione da diritto di tutti è diventata un lusso per pochi. Il tasso di abbandono scolastico dei bambini attorno ai sette anni oscilla tra il 55 per cento tra i maschi e il 45 per cento tra le femmine. “La sharia, la legge islamica, non c’entra niente - assicura Souad -. E’ stata la guerra e l’invasione americana a riportare l’orologio della storia indietro di mezzo secolo. Sotto l’occupazione straniera le donne sono state costrette a lasciare la scuola e il lavoro a causa della povertà, dell’insicurezza, della detenzione ingiusta e illegale dei capifamiglia. Il sistema sanitario è stato gravemente danneggiato. È per questo che oggi ci ritroviamo con cinque milioni di orfani, più di due milioni di vedove, quattro milioni di profughi all’estero in gran parte diplomati e laureati e, di riscontro, un tasso di analfabetismo femminile interno che è uno dei più alti al mondo. Ci sono aree dell’Iraq dove il 70 per cento delle donne risulta analfabeta”.
Oggi frequentare una scuola viene considerata una attività a forte rischio. Secondo l’ultimo rapporto Unesco pubblicato lo scorso anno, dal 2003 al 2008 sono stati denunciati ben 31.598 assalti militari contro le istituzioni scolastiche. Le più colpite da questa situazione sono soprattutto le donne. La politica dell’attuale governo iracheno nei loro confronti è dettata dall’ala più intransigente dell’integralismo islamico. Addirittura è stato reintrodotto il muta’a, il matrimonio a tempo, con il quale, in cambio di una “dote”, la famiglia può cedere una ragazza ad un uomo per una sola notte come per un paio d’ore. In poche parole, una forma ipocrita di prostituzione. “I politici attuali pensano che le donne dovrebbero stare chiuse in casa come schiave adoranti dei mariti: vengono dissuase dallo studio e dal lavoro dal clima di oscurantismo medioevale, di intimidazione e di usanze tribali nel quale è stato gettato il Paese - conclude amaramente Souad -. Le ragazze non possono andare all’università se non coperte dalla testa ai piedi e accompagnate da padri o fratelli per evitare di essere rapite, torturate o violentate”.
Le donne irachene, prima della guerra, godevano dei più alti livelli di libertà del mondo arabo. L’invasione ha causato oltre 750 mila vedove di guerra che hanno scarsi se on addirittura nessun mezzo per sopravvivere. La nuova Costituzione irachena, benedetta dagli Usa nell’indifferenza di una Europa pronta ad indignarsi solo quando sono i talebani a promulgare quelle stesse leggi, dà sempre e comunque precedenza alla legge islamica su quella civile. E così il traffico di donne schiave a scopo sessuale è aumentato esponenzialmente, così come i “delitti d’onore”. Nella sola città curda di Erbil, quest'anno sono già state uccise ben 25 donne. Nessuno dei loro assassini ne ha mai risposto in un tribunale.

La piccola Roma dell'Iraq

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Alkosh, Iraq - “La cristianità è un gregge di pecore in transumanza. Quella che fa la matta, quella che sbaglia direzione è sempre la pecora che sta davanti. Ma quella che si piglia la randellata sul groppone è sempre quella in fondo, quella vicina al bastone del pastore”.
Padre Ghazwan Baho vive sotto assedio. Da cinque anni oramai non abbandona più il villaggio di Alkosh, nel nord dell'Iraq. “Qualche giorno fa a Mossul hanno ammazzato a coltellate un altro cristiano. Due settimane fa un gruppo armato di integralisti è riuscito ad arrivare sino a qui forzando la linea difensiva dei curdi. Volevano prendere il vescovo e sono entrati in canonica sparando. L'esercito curdo è intervenuto con le armi e dopo una breve battaglia sono riusciti a respingerli, per questa volta almeno. E tenete conto che Alkosh è anche considerato il villaggio caldeo più sicuro per i cristiani! Ma ogni volta che l'America e l'Europa intraprendono qualche assurda crociata contro l'Islam, siamo noi, i cristiani caldei, quelli che ne pagano le spese”.

Alkosh, con la sua antica chiesa che contiene le tombe del patriarca Michele e del profeta biblico Naom, è il cuore della cristianità in terra irachena. Qualche centinaio di case abbarbicate come un gregge di capre sulle pendici dell'altopiano che ad est sale sino alle montagne dell'Iran e ad ovest scende verso le distese desertiche dell'Iraq. In lontananza, dietro una foresta di pozzi di estrazione, alti fuochi e sbuffi di fumo nero delle raffinerie, si intravede l'azzurognola sagoma di Mossul.
I cristiani caldei chiamano pomposamente Alkosh la “seconda Roma”. Ben pochi di loro comunque saprebbero trovare la capitale d'Italia su una carta geografica. Della Roma vera, queste quattro case in croce di pastori e contadini non hanno proprio niente con cui spartire. E' solo un appellativo dettato dalla fede e dalla voglia di rimarcare ad un’Europa sempre più sorda che qui, in Iraq, continuano a vivere dei cristiani. Gli ultimi cristiani che continuano a parlare e a pregare nella lingua di Cristo, l'aramaico.
Un paese arroccato su se stesso sin dall’arrivo del Vangelo, portato dal patriarca Michele nei primi anni del 400, e che è rimasto fedele alla sua fede originaria anche quando l’intera Arabia si convertiva al dio misericordioso ed onnipotente predicato dal profeta Maometto.
Una legge tradizionale, non scritta ma cui nessuno ha mai trasgredito, vieta alla gente di Alkosh di vendere la propria abitazione e la propria terra a chiunque venga da fuori, non parli l’aramaico e non garantisca una discendenza caldea. Preservare la propria identità, su queste monti, è fondamentale per la sopravvivenza.
Tutta la fascia premontana abitata dai caldei, a confine tra il governatorato curdo di Erbil e quello sunnita di Ninive, appartiene amministrativamente alla provincia di Mussul ma nei fatti è occupata militarmente dall'esercito curdo. Per giungere ad Alkosh da Erbil ho contato sei posti di blocco. Nell'ultimo, quello a ridosso della “seconda Roma”, le milizie curde ti sequestrano il passaporto. Per riaverlo (da queste parti è saggio non farsi trovare mai senza) sei obbligato a ripassare dallo stesso posto di blocco. Non c'è comunque modo di fare di testa propria. Un miliziano con un uzi carico a tracolla e che parla solo un dialetto siriaco ti segue per tutta la permanenza in città. Prima dell'intervento americano, non era così, mi racconta padre Ghazwan. Le porte delle case, ad Alkosh, erano sempre aperte. Anche per i curdi perseguitati da Saddam che trovavano scura protezione nei cristiani caldei. Fu proprio il vescovo cristiano di Baghdad ad intercedere con il dittatore per salvare la vita all'attuale presidente dell'Iraq, il curdo Jalai Talabani.
“Oggi ci stanno ricambiando il favore. Se siamo vivi oggi, lo dobbiamo all'esercito curdo. Ma se passa l'idea di fare del territorio caldeo un'area cuscinetto tra i curdi e i mussulmani, noi siamo spacciati. Speriamo che gli americano cambino idea! Son loro che comandano qui. Ho paura che finiranno per dividere l’Iraq in tre Stati separati: uno per i curdi, uno per i sunniti e uno per gli sciiti. Fa comodo a tutti, oramai. Ma nel caso noi speriamo che Alkosh rimanga in zona curda e che l’esercito di Erbil non si ritiri dalle attuali posizioni. Il governo del Kurdistan vorrebbe le città di Mossul e di Kirkuk. Ma Mossul non gliela daranno mai senza combattere. Mi chiedi di Saddam Hussein? Cosa posso rispondere? Saddam era un feroce dittatore impostoci dagli Usa ma con lui avevamo elettricità 24 ore al giorno e non per sole due ore come adesso. Non c'era il limite settimanale di 30 litri di benzina, c'era uno Stato, un solo esercito, c'erano leggi e non c'era guerra tra cristiani e mussulmani. Sciiti e sunniti pregavano insieme. Si sposavano tra loro addirittura. Una cosa inconcepibile oggi. Adesso l'Iraq è tutta una frontiera e un posto di blocco. Neanche le autoambulanza fanno passare se non hanno la targa col colore giusto. E’ questa quella 'democrazia' che a voi, in occidente, pare così importante?”
Più in alto, incastrato in mezzo ai monti che ti vien da chiederti come abbiano fatto a mettercelo, c'è il monastero in rovina di santa Madonna. I frati si sono spostati all'inizio della strada “per essere più vicini alla gente” mi spiega il priore, padre Gabriele dove hanno tirato su un orfanotrofio. Una bella struttura moderna. Cento posti disponibili anche i se i piccoli ospiti sono solo 24. Se gli chiedi perché lo abbiano fatto così grande, padre Gabriele ti risponde domandandoti se davvero credi che non ci saranno più guerre in questo angolo di mondo. Come tanti altri su queste montagne, anche padre Gabriele è uno sfollato. Viveva a Baghdad col suo ordine religioso “quando Baghdad era ancora una città civile e non una città occupata”. “Il mondo non lo sa oppure fa finta di ignorarlo - racconta - ma ai tempi di Saddam a Baghdad c’era mezzo milioni di cristiani. Oggi sono poco meno di ventimila quelli che resistono perché non hanno altro posto dove scappare. Ogni quartiere era una mescolanza di genti e di religioni diverse. Oggi ci sono posti di blocco sulle strade e ogni zona deve innalzare o la mezzaluna sunnita o la Mano di Fatima sciita. I cristiani non hanno più diritti e sono perseguitati da un integralismo islamico sempre più feroce. Ma quelli che ci hanno cacciato via da Baghdad non sono gli arabi ma l’esercito americano: ‘Qui non c’è più posto per voi, ci hanno detto mentre ci accompagnavano alla frontiera, andate in Kurdistan o in Europa dove sarete accolti come rifugiati’. Perché ci hanno mandato via dalle nostre case? Gli Usa hanno sempre fatto così. Con la guerra fredda hanno diviso il mondo con le ideologie tra democrazie e comunismi. Oggi lo vogliono dividere con le religioni tra cattolici e mussulmani. Non c’è posto per chi è nato dall’altra parte della frontiera”. Dividi et impera. Lo dicevano anche in quell’altra Roma. Quella dell’impero.

Iraq: maratona per la pace

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Ebil, Iraq - Erbil è una città disegnata col compasso. Le grandi arterie della capitale amministrativa della regione autonoma del Curdistan iracheno disegnano dei larghi e perfetti cerchi concentrici all'antica cittadella che domina l'intero complesso urbano di un milione e 300 mila abitanti dai suoi 27 metri di altezza, sopra quella strana collina che ancora oggi nessuno sa dire se sia di origine naturale o costruita oltre 5mila anni or sono dai suoi primi abitanti. Centro del culto della dea Ishtar in epoche in cui sulle sponde del Tigri dominavano gli assiri, la cittadella è sopravvissuta a battaglie, assedi e conquiste straniere, attraversando l'intera storia dell'umanità. Per ammazzarla, ci è voluto un programma di "sviluppo economico" che ha tra i suoi promotori anche aziende italiane.

Due anni fa i suoi ultimi abitanti - 200 poveracci che non avevano altro tetto sulla testa, sono stati cacciati a pedate nel sedere dal governo locale per fare spazio ad una radicale ristrutturazione che prevede la trasformazione dell'intero complesso in un polo di attrazione turistica con negozi di souvenir e locali da danza del ventre. Adesso, la cittadella è un cantiere a cielo aperto ma tra qualche anno vi troverete tutto quello che un occidentale televisionato in cerca di avventura col suo tour operator immagina di trovare in un paese del medio oriente. D'altra parte, l'intera città, capitale culturale del Curdistan iracheno, è un cantiere a cielo aperto. Non si riesce a girare la testa senza che lo sguardo caschi in un palazzo in costruzione. Di investimenti stranieri da queste parti ne arrivano a frotte, dagli usa, da israele, dall'europa, l'italia come vedremo occupa un posto di rilievo, e anche dalla stessa Turchia, grazie al patto di ferro tra erdogan e i curdi iracheni che individuato un comune nemico nel Pkk, il partito comunista combattente dei curdi turchi.
Una vagonata di miliardi di investimenti che viene spacciata sotto l'eufemistico nome di "aiuti alla ricostruzione" dopo la guerra a Saddam. E pazienza se tanti degli stessi capitali che ora "ricostruiscono" sono anche quelli che avevano armato l'esercito assassino di Saddam. Le porte per gli investitori del nostro paese sono state aperte dall'Italianexpo, svoltosi proprio ad Erbil nel 2007. Un evento pubblicizzato proprio come "una opportunità unica di penetrare in un mercato in forte espansione come quello curdo e iracheno". Opportunità immediatamente colta dalla holding tecnica del gruppo Flammini, la Fgtecnopolo, che a febbraio si è aggiudicata l'appalto per la realizzazione della metropolitana di Erbil. Un affare da oltre 400 milioni di dollari dichiarati. C'è da dire che da un punto di vista sia finanziario che politico - senza volutamente considerare quegli intoppi allo "sviluppo economico", chiamati democrazia e diritti umani -, la situazione di Erbil appare ideale.
La violenza di strada che ancora infiamma il sud del Paese, qui sembra lontana. L'ultimo sanguinoso attentato ad Erbil risale al maggio del 2005, quando un kamikaze si era fatto esplodere in un hotel in cui il Pdk, partito democratico curdo , aveva organizzato un incontro. Una sessantina di morti e un paio di centinaia di feriti, il bilancio. Da allora il governo curdo è riuscito a riprendere io controllo del territorio e la situazione, con i criteri rapportati a questa parte del mondo, appare quasi tranquilla e tutto sommato favorevole agli investimenti stranieri. Possiamo quindi star sicuri che la statua dello storico Ibn al Mistawfi che da tempo immemorabile dall'alto della cittadella sorveglia severo e, dico
no qui, custodisce amorevolmente l'antica Erbil, ne sta per vedere delle belle!
Certo, l'imperturbabile Custode della Cittadella, si sarebbe anche stupito nel vedere, ieri mattina, un mezzo migliaio di corridori attraversare la sua Erbil in questa prima maratona internazionale irachena. L'iniziativa è stata promossa da ll'international civil society solidariety initiative of Iraq grazie anche all'ampio supporto dato da associazioni italiane come Upter sport e Un ponte per che hanno partecipato con una delegazione di quasi 50 atleti. O forse è meglio scrivere attivisti per i diritti umani, alcuni dei quali comunque si sono pure sciroppati l'intero percorsi di 40 e passa chilometri. Quella italiana era anche la delegazione straniera più numerosa seguite da quella provenienti da Francia, Spagna, Stati Uniti, Kenia, Nigeria, Polonia, Canada, Sudan e Palestina. C'era anche
un tedesco. Riconoscibile perché era l'unico atleta che correva con i sandali e
i calzini. Inizialmente, la maratona doveva svolgersi a Baghdad il 2 ottobre, ma questioni
di sicurezza hanno spinto gli organizzatori iracheni a dirottare la corsa ad Erbil. "Certo, a Baghdad avrebbe avuto più senso" mi ha spiegato in inglese un ragazzo sciita di Bassora col numero 419 sul petto "ma mi auguro che grazie a questa manifestazione riesca a passere nel mondo occidentale il messaggio che l'iraq intero è stufo delle guerre che non fanno altro che alimentare il terrorismo. Vogliamo la pace, vogliamo i diritti, vogliamo la democrazia". Tutte cose che adesso in Iraq non ci sono, perché sono loro le prime vittime di una politica di guerra e di sfruttamento. Loretta Mussi, presidente di un Ponte per, ha anche lei un numero appuntato sul petto ma mi assicura subito che ha già scelto la versione soft della maratona. Quella "per famiglie" di soli due chilometri. "E senza correre" aggiunge. Più che l'avvenimento sportivo, a Loretta interessa quello che ci sta sotto. "La guerra, come sempre succede quando si dà via libera agli istinti più bassi, ha fatto tornare indietro di parecchi anni la storia dell'iraq. Oggi le donne stanno ancora peggio che sotto il regime di Saddam. Il governo locale curdo emana leggi sull'emancipazione che sono solo di facciata, quello centrale
sciita addirittura la ostacola. Nella sola Erbil quest'anno sono state uccise 25 donne per reati d'onore. Studiare e scegliere per una donna è oggi ancora più difficile che 10 anni fa. Alle coraggiose ragazze col velo, le scarpe da ginnastica e i pantaloni che vedi qui, non interessa tanto la maratona quanto ribadire che hanno pari dignità e diritti degli uomini". Diritti che non si comprano con gli investimenti miliardari per la ricostruzione.

Gli ultimi balenieri di Lamalera

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Lawoleta, Isole della Sonda - Dall’altra parte del mondo, lontano, nel sud dell’Indonesia, c’è un villaggio di balenieri che si chiama Lamalera. Arrivarci è tutta un’avventura. Dall’isola di Bali bisogna salire in uno di quei piccoli aerei che, dopo qualche inevitabile scalo intermedio come neanche un autobus di linea, atterra a Maumere, nell’isola di Flores, a poche miglia marine a nord di Timor. Da qui, dovete cercare di infilarvi in uno dei coloratissimi “bemo”, sorta di pulmini taxi, e raggiungere il porto di Larantuka, dall’altra parte dell’isola. Se non riuscite ad entrarci dentro, il vostro bemo, saliteci tranquillamente sul tetto oppure aggrappatevi alla portiera. Reggetevi forte e intanto vedete se riuscite, voi, a capire come diavolo fanno a guidare col parabrezza coperto di adesivi e completamente ostruito con ninnoli e peluche da far sembrare spoglio un albero di natale.


Da Larantuka, in giorni e orari imprecisati, salpa uno scassato ferry boat che, dopo una giornata di viaggio tra le isole della Sonda - in un mare tanto azzurro da regalarvi il miraggio del sampang di Sandokan che insegue a vele spiegate la sua Perla di Labuan - vi sbarca a Lewoleba, la cittadina più importante dell’isola di Lembata. Quattrocento case, una dozzina di strade, il resto spiagge e palmeti. Non fatevi impressionare dalla minacciosa presenza dell’Ili Api, la “montagna di fuoco” dal perenne sbuffo di fumo. Rivolgetegli soltanto un breve augurio di “buon sonno” come fanno i nativi, e cercate di non pensare che si tratta di uno dei vulcani più a rischio di eruzione di tutta questa nostra terra ballerina.
A questo punto comincia la parte più dura del viaggio. Per raggiungere Lamalera bisogna attraversare la catena montuosa e la foresta che fanno da spina dorsale all’isola. Impossibile sbagliare mezzo. C’è solo un balordo camioncino che collega il porto con Lamalera. Impossibile sbagliare strada. Ce n’è una sola. Casomai potreste obiettare come si fa a chiamare “strada” quello sterrato con buche talmente fonde da seppellirci un elefante. Ma il vero problema è l’innata cortesia degli indonesiani. La frase “mi spiace ma non c’è più posto”, in queste isole, è un grave atto di maleducazione. Vale invece il principio: “Dove ci sta uno ce ne stanno cento. E fate salire anche la scrofa con i maialini”. Quelle sei o sette ore di camion lasceranno in voi un ricordo indelebile. Tornati a casa, passerete le nottate a cercare di immaginare come sia stato possibile trasportare in un solo camioncino 22 sacchi di cemento, 11 cesti di frutta, varie assi di legno, 8 galline e 2 maialini vivi infilati in sacchetti di plastica, una dozzina di grossi sacchi contenti radici e tuberi, uno strano animale imbalsamato, 26 passeggeri senza contare il guidatore e due “buttadentro” di equipaggio, con un numero imprecisato di bambini, sporte, bagagli e valigie al seguito. E faccio grazia dei frutti di durian, talmente putrescenti da dare il voltastomaco ad una puzzola. Quando proprio non ne potete più, siete arrivati a Lamalera. Siete arrivati nell’ultimo villaggio di balenieri ecologici del mondo che ancor oggi cacciano i grandi cetacei su piroghe di legno utilizzando come unica arma un arpione di bambù e tanto coraggio.
Se “balenieri ecologici” vi pare un ossimoro, considerate che per questa gente, il capodoglio, così come la pesca di squali e mante, rimane l’unica fonte di nutrimento. La stessa Greenpeace ha definito assolutamente ininfluente ai fini della conservazione della specie quei 10 o al massimo 15 cetacei che i balenieri di Lamalera riescono a fiocinare in un anno e che danno sostentamento a tutto il villaggio. La cattura di un capodoglio, a queste latitudini, è un avvenimento che coinvolge tutta la popolazione. Sono i pescatori al largo, i primi ad urlare “Baleo! Baleo!” quando all’orizzonte appare lo sbuffo di un cetaceo. Quando il grido arriva a terra, la gente lo ripete a squarciagola per darsi forza e coraggio mentre le lunghe “tena” vengono spinte in mare e l’equipaggio rivolge una preghiera a dio e si prepara a salpare. I rematori cominciano a pagaiare forte, il timoniere tiene salda la prua verso il mare aperto ed incita i marinai, prestando orecchio alle indicazioni della vedetta arrampicata sull’asta. A prua, il capo barca prepara il suo arpione di bambù e si tiene pronto a gettarsi sul cetaceo con tutto il peso del suo corpo per far penetrare in profondità l’asta mentre il mare si tinge di rosso e l’equipaggio colpisce con coltelli e machete l’animale per fiaccarne la resistenza. Una battuta di caccia può durare anche una intera giornata e trascinare la tena a molte miglia dalla costa. Al ritorno, il grosso cetaceo viene trascinato a riva dove viene immediatamente smembrato dalla gente del villaggio seguendo criteri antichi. La carne scura spetta ai balenieri, il grasso della testa all’arpionatore, ogni famiglia del villaggio, compresi eventuali ospiti, riceve la sua parte. Tutto viene utilizzato. Due giorni dopo la cattura, del grande cetaceo non rimane che qualche chiazza di sangue sulla sabbia. Il martedì successivo, le donne di Lamalera con secchi zeppi di grasso in testa e le lunghe ossa del capodoglio in mano, si recano al mercato di Wulandoni, a quattro ore di cammino. Qui, i pescatori e i contadini di Lembata si incontrano per barattare i rispettivi prodotti seguendo valori dettati da una tradizione millenaria. I primi, i pescatori di Lembata, sono tutti cattolici. Hanno nomi come Maria, Giuseppe oppure chiamano i bambini con i nomi dei calciatori del Milan di cui sono tifosissimi. Ho conosciuto personalmente un Pato e un Gennaro (Gattuso). Una tena è stata battezzata “Fly Emirates”, lo sponsor del Milan. Ho chiesto in giro, ma non ho trovato nessuno che sapeva che si trattava di una compagnia aerea. I secondi, i contadini dei vicini villaggi, sono invece mussulmani e tendono a tifare per l’Inter o per il Chelsea. Le magliette con i colori delle squadre del cuore sono uno dei regali più ambiti dopo il cellulare (che comunque qui prende solo per un’ora al giorno). Le cose cambiano anche a Lamalera. “Che cambi l’uomo è cosa buona e giusta - mi spiega Antonio, timoniere della Fly Emirates, in un inglese che è senz’altro meglio del mio - ma che cambi il mare no. Ai tempi di mio padre, catturavamo 20 o anche 30 balene all’anno. Adesso i re del mare fanno sempre più fatica ad arrivare alla nostra isola. Grandi navi chiudono loro la strada (baleniere giapponesi.ndr). Sparano loro con arpioni di fuoco che esplodono. I loro equipaggi prendono tutto quello che si può prendere dal mare, senza criterio. Quanto grande è il loro villaggio, mi chiedo? A quanta gente devono dare da mangiare? Ma non capiscono che se oggi uccidono il grande mare domani non ci sarà più nutrimento per nessuno?” Antonio scuote la testa e per tirarsi su mi snocciola la formazione del Milan. Mi chiede da dove vengo. “Italia. Ah, Italia. E’ vicino a Milan vero?” Poi mi dà di gomito e ride. “Italia bunga bunga?” Niente da fare. Neppure Lamalera è abbastanza lontana.

Uniti per la Libertà a Ras Jadir

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Campo profughi di Ras Jadir, Tunisia
- Quando chiesero a George Lucas perché avesse scelto proprio il paesaggio della provincia di Tataouine, a sud della Tunisia, per ambientarci il primo Guerre Stellari - il pianeta natale di Luke Skywalker infatti si chiama proprio “Tatooine”, americanizzato -, il regista rispose: "Ma non lo avete visto? Sembra di stare in un altro mondo!"
Man mano che la carovana di Uniti per la Libertà, procede verso sud, il morbido paesaggio mediterraneo, lunghi filari di ulivi e di fichi d'india, si allarga in un deserto estraniante di pietre e sabbia, con rari villaggi di pastori e belanti greggi di pecore. Sopra, ci accompagna un cielo azzurro impastellato dall’afa cocente che pare di vederci volare il Millenium Falcon inseguito dalla flotta imperiale. Ma la guerra che si combatte a pochi chilometri da qui, appena dopo il confine con la Libia, è tutt'altro che stellare.


Le sagome delle tendopoli d’emergenza allestite dalla Mezzaluna Rossa appaiono subito dopo il paesino di Chibou. Prima decine, poi centinaia, poi migliaia di tende. Un mare di tendoni bianchi che copre tutto l’orizzonte."Questo è solo il campo numero tre - spiega un operatore della Mezzaluna Rossa che ci accompagna - in tutto sono quattro. Finora..."
La carovana di “Uniti per la Libertà” organizzata da Ya Basta! delle Marche partita da Tunisi all’alba di sabato 9 aprile è arrivata a destinazione nella tarda serata, dopo 600 chilometri di deserto, lo scoppio di qualche pneumatico, un considerevole numero di posti di blocco, continue soste per i motivi più disparati, sfinenti trattative con presidi militari.
I “carovanieri” partiti da Tunisi sono in tutto una quarantina, provenienti da tutta l’Italia, per la maggior parte legati ai centri sociali o ad associazioni come Action o Ya Basta! A loro si sono uniti altrettanti attivisti tunisini di movimenti per i diritti umani. Tutte associazioni costituitesi da pochi mesi o addirittura da pochi giorni. “Sotto Ben Alì era vietato riunirsi in associazioni - mi spiega uno di loro, Anwar Fatnassi - Dopo la rivoluzione è tutto un fiorire, anche caotico se vogliamo, di movimenti, di gruppi, di associazioni. Ma le stesse persone che sono stati incarcerate ed hanno fatto la rivoluzione sono le stesse che oggi lavorano per aiutare i profughi. Non si può pensare alla nostra libertà senza pensare prima a quella degli altri”.
La prima cosa da fare, arrivati ai campi, è quella di scaricare il materiale. Un grosso Tir colmo di medicinali e di attrezzature mediche che la Mezzaluna chiede di portare direttamente alla frontiera libica, dove file e file di profughi si accalcano senza interruzione giorno e notte. Carri armati, filo spinato, militari con le armi spiegate, in lontananza il rombare dei cannoni, bambini con gli occhi sbarrati dal terrore che trascinano fagotti più grossi di loro, famiglie con valigie piene di tutto quello che gli rimane, donne in pianto, feriti e mutilati, tutti in fila dietro barriere e armi spiegate. Solo oggi ne sono arrivati più di 10 mila, mi spiega un operatore della Mezzaluna, “e sono solo le nove di sera. E’ di notte che arriva il grosso. Lo fanno per evitare di trovarsi per strada sotto i bombardamenti più pesanti”. Dall’inizio della guerra sono arrivati anche 15, 16 mila persone al giorno. Nelle giornate più tranquille non si è mai scesi sotto i 6 mila arrivi. L’esercito tunisino, la Mezzaluna Rossa e le associazioni di volontari, cui le autorità hanno intelligentemente demandato il primo approccio con i profughi, stanno svolgendo un lavoro che, senza retorica, possiamo definire eroico. “Non respingiamo nessuno - mi spiega un militare -. Abbiamo un primo campo di accoglienza da cui smistiamo le persone in altri tre campi e diamo immediato avvio alle procedure per il riconoscimento dello status di profughi e per i rimpatri. Di là della frontiera, in mano alle truppe di Gheddafi, sta succedendo di tutto. Ieri un disgraziato impazzito si è gettato con l’auto contro le barriere ed è uscito urlando e bestemmiando dio e sparando contro tutto con due pistole. Abbiamo dovuto abbatterlo. I problemi quotidiano sono immensi. Mancano medicinali e soprattutto gli strumenti di profilassi. Qui la tubercolosi ammazza, ieri abbiamo registrato il primo caso di malaria, e poi c’è la febbre gialla. Tutta la roba che avete portato è un regalo dal cielo per noi”.
Al campo tre, dove i carovanieri concluso lo scarico si danno appuntamento e che ospita tra le 70 e le 80 mila persone, troviamo una quasi festa. La gente balla e canta e saluta un camion con una trentina di ghanesi che viene rimpatriata. Tutti ridono e si augurano che presto tocchi anche a loro. Un giovanotto sudanese mi racconta che è là da quasi un mese. Lavorava come elettricista in una ditta in una cittadina a due passi da Tripoli che è stata praticamente rasa al suolo. Ha già lo status di profugo e attende che il suo Paese metta a disposizione un aero per farlo tornare a casa assieme ai suoi compagni. Gli spiace, e mi indica tre uomini e una donna che se ne stanno un po’ in disparte, per quegli amici là. “Sono del Ciad. Anche loro sono profughi ma il loro Paese è tanto povero. Non hanno soldi per una aereo. Chissà per quanto dovranno stare qua, poveretti”. Come si vive al campo? “Non c’è guerra, nessuno ci vuole accoppare e questo è già una cosa buona. Ma il cibo è poco e queste tende non sono fatte per il deserto. Di giorno il caldo (il mio termometro ha toccato i 41 gradi dentro un tendone.ndr) fa svenire le donne. E poi ci sono serpenti e scorpioni. Le ultime scorte di medicine per il loro veleno sono giustamente riservate ai bambini. Insomma, che ti devo dire, spero che tocchi a me, tornare a casa, la prossima volta!”
“Una bella differenza con l’Italia del bunga bunga, delle escort, degli scandali vero? - commenta Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana Uniti per la Libertà - Che poi è la stessa Italia infame ed egoista che urla contro i migranti e usa a sproposito parole come ‘clandestini’. Pensiamo all’ipocrisia del ministro Roberto Maroni che ha creato ad arte l’emergenza di Lampedusa e afferma che l’Italia accoglierà solo i veri profughi che sono solo i libici. Perché, viene da domandargli, un somalo che è scappato da una guerra civile solo per finire dentro un’altra, che cosa è se non un vero profugo?”
La sera ha lasciato spazio alla notte, nelle tendopoli di Ras Jadir. I militari avvicinano un per uno i ragazzi di Ya Basta! e li invitano con fermezza ad uscire dalla tendopoli con la promessa di farli ritornare domani. Tutte le autorizzazioni ottenute a Tunisi qui non servono a nulla. La carovana dovrà accamparsi ad almeno una ventina di chilometri dal confine. Ragioni di sicurezza, dicono. Siamo italiani, l’Italia è in guerra con la Libia e le truppe fedeli al Raìs sono ad un tiro di fucile dal campo. A malincuore i carovanieri ricaricano gli zaini nel pulman mentre i profughi e gli operatori della Mezzaluna Rossa salutano questi strani italiani che non parlano come Bossi o Berlusconi, portano medicine e non bombe, girano in scassatissimi autobus e non su aerei di guerra, credono nella solidarietà e non nei respingimenti. Italiani che raccontano di un Meditterraneo antico e futuro. Un Meditterraneo che sia un ponte tra i popoli e non una frontiera di guerra.

Ya Basta in carovana

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Tunisi - In questa Tunisi dove la rivoluzione è tutt’altro che finita, una ventina di attivisti di “Ya Basta” provenienti da tutta l’Italia si è data appuntamento per portare nel sud del paese, nei campi profughi di Ras Jadir dove sono transitati per lo meno 150mila profughi - che cosa è al confronto Lampedusa? - un grosso carico di medicinali e di attrezzature medi- che. «perché lo facciamo?», spiega Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana denominata “Uniti per la libertà”, «innanzitutto per portare per portare solidarietà e aiuto a persone che ne hanno bisogno, ma anche per testimoniare nei fatti che l’Italia non è solo Bossi e Berlusconi».


L’avventura dei ragazzi di “Ya basta” che stanno per entra- re in zona di guerra, ai con- fini con la Libia, non è passata indifferente tra l’opinione pubblica tunisina che ha dato loro ampio spazio nelle televisioni, nei media e nel- le radio. Venerdì si è svolta un’affollata conferenza stam- pa e un incontro con le de-
legazioni dei movimenti dal basso e degli universitari che sono stati i veri motori della rivolta contro Ben Alì. oggi la carovana farà rotta a sud con una scorta dell’esercito e della Mezza luna rossa. al momento in cui scriviamo, le forze armate tunisine hanno proibito ai carovanieri di pernottare all’interno del campo 2 di ras Jadir, che ospita circa 10mila profughi, giustificando il divieto con l’eccessiva vicinanza al confine libico. «non dimentichiamoci - ha spiegato un portavoce dell’esercito - che l’Italia è un paese in guerra con la Libia».

Tunisi blindata

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Tunisi, dopo la Primavera Araba
- Corruzione, corruzione e ancora corruzione. se chiedete a un tunisino se la rivolta di gennaio sia scoppiata per il pane o per la democrazia, vi risponderà che a rendere insostenibile il regime di Ben alì è stata la piaga di una corruzione diffusa elevata a sistema di governo. e a tesserne le trame investendo tutti i settori della vita pubblica, spiegherà, non era tanto il dittatore quanto la moglie Leila trabelsi che aveva lottizzato l’intero paese tra una decina di famiglie mafiose che imponevano tangenti e governavano più dello stesso governo. «eravamo arrivati al punto», spiega un giovane laureato che durante le sommosse ha inchiodato il suo certificato di laurea a mo’ di protesta sul portone del palazzo di governo «che chi voleva lavorare doveva pagare percentuali fisse. era un ladrocinio istituzionalizzato».


Oggi Tunisi è più libera di tre mesi fa. Ma sono stati tre mesi di lotte continue. Dopo che il movimento chiamato Casbah 1 ha cacciato il dittatore e l’odiata consorte, pagando un duro tributo di sangue, le famiglie mafiose e i ministri del governo di Ben alì hanno tentato in più occasioni di riciclarsi e di mantenere il potere politico ed economico. Ma la Casbah non ha abbandonato le piazze della rivolta, riuscendo a far dimettere uno dopo l’altro tutti o quasi i membri del vecchio governo. «Thank you facebook», si legge sui muri della capitale. Così Casbah 2 ringrazia il social network che durante gli scontri di febbraio ha consentito ai rivoltosi di passarsi informazioni e di tenere i contatti in un paese in cui la stampa è strutturalmente asservita al potere.
Oggi, tre mesi dopo la rivolta di gennaio, Tunisi sta ancora cercando la strada della democrazia. il governo di transizione è praticamente inesistente. scioperi continui paralizzano le poste e i trasporti, e la macchina statale. L’immondizia che ormai ostruisce le entrate alle caratteristiche viuzze, e i cui miasmi coprono l’odore di spezie, testimonia lo sciopero pressoché continuo degli spazzini. Le piazze della rivolta sono circondate da lunghe trincee di filo spinato e dai blindati dell’esercito. esercito che comunque viene salutato come liberatore, in quanto al momento della ribellione ha rifiutato di sparare sulla folla, come invece hanno fatto i pretoriani di Ben alì e la polizia, contribuendo di fatto alla caduta del dittatore. il centro storico di tunisi due minuti dopo il coprifuoco pare nuclearizzato. anche il coloratissimo mercato di medina dopo il tramonto si trasforma in un deserto da cui conviene girare al largo. e neppure di giornoil quartiere è tranquillo. È in atto una vera guerriglia tra vecchi commercianti e nuovi ambulanti che provengono da fuori città. i turisti sono oramai un ricordo passato. nelle aree popolari della città, nei quartieri universitari, qua e là si formano gruppi spontanei che poi danno vita ad approssimativi cortei che si concludono con violenti scontri.
In questa caotica situazione, gli islamici, partigiani del 26 aprile, latitanti per tutto il corso della rivoluzione, stanno alzando la cresta e si intrufolano nei cortei dei sindacati e degli studenti e, dall’interno, spintonano via le donne e chiedono la proibizione dei liquori. Molti bar di Tunisi hanno già messo al bando birra e vino. Gli islamici cancellano le scritte delle ragazze dell’università femminista - non femminile- di Tunisi. «Le donne tunisine sono libere e libere resteranno».
«Sono una netta minoranza - spiega una ragazza - ma hanno soldi e potere. a parole chiedono la libertà di culto e presentano la faccia pulita, ma tra loro parlano di istituire la legge islamica».
Portano la barba - li chiamano “i barbuti” - indossano il turbante che qui nessuno porta, sventolano le bandiere dell’arabia saudita che li foraggia generosamente. spendono e spandono in beneficenza, specie nelle aree più povere. in puro stile Hamas, rischiando di fare il pieno di voti alle prossime elezioni quando si dovrà decidere quale tra i 52 partiti nati dopo la caduta di Ben alì dovrà governare quello che rimane della tunisia. Chi ha fatto la rivone il prima possibile, ma gli islamici pretendono una proroga di tre mesi e hanno trovato sponda nei comunisti che sperano di avere più tempo per organizzarsi. La Casbah 3, che domina oggi la piazza non è altro che il prodotto di questa confusa anche se non insolita alleanza tra marxisti e islamici. Votare e farlo subito è quanto continuano a chiedere quelli che la rivoluzione l’hanno fatta. Lasciare altri 3 mesi, di cui uno di ramadan, agli integralisti potrebbe voler dire cancellare anche l’ultima scritta che ricorda che le donne della tunisia sono libere e libre resteranno. allora non potranno neppure più dire «Thank you facebook».

La sacra acqua degli himba

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Epupa Falls, Namibia - Nelle regioni settentrionali della Namibia, nell’arida regione del Kaokoland, tra la vasta e polverosa piana dell’Etosha a sud, e le sconfinate foreste pluviali dell’Angola a nord, vive il popolo degli himba. Gli herero, con i quali condividono la lingua ma non certo i costumi, antepongono al nome “himba”, il popolo, l’aggettivo “ova”, medicanti, che dà il termine “ovahimba”, ovverosia popolo di mendicati, con il quale sono denominati in Namibia. Ancora oggi gli herero occidentalizzati rinfacciano agli himba di aver abbandonato circa un secolo e mezzo fa, per paura delle aggressioni delle tribù dei nama, la terra degli avi e aver attraversato il sacro fiume Kunene per chiedere ospitalità alle tribù boscimani delle quali successivamente adottarono e rielaborarono gli stili di vita. Così che, quando, nel 1920, ritornarono nella terra natia, gli himba portarono con sé usi e costumi completamente diversi da quelli con i quali erano partiti.

L’esilio in terra boscimana permise al popolo himba di evitare l’occidentalizzazione forzata imposta dai colonizzatori tedeschi che, al contrario, fece piazza pulita dell’antica cultura herero al pari delle altre culture native del territorio occupato. Oggi, con una “tradizione” risalente tutt’al più al tardo ‘800, gli himba sono probabilmente il gruppo etnico più “moderno” che cammina su questa nostra terra.
I circa mille e cento himba ancora rimasti sono prevalentemente nomadi e pastori. Gli uomini seguono le vacche in lunghe transumanze che possono durare anche varie settimane. Le donne fanno tutto il resto: allevano capre e pollame, curano i bambini, raccolgono gli ortaggi, costruiscono le capanne con argilla, legno e sterco, cuociono e conservano il cibo, realizzano manufatti, si occupano della medicina tradizionale e delle pratiche religiose. Al centro dei villaggi himba, brucia sempre l’okuruwo, il fuoco sacro che con il suo bagliore allontana i cattivi demoni che avvelenano i cuori degli uomini e fanno ammalare i bambini. Ad aver cura giorno e notte del piccolo falò, che serve anche a far bollire le farine, è sempre una sciamana donna, scelta tra le più anziane della tribù.
Fino a poco tempo fa, una parte importante nella vita quotidiana degli himba, sia pure non paragonabile all’allevamento, ce l’aveva anche l’agricoltura. L’inverno tropicale portava con sé le “piccole piogge” che fecondavano la terra inaridita. Era il tempo della semina in attesa che le successive “grandi piogge” facessero germogliare e crescere i raccolti. Ma nel giro di due generazioni, mi ha raccontato una donna himba, tutto è cambiato. Le piccole piogge sono sempre più povere e più distanti. Le grandi piogge arrivano copiose, violente ed improvvise, non portano la vita ma allagamenti e disastri, sino ad isolare l’intera regione per un paio di mesi all’anno. Lei non può saperlo, ma in poche parole mi ha descritto il Climate Change, meglio di un rapporto dell’Ipcc. I villaggi himba hanno come base sociale un nucleo familiare allargato. Ogni uomo può sposare più donne: il primo matrimonio viene sempre combinato dagli anziani, per i successivi è necessario il consenso sia dello sposo che della sposa. Solo le donne possono possedere una capanna. Gli sposi debbono chiedere sempre il consenso alla moglie per dormirci la notte. In compenso, soltanto agli uomini maritati è consentito adoperare una sorta di scomodissimo cuscino “poggiatesta” in legno che gli himba considerato il massimo della comodità e il primo dei vantaggi della vita coniugale. L’acqua per gli himba, è sacra. Solo agli uomini sposati è consentito lavarsi. E soltanto come preparazione alle cerimonie religiose in particolari periodi dell’anno. Le donne si prendono cura del proprio corpo - operazione piuttosto complessa e per la quale impiegano buona parte della giornata - cospargendosi con una mistura di grasso di vacca, burro di capra, terra d’ocra, argilla più qualcos’altro (che ad un uomo come me pare che possa essere rivelato). Con una simile mistura che dona loro quel caratteristico colore rosso scuro, intrecciano anche i lunghi capelli. Le donne si limitano ad indossare per lo più un corto gonnellino ma non trascurano mai di ornarsi con grossi bracciali, lunghe collane e pesantissimi paramenti.
Va sottolineato che gli himba, non ignorano l’occidentalizzazione. Semplicemente la rifiutano. Ad Epupa o a Ondangwa, è consueto di vedere donne himba fare la fila nei supermercati o bersi una birra in un bar. Non di rado, la tribù possiede un furgone o comunque un mezzo meccanico per portare nei mercatini i loro prodotti artigianali, pur se non c’è verso di chiedergli la patente o l’immatricolazione. D’altronde, da queste parti non ci sono neppure strade così come le intendiamo noi. In certi casi, i capi tribù si rivolgono ad avvocati per tutelare i loro diritti e indicono frequenti conferenze stampa per denunciare le costanti pressioni omologative del governo centrale.
In una recente intervista alla Bbc, il ministro namibiano Hidipo Hamutenya ha spiegato che gli Himba “devono abbandonare le loro usanze e imparare a indossare camicie, cravatte e giacche come me e come tutti gli altri» e ha denunciato “l’ipocrisia dei soliti europei che vorrebbero che questa gente continuasse a vivere come bestie per soddisfare la proprie malsane curiosità”. A parte il fatto che gli himba non vivono come bestie e sono perfettamente in grado di compiere le loro scelte, l’attacco del ministro Hamutenya che, non a caso, ha la delega allo “sviluppo economico”, è una conseguenza della lotta che da anni la popolazione himba conduce contro il progetto di una enorme diga sulle Epupa Falls che priverebbe il Kaokoland dell’acqua necessaria al sostentamento dei villaggi indigeni, himba e non himba. Come denunciato da varie organizzazioni ambientaliste africane ed europee, d’altro non si tratta che del solito ecomostro dall’inaudito impatto ambientale e sociale che certo non serve al fabbisogno energetico della regione, già ampiamente soddisfatto, ma alle esigenze delle multinazionali petrolifere che, poco più a nord, stanno devastando le foreste pluviali. Un altro bell’esempio di capitalismo predatorio: un disastro ecologico per alimentare un altro disastro ecologico. Povertà e miseria per pagare altra povertà e miseria. E’ questa l’occidentalizzazione che gli himba rifiutano. Non è una villa a Beverly Hills, ciò che questo cosiddetto “sviluppo economico“ porterebbe loro, ma un letto di cartone ai bordi di una dei tanti “slum” africani.

Or non vuole uccidere

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Venezia - Ha soltanto 19 anni, Or Ben-David. Un musetto da ragazzina impertinente col piercing al naso e l’mp3 pieno di orrida musica hip hop. Chi la incontra, e conosce la sua storia, non può fare a meno di chiedersi dove abbia trovato, questo soldo di cacio qui, tutto il coraggio per fare quello che ha fatto. Perché Or è una “shmnistim”, termine ebraico che indica i diplomati alle scuole superiore rifiutano il servizio militare. “Mi hanno chiamata criminale, ebrea rinnegata, traditrice, ingrata e vigliacca perché altri stanno combattendo e morendo anche per la mia libertà. Ma io so che non è un crimine rifiutarsi di uccidere e dire no ad una società che costringe i ragazzi della mia età ad imbracciare le armi e sparare ai palestinesi”. Il suo “no” all’esercito israeliano le è costato caro: gravi minacce a lei e alla sua famiglia, pesanti conseguenze sul proseguo degli studi e sulla ricerca di un lavoro, quattro mesi di carcere militare. Eppure Or ha sempre tenuto duro. Alla fine, le autorità militari l’hanno congedata con un certificato di inidoneità per “gravi disturbi psichici”.


“E’ una prassi usuale. Quando vedono che non riescono a piegarti ti dichiarano pazzo. Poi ti fanno un discorso che potremmo riassumere così: va bene, hai vinto, ti lasciamo a casa, ma tu vedi di stare zitta e la pianti di denunciare quanto succede nell’esercito”.
Cosa che Or non ha mai neppure messo in preventivo di fare! Tanto è vero che appena uscita dalla galera ha accettato l’invito dell’associazione Payday per una giro di conferenze di denuncia in Europa. Or se ne è partita dalla sua Gerusalemme con un biglietto aereo pagato e una ventina di euro in tasca. Ma che non abbia paura di niente, questo oramai l’ha capito pure l’esercito sionista.
Dopo Londra e Bruxelles, Or è venuta in Italia. L’abbiamo incontrata a Venezia, martedì giugno 2010, in occasione di una iniziativa alla scoletta dei Calegheri, ospite dell’assessorato alla pace del Comune di Venezia. Nei prossimi giorni l’attendava un fitto calendario di incontri: dallo Sherwood festival di Padova al Presidio permanente contro la base Dal Molin di Vicenza.

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Or, perché non hai voluto fare il servizio militare?
Perché combattere per la pace è come scopare per la verginità. In Israele anche i bambini che non sanno ancora leggere e scrivere sono bombardati da una propaganda a favore della guerra. I palestinesi sono quelli che ti odiano e che ti vorrebbero cacciare dalla tua casa, ci dicono. Anche la storia viene falsata. La guerra terrorista che ha portato alla nascita dello Stato di Israele e che ha cacciato i palestinesi è spacciata come la gloriosa guerra di indipendenza. Nella scuole soprattutto, siamo di fronte ad un lavaggio del cervello vero e proprio. Pensate che ogni classe ha come insegnante di sostegno una soldatessa che fa continua propaganda per l’esercito, unico baluardo democratico contro il terrorismo arabo. Ogni classe, inoltre, all’ultimo anno di scuola, trascorre una settimana dentro una caserma che viene proposta come una specie di premio di fine corso. Tutto viene presentato come un gran divertimento. E in effetti, quella settimana è solo una goliardata. Niente di più che una gita scolastica dove i ragazzi, lontani da casa e senza obblighi di studio, si sentono autorizzati a fare un po’ di pazzie. I militari ti incoraggiano a sfogarti e tutto viene fatto passare come una festa. Non ti spiegano però che poi la vera vita militare sarà tutta un’altra cosa!

Ci sei andata anche tu?
Scherzi? Io gli ho tirato la manca. Ma l’ho pagata tutta perché la settimana in caserma è obbligatoria. Mi hanno affibbiato una tesina sull’esercito israeliano e mi hanno tolto 10 punti da tutte le materie. Arte e matematica compresi. Mi sono diplomata per il rotto della cuffia. Ho voluto partecipare però al viaggio che le scuole israeliane annualmente organizzano per visitare i campi di sterminio nazisti. Io ho scelto Birkenau, in Polonia, perché ci era stato mio nonno. Quel che ho visto mi ha fatto star male e per tante notti ho avuto gli incubi. Ma anche in questa terribile occasione, dopo la conferenza sull’olocausto, arrivava puntuale l’incontro con le autorità dell’esercito che ti raccontano come sia indispensabile arruolarsi e difendere con le armi la nostra patria perché non succedano più queste orrori. Ma, mi chiedo io, si può giustificare lo sparare ai palestinesi con l’olocausto?

Come hai maturato questa presa di posizione pacifista?
Non è stato un percorso facile perché sin da bambini ci insegnano ad aver paura. Io avevo 12 anni quando è scoppiata la seconda intifada. Sentivo di autobus che saltavano in aria, di manifestanti palestinesi che tiravano pietre ai nostri soldati. Anche tra i miei parenti e i miei amici si sono stati feriti. Io non riuscivo a capire cosa poteva spingere un uomo ad abbandonare il lavoro e a farsi saltare in aria in un bar solo perché era frequentato da ebrei. Ricordo di aver chiesto alla mia maestra perché succedevano questa brutte cose e lei mi rispose che era sempre stato così: i palestinesi odiano gli ebrei e gli ebrei si devono difendere da questo odio. Quando avevo 16 anni ero orgogliosa di essere israeliana ed ero pronta ad arruolarmi per fare il mio dovere e dare il mio contributo alla mia patria e alla nostra libertà. Quando la mia migliore amica che proveniva da una famiglia pacifista, mi disse che lei non avrebbe risposto alla chiamata di leva ricordo che mi arrabbiai moltissimo con lei. La chiamai traditrice ed ingrata. Le dissi esattamente tutte quelle cose che ora dicono a me. Ma un po’ alla volta cominciare a pensare e a pormi delle domande: davvero tutto quello che mi stavano insegnando a scuola corrispondeva alla verità? O piuttosto non erano tutte bugie che mi erano state messe in testa per farmi fare quello che volevano che facessi? Ma la storia si può falsare solo fino ad un certo punto. Le prepotenze e le ingiustizie perpetrate dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi sono talmente tante e talmente evidenti che solo chi non vuole vederle non le vede.

Quindi sei diventata una shmnistim?
Già. Ho spedito una lettera al ministero spiegando loro che non avrei risposto a nessuna chiamata dell’esercito. È cominciata una guerra psicologica. Sono stata convocata dal preside ed agli insegnanti che hanno cercato di farmi cambiare idea. Poi è toccato alle autorità dell’esercito. Tutti a dirmi che facevo una gran stupidaggine e che l’avrei pagata cara e che con me l’avrebbe pagata cara anche la mia famiglia. Ma io ho tenuto duro. Così mi hanno condannato ad una settimana di carcere militare a titolo dimostrativo e poi mi hanno mandata a casa. Era un modo per dirmi: vedi com’è brutta alla galera. Basterebbe accettare fare come tutti gli altri per evitarla. Ma tutte queste esperienze e queste pressioni mi spingevano ancora di più a tenere duro perché in fondo mi dicevano solo che avevo ragione io. Così sono tornata in prigione. Dopo quattro mesi di carcere mi hanno chiamata per un colloquio e mi hanno domandato se avevo cambiato idea e se fossi disponibile a fare il servizio di leva. Ho risposto di no. A questo punto mi hanno congedata con il certificato di inidoneità per gravi disturbi psichici di cui ti dicevo.

Quanti sono gli shmnistim israeliani?
Chi può dirlo? Di certe cose in Israele non si può parlare. E l’esercito di sicuro non rilascia statistiche. Molti rifiutano la leva ma, al contrario di me, fanno di tutto per nasconderlo. Vuoi perché hanno paura di ritorsioni verso di loro o verso le loro famiglie, o vuoi perché a dirlo pubblicamente hai solo svantaggi. Ti ripeto che non è una scelta facile. Isreale è un paese in guerra e non è la stessa cosa che fare l’obiettore in altre parti del mondo.

Come ha vissuto questa scelta la tua famiglia?
Vengo da una famiglia composta per la maggior parte da ebrei mizrachi (sono gli ebrei appartenenti alle comunità provenienti dai paesi arabi.ndr). In qualche modo, i mizrachi si sentono in dovere di dimostrare di essere più ebrei degli ebrei, quasi che avessero qualcosa da farsi perdonare. Sono per la grande maggioranza di destra e i miei non fanno eccezione. Detto questo, sono la mia famiglia e voglio loro bene tanto quanto loro ne vogliono a me. Mi considerano, nella migliore delle ipotesi, una testa calda ma non hanno mai smesso di dimostrarmi il loro affetto anche se non condividono la mia scelta. Mia sorella più piccola, ad esempio, non vede l’ora di fare la soldatessa quasi per rimediare allo sgarro compiuto da me.

Come vivono i giovani questa situazione di guerra continua?
Con rassegnazione. E’ difficile anche cercare il dialogo con i palestinesi. Bisogna considerare anche la barriera della lingua. Gli ebrei vedono i palestinesi solo come un pericolo: sono quelli che ti lasciano la bomba sotto il sedile dell’autobus, quelli sempre pronti ad accoltellarti alle spalle. I palestinesi, d’altro canto, conosce noi ebrei solo come i coloni o come i soldati che gli tirano giù la casa col bulldozer. Prendete Gerusalemme. E’ una città mista ma palestinesi ed ebrei non si incontrano mai, non hanno né luogo né occasioni di incontro.

Neppure nelle scuole?
Ma chi è l’ebreo che manderebbe suo figlio in una scuola dove ci sono anche i palestinesi? E magari a studiare l’arabo? L’incomprensione ha radici profondissime e l’esercito, che in Israele è una vera e propria vacca sacra, ha gioco facile nell’imporre proprio a partire dalle scuole una mentalità di guerra perenne e far fiorire stereotipi e incomprensioni. Anche tra i giovani, l’idea più diffusa, sia da una parte che dall’altra, è che così è sempre stato e così sempre sarà. Palestinesi contro ebrei, ebrei contro palestinesi. Anche all’estero, non si esce da questo luogo comune. Fateci caso, anche da voi, in Italia, si parla di Israele e Palestina come di una partita di calcio, da tifare per una parte o per l’altra. Ma non è così semplice.

Cosa significa fare il servizio militare in Israele?
Fare la guerra e portare altre ingiustizie a gente come i palestinesi che già ne hanno subite troppe. Ma non sono solo loro le vittime dell’esercito. Quello che in Israele non si può dire e che l’esercito non vuole che si sappia è il trattamento cui sono sottoposti i soldati di leva. Le violenze fisiche e psichiche sono quotidiane. In particolare sulle donne. Il reparto fureria, ad esempio, che è sempre femminile, viene chiamato il “reparto materasso”. E non c’è nulla da ridere perché son tutti stupri. Pensa che se ogni donna militare ha diritto ad un aborto gratuito (in Israele l’aborto è libero ma si paga.ndr), una che presta servizio in fureria ne ha due. E la medie per le ragazze in servizio di leva è proprio questa: due aborti in due anni di servizio militare.

Non usano sistemi anticoncezionali?
Ma che bel ragionamento da maschietto! Devi sapere, caro mio, che nessuna ragazza, sia ebrea o araba o di dove vuoi tu, prende la pillola perché mette in preventivo di essere violentata. Lo fa se vuole avere rapporti col suo ragazzo ma ti assicuro che in quello schifo di guerra e in quello schifo di vita, l’amore è l’ultima cosa che ti viene in mente! Il problema vero è che sotto le armi, lo stupro di un superiore o di un commilitone non è neppure considerato un reato. “Son cose che succedono – ti dicono – Ci son passate tutte e ci passerai pure tu”.

Scusa tanto. E i ragazzi di leva?
Capita che vengano stuprati pure loro, pur se con altre conseguenze che per le donne. Il trattamento alla fine dei conti non è molto diverso. Scarafaggi. Sono trattati come scarafaggi. E considera che nella logica dell’esercito deve necessariamente essere così, altrimenti non riuscirebbero a fargli fare tutto quello che fanno ai palestinesi. Più lo incarognisci e più il soldato ti torna buono per la guerra.

Ancora una domanda. Nel tuo giro per l’Europa hai incontrato molte associazioni che propongono il boicottaggio dei prodotti israeliani. Che ne pensi di questa politica?
Che da sola non serve a niente. Anzi, rischia di essere controproducente. Mi spiego meglio. Non sono contraria al boicottaggio se questo serve a smuovere l’opinione pubblica all’estero, ma devi considerare che in Israele viene visto solo come un atteggiamento antisemita che spinge gli ebrei a rinchiudersi ancor di più in se stessi. Ti faccio un esempio. Durante l’ultima intifada, la cantante pop Shakira ha annullato il suo tour in Israele per protestare contro le violenze dell’esercito israeliano nei territori occupati. Ma cosa è passato nei mass media ebraici? Solo la prima parte del discorso: “Shakira ha annullato il suo tour in Israele”. Di conseguenza, Shakira ce l’ha con noi ebrei. Shakira è antisemita. Via tutti i dischi di Shakira dalle nostre rivendite. E’ questo, mi domando, il risultato che si voleva ottenere? Meglio hanno fatto altre rock star che hanno tenuto ugualmente i loro concerti ma prima hanno parlato agli spettatori spiegano loro che non era giusto che i soldati israeliani facessero quello che stavano facendo. Per molti giovani, è stata la prima occasione di sentire una campana diversa da quella che gli suona la scuola o l’esercito. Per il boicottaggio la penso alla stessa maniera. Da solo, se non è supportato da iniziative di contro informazioni capaci di fare breccia nella società, non serve a niente se non a rafforzare il nostro atteggiamento di popolo in continua guerra contro tutti.

Pay Day e il movimento dei “refusing”

“Refusing to Kill is not a Crime”. Rifiutarsi di uccidere non è un crimine. Al contrario, è una scelta etica e coraggiosa perché, come ha scritto Or Ben-David nella lettera che ha inviato alle autorità dell’esercito israeliano per motivare la sua decisione di obiettare al servizio militare, “Rifiutare significa dire no: no alla guerra, no a una società che costringe i giovani a portare armi, a uccidere e a essere uccisi”. Una scelta etica e coraggiosa, dicevamo, perché chi rifiuta di imbracciare il fucile, viene immancabilmente incarcerato, perseguitato e diffamato. Per questo è importante che i refusing non siano lasciati soli e che associazioni, enti, partiti, movimenti e cittadini che si riconoscono nei valori della pace e del disarmo, si schierino a loro sostegno con iniziative che facciano conoscere la loro storia e la loro situazione. Anche una semplice cartolina, può essere determinante. “In tutti quei mesi che ho trascorso in carcere, sottoposto a torture fisiche e psicologiche - ha scritto un refusing curdo che si è rifiutato di prestare servizio militare nell’esercito turco – quello che mi ha dato la forza di tenere duro sono state le lettere di incoraggiamento che mi arrivavano da tutte le parti del mondo. Tante erano scritte in linguaggi incomprensibili ma tutte mi dicevano che al di là di mura c’era della gente che era d’accordo con me e che non mi considerava un traditore e un vigliacco ma un uomo libero che aveva scelto la pace alla guerra”. Sostenere i refusing e le loro scelte, è lo scopo è dell’associazione internazionale Payday (che significa “Giorno di paga”) che sostiene le lotte di tutti i refusing del mondo, dagli shministim israeliani ai militari inglesi e americani che si rifiutano di uccidere in Afghanistan, alla Turchia, alle Filippine, sino all’Honduras e alla Colombia.
Nel sito dell’associazione,
www.refusingtokill.net potete leggere le storie di tantissimi “signornò”. Storie che raccontano di come sia stata sofferta ma irrinunciabile la decisione di rifiutarsi di eseguire gli ordini dei loro superiori e di quanto gliela abbiano fatta pagare cara. Storie che nessun esercito vorrebbe mai far ascoltare.

Nuke Mapu, la Madre Terra mapuche

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El Maiten, Patagonia - Il viaggiatore che percorre quel tratto della polverosa ed infinita Ruta Nacional 40 che, scendendo dal nord dell’Argentina, porta ad Esquel, nello stato del Chubut, non potrà fare a meno di sorprendersi nel trovarsi di fronte, nel bel mezzo di quello sterminato niente che è la pampa della Patagonia, ad un enorme cartellone pubblicitario. Nelle ultime sette o otto ore di carreggiata, era già tanto se il nostro viaggiatore aveva incrociato un paio di gaucho a cavallo e tutt’al più una mezza dozzina di puzzolenti e solitari alpaca.

E adesso ecco spuntare all’orizzonte sconfinato della pampa quell’assurdo cartellone firmato niente meno che da Oliviero Toscani, che gli fa sgranare gli occhi increduli e dubitare di trovarsi di fronte ad uno di quei miraggi per i quali altri deserti sono famosi. A riportare il nostro viaggiatore alla realtà è il posto di blocco con autoblinde corazzate e militari in giubbotto antiproiettile che lo fanno scendere dal pick-up col mitra puntato, per controllargli carico e documenti. In sudamerica, non c’è niente di più efficace di un reparto dell’esercito in azione antiguerriglia per sgomberarti la mente dai sogni. Eppure, abbinato a tutto quello spiegamento di forze, quel cartellone che ostenta tutti quei toni spiccatamente mondialisti e pacifisti che contraddistinguono le opere del fotografo italiano, appare ancora più assurdo. Il grande manifesto ritrae il volto, saggio e tuttavia rassegnato, di un vecchio indigeno. A lato, una scritta sobria informa il viaggiatore che a quel punto delle carreggiata, una deviazione conduce a Leleque e al museo con cui l’azienda Benetton - che da queste parti si è comprata un territorio grande come tre provincie del Veneto - ha voluto commemorare la grande e triste storia dei mapuche, “el pueblo desaparecido”. Capirete che i mapuche, che non si sentono affatto “desaparecidos” - perlomeno non ancora - vedono come un calcio negli stinchi questo elegante museo che ha il solo scopo di mettere una pietra tombale sulle popolazioni indigene e sulle durissime lotte per continuare ad abitare quella terra che era loro da molto, molto prima che se la comprasse il signor Benetton. Da qui, si spiega anche il dispiegamento di poliziotti e militari incarogniti, costretti notte e giorno a far la tana sotto l’opera d’arte del maestro Oliviero Toscani.
Ma adesso un’altra storia. Continuiamo il nostro viaggio sulla Ruta 40 e scendiamo ancora più a sud di qualche decina di chilometri – che da queste parti è come, a Venezia, dire “un ponte e una calle”. Dietro una posticcia palizzata, attorno a una ventina di capanne di legno e di pelle, sventola la bandiera bianca e gialla del popolo mapuche. Qui vive, in terra mapuche “recuperata” la comunità indigena di Santa Rosa. Nel febbraio del 2007, questi mapuche hanno tagliato il filo spinato con il quale Benetton si è recintato mezza Patagonia come fosse il giardino della sua villa di Ponzano, e si sono ripresi 565 ettari di terra. Quel che per i mapuche è il “recupero” di Nuke Mapu, la Madre Terra grande e generosa che regala vita e ricchezza a tutti i suoi figli e che, in quanto Nuke Mapu, non può essere né comprata né venduta, per i legali dell’imprenditore trevigiano è “occupazione abusiva”. Ne è nata una dura lotta a colpi di carte bollate ma anche di manganelli, fucilate, case bruciate, persone bastonate.
Sono stati due anni duri, di assedio e di violenze a tutti i livelli, quelli sopportati dai mapuche di Santa Rosa. Un impero economico di statura mondiale che può permettersi di foraggiare plotoni di avvocati, contro un popolo che vive allevando pecore. Eppure, grazie anche all’aiuto di associazioni movimentiste come l‘italiana Ya Basta che, tra l’altro, ha un suo punto di forza proprio a Treviso, i mapuche hanno respinto tutti gli attacchi e continuano tutt’ora a fra sventolare la loro bandiera su Santa Rosa, riuscendo anche ad ingrandire la comunità iniziale. Ma la lotta continua. Se un giudice dà ragione ai mapuche, gli avvocati di Benetton non mollano e riaprono un’altra causa. L’ultima denuncia se la sono presa per un “abuso edilizio” in relazione alla costruzione di un ponte. Io l’ho visto quel “ponte”… quattro tronchi di legno legati insieme con una coda, lunghi due metri e 40 centimetri (misurati! Non sparo cifre a caso) per far passare le pecore al di là di un fossato…
Ma la seconda storia che ho promesso di raccontare la troviamo a qualche chilometro da Santa Rosa. Bisogna proprio che ci addentriamo ancor di più nella pampa patagonica. Tre o quattro ore di cammino senza alcun sentiero da seguire, attraversando luoghi che ti vien da pensare che doveva essere tutta così, la nostra Terra all’origine dei tempi, quando la specie dominante non era l’uomo ma i grandi sauri. All’orizzonte, al di là di laghi e foreste, si intravvedono le possenti propaggini della cordigliera andina. Ma quanto siano lontane, quanto siano immense, nessuno lo potrebbe dire. Ed è proprio qui che troviamo, solitaria, una capanna di legno. E’ il rifugio di un’anziana donna mapuche. Vedova da tanto tempo, cieca dalla nascita. Vive qui, dove ha sempre vissuto, e dove, nei giorni andati della sua lunga vita, sorgevano le capanne dei suoi figli e dei suoi nipoti. Mentre mi offre l‘inevitabile e amarissimo mate, e ci passiamo di mano in mano, la piccola zucca con la cannuccia di legno, mi chiede notizie dal mondo. I parenti che ancora vivono a Santa Rosa, la vanno a trovare spesso ma evitano di raccontarle tutti i guai che hanno con avvocati e, soprattutto, polizia ed esercito argentino. Non vogliono preoccuparla. Ma l’anziana mapuche ha capito che qualcosa è cambiato attorno a lei. Lo sente nel profumo dell’aria, nel sapore dell’acqua, nelle erbe che lei, nel buio della sua notte eterna, cerca a tastoni seguendo le radici degli immensi alberi. Erbe che bolliva in infusi per concedersi sollievo dai suoi acciacchi senili e che adesso non riesce più a riconoscere. La mia ospite è cieca. Non può vedere, non può sapere che lungo l’orizzonte che circonda la comunità di Santa Rosa, la pampa in cui vive non è più la pampa che l’ha vista nascere. Per migliaia e migliaia di ettari, sta crescendo un mare verde di pini ad alto rendimento economico, coltivati con tecniche intensive. Alberi le cui sementi vengono da lontano, alberi mai visti su queste latitudini e che consumano fiumi d’acqua, impoverendo la regione di quella che era la sua principale ricchezza. Alberi che, inevitabilmente ed irreparabilmente, stanno modificato il fragile equilibrio ecologico di questo angolo di mondo. Un mondo, mi ha raccontato l’anziana mapuche, che nel tempo antico era abitato da popolazioni di giganti che oggi sopravvivono solo nelle leggende. Sono scomparsi perché erano grossi ma sciocchi. Pensavano di poter crescere a dismisura, perché più crescevano e più credevano di diventare potenti. Si estinsero senza capire che Nuke Mapu, la madre terra, è generosa ma non è infinita.
Questa è l’altra faccia del museo Benetton. I “colori invisibili di Benetton” per scimmiottare uno degli slogan che hanno fatto la fortuna di questa azienda trevigiana, regina del contoterzismo in patria, e imperatrice del neo latifondismo in Argentina. L’avventura dei Benetton in terra patagonica cominciò negli anni della presidenza Menem, tra l’89 e il ’99, con l’acquisto per 50 milioni di dollari della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ricordate Carlos Menem? Gli argentini non se lo dimenticano più, uno così. Grande profeta del liberismo. Tanto da meritarsi in più occasioni il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Grande amico di Berlusconi che lo salutò come apostolo della pacificazione nazionale, in quanto aveva graziato tutti i militari riconosciuti colpevoli di omicidi e torture durante la dittatura, e come l’uomo che avrebbe portato l’economia argentina al passo con le potenze mondiali cavalcando il “rampante destriero della globalizzazione neo liberalista”, metafora sua. Menem, appena eletto, si preoccupò solo di privatizzare tutto quello che era privatizzabile e poi di privatizzare anche quello che non lo era. Svendette, a prezzi da liquidazione, tutte le aziende di base, tra cui le Poste e la Ypf, la compagnia petrolifera di stato, liquidando gran parte del patrimonio nazionale per una perdita stimata dalla stessa Banca Mondiale attorno ai 60 mila milioni di dollari.
Durante la presidenza Menem e del suo degno successore De La Rùa, il debito estero, l'inflazione, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la povertà crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. L’abolizione dei vincoli doganali, la coatta “dollarizzazione” dell’economia sino alla forzata parità del peso con il dollaro, furono il colpo finale che nel 2001 portarono l’Argentina sul baratro della più grave crisi economica che abbia mai investito un paese del Sud America. Il 2 gennaio del 2002, mentre Menem e la moglie Cecilia, ex miss Universo, riparavano in Cile inseguiti da una denuncia per vendita di armi all’estero e una lista di reati patrimoniali per elencare i quali non basterebbe il libro che avete tra le mani, il paese attraversò il suo periodo più nero e nel corso di quella sola settimana, il peso perse i due terzi del suo potere d’acquisto. Le banconote emesse dallo Repubblica d’Argentina valevano come carta straccia. Buenos Aires si riempiva di famiglie di cartoneros che ancor oggi vivono per strada e per sopravvivere frugano tra le immondizie in cerca di qualcosa da riciclare. Gli ex lavoratori andavano a rinfoltire le fila dei disoccupati e si trasferivano in massa nelle baraccopoli che cominciarono ad ingrandirsi a dismisura fino ad assediare l’intero perimetro di quell’oceano di case che è Buenos Aires. Attorno alla città, nasceva un’altra città di poveri ed emarginati.
Quei giorni di fame e miseria, li ho ritrovati egregiamente sintetizzati in un cartello di “bienvenido” ancor oggi appeso nell’entrata della baraccopoli bairense di Solano, quartiere in cui vi sconsiglio di passeggiare a tutte le ore del giorno a meno che non siate invitati. La scritta dice: “Benvenuta nella tua nuova dimora, classe media!”
Questi furono gli anni gloriosi della conquista di Benetton della Patagonia. Gli anni in cui si comprava tutto perché niente valeva. E pazienza se, in quella stessa terra che Benetton si preparava a recintare con chilometri e chilometri di filo spinato, le comunità mapuche, vivevano, per dirla col nome di una loro battagliera associazione di lotta, sin dall’Once de octubre. Cioè l’undici di ottobre, il giorno prima del giorno più infausto per i mapuche: quello della scoperta dell’America.
La brillante speculazione economica ebbe come apripista l’abolizione della proprietà collettiva e di tutte le strutture politiche, economiche e sociali del popolo mapuche avvenuta durante gli anni della dittatura militare. Anni di repressione, di violenze, sparizioni e di omicidi per tutto il popolo argentino ma in particolare per i mapuche, considerati de facto e senza distinzione oppositori al regime. Tra gli anni ‘70 e ’80, il numero della comunità mapuche si ridussero da più di 2 mila a 665. Il ritorno alla democrazia ha visto le comunità indigene della Patagonia – parliamo di quelle sopravissute – impegnarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità e difendere la propria terra. Una battaglia non solo durissima ma anche tutta da costruire, se teniamo conto che solo pochi anni fa, la Costituzione della Repubblica Argentina citava i popoli indigeni soltanto per ricordare che lo Stato aveva il dovere di convertirli al cattolicesimo.
Oggi, il Wall Mapu, il territorio dei mapuche, sembra cucito col filo spinato. Qua e là, cartelloni avvertono i viaggiatori che per di qua è “prohibido pasar”. La mitica Ruta 40 dove si sono avventurate generazioni di viaggiatori sulle orme di Chatwin, di Coloane e di Sepulveda, oggi scorre in mezzo a proprietà private acquistate a prezzi di liquidazione da lupi dell’imprenditoria straniera che hanno rubato la terra ad un popolo libero e i sogni all’intera umanità.
I torrenti che un tempo ruggivano lungo la sterminata pianura trasportando vita e prosperità, sono stati deviati per portare le loro ricchezze d’acqua solo dove lo impone la legge dello “sviluppo” – termine che scriveremo sempre tra virgolette – neo liberista. Il grande rio Chubut che attraversa il latifondo Benetton è diventato proprietà privata e ai mapuche non è consentito neppure avvicinarsi. Adesso l’acqua del rio è riservata alle 300 mila pecore e ai 16 mila bovini da macellazione dell’azienda Benetton e i greggi mapuche, composti sì e no da una dozzina di pecore, devono abbeverarsi 40 chilometri più a est. “Ma non è l’acqua che è nostra – ha precisato Ronald MacDonald, il gringo norteamericano che i Benetton hanno messo a capo del latifondo Leleque –. Quella, per legge, è di tutti e non potremmo vietare nemmeno la pesca. E’ la terra attorno al fiume che dobbiamo tutelare come proprietà privata in quanto appartiene alla nostra azienda. E qui è prohibido pasar”.
Questa che si combatte in terra mapuche, è anch’essa una guerra per l’acqua. Per l’accesso all’acqua, al di là del filo spinato. Per l’uso dell’acqua: la Patagonia, è vero, è ricca di questo bene prezioso ma non tanto da consentire la crescita di foreste di legname pregiato e il mantenimento di centinaia di migliaia di capi di bestiame. Ma anche per la purezza e la potabilità dell’acqua. I fiumi che escono dalle grandi “estancias” sono irrimediabilmente inquinati. Nel 2005, una ong riuscì a documentare numerosi casi di indigeni, donne e bambini in particolare, intossicati per aver bevuto l’acqua del fiume che attraversa l’estancia El Maiten di Benetton, inquinata dai liquidi di scarico e dai residuali di lavorazioni del bestiame non depurati da nessun filtro. Quello che in Italia ti farebbe finire in galera, in Argentina è concesso.
Ma se Benetton è oggi il più grande latifondista d’Argentina, non è il solo ad aver investito capitali per “dare un futuro anche agli abitanti di queste terre sottosviluppate”, come ha affermato in un’intervista. Attori famosi come Richard Gere, calciatori come Oscar Batistuta, stelle della televisione e del cinema hanno investito i loro soldi facilmente guadagnati nell’acquisto di terre in Patagonia senza mai porsi troppe domande se nelle terre in questione vivessero dei popoli nativi e, nel caso, che ne pensassero della loro idea di “sviluppo”.
“L’idea di vendere la terra è totalmente estranea alla nostra cultura” mi ha spiegato Mauro Milian, portavoce dell’Once, che ho incontrato a El Maiten in occasione dell’inaugurazione di radio Petü Mogeleiñ, la prima radio in lingua mapuche della Patagonia, realizzata grazie all’aiuto dell’associazione Ya Basta. “Come si può vendere una cosa che appartiene a tutti e, soprattutto, che serve a tutti? E come si può pensare di comperarla? Ce n’è tanta, di terra, in tutta la Patagonia. Se qualcuno vuole costruirsi una casa e allevare il suo bestiame lo può fare senza chiedere niente a nessuno. E tutta la comunità è pronta ad aiutare chiunque voglia mettere su casa. Vendere la terra? Che idea! Sarebbe come pretendere di vendere l’acqua, l’aria… Ma già! Gli uomini bianchi fanno pure questo! Poi mandano la polizia e l’esercito. E dicono a noi, che abitiamo queste terre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, che dobbiamo fare le valigie. Dobbiamo andarcene via perché un ricco signore che abita in terre tanto lontane da fuggire alla nostra immaginazione, ha comperato tutto e ora afferma che è tutto suo. Ma noi non ce ne andiamo. Non ce ne andiamo perché questa terra è Nuke Mapu. E’ la nostra terra: è la madre di tutti i mapuche ed è la madre di tutto ciò che qui cresce. Senza di lei, potremmo forse continuare a chiamarci Mapuche? Potremmo continuare ad essere ciò che siamo?”
Cosa ne è di un mapuche senza la sua Nuke Mapu? domanda Mauro Milian. Qualcuno china la testa e accetta di lavorare proprio nelle grande “estancias” dei nuovi padroni, lasciandosi sfruttare dai latifondisti e dai loro sgherri come manodopera a basso costo e senza diritti sindacali. Altri prendono la strada delle grandi metropoli dove li attendono giorni di miseria e di discriminazione nelle baraccopoli dei bianchi.
E’ un genocidio anche questo. Un genocidio perpetuato senza camere a gas o stermini di massa ma perpetuato con la non meno efficace arma della globalizzazione. Salvo poi inscatolarne la memoria nelle vetrine di un museo e ricordare in qualche convegno quanto era nobile e saggio l’antico popolo dei mapuche. El pueblo desaparecido.
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