Come ti tarocco l'elezione

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Sensuntepeque, dip. di Cabañas, El Salvador
- A Sensuntepeque, cittadina di 17 mila anime sprofondata nella selva tropicale del dipartimento di Cabañas, a due passi dalla frontiera con l’Honduras, un voto costa 20 dollari. E 20 dollari, qui in Salvador, sono 20 giorni di vita per un bambino, considerando che il latte costa un dollaro a litro.
I “vigilates” dell’Arena, l’Alleanza repubblicana Nazionalista, che dovrebbero per l’appunto “vigilare” sul corretto svolgimento della pratica elettorale, girano per le strade con rotoli di banconote nuove fiammanti che provengono direttamente dagli Stati Uniti.

Un contributo alla campagna elettorale da parte di alcuni faccendieri nordamericani interessati ad un progetto di sfruttamento minerario, contestassimo dai contadini locali perché significherebbe il prosciugamento delle poche ed inquinate ma comunque vitali risorse idriche di mezzo dipartimento. Chi accetta la banconota, si fa fare un segno di pennarello indelebile sul dorso della mano perché non vendae due volte lo stesso voto. Se qualche osservatore internazionale ha qualcosa da ridire, l’arenero gli risponde che in Salvador non è vietato fare regali alla popolazione e che il beneficiato rimane comunque libero di votare per chi gli pare. “Sì señor, è vero – mi ha spiegato un anziano campesino con la mano segnata-. Ma sanno che nessuno di noi lo farebbe. Siamo poveri ma onesti. Ho accettato i soldi e ora devo votare per l’Arena, il partito dei ricchi, anche se so che è l’Fmln il partito dei poveri”.
Questo è solo uno delle tante situazioni di corruzione più o meno legale che ho registrato nella mia esperienza come giornalista e osservatore internazionale alle elezioni svoltesi il 15 marzo in Salvador. Nei giorni precedenti ho assistito al regalo di quintalate di ondulati per i tetti in cambio della consegna del Dui (il documento di identità) e di forniture di acqua potabile. In Salvador – paese campione mondiale del neo liberalismo dove di pubblico ci sono solo i debiti – l’acqua ancora bevibile è stata tutta privatizzata.
Non sono mancate le minacce ad osservatori e giornalisti. “Sta attento… molto attento. Perché non posso garantire la tua sicurezza in un paese come questo pieno di comunisti feroci - mi ha detto il responsabile locale del Tribunale Elettorale -. Per fortuna, sia pure come ultima istanza, per mantenere l’ordine abbiamo i volontari della Humo”. La Humo è una squadra della morte. Cinque omicidi e due desaparecidos, e parlo solo di casi accertati, è stato il bilancio pre elettorale degli squadroni neri.
Ma all’apoteosi del tarocco elettorale mi è toccato assistere il giorno delle votazioni. Ho contato personalmente e senza allontanarmi troppo dal “parque”, la piazza centrale dove erano i seggi, 14 carri bestiame, stracarichi di contadini stipati come bestie. Tutti a votare con la testa bassa, in fila ordinata col Dui in mano, dietro al vigilante arenero che li distribuiva ai seggi. Attorno, la gente dell’Fmln, il Frente Farabundo Martin di Liberazione Nazionale, gli urla di tornare a casa loro. “Sono tutti honduregni – mi ha spiegato un collega giornalista di Tegucicalpa, capitale dell’Honduras -. Lavorano come schiavi nei campi di caffè. Ogni volta che a Cabañas ci sono le elezioni, il loro padrone li porta qui come regalo agli amici fazenderos del Salvador”. Come fanno ad avere un Dui salvadoregno, mi chiedete? Beh… come ho già scritto, qui il governo ha privatizzato tutto il privatizzabile e anche di più. Compreso la stampa dei documenti di identità. L’appalto se lo è aggiudicato una impresa gestita da un noto politico dell’Arena. E nessuno controlla? Certamente. Il governo arenero ha incaricato alcuni funzionari di verificare la correttezza delle emissioni. Sono tutti areneri, tutti diventati improvvisamente deputati nelle ultime elezioni e tutti regolarmente inquisiti dalla magistratura. Sono anche tutti ricchissimi. Il Dui “falso ma vero” non serve solo per le elezioni politiche. Un ottimo cliente è pure il narcotraffico.

I crocifissi del Salvador

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San Salvador. El Salvador del Mundo rappresenta un Cristo dai tratti somatici fortemente “gringo”, come dicono da queste parti. E’ vestito con una tunica elegante e – più che salvarlo – sembra che calpesti quel povero mondo che giace sotto i suoi piedi di pietra. El Cristo gringo è il monumento simbolo di San Salvador, un po’ come l’obelisco per Buenos Aires o la torre Eiffel per Parigi. Ma non per questo è un monumento molto amato dai salvadoregni che per le loro scampagnate domenicali preferiscono altri parchi della città evitando di dover sedere all’ombra di quell’ingombrante presenza. Nelle case e nei luoghi di preghiera, preferiscono appendere quei crocifissi dai mille colori dove Gesù – o la madonna – non è inchiodato al legno ma abbraccia sorridente le scene di vita campestre che vi sono disegnate attorno: villaggi sotto le palme tropicali, bambini che giocano, donne e uomini al lavoro nei campi di caffè.


El Salvador del Mundo e i crocifissi colorati sono le due anime di una religione che ha segnato la storia di questo piccolo paese centroamericano di poco più di 4 milioni e mezzo di abitanti, affacciato nella storia come in quell’oceano Pacifico che gli si para davanti. Un oceano tanto, tanto più grande di lui.
I crocifissi, dicevamo, ma c’è anche un altro simbolo del Salvador che non possiamo dimenticare: monsignor Oscar Arnurlfo Romero. I manifesti, le targhe, i monumenti che, in tutto il territorio del Salvador, commemorano il suo sacrificio sono tantissimi e tutti… provvisori. Se trovate in un qualsiasi paese salvadoregno, affogato nel verde della selva tropicale, un basamento senza statua. State pur certi che c’era un monumento a Romero, innalzato dalla devozione popolare o da una giunta di sinistra che, al cambio di amministrazione, è stata immediatamente abbattuta. Addirittura, è sufficiente ad una associazione chiamarsi “Romero” perché gli venga negato dal tribunale lo status giuridico. Una guerra incredibile, che dura dalla morte dell’arcivescovo, il 24 marzo dell’80, e che nessuno dei contendenti ha intenzione di mollare.
“Come Romero, qui in Salvador, sono stati ammazzati tantissimi preti. Ma Romero era differente – mi spiega padre Daniel-. Lui era un membro della parte più elevata della gerarchia cattolica. Quella che, nella storia, ben difficilmente si è schierata dalla parte degli oppressi. Il suo sacrificio è una risposta al regime che sosteneva che ad opporsi allo sfruttamento degli indigeni fossero solo pochi preti traviati dal comunismo. Romero invece diceva alla gente che la chiesa di Cristo o è la chiesa del popolo, la vostra chiesa, o non è niente. Parlava di Cristo per dire ai fedeli che non dovevano rassegnarsi. Un Cristo che non è mai dalla parte di chi sfrutta e opprime”.
Padre Daniel, o semplicemente Daniel, come preferisce essere chiamato, ha una lunga barba bianca e una sessantina d’anni trascorsi in mezzo alle guerriglie di tutto il centroamerica. Viene dalla Spagna – metà basco e metà galiziano – ed era il giovane prete di una piccola comunità del Morazàn quando è cominciata la guerra. “Io ero tra quelli che scelsero di usare il fucile, anche se ho sempre cercato di sparare il meno possibile e solo per difendere chi era con me. Una scelta dolorosa e travagliata ma che rifarei. Oggi posso dire che sono in pace con la mia coscienza, anche se siamo sopravvissuti in pochi di quel gruppo di religiosi che eravamo. Gli altri preti, quelli che scelsero di andare verso i soldati che cercavano i ribelli col crocefisso in mano, li hanno ammazzati subito, prima ancora di spazzare via il villaggio”.
Daniel è tornato in Salvador dal Nicaragua, dove oggi risiede, per partecipare alle elezioni presidenziali come osservatore internazionale al seguito del Cis, centro Interscambio culturale e solidarietà del Salvador. Quelle elezioni che il 15 marzo, hanno visto trionfare Mauricio Funes dell’Fmln, gli ex guerriglieri del Frente Farabundo Martì di liberazione nazionale, sul partito di governo, l’alleanza repubblicana nazionalista Arena.
Che cosa significhi la vittoria del Frente per i salvadoregni, lo si è capito la sera delle elezioni. Quando radio e televisioni cominciavano a dare le prime percentuali di voto e si consolidava la certezza di Funes presidente. Non c’era una festa organizzata neppure nella capitale. Pochi i caroselli di auto. Niente fanfare o discorsi ufficiali. Solo la gente che usciva di casa con la maglietta rossa e si abbracciava l’un l’altro, ridendo e piangendo insieme. “E’ come vedere una luce in fondo ad un tunnel di orrori: guerra, assassini, violenza, frodi – mi ha detto in lacrime una donna di Sensuntepeque -. Come se da oggi si potesse ricominciare a vivere. Ci hanno rubato tutto: la terra. l’acqua, i diritti, e in qualche caso anche la dignità e la vita. Ci dicevano che avevamo torto a pretendere anche le cose più elementari come l’istruzione per i nostri figli. Adesso il Frente ha vinto e tutto il mondo sa che avevamo ragione noi”.
E’ un lungo tunnel, quello di cui parlava la signora. Un tunnel che si misura in secoli e non in chilometri: quindici anni di governo di una destra ferocemente neoliberista, 12 anni di guerra e, ancora più in là, una serie ininterrotta di golpe militari e governi oligarchici sino ai tempi conquista spagnola, quando l’intero paese fu consegnato nella mani di un club di quattordici famiglie latifondiste, le stesse che ancora oggi detengono il potere economico, e cominciarono lo sfruttamento e il genocidio degli indigeni. Oggi, il paese ai piedi del Salvador del Mundo sopravvive con quanto gli arriva dai suoi immigrati che lavorano negli Usa. Il Colon, la divisa locale, non esiste più. E’ fallito negli anni ’90 e ora si compra e si vende solo col dollaro. El Salvador è ridotto oramai ad un paese di servizio. Tutto si importa e si lavora soltanto per l’esportazione. Le sue feconde distese di terra sono coperte da grandi latifondi di caffè e di canna da zucchero che non danno sostentamento ai contadini ma ricchezza a pochissimi. L’industria è composta solo da “maquilladoras” (fabbriche di assemblaggio) che sopravvivono soltanto perché non ci sono sindacati, la manodopera costa poco, è ricattabile e facilmente sfruttabile. Le risorse idriche sono state privatizzate, prosciugate ed avvelenate. Le risorse minerarie sono state depredate dalle multinazionale statunitensi che in cambio hanno lasciato povertà e inquinamento. E’ l’economia neoliberalista, bellezza! E il Salvador ne è il campione mondiale.
Questo è il paese che Mauricio Funes dovrà governare. L’Arena glielo ha lasciato a malincuore, dopo aver tentato brogli di tutti i tipi: camionate di persone fatte venire apposta dal vicino Honduras con documenti fasulli (ma comunque rilasciati dall’agenzia che rilascia le carte di identità e che, come tutto da queste parti, è stata privatizzata), compra di voti (20 dollari l’uno nelle campagne, 50 nelle città), assassini (5 morti e 2 desaparecidos, limitandoci ai fatti accertati), bugie (ricordiamo la denuncia dell’Arena dei presunti legami che Funes avrebbe con Al Quaeda), intimidazioni e minacce perfino agli osservatori internazionali.
Ma cambieranno davvero le cose con l’Fmln al potere? Che ne sarà dell’entusiasmo e delle lacrime di tutta quella gente scesa per strada ad applaudire la vittoria di Funes come una liberazione?
Ad un paio di ore di furgone, a nord di San Salvador c’è una piccola comunità di contadini senza terra che ci ha dato un risposta. La comunità che ha dedicato il suo nome a monsignor Romero, è composta da un centinaio di campesinos. Vivono in delle specie di baracche che qui chiamano “churras”, perché, spiegano, chiamarle case proprio non si può. Non hanno terra da coltivare. Hanno cercato di comprare qualche acro di proprietà del governo attorno al loro villaggio grazie all’aiuto economico di una ong cattolica. Il sindaco dell’Arena, che ha trattato l’affare, dopo aver incassato i tre quarti della cifra pattuita, ha chiuso le trattative accusandoli di comunismo e di non avere uno status giuridico (il nome Romero non li ha aiutati) per poter firmare contratti. Insomma, li hanno fregati con le righe piccole. Due mesi dopo, lo stesso sindaco ha venduto i terreni ad una multinazionale interessata a coltivare canna da zucchero. Tra l’altro, li ha venduti e metà del prezzo che aveva chiesto ai campesinos.
“Señor, noi non ce la facciamo più a tirare avanti – mi ha confessato il loro portavoce- Sopravviviamo solo perché mettiamo tutto in comune. Andiamo tutte le mattine a cercare lavoro in città ma, quando va bene, ci pagano 3 o 4 dollari e il latte per i bambini costa un dollaro a bottiglia. Non possiamo coltivare. L’acqua ci fa star male. Ci manca tutto. Prima venivano a picchiarci e a distruggere quello che avevamo, ma ora non c’è neppure più niente da spaccare se non le nostre teste.

La carovana della Rabbia Degna

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Città del Messico.
“El cabezon de Benito Juarez”, come lo chiamano confidenzialmente i messicani, è un busto monumentale – enorme come è tutto enorme nel Distrito Federal - che domina austero il parco di Iztapalapa. Il testone del presidente rivoluzionario che combattè Massimiliano d’Asburgo, è pressoché l’unico tratto distintivo della “colonia” (quartiere) Alvaro Obregon: una colonia piuttosto anonima, composta da grandi e grigi condomini popolari. Soltanto nelle sue strade, perennemente affollate da un grande mercato popolare, si ritrovano tutti i colori, le luci e i profumi del Messico.
Al tassista, pare quasi impossibile che un europeo voglia farsi scarrozzare sin là. Al Cabezon ci sa pure arrivare, ma per trovare il maneggio de Los Charros Reyes, deve chiamare la centrale operativa e farsi dare istruzioni più dettagliate. Situazione frequente questa, se appena ci si sposta dai flussi turistici di questa immensa area metropolitana di quasi 20 milioni di abitanti che è Città del Messico. Ed è proprio in questo quartiere popolare, tradizionale teatro di tante lotte per il diritto alla casa e al lavoro, che gli zapatisti hanno scelto per ospitare il primo festival intergalattico della Rabbia Degna. La struttura messa a disposizione dall’associazione Los Charros Reyes di Iztapalapa e del Frente Popular Francisco Villa Independiente, è un vasto maneggio. La cancellata di ingresso si apre su un ampio spazio dove si trovano un paio di tendoni per i dibattiti, la sala (che poi è una tenda) stampa, il presidio medico, l’ufficio (altra tenda) accrediti, qualche stand tra cui quello della rivista Rebeldia e gli spazi espositivi fotografici ed artistici. L’Italia non ci fa una gran bella figura con una intera parete riempita di foto che testimoniano gli ultimi sgomberi dei campi nomadi di Roma e Milano.


Gli stand espositivi veri e propri stanno più avanti, a sinistra, dietro la fila di stalle dalle quali sporgono le teste dei cavalli curiosi di vedere tanti estranei. Qui troviamo oltre 250 banchetti messi in piedi da movimenti provenienti da 57 paesi del mondo. A destra invece, troviamo due corral (l’apertura del festival, il giorno di Natale, è stata festeggiata con un rodeo), ancora altre stalle con cavalli, una tensostruttura alzata dal Congresso Nazionale Indigeno, e la refezione. Ancora più in là, un campo di calcio adattato a spazio concerti. Notate che nella descrizione mi son fatto scrupolo di evitare di ripetere l’aggettivo “grande” ed i relativi sinonimi. Da queste parti, lo avrete intuito, quello che non è grande è immenso. Il festival della Rabbia Degna non ha fatto eccezione.
E “grande” è stata anche la partecipazione italiana. Alla carovana guidata dalla padovana Vilma Mazza di Ya Basta, si sono aggregate oltre 40 persone provenienti da tutta Italia. Messico a parte, quella italiana era una delle delegazioni più numerose e rappresentava pressoché tutti i nostri movimenti di base: dal nord al sud del Paese, dal No Dal Molin al presidio di Chiaiano. Anzi dal presidio della “Selva di Chiamano”, come lo ha definito la portavoce Annamaria Beninati, quando ha letto il comunicato del movimento contro la discarica, a San Cristòbal nella seconda parte del festival intergalattico, seduta nello stesso tavolo di Marcos e della “comandancia” della Selva Lacandona. (“Mi avete scattato delle foto, vero? Ditemi che me le avete scattate!”)
Ciascuna mattinata degli incontri svoltisi nella colonia Obregon è stata dedicata ad una delle “ruote” su cui, nella colorita rappresentazione degli zapatisti, avanza il capitalismo: il saccheggio, il disprezzo, lo sfruttamento e la repressione. Gli incontri del pomeriggio, in cui hanno preso la parola, tra gli italiani, un rappresentante degli operai di Modena, Teo per il presidio No Dal Molin e Vittorio per il comitato contro la discariche nel napoletano, sono state dedicate ai movimenti.
La delegazione del No Dal Molin composta da Teo Molin Fop, Diletta Francesca, Marina Maltauro e Federico Varsi, ha denunciato l’imposizione di una politica di guerra ad una città che ha ribadito più volte il suo no con manifestazioni, presidi e referendum. Teo Molin Fop ha letto il comunicato del Presidio Permanente dal palco di Città del Messico tra gli applausi convinti di una platea che ha sperimentato - e continua a sperimentare – le conseguenze di una politica imposta dagli Usa come, tanto per fare un esempio, sul tema della lotta al narcotraffico.
Ma se la delegazione di Ya Basta era la più numerosa e l’unica ad avere organizzato un banchetto informativo sui movimenti italiani negli spazi di Los Charros Reyes, perlomeno altrettanti italiani sono volati in Messico in gruppi più piccoli per partecipare agli incontri, portare avanti iniziative di sostegno e magari fermarsi dopo la conclusione dei lavori per aiutare le comunità a raccogliere il caffè o a realizzare impianti di depurazione dell’acqua. Tra costoro, abbiamo incontrato i ragazzi dell’associazione Wendy di Milano (www.wendy.noblogs.org) che si occupa di differenze di genere. “Nei caracol zapatisti sono stati fatti molti passi in avanti in questo senso – mi spiega la portavoce – ma in generale nel Chiapas la condizione delle donne è ancora drammaticamente legata ad un’idea di sottomissione”. Il collettivo ha organizzato una squadra di calcio femminile – le Wendy Football Girls – che verrà a sfidare le donne zapatiste.
Gli incontri svoltosi a Città del Messico, dal giorno di natale al 29 dicembre, sono stati soprattutto una utile occasione per i movimentisti di tutto il mondo – di tutta la galassia, preciserebbe uno zapatista – di conoscersi e scambiarsi esperienze, libri, materiali, volantini, siti ed indirizzi mail. “Abbiamo tutti un problema comune – mi ha spiegato Federico Varsi, uno dei ragazzi del presidio No Dal Molin – che è quello di una politica neoliberista dove a dettar legge è il denaro e la crash economy. Abbiamo anche tutti un ideale comune, che è quello di portare la gente e i beni comuni al centro del dibattito politico. Le situazioni in cui ci troviamo a vivere sono però diverse. Mi ha molto colpito una discussione che ho avuto con una ragazza del quartiere di Tampico di Città del Messico che fa l’insegnante in una scuola pubblica elementare. Il governo di destra messicano ha deciso di privatizzare tutte le scuole, ma loro resistono anche se li hanno buttati fuori dall’edifico scolastico. Adesso fa lezione ai bambini in una tenda in mezzo ad un parco circondati da un cordone di poliziotti in assetto antisommossa che potrebbero caricarli da un momento all’altro”.

Oventik. Da Città del Messico si vola a Tuxtla Gutiérrez, la capitale del Chiapas, per raggiungere San Cristòbal de las Casas e da qui Ovenitik, storico Caracol zapatista, per festeggiare l’ultimo dell’anno e celebrare il quindicesimo anniversario del “levantamiento” zapatista. E’ una grande festa di popolo quella che andrà avanti sino all’alba. Venti, forse anche trentamila persone tra indigeni, insurgentes col passamontagna nero, milites col paliacate rosso e internazionali. Al grido di “Zapata vive y la lucha sigue” sale sul palco il comandante David per ribadire, in un discorso che sarà poi ripetuto in lingua tzozil, la volontà degli zapatisti a proseguire e allargare la loro battaglia per l’autonomia e la difesa della terra, la Tierra Madre, come viene chiamata qui col rispetto dovuto ad una divinità procreatrice.
Nella “fiesta” che segue incontro una ragazza di Treviso, Luisa Torresan, laureanda in antropologia che sta preparando una tesi sulle popolazioni indigene messicane. “Mi aspettavo un ambiente molto più chiuso, anche in virtù della guerra in corso. Una guerra a bassa intensità ma pur sempre una guerra. Ed invece è bastato mostrare il passaporto alla Junta del Buen Gobierno e compilare un modulo in cui dichiaravo il motivo della mia visita, perché l’intera comunità si mettesse a mia disposizione. Oggi mi han fatto visitare l’ospedale, domani parlerò con le “promodoras de salud”. Adesso però è l’ultimo dell’anno e voglio solo ballare”.

San Cristòbal da las Casas. L’Universitad della Tierra, o Cideci come lo chiamano qua dal tempo in cui fu fondata dai salesiani, è una roccaforte zapatista nell’immediata periferia di San Cristòbal del Las Casas, nel cuore verde del Chiapas.
Il Cideci oggi è un centro gestito con impeccabile organizzazione dai teologi della liberazione. I ragazzi chiapanechi lo frequentano per seguire corsi superiori di meccanica, informatica, scienze agrarie, forestali e altro. Le aule sono rallegrate da colorati murales che ritraggono Emiliano Zapata, Marcos, campesinos in lotta e santi che hanno difeso la causa delle popolazioni indigene. Qui alla presenza della comandancia dell’Eznel, di Marcos e della niña Tonita, in rappresentanza dei bambini del Chiapas e che pareva sbucata direttamente da uno dei libri di racconti del subcomandante, è andato a concludersi il festival intergalattico della Degna Rabbia con una “quattro giorni” piena di interventi di quelli che gli zapatisti hanno definito i “pensatori di movimento”. Tra loro anche un certo Gigi Sullo.“Suglio, el diretor del semanal Carta”, come lo ha inevitabilmente presentato la comandanta Ortensia. I discorsi degli intervenuti li trovate in versione integrale nel numero che avete tra le mani.

Tierradentro. Nelle fresche serate di San Cristòbal, oltre 2100 metri sul livello del mare, la carovana italiana si ritrova tutta al Tierradentro, un locale a due passi dallo Zocalo, la piazza centrale, che fa da base operativa agli internazionali. Qui conosco Anastasia Martino che nel Chiapas prepara la sua tesi sull’interculturalità delle politiche sanitarie in Messico. Anastasia viene da Frosinone e, il che non guasta, è pure una bellissima ragazza. “L’unico punto degli accordi di San Andreis che è diventato legge è quello sull’interculturalità della salute, vale a dire il recupero dei saperi locali e della medicina tradizionale. La segreteria de la Salud, come dire il ministero della sanità, ha investito moltissime risorse senza il minimo risultato. Il problema è che nessuno ha idea di cosa sia e come deve essere perseguita questa interculturalità. Nei caracol zapatisti invece, certo senza nessun aiuto governativo, hanno già raggiunto questo obiettivo, integrando la medicina tradizionale con quella, chiamiamola, scientifica. Un altro punto, è il concetto di “salute” che per gli indigeni non vuol dire solo assenza di patologie ma stare bene con se stessi, con gli altri e con l’ambiente. Ti faccio un esempio. Nel Messico c’è una altissima percentuale di nascite di bambini down. Eppure, tu li hai mai visti per strada? No, vero? Vorrei tanto scoprire dove finiscono. Negli ospedali no. Nei manicomi neppure. Ne ho visitati diversi e mi son venuti gli incubi. Praticano l’elettroshock anche alle donne incinte. I bambini iperativi li imbottiscono di farmaci senza nessun criterio curativo. Ma neanche là ho trovato i down. Se faccio domande, tutti fanno finta di non capire. E’ davvero un mistero. Nei pueblos indigeni invece, i malati mentali ed i diversi sono accettati per quel che sono ed è compito della comunità intera prendersene cura”.
Tra gli internazionali al seguito di Ya Basta, chiacchieriamo con alcuni ragazzi del centro sociale di Milano Casa Loca. Concluso il festival affronteranno il freddo pungente di Oventik – tremila e passa metri di altitudine - per partecipare alla raccolta del caffè e per portare aventi alcuni progetti con i bambini delle scuole zapatiste. “Lo scorso anno scolastico abbiamo girato per le scuole di Milano per raccontare ai bambini italiani come vivono i loro coetanei chiapanechi – mi racconta Daniele Di Stefano – Adesso siamo qui anche per portare ai bambini dei municipi autonomi di Oventik i regali e le letterine che hanno realizzato i bimbi di Milano”. E’ stato difficile far capire ai bambini del nord come vivono i bambini del sud? “Affatto. I bambini che abbiamo incontrato erano più che disposti ad ascoltarci e hanno dimostrato subito una grande partecipazione e solidarietà. In fondo, nelle classi c’erano molti figli di migranti che sanno bene cosa vuol dire dover abbandonare il posto in cui si è nati per la povertà e per la guerra”. Casa Loca ha portato nelle scuole italiane anche un gioco che trae spunto dalla raccolta e dalla commercializzazione del caffé chiapaneco per sottolineare i benefici della collaborazione contro i disastri della competizione. “I bambini hanno imparato subito a giocare e a vincere. Più difficile è stato far vincere i grandi, quando l’intero consiglio direttivo della scuola elementare ha insistito per provare il gioco. D’altra parte, quando raccontavamo del Chiapas in classe, le maestre erano sempre più incredule dei bambini. ‘Ma tu guarda che succede nel mondo?’ si chiedevano”. Il gioco del caffé è stato realizzato graficamente da Graziano Barbato che di professione disegna fumetti per la Disney. Anche Graziano fa parte della carovana di Ya Basta. Graziano era riconoscibile nella sala conferenze del Cideci perché era l’unico che non scattava foto a Marcos ma lo disegnava a matita su un bel quaderno bianco. “Cosa vuoi? Noi fumettisti ci distinguiamo così! Una storia di Marcos a fumetti, mi chiedi? Ma è il sogno della mia vita. E prima o poi la realizzerò!” Con la Disney? “Non credo proprio. Ma io faccio anche disegno realistico e non solo comico. Collaboro ad una associazione di fumettisti autoprodotti. Il nostro sito si chiama www.arfarf.it. Forse la pubblicherò là, questa storia zapatista”. Perché arf arf? “Perché bau bau ci sembrava banale!” Senti, quale è il più zapatista tra i personaggi Disney. “Paperino, mi pare ovvio. Sapessi quante volte me lo son disegnato col passamontagna sul becco!”
Sul palco, a fianco del subcomandante Marcos, proprio in apertura della seconda parte del festival della Degna Rabbia, ha preso la parola Vilma Mazza. “E’ stato un onore e allo stesso tempo un riconoscimento di quanto l’associazione Ya Basta ha fatto in questi anni – commenta Vilma -. La promozione, partita quest’estate, di un festival dedicato alla Rabbia Degna non solo è stata una geniale idea, ma anche una anticipazione del tempo che ora ci troviamo a vivere in diretta: avvenimenti come la rivolta dei giovani nelle strade della Grecia, il movimento dell’onda anomala italiana, e la tragedia di Gaza. La rabbia, come è stato detto più volte in questi giorni, è un elemento essenziale del rifiuto di un presente non e più accettabile. La rabbia si costituisce come degna vivendo nel conflitto la costruzione di alternative di autonomia ed indipendenza. A prescindere dalle parole usate dai vari relatori, a prescindere da sfumature a volte anche notevoli di provenienza e storia politica, ho notato un filo conduttore molteplice ma condiviso che è stato il background del festival: i molti modi di lottare ai quattro punti del globo senza nessuna delega a dogmi del passato, a schemi elettorali, convinti che se un altro mondo è possibile le sue radici sono questo presente”.
“Un altro aspetto incredibilmente omogeneo in questa caleidoscopio di voci - conclude Vilma Mazza -, e stata la sensazione che la crisi che oggi sta attraversando la globalizzazione ci parli di una crisi strutturale di sistema che apre molte domande. Questo è un terreno denso di possibilità per i movimenti radicali ma al tempo stesso però può essere scenario di grandi drammi e tragedie. Le risposte possono essere tante. Per quanto ci riguarda, accetteremo questa sfida e contribuiremo con la costruzione di un’ ‘altra mobilitazione’ contro la riunione dei barcollanti grandi del G8 in Italia a dare il nostro contributo a percorrere le strade della Rabbia Degna”.
“Altro” – o otro, in castigliano - come dovrà essere la mobilitazione di cui parlava Vilma, è stato l’aggettivo più adoperato negli interventi dai palchi ma anche e negli stessi discorsi con cui i partecipanti si scambiavano le loro opinioni nelle lunghe tavolate in cui si trascorrevano le serate. Altro. Otro. Other, per chi non sapeva lo spagnolo e doveva arrangiarsi con l’inglese. Ma un altro cosa? Un altro tutto. Un altro mondo. Un altra giustizia. Un'altra campagna e un’altra città. Un’altra storia. Un’altra comunicazione e un’altra cultura. Un’altra politica e un altro cammino. Dal basso. A sinistra.

"Riempire i concetti di sogni" Intervista a Michel Hardt

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(foto di a_vifs)
San Cristobal. Intervistare Michel Hardt è semplice e difficile allo stesso tempo. Semplice perché, oltre ad essere la disponibilità in persona, ti guida nei suoi ragionamenti quasi per mano, misurando ogni sua parola – e i concetti che rappresentano queste parole - e con quelle dell’intervistatore. Difficile perché ti guida nei suoi ragionamenti quasi per mano, misurando ogni sua parola con le tue. In questo modo, chi gli sta davanti con la penna e il notes non sa mai dove finisce l’intervista e dove comincia un ragionamento comune. Se ne esce comunque con la rassicurante convinzione che esiste ancora qualcuno per cui le parole abbiano un senso.


Incontriamo il co autore di “Impero” all’Università della Terra, un’oasi di cultura zapatista a cinque minuti di auto da San Cristòbal de las Casas, dove va a concludersi il primo festival della Degna Rabbia. Mi spiega che ha appena finito il suo ultimo libro, scritto anch’esso in collaborazione con Toni Negri. Si intitolerà “Commonwealth” ed uscirà in autunno. Hardt è uno di quei “pensatori di strada”, come li ha definiti Marcos, che gli zapatisti hanno invitato a salire sul palco della Degna Rabbia.

Michel, senti qualche affinità con gli zapatisti?
Certamente. E sono onorato per il loro invito. Sono pieno di ammirazione per quello che gli zapatisti hanno costruito. Non solo per come hanno saputo organizzarsi nel territorio, ma soprattutto per la loro capacità di rinnovare il nostro vocabolario politico. Dico “nostro” perché lo zapatismo non è un fenomeno che si ferma nel Chiapas, come dimostra per l’appunto questo incontro “intergalattico” della Degna Rabbia.

Di che concetti parli?
Concetti che io chiamo “corrotti”, come, ad esempio, democrazia, autonomia, dignità… parole che hanno perso il significato, e con esso la loro spinta rivoluzionaria, che avevano un tempo. Gli zapatisti hanno avuto la forza creativa di inventare concetti nuovi come la stessa idea di Degna Rabbia.

Ecco, spiegaci un po’ cosa leggi dietro queste due parole.
Ragioniamoci… il rifiuto delle ingiustizie è spontaneo. La rabbia infatti è un sentimento spontaneo. Ma gli zapatisti vanno oltre. La Rabbia, per diventare Degna, deve essere organizzata e collettiva. Non solo. Deve essere anche creativa. E’ una rabbia biopolitica carica di nuove forme di vita. Dentro l’indignazione c’è già dignità ma è negativa. La dignità di chi si arrabbia per il sopruso ma non agisce. Gli zapatisti hanno saputo lavorare sul concetto per trasformarlo in una costruzione positiva, in una Rabbia Degna di essere vissuta e che può migliorare il mondo. E’ questa la loro grande forza. Se la filosofia è l’invenzione dei concetti, loro sono anche dei veri filosofi perché non solo hanno saputo inventare nuove forme sociali ma anche nuove parole.

Parole nuove. Già. E di quelle vecchie che ne facciamo?
Non è una domanda da poco. Il nostro vocabolario politico è corrotto. Siamo costretti ad adoperare parole che non corrispondono più alla realtà. E questo finisce per ostacolare i cambiamenti. Le strade che possiamo percorrere sono due: inventare nuovi concetti o rinnovare i concetti vecchi.

Due strade contrapposte?
No, a mio parere. Certi concetti, come ad esempio comunismo, democrazia o rivoluzione, sono talmente carichi di sangue, lotte, emozioni, significati che non possiamo abbandonarli. Dobbiamo lavorare per reinventarli e ridare loro un significato.

A proposito di concetti corrotti, alcuni degli intellettuali che abbiamo sentito sul palco non si sono dati pena di rifarsi il vocabolario. Hanno pontificato di lotta di classe, capitalismo e imperialismo come ai bei tempi di Peppone e don Camillo. Roba da slogarsi la mandibola a suon di sbadigli.
Oh… la penso proprio come te! Vedi, c’è chi si sforza di cambiare il vocabolario e chi è convinto che quello marxista valga ancora. Anzi, afferma che se non ragioni nei termini prestabiliti dalla dottrina non sei marxista ma un amico del capitalismo. I concetti invece debbono rinnovarsi di continuo. E, facciamo attenzione, non è compito che spetti all’intellettuale, quello di trovare nuovi concetti ma al movimento. E’ uno sforzo che dobbiamo fare tutti insieme.

Obama, il suo vocabolario lo ha rinnovato?
Per certi versi sì. Vedi, il futuro che io auspico per gli Usa è che riescano a diventare latinoamericani. Non fare quella faccia che adesso ti spiego. Nel sudamerica sono stati eletti diversi presidenti grazie alle spinte dei movimenti, Presidenti che poi non sono riusciti a riempire i sogni di cui sono frutto. Penso al Brasile, al Venezuela, la Bolivia e altri ancora. Questi presidenti non hanno dato realtà a questi sogni, ma hanno comunque innescato una dinamica di movimento. Il meglio che posso sperare, grazie ad Obama, è che anche negli Stati Uniti cominci un conflitto tra governo e movimenti di lotta - appoggio – contrapposizione che è l’unico strumento che abbiamo per andare avanti. Spero che non si torni più a sprecare energia per ribadire che siamo, ad esempio, contro la guerra. Vedi, dopo Shattle e Genova c’è stato un periodo in cui le lotte si sono unificate. Tanti movimenti sono diventati un movimento unico su questioni necessarie ma che potrei definire “imbecilli”, ad esempio per dire no alla tortura a Guantanamo. Che senso ha dibattere su questa questione? Non siamo tutti contro la tortura a Guantanamo? Adesso Bush non c’è più e che anche se ci fosse la geo politica è cambiata e non potrebbe più essere il Bush di prima. Possiamo tornare a riprenderci la nostra moltitudine di lotte che è anche la nostra vera forza.

Dici che il mondo può andare avanti. Negli Usa e nel sud america, forse. In Italia mi pare che stiamo tornando indietro. Ci tocca scendere in piazza per difendere dei diritti, come la scuola pubblica solo per farti un esempio, che solo vent’anni fa erano dati per acquisiti.
Il vostro è un paese strano, in effetti. Ma devo dire che avete delle capacità di reazione di cui nemmeno sospettate. Penso all’Onda Anomala. E’ un movimento che ha una straordinaria capacità creativa di trovare nuovi concetti e di rinnovare quelli vecchi, proprio come dicevamo prima. Considera che il vostro è l’unico movimento a livello mondiale che ha saputo dare una efficace risposta alla crisi economica. Come è quella frase che ripetono gli studenti italiani? Rimettete i debiti…

No, quello era un altro “pensatore di strada”, un certo Gesù Cristo. La frase corretta è: non pagheremo noi la vostra crisi.
Giusto. Ma il concetto è quello, no? Rinnovato, adattato ai tempi e riempito di sogni, lotte e significato.


Gli zapatisti di New York

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San Cristobal.
Zapatisti a New York City. Un angolo di Chiapas immigrato nella Grande Mela. Qui, a San Cristobal da las Casas, dove si va a concludere il “primo festival intergalattico della Degna Rabbia”, li chiamano gli “zapagringos”. Un velo di ironia che non riesce a nascondere il disagio di chi si trova di fronte all’immigrato che fa ritorno a casa solo per il tempi di raccontarti le ingiustizie e le sofferenze che è costretto a patire in terra straniera.

Non è un caso che li abbiano fatti parlare proprio il primo giorno, questi zapatisti a stelle e strisce, seduti nello stesso tavolo dove sedeva il sub comandante Marcos e la “comandancia”. La grande sala dell’Università della Terra (il centro Cideci gestito dai teologi della liberazione) era stipata all’inverosimile, ben oltre quel migliaio di posti a sedere predisposto dagli organizzatori. Chi non è riuscito ad entrare neppure sgomitando, si è dovuto accontentare di accomodarsi nella sala mensa o nella biblioteca del Cideci, dove sono state predisposte alcune televisioni a circuito chiuso. Il bel faccione - “abbronzato” lo definirebbe il Berlusca - da autentico indigeno Tzozil di Juan Haro, ha lasciato subito il posto ad un video documentario girato sulle strade di New York. La New York che non ci fanno mai vedere in televisione. Strade strette e rumorose tra edifici a dir poco cadenti; persone che con l’ideale hollywoodiano e ed i vestiti di moda in vendita nei negozi della Quinta Avenue hanno ben poco da spartire. Sono loro gli zapatisti di New York: i migranti messicani che nell’Upper Manhattan, in un quartiere che nelle piante della città è segnato come El Barrio, hanno portato le bandiere – e quello che le fa alzare, queste bandiere - della loro terra natale. Stelle rosse, striscioni dell’Otra Campaña, paliacate e passamontagna neri su pupazzi carnevaleschi, pentole e campanacci per farsi sentire. I motivi di questa “rebeldia” che dalla selva si è trasferita sotto i grattacieli sta tutta nello striscione che campeggia in testa a tutte le loro manifestazioni: “El Barrio no se vende”.
“Il nostro problema è la cosiddetta ‘gentrificazione’ – mi racconta Juan Haro fondatore dell’Mjb, Movement for Justice in El Barrio. – cioè l’espulsione degli abitanti più poveri dai quartieri delle città per far posto, dopo i necessari restauri e abbellimenti, a famiglie ricche disposte a pagare affitti più elevati. Ed è proprio quello che sta accadendo nel Barrio di Manhattan, deve uno speculatore edilizio, Scott Zwilling, vuole trasformare un quartiere che ora è abitato in grande prevalenza da migranti messicani, in una zona di pregio e pretendere affitto che certo noi non possiamo pagare. Questo fenomeno, si ripete in altre quartieri di New York. Quartieri un tempo considerati malfamati, ma dove ora, grazie alla presenza di associazioni di base come la nostra e all’arrivo di lavoratori migranti, in particolare dal sudamerica, sono diventati sicuri. Proprio questa sicurezza ha attirato gli speculatori edilizi che hanno messo le mani sugli immobili e hanno fatto pressioni sull’amministrazione comunale per migliorare l’arredo urbano. Il risultato sono affitti improponibili per noi migranti di prima generazione e il conseguente spostamento delle famiglie povere nei ghetti periferici della città”.
Assolutamente esplicativo del modo di ragionare degli speculatori edilizi, è una intervista con Scott Zwilling fatta da un periodico newyorkese che Juan mi invita a leggere. “La gente del Barrio mi addita come un padrone cattivo che sfratta a calci la povera gente – afferma Zwilling – ma bisogna capire che la gentrificazione è un fenomeno intrinseco allo sviluppo economico di un quartiere. Chi investe denaro per migliorare il quartiere lo fa solo perché questo denaro gli ritorna moltiplicato con i canoni di locazione. Altrimenti investirebbe i suoi soldi in qualche altra speculazione, e il quartiere rimarrebbe povero. E se non lo facessi io, ci sarebbero altri dieci disposti subito a prendere il mio posto. E’ così che funziona lo sviluppo. E’ così che funziona la vita”.
“Un ragionamento lucido, non c’è che dire – commenta Juan Haro – Ma noi la pensiamo in maniera diametralmente opposta: la gentrificazione non è né inevitabile, né auspicabile, e se questo è il loro modello di sviluppo, noi ci rinunciamo ben volentieri in nome del diritto di ognuno, ricco o povero che sia, a vivere dignitosamente con un tetto sopra la testa senza lasciare che sia il denaro a dettar legge”. Dello zapatismo, il movimento in Difesa del Barrio ha mutuato le pratiche di democrazia dal basso. “Ogni condominio ha una consulta popolare e ogni Quadra (gruppo di condomini circondati da una stessa strada.nrd) una commissione – spiega Haro -. Questa primavera abbiamo indetto un referendum popolare invitando la gente ad indicarci i tre principali problemi che il movimento dovrebbe affrontare. Oltre mille persone sono venute a votare e ci hanno indicato nell’aumento degli affitti il principale problema del Barrio. Questo è quello che io chiamo zapatismo urbano”.
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Juan Haro al Cideci

Sorto nel 2004, il Mjb conta oggi circa 400 aderenti che tutt’ora si rifiutano di cedere alla speculazione circa 25 condomini, impedendo di fatto la ristrutturazione dell’intero quartiere. “La lotta del Barrio è diventato un simbolo per i residenti di tanti altri quartieri di New York che si stanno mobilitando per seguire il nostro esempio” mi racconta orgoglioso Juan.
Il Mjb ha aderito alla Otra Campaña nel 2005. L’abbraccio allo zapatismo, pure se ha una forte valenza di rivalsa nazionale per i mai ben accetti migranti messicani negli Stati Uniti d’America, non è stato solo una operazione promozionale. “Uno dei primi incontri del nostro movimento è coinciso con la sesta dichiarazione della selva Lacandona – mi spiega Juan –. Leggere il proclama che il sub comandante Marcos ha lanciato dalla nostra terra natale ci ha molto emozionato e la nostra adesione allo zapatismo è stata consequenziale. Noi, zapatisti di New York, combattiamo come gli zapatisti del Chiapas per il diritto ad abitare la nostra terra. Con gli zapatisti del Chiapas abbiamo un nemico comune che è lo sviluppo neoliberista. Quello sviluppo che ha depredato i popoli del Messico e portato la gentrificazione nei quartieri di New York. Si in Chiapas no se vende la tierra, en Nueva York no se vende El Barrio”.

I marciapiedi di San Cristobal

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San Cristobal. A San Cristobal de las Casas i marciapiedi sono altissimi. Trenta, quaranta centimetri. In alcune zone anche mezzo metro. Roba che in Italia qualunque sindaco ci metterebbe una balaustrata, e non solo per appoggiarci stasera la nostra malinconia, ma per impedire che qualcuno si spacchi una gamba e denunci il Comune. Corrono per tutta la città, queste specie di sopraelevate, sui due lati di ogni “calle”, per quanto stretta. Il centro delle strade è pavimentato solo da una trentina di anni. Prima era tutto un fiume di fango e merda di cavalli. Un fiume riservato esclusivamente agli indigeni chiapanechi cui non era permesso camminare sui marciapiedi. Il tassista che mi ha portato a San Cristobal, abituato a scarrozzare turisti e preoccupato di non darmi una cattiva idea della città, mi ha spiegato che non era razzismo. Solo, debbo considerare che gli indigeni sono abituati a razzolare nel fango – è nella loro natura - e con i loro piedi sporchi avrebbero lordato i marciapiedi puliti. Poi il taxi è arrivato a destinazione. Sono sceso allo Zocalo, proprio davanti al municipio di San Cristobal. Quello che è stato occupato da Marcos quel primo gennaio del ’94 alla testa di qualche centinaio di indigeni incazzati. Va a capire il perché… Forse avrei dovuto chiederlo al tassista.



Verso Tuxla Guitierrez
In volo sul Messico. E’ un bel viaggiare già sull’aereo che da Città del Messico vola a Tuxla Guitierrez. Discutevo con un ragazzo di Roma, diretto pure lui a San Cristòbal de las Casas, alla conclusione del festival della Degna Rabbia, sull’ “Oh che sarà, che sarà?” che spinge tanti giovani e meno giovani di tutto il mondo a spendere soldi, tempo, salute ed energie per seguire le carovane a sostegno dei caracol zapatisti. Il nostro chiacchierare sottovoce attento a non disturbare i vicini, aveva poco da spartire col ciarlare scomposto di un gruppo di turisti – ahimé – italiani in gita organizzata nel Chiapas che vociavano da una fila all’altra. E fosse solo il volume. Gesù che discorsi! Da sperare che gli altri viaggiatori di lingua spagnola non riuscissero a capire niente. Si passava dai conteggi su quanto ci si guadagnava col cambio favorevole dell’euro a venire in Messico dove si poteva “fare i signori con due euro” “Sì però, non c’è niente da comprare che qui son tutti morti di fame”, al cazzeggio da turista dell’avventura “E che facciamo se - brividi, brividi, brividi - ci rapiscono gli zapatisti?” “E che vuoi fare? Con cinque euro ci compriamo pure, come cazzo si chiama? quello col passamontagna nero. E ci danno pure il resto”. E giù a ridere come fessi. Il peggio lo abbiamo toccato con (e vi giuro che è tutto vero!) con “Ma insomma, cosa vogliono questi zapatisti oltre che rompere le balle ai turisti?” “Mah? Hanno fatto una specie di centro sociale nei boschi…”
E che vi devo dire? Potevo scendere dall’aereo? No. Potevo buttare giù loro? Neanche. Grazie a dio avevo un mp3 in borsa. E allora vai con l’ultimo degli Ac/Dc a tutto volume per non sentir più niente e all’atterraggio ad hablar español per terrore che qualcuno dei miei cari compatrioti mi venisse a chiedere “Ehi, ma sei anche tu italiano?” Fuori dall’aereoporto, l’amico romano che si era fatto pure lui il viaggio con le cuffiette mi fa: “Ecco, hai capito perché appena posso parto per il Chiapas? Per levarmi per qualche settimana da quel merdaio fascistoide, rinco-televisionato, xenofoboieggiante, stronzoide ed ignorantesco che è diventato l’Italia!”

Salli danzava

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Venezia. Salli danzava sempre. Potevamo camminare quattro, cinque ore strascicando i piedi nel fango della selva Lacandona e poi arrampicarci su per le sue verdi montagne sino allo sfinimento. Ma quando arrivavamo al pueblo, Salli posava lo zaino e si metteva a ballare felice. Dove trovasse le energie per farlo, non lo mai capito. Sarà stato che aveva solo 21 anni. O forse sarà stato il sangue, metà texano e metà spagnolo. Salli Marcela Grace Ellier, per chiamarla col suo nome per intero, era nata a due passi dal Rio Bravo. Sulla sponda “giusta” del Big River, quella a “stelle e strisce” che guarda a sud con lo stesso disprezzo con cui dalla fortezza Europa si guarda al Marocco o alla Romania.


Terra di confine, la sua. Ma lei era di quelle che non si fermano ai confini di niente. Guardava oltre, Salli, col cuore e col pensiero. Non aveva paura a sporgersi.
Dal padre texano aveva ereditato l’aspetto “english”. Salli era alta, bionda e molto bella. Dalla madre, l’anima latina. Ho conosciuto Salli questo estate al caracol de La Garrucha. Partecipava, come me, alla carovana “Los zapatistas no estan solos“ in viaggio di solidarietà ai municipi insorti del Chiapas.
Una delle prima cose che Salli mi ha raccontato di sé è che le scorreva sangue “gipsy” nelle vene. Ne andava fiera. Forse da là le veniva la voglia di ballare sempre. Ci sono molti “gipsy” nomadi (Salli diceva “free”, liberi) che vivono nella frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico. Lei aveva voluto farsi un tatuaggio – quello che poi servirà per il riconoscimento del corpo – su una spalla alla loro maniera. Sempre dai suoi gipsy, aveva imparato ad adoperare due specie di nacchere d’argento che faceva tintinnare a tempo mentre danzava. Salli non aveva bisogno della musica per mettersi a ballare. Se qualcuno suonava meglio, sennò si faceva bastare le sue nacchere d’argento. Quando ho saputo che l’avevano stuprata, torturata e poi ammazzata sono andato a rivedere le foto che ho scattato in Chiapas. Ne ho trovato perlomeno una dozzina in cui lei sta ballando assieme a Ciro: Salli fa tintinnare i suoi campanellini gipsy d’argento e Ciro le sue nacchere napoletane di legno. Tutti gli altri facevano capannello attorno. Nessuno di noi aveva il coraggio di ballare con loro perché nessuno di noi era bravo come loro. Ci accontentavamo di guardarli e di applaudirli. Anche gli insurgentes si avvicinavano per guardarli ballare dietro i loro cappucci neri. E dal brillare degli occhi si capiva che anche loro stavano ridendo. Magari pensavano che questi “compas” venuti da lontano dovevano essere un po’ locos... un po’ pazzerelli.
Io ero il traduttore di fiducia di Salli quando doveva comunicare con Ciro. Ed era un bel tradurre! Lei parlava un misto di spagnolo e inglese, saltando dall’una all’altra lingua con criteri che andavano al di là delle mie capacità di comprensione. Ciro parlava tutte le lingue del mondo, ma tutte in napoletano.
Il fatto è che Salli e Ciro non avevano bisogno di capirsi con le parole. Lei ballava tutti i balli del mondo, con una predilezione per il flamenco ma ad esclusione della tarantella. Ciro, pure lui, ballava tutti i balli del mondo ma tutti con gli stessi passi della tarantella. E’ andata a finire che Salli ha imparato la tarantella. Cinque minuti a seguire Ciro e poi danzava che pareva nata nel rione Sanità.
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Ho detto addio a Salli, a San Cristobal, a metà agosto, all’università della Terra, avamposto zapatista in piena capitale del Chiapas. Stava infilando nello zaino le sue preziose nacchere d’argento avvolte in un “paliacate” zapatista per proteggerle dagli urti.
Io avrei fatto ritorno nella selva Lacandona per accompagnare la brigata medica, lei, mi disse, voleva tornare a nord, ad Oaxaca, dove era impegnata
in una associazione che combatteva a fianco delle donne messicane vittime di violenze e persecuzioni; mogli, madri e figlie di prigionieri politici o dei tanti desaparecidos. Sapevo, perché me lo aveva raccontato una amica comune, che Salli aveva ricevuto minacce di morte. Non le dissi neppure “be carefull” o “cuidada” perché tanto lei non sarebbe mai stata attenta.
Quel che restava del suo corpo, dopo le torture, lo hanno trovato mercoledì 24 settembre in mezzo ad un campo coltivato vicino a San José del Pacífíco, a circa 170 chilometri dalla città di Oaxaca. Un’amica è riuscita a riconoscerla soltano per il suo tatuaggio gipsy.
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I suoi compagni di lotta hanno immediatamente dato vita a manifestazione davanti al palazzo della Procura dello Stato di Oaxaca per chiedere che le indagini sull’omicidio di Salli vengano condotte in maniera seria. Ma le commistioni tra narcotraffico, politica e polizia ad Oaxaca, sono tali che ci inducono al pessimismo. Lo stesso primo ministro messicano Felipe Calderon, appena assunto in carica, ha difeso la decisione di far pattugliare le strade dall’esercito spiegando che “sappiamo tutti che della nostra polizia c’è poco da fidarsi”.
“L’omicidio di Salli – ci spiega dal Messico Annalisa Melandri dell’associazione Ya Basta - potrebbe essere relazionato con la repressione sempre più evidente contro i movimenti sociali della zona, rivolta soprattutto agli osservatori internazionali. Un chiaro messaggio rivolto a tutto il popolo di Oaxaca, nonché ai compagni solidali che provengono da differenti parti del mondo».
Ma per Marcela Salli Grace Ellier, come per tutti i desaparecidos assassinati:
ni olvido, ni perdon.
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Nuke Mapu, la Madre Terra mapuche

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El Maiten, Patagonia - Il viaggiatore che percorre quel tratto della polverosa ed infinita Ruta Nacional 40 che, scendendo dal nord dell’Argentina, porta ad Esquel, nello stato del Chubut, non potrà fare a meno di sorprendersi nel trovarsi di fronte, nel bel mezzo di quello sterminato niente che è la pampa della Patagonia, ad un enorme cartellone pubblicitario. Nelle ultime sette o otto ore di carreggiata, era già tanto se il nostro viaggiatore aveva incrociato un paio di gaucho a cavallo e tutt’al più una mezza dozzina di puzzolenti e solitari alpaca.

E adesso ecco spuntare all’orizzonte sconfinato della pampa quell’assurdo cartellone firmato niente meno che da Oliviero Toscani, che gli fa sgranare gli occhi increduli e dubitare di trovarsi di fronte ad uno di quei miraggi per i quali altri deserti sono famosi. A riportare il nostro viaggiatore alla realtà è il posto di blocco con autoblinde corazzate e militari in giubbotto antiproiettile che lo fanno scendere dal pick-up col mitra puntato, per controllargli carico e documenti. In sudamerica, non c’è niente di più efficace di un reparto dell’esercito in azione antiguerriglia per sgomberarti la mente dai sogni. Eppure, abbinato a tutto quello spiegamento di forze, quel cartellone che ostenta tutti quei toni spiccatamente mondialisti e pacifisti che contraddistinguono le opere del fotografo italiano, appare ancora più assurdo. Il grande manifesto ritrae il volto, saggio e tuttavia rassegnato, di un vecchio indigeno. A lato, una scritta sobria informa il viaggiatore che a quel punto delle carreggiata, una deviazione conduce a Leleque e al museo con cui l’azienda Benetton - che da queste parti si è comprata un territorio grande come tre provincie del Veneto - ha voluto commemorare la grande e triste storia dei mapuche, “el pueblo desaparecido”. Capirete che i mapuche, che non si sentono affatto “desaparecidos” - perlomeno non ancora - vedono come un calcio negli stinchi questo elegante museo che ha il solo scopo di mettere una pietra tombale sulle popolazioni indigene e sulle durissime lotte per continuare ad abitare quella terra che era loro da molto, molto prima che se la comprasse il signor Benetton. Da qui, si spiega anche il dispiegamento di poliziotti e militari incarogniti, costretti notte e giorno a far la tana sotto l’opera d’arte del maestro Oliviero Toscani.
Ma adesso un’altra storia. Continuiamo il nostro viaggio sulla Ruta 40 e scendiamo ancora più a sud di qualche decina di chilometri – che da queste parti è come, a Venezia, dire “un ponte e una calle”. Dietro una posticcia palizzata, attorno a una ventina di capanne di legno e di pelle, sventola la bandiera bianca e gialla del popolo mapuche. Qui vive, in terra mapuche “recuperata” la comunità indigena di Santa Rosa. Nel febbraio del 2007, questi mapuche hanno tagliato il filo spinato con il quale Benetton si è recintato mezza Patagonia come fosse il giardino della sua villa di Ponzano, e si sono ripresi 565 ettari di terra. Quel che per i mapuche è il “recupero” di Nuke Mapu, la Madre Terra grande e generosa che regala vita e ricchezza a tutti i suoi figli e che, in quanto Nuke Mapu, non può essere né comprata né venduta, per i legali dell’imprenditore trevigiano è “occupazione abusiva”. Ne è nata una dura lotta a colpi di carte bollate ma anche di manganelli, fucilate, case bruciate, persone bastonate.
Sono stati due anni duri, di assedio e di violenze a tutti i livelli, quelli sopportati dai mapuche di Santa Rosa. Un impero economico di statura mondiale che può permettersi di foraggiare plotoni di avvocati, contro un popolo che vive allevando pecore. Eppure, grazie anche all’aiuto di associazioni movimentiste come l‘italiana Ya Basta che, tra l’altro, ha un suo punto di forza proprio a Treviso, i mapuche hanno respinto tutti gli attacchi e continuano tutt’ora a fra sventolare la loro bandiera su Santa Rosa, riuscendo anche ad ingrandire la comunità iniziale. Ma la lotta continua. Se un giudice dà ragione ai mapuche, gli avvocati di Benetton non mollano e riaprono un’altra causa. L’ultima denuncia se la sono presa per un “abuso edilizio” in relazione alla costruzione di un ponte. Io l’ho visto quel “ponte”… quattro tronchi di legno legati insieme con una coda, lunghi due metri e 40 centimetri (misurati! Non sparo cifre a caso) per far passare le pecore al di là di un fossato…
Ma la seconda storia che ho promesso di raccontare la troviamo a qualche chilometro da Santa Rosa. Bisogna proprio che ci addentriamo ancor di più nella pampa patagonica. Tre o quattro ore di cammino senza alcun sentiero da seguire, attraversando luoghi che ti vien da pensare che doveva essere tutta così, la nostra Terra all’origine dei tempi, quando la specie dominante non era l’uomo ma i grandi sauri. All’orizzonte, al di là di laghi e foreste, si intravvedono le possenti propaggini della cordigliera andina. Ma quanto siano lontane, quanto siano immense, nessuno lo potrebbe dire. Ed è proprio qui che troviamo, solitaria, una capanna di legno. E’ il rifugio di un’anziana donna mapuche. Vedova da tanto tempo, cieca dalla nascita. Vive qui, dove ha sempre vissuto, e dove, nei giorni andati della sua lunga vita, sorgevano le capanne dei suoi figli e dei suoi nipoti. Mentre mi offre l‘inevitabile e amarissimo mate, e ci passiamo di mano in mano, la piccola zucca con la cannuccia di legno, mi chiede notizie dal mondo. I parenti che ancora vivono a Santa Rosa, la vanno a trovare spesso ma evitano di raccontarle tutti i guai che hanno con avvocati e, soprattutto, polizia ed esercito argentino. Non vogliono preoccuparla. Ma l’anziana mapuche ha capito che qualcosa è cambiato attorno a lei. Lo sente nel profumo dell’aria, nel sapore dell’acqua, nelle erbe che lei, nel buio della sua notte eterna, cerca a tastoni seguendo le radici degli immensi alberi. Erbe che bolliva in infusi per concedersi sollievo dai suoi acciacchi senili e che adesso non riesce più a riconoscere. La mia ospite è cieca. Non può vedere, non può sapere che lungo l’orizzonte che circonda la comunità di Santa Rosa, la pampa in cui vive non è più la pampa che l’ha vista nascere. Per migliaia e migliaia di ettari, sta crescendo un mare verde di pini ad alto rendimento economico, coltivati con tecniche intensive. Alberi le cui sementi vengono da lontano, alberi mai visti su queste latitudini e che consumano fiumi d’acqua, impoverendo la regione di quella che era la sua principale ricchezza. Alberi che, inevitabilmente ed irreparabilmente, stanno modificato il fragile equilibrio ecologico di questo angolo di mondo. Un mondo, mi ha raccontato l’anziana mapuche, che nel tempo antico era abitato da popolazioni di giganti che oggi sopravvivono solo nelle leggende. Sono scomparsi perché erano grossi ma sciocchi. Pensavano di poter crescere a dismisura, perché più crescevano e più credevano di diventare potenti. Si estinsero senza capire che Nuke Mapu, la madre terra, è generosa ma non è infinita.
Questa è l’altra faccia del museo Benetton. I “colori invisibili di Benetton” per scimmiottare uno degli slogan che hanno fatto la fortuna di questa azienda trevigiana, regina del contoterzismo in patria, e imperatrice del neo latifondismo in Argentina. L’avventura dei Benetton in terra patagonica cominciò negli anni della presidenza Menem, tra l’89 e il ’99, con l’acquisto per 50 milioni di dollari della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ricordate Carlos Menem? Gli argentini non se lo dimenticano più, uno così. Grande profeta del liberismo. Tanto da meritarsi in più occasioni il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Grande amico di Berlusconi che lo salutò come apostolo della pacificazione nazionale, in quanto aveva graziato tutti i militari riconosciuti colpevoli di omicidi e torture durante la dittatura, e come l’uomo che avrebbe portato l’economia argentina al passo con le potenze mondiali cavalcando il “rampante destriero della globalizzazione neo liberalista”, metafora sua. Menem, appena eletto, si preoccupò solo di privatizzare tutto quello che era privatizzabile e poi di privatizzare anche quello che non lo era. Svendette, a prezzi da liquidazione, tutte le aziende di base, tra cui le Poste e la Ypf, la compagnia petrolifera di stato, liquidando gran parte del patrimonio nazionale per una perdita stimata dalla stessa Banca Mondiale attorno ai 60 mila milioni di dollari.
Durante la presidenza Menem e del suo degno successore De La Rùa, il debito estero, l'inflazione, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la povertà crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. L’abolizione dei vincoli doganali, la coatta “dollarizzazione” dell’economia sino alla forzata parità del peso con il dollaro, furono il colpo finale che nel 2001 portarono l’Argentina sul baratro della più grave crisi economica che abbia mai investito un paese del Sud America. Il 2 gennaio del 2002, mentre Menem e la moglie Cecilia, ex miss Universo, riparavano in Cile inseguiti da una denuncia per vendita di armi all’estero e una lista di reati patrimoniali per elencare i quali non basterebbe il libro che avete tra le mani, il paese attraversò il suo periodo più nero e nel corso di quella sola settimana, il peso perse i due terzi del suo potere d’acquisto. Le banconote emesse dallo Repubblica d’Argentina valevano come carta straccia. Buenos Aires si riempiva di famiglie di cartoneros che ancor oggi vivono per strada e per sopravvivere frugano tra le immondizie in cerca di qualcosa da riciclare. Gli ex lavoratori andavano a rinfoltire le fila dei disoccupati e si trasferivano in massa nelle baraccopoli che cominciarono ad ingrandirsi a dismisura fino ad assediare l’intero perimetro di quell’oceano di case che è Buenos Aires. Attorno alla città, nasceva un’altra città di poveri ed emarginati.
Quei giorni di fame e miseria, li ho ritrovati egregiamente sintetizzati in un cartello di “bienvenido” ancor oggi appeso nell’entrata della baraccopoli bairense di Solano, quartiere in cui vi sconsiglio di passeggiare a tutte le ore del giorno a meno che non siate invitati. La scritta dice: “Benvenuta nella tua nuova dimora, classe media!”
Questi furono gli anni gloriosi della conquista di Benetton della Patagonia. Gli anni in cui si comprava tutto perché niente valeva. E pazienza se, in quella stessa terra che Benetton si preparava a recintare con chilometri e chilometri di filo spinato, le comunità mapuche, vivevano, per dirla col nome di una loro battagliera associazione di lotta, sin dall’Once de octubre. Cioè l’undici di ottobre, il giorno prima del giorno più infausto per i mapuche: quello della scoperta dell’America.
La brillante speculazione economica ebbe come apripista l’abolizione della proprietà collettiva e di tutte le strutture politiche, economiche e sociali del popolo mapuche avvenuta durante gli anni della dittatura militare. Anni di repressione, di violenze, sparizioni e di omicidi per tutto il popolo argentino ma in particolare per i mapuche, considerati de facto e senza distinzione oppositori al regime. Tra gli anni ‘70 e ’80, il numero della comunità mapuche si ridussero da più di 2 mila a 665. Il ritorno alla democrazia ha visto le comunità indigene della Patagonia – parliamo di quelle sopravissute – impegnarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità e difendere la propria terra. Una battaglia non solo durissima ma anche tutta da costruire, se teniamo conto che solo pochi anni fa, la Costituzione della Repubblica Argentina citava i popoli indigeni soltanto per ricordare che lo Stato aveva il dovere di convertirli al cattolicesimo.
Oggi, il Wall Mapu, il territorio dei mapuche, sembra cucito col filo spinato. Qua e là, cartelloni avvertono i viaggiatori che per di qua è “prohibido pasar”. La mitica Ruta 40 dove si sono avventurate generazioni di viaggiatori sulle orme di Chatwin, di Coloane e di Sepulveda, oggi scorre in mezzo a proprietà private acquistate a prezzi di liquidazione da lupi dell’imprenditoria straniera che hanno rubato la terra ad un popolo libero e i sogni all’intera umanità.
I torrenti che un tempo ruggivano lungo la sterminata pianura trasportando vita e prosperità, sono stati deviati per portare le loro ricchezze d’acqua solo dove lo impone la legge dello “sviluppo” – termine che scriveremo sempre tra virgolette – neo liberista. Il grande rio Chubut che attraversa il latifondo Benetton è diventato proprietà privata e ai mapuche non è consentito neppure avvicinarsi. Adesso l’acqua del rio è riservata alle 300 mila pecore e ai 16 mila bovini da macellazione dell’azienda Benetton e i greggi mapuche, composti sì e no da una dozzina di pecore, devono abbeverarsi 40 chilometri più a est. “Ma non è l’acqua che è nostra – ha precisato Ronald MacDonald, il gringo norteamericano che i Benetton hanno messo a capo del latifondo Leleque –. Quella, per legge, è di tutti e non potremmo vietare nemmeno la pesca. E’ la terra attorno al fiume che dobbiamo tutelare come proprietà privata in quanto appartiene alla nostra azienda. E qui è prohibido pasar”.
Questa che si combatte in terra mapuche, è anch’essa una guerra per l’acqua. Per l’accesso all’acqua, al di là del filo spinato. Per l’uso dell’acqua: la Patagonia, è vero, è ricca di questo bene prezioso ma non tanto da consentire la crescita di foreste di legname pregiato e il mantenimento di centinaia di migliaia di capi di bestiame. Ma anche per la purezza e la potabilità dell’acqua. I fiumi che escono dalle grandi “estancias” sono irrimediabilmente inquinati. Nel 2005, una ong riuscì a documentare numerosi casi di indigeni, donne e bambini in particolare, intossicati per aver bevuto l’acqua del fiume che attraversa l’estancia El Maiten di Benetton, inquinata dai liquidi di scarico e dai residuali di lavorazioni del bestiame non depurati da nessun filtro. Quello che in Italia ti farebbe finire in galera, in Argentina è concesso.
Ma se Benetton è oggi il più grande latifondista d’Argentina, non è il solo ad aver investito capitali per “dare un futuro anche agli abitanti di queste terre sottosviluppate”, come ha affermato in un’intervista. Attori famosi come Richard Gere, calciatori come Oscar Batistuta, stelle della televisione e del cinema hanno investito i loro soldi facilmente guadagnati nell’acquisto di terre in Patagonia senza mai porsi troppe domande se nelle terre in questione vivessero dei popoli nativi e, nel caso, che ne pensassero della loro idea di “sviluppo”.
“L’idea di vendere la terra è totalmente estranea alla nostra cultura” mi ha spiegato Mauro Milian, portavoce dell’Once, che ho incontrato a El Maiten in occasione dell’inaugurazione di radio Petü Mogeleiñ, la prima radio in lingua mapuche della Patagonia, realizzata grazie all’aiuto dell’associazione Ya Basta. “Come si può vendere una cosa che appartiene a tutti e, soprattutto, che serve a tutti? E come si può pensare di comperarla? Ce n’è tanta, di terra, in tutta la Patagonia. Se qualcuno vuole costruirsi una casa e allevare il suo bestiame lo può fare senza chiedere niente a nessuno. E tutta la comunità è pronta ad aiutare chiunque voglia mettere su casa. Vendere la terra? Che idea! Sarebbe come pretendere di vendere l’acqua, l’aria… Ma già! Gli uomini bianchi fanno pure questo! Poi mandano la polizia e l’esercito. E dicono a noi, che abitiamo queste terre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, che dobbiamo fare le valigie. Dobbiamo andarcene via perché un ricco signore che abita in terre tanto lontane da fuggire alla nostra immaginazione, ha comperato tutto e ora afferma che è tutto suo. Ma noi non ce ne andiamo. Non ce ne andiamo perché questa terra è Nuke Mapu. E’ la nostra terra: è la madre di tutti i mapuche ed è la madre di tutto ciò che qui cresce. Senza di lei, potremmo forse continuare a chiamarci Mapuche? Potremmo continuare ad essere ciò che siamo?”
Cosa ne è di un mapuche senza la sua Nuke Mapu? domanda Mauro Milian. Qualcuno china la testa e accetta di lavorare proprio nelle grande “estancias” dei nuovi padroni, lasciandosi sfruttare dai latifondisti e dai loro sgherri come manodopera a basso costo e senza diritti sindacali. Altri prendono la strada delle grandi metropoli dove li attendono giorni di miseria e di discriminazione nelle baraccopoli dei bianchi.
E’ un genocidio anche questo. Un genocidio perpetuato senza camere a gas o stermini di massa ma perpetuato con la non meno efficace arma della globalizzazione. Salvo poi inscatolarne la memoria nelle vetrine di un museo e ricordare in qualche convegno quanto era nobile e saggio l’antico popolo dei mapuche. El pueblo desaparecido.
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