Inutili primavere

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Tunisi - “Lo vedi questo grande spiazzo? Adesso è vuoto ma in quei giorni di inverno era pieno di gente che chiedeva a gran voce ‘lavoro, libertà e dignità’. Avevamo appena saputo Mohamed Bouazizi si era immolato. Lui era un ambulante, un poveraccio, uno di noi. Non voleva fare l’eroe. Non poteva neppure sapere che dal suo gesto sarebbe scaturito quella rivoluzione che qualcuno ha chiamato la “primavera araba”. Mohamed si è ucciso soltanto perché non ce la faceva più a sostenere la vergogna e il peso della corruzione del regime di Ben Alì”.
Siamo a Menzel Bouzaiene, un paesotto nel cuore della Tunisia a 70 chilometri da Sidi Bouzid, la città dove il 4 gennaio del 2011 il giovane ambulante passato alla storia si è dato fuoco. Menzel Bouzaiene, poche case attraversate da una rotaia dove lunghi e sconquassati treni merci portano i fosfati dalla miniere ai porti mediterranei, è famoso più che per altro per essere stata la prima cittadina a ribellarsi. Una ribellione pagata col sangue. “Prima hanno picchiato con i bastoni - continua l’amico Mohamed, attivista dell’associazione tunisina Accum -, poi hanno sparato e hanno ammazzato due dei nostri. Noi gli abbiamo tirato contro le pietre della ferrovia fino a che sono scappati e siamo riusciti a liberare la città. Ma è stata dura. All’inizio erano riusciti a censurare i social network e la nostra paura era quella di non poter far sapere al mondo che ci stavano massacrando. Per fortuna mio fratello ha un internet point e sa smanettare con il computer. Lui ci ha spiegato come eludere la censura. E’ anche grazie ai filmati diffusi da noi che altre città si sono ribellate”.


“Quando c’è stata la rivolta della casbah - conclude Mohamed - siamo partiti a piedi per Tunisi perché non c’erano mezzi. Uno di noi non ha più fatto ritorno. Menzel Bouzaiene l’ha pagata cara la sua primavera”.
Con Accun e altre associazioni locali e italiane come Un Ponte Per, Ya Basta! sta portando avanti una serie di progetti volti a realizzare dei centri multimediali nelle zone più calde della Tunisia meridionale. “Sappiamo bene quando sia importante disporre di un collegamento in rete, noi di Menzel Bouzaiene! Il nostro centro poi sarà un punto di riferimento politico, gratuito e aperto a tutti, giovani, disoccupati e donne”.
Il Social Forum di Tunisi, il primo a svolgersi in un Paese arabo, ha dato l’occasione agli attivisti di Ya Basta! di organizzare una “carovana” verso il sud del Paese e rinsaldare i rapporti con gli amici tunisini impegnati nei vari progetti. “Siamo venuti soprattutto per vedere con i nostri occhi come si vive in Tunisia e cercare di capire in un’ottica di collaborazione euromediterranea cosa sta succedendo nel mondo arabo - spiega Vilma Mazza, portavoce dell’associazione -. Soprattutto abbiamo cercato di uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi con i quali gran parte dei nostri media descrivono i paesi islamici. Cosa abbiamo trovato? Tante persone con le quali è possibile costruire un percorso condiviso e un mondo complesso, tanto ricco di potenzialità quanto di rischi”.
Le stesse potenzialità e gli stessi rischi che hanno caratterizzato il forum tunisino. Una settimana, l’ultima di marzo, ricchissima di incontri, discussioni, proposte su temi che spaziavano dai cambiamenti climatici ai diritti dei migranti, dalle donne allo sport popolare. Chi si aspettava che dal Forum nascesse una proposta forte, sintetica e condivisibile di lotta alla globalizzazione è stato deluso. Ma bisogna considerare che, dopo Porto Alegre, mai nessun social forum ha mai più avuto tale capacità. Piuttosto, l’appuntamento tunisino è stata una grande vetrina dei movimenti che hanno potuto conoscersi, confrontarsi e, in molti casi, mettere in cantiere future battaglie da combattere assieme.
La stessa, complessa, situazione politica che la Tunisia sta attraversando ha in qualche modo favorito la pluralità delle associazioni presenti e la loro libertà di esprimersi. Anche quando i risultati sono stati a dir poco discutibili. Mi riferisco ad esempio, allo stand dedicato al dittatore Saddam Hussein. Non sono mancate di conseguenza, tante contraddizioni. Su tutte, citiamo la presenza tanto di attivisti pro Assad quanto del fronte di liberazione siriano. Oppure lo stand che denunciava l’occupazione del popolo Sarawi a pochi metri dal capannone dedicato al “grande Marocco unito”.
Ma in fondo, queste che si sono specchiate nel Social Forum sono le stesse contraddizioni che il mondo arabo sta attraversando nel difficile tentativo di fondare un democrazia capace di tutelare i diritti fondamentali e costruire una forma di partecipazione dal basso che non è detto che debba rispecchiare necessariamente quella che noi auspichiamo per l’occidente. Un percorso senz’altro lungo e difficile.
“Mi chiedi cosa sia cambiato dopo la Primavera? - mi confessa Mohamed - Ben Alì non c’è più, non c’è più la sua cricca ma altri hanno preso il loro posto e l’economia è sempre nella mani degli stessi. ‘Lavoro, libertà e dignità’, lo slogan che urlavamo in quei giorni, è lo stesso slogan che urliamo adesso”.

Révolution et Renouveau. La radio comunitaria di Regueb

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Regueb, Tunisia centrale - Il nome esatto è Radio 3 R, dove le R stanno per Rivoluzione e Rinnovamento (Révolution et Renouveau). La terza R sta per Regueb che è un paesotto di poco più di 15 mila anime perso nel deserto, ad una quarantina di chilometri dalla più famosa Sidi Bouzid. Famosa quantomeno per aver acceso la miccia delle rivoluzioni arabe nel dicembre del 2011, quando l’ambulante Mohamed Bouazizi si suicidò per denunciare l’opprimente corruzione del regime del presidente Ben Alì. Siamo nel cuore della Tunisia. Qui i matrimoni sono ancora combinati dai genitori e la maggior parte della popolazione vive di una agricoltura di sussistenza. Un modo come un altro di dire che mangia quello che le offre la terra. Che senso abbia una radio comunitaria a Regueb ce lo spiega la giovane Debora Del Pistoia che da sei mesi lavora qui come cooperante del Cospe. “Regueb è un punto nevralgico della Tunisia. Qui si concentrano aspirazioni democratiche e rischi di derive integraliste. Nei mesi immediatamente successivi alla cacciata di Ben Alì sono sorti ben 63 partiti e un numero imprecisato di associazioni che testimoniano quanto sia sentito e allo stesso tempo tortuoso il percorso che porta alla democrazia. Una radio in grado di dare voce a tutti questi movimenti è, in questo senso, uno strumento indispensabile”.


Ma anche per Radio 3 R il percorso è tutt’altro che rettilineo. Sotto Ben Alì, in Tunisia si potevano ascoltare solo cinque radio; cinque voci di regime “appaltate” ai parenti della moglie di Ben Alì. Con la cacciata del tiranno, è stata aperta la strada alle radio private e sono state assegnate le licenze per 12 frequenze Fm di cui, 10 commerciali e solo 2 comunitarie. Le richieste però superavano la trentina. Il Governo tunisino, col cosiddetto decreto 116, ha demandato ad un organismo “indipendente” denominato Haica l’assegnazione di altre frequenze ma a tutt’oggi tale organismo non è ancora stato varato. La comunicazione via etere attira molti, troppi interessi.
“Radio R 3 si trova in un limbo legislativo - spiega Debora -. Non abbiamo potuto neppure fare richiesta di una frequenza perché allo stato attuale non esiste un organismo competente cui inoltrare questa richiesta. Per adesso trasmettiamo in streaming dal nostro sito. A breve saremmo in grado di trasmettere anche via etere ma aspettiamo di vedere come si evolve la situazione. Questo è un momento molto delicato per la Tunisia”. Rischio di attirare le ire dei salafiti? “Fino ad ora non abbiamo avuto problemi ma non ci nascondiamo che il rischio esiste. Tenete presente che Radio 3 R non è solo una radio: a questo progetto lavorano a titolo volontario 15 persone tra cui 10 donne. I nostri locali sono gli unici misti e qui le donne vengono da sole anche dopo il tramonto. Insomma, quando finalmente trasmetteremo via etere sarà un momento delicato”.
Radio 3 R è un progetto che il Cospe gestisce in partnership con l’Amisnet (Agenzia Multimediale di Informazione Sociale) e la tunisina Liberté & Développement. Fondamentale alla riuscita del progetto è l’apporto dato dalla tante associazioni locali che hanno già fatto di Radio 3 R la loro voce e che dai suoi microfoni trattano non solo questioni come la democrazia dal basso, i beni comuni, i diritti umani, la condizione femminile ma anche la cultura, il cinema e l’arte.
“Per noi questo è solo il primo passo di un progetto di più largo respiro - conclude Debora -. Il passo successivo sarà quello di mettere in rete le radio comunitarie di quattro Paesi come la Tunisia, l’Egitto, il Marocco e la Palestina. Quattro microfoni per parlare a tutti di pace, libertà e diritti”.

Libertè e democracie - diario di viaggio al Social Forum

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Da Porto Alegre a Tunisi, dall’Italia alla Tunisia
Tunisi, primo giorno di carovana - Da Porto Alegre a Tunisi, dall’Italia alla Tunisia. Nel nord est tira vento e neve e si prepara una pasqua al gelo. Qui invece è già primavera da un pezzo. La carovana di Ya Basta! è sbarcata questa mattina in quella Tunisia che nel dicembre del 2010 ha aperto la stagione delle rivoluzioni arabe, scacciano Ben Ali e la sua cricca. Oltre una settantina, tra quelli partiti oggi dal Marco Polo di Venezia e quelli già in loco, sono gli attivisti che si preparano a partecipare al World Social Forum. Il primo che si svolge in un Paese arabo. Ventidue gradi di temperatura sono già un buon benvenuto per i ragazzi provenienti dal nord est, in rappresentanza del Morion e del Rivolta di Venezia, della casa dei beni comuni di Treviso, dal Tpo di Bologna, dal Bruno di Trento. L’altro benvenuto è quello che accoglie tutti i partecipanti al Forum e che si legge nei mille striscioni appesi in tutte le strade di Tunisi. Dignidad, dignité, dignità, vi si legge in tutte le lingue del mondo.


Il nostro albergo, definirlo “spartano” è d’obbligo, si trova a La Goulette, termine che significa “collo di bottiglia”, e che indica la sottile striscia di terra che collega la città di Tunisi all’omonimo laguna. La mancanza di comodità è comunque colmata da una vista stupenda e dalla presenza - non trascurabile per dei movimentisti - di una buona connessione wifi. E se ci è permessa una parentesi “rosa,” stasera quella che si specchia nel acqua è una luna davvero magnifica. Una di quelle lune che si possono ammirare solo in Africa.
L’albergo è a quindici minuti di taxi dal campus universitario di El Manar dove si svolge il Social Forum. Ci arriviamo nel tardo pomeriggio appena in tempo per farci una idea delle enormi dimensioni degli spazi destinati agli stand delle associazioni e dei movimenti partecipanti, e del gran numero di “atelier” - laboratori - dove si svolgono in contemporanea le tantissime iniziative in programma. Temi che spaziano dai migranti ai diritti delle donne, dall’euromediterraneo allo sport popolare. Su Global daremo spazio agli approfondimenti su ciascuno di questi argomenti. Impossibile comunque non rimanere colpiti tanto dall’imponenza del Forum quanto dalle sue inevitabili contraddizioni. C’è lo stand dei profughi siriani che denunciano i crimini di Assad e quello di altri profughi siriani che inneggiano al dittatore come difensore della laicità dello Stato. C’è lo stand del Fronte Polisario e quello del Grande Marocco che accusa i ribelli sarawi di crimini. Tutto questo è il Social Forum di Tunisi. Ma adesso già è ora di tornare in albergo. Domani si entra nella mischia.

Cosa unisce Messico e Tunisia?
Tunisi, secondo giorno di carovana - Il campus universitario di El Manar è un oceano di tende colorate. “Hanno partecipato più associazioni a questo Social Forum che a quello di Porto Alegre - mi racconta soddisfatto un addetto all’ufficio stampa -. Quante? Più di un migliaio. E altre se ne stanno ancora aggiungendo. Oramai abbiamo esaurito gli spazi a disposizione e agli ultimi arrivati tocca accontentarsi di un pezzo di prato”. L’affluenza, sempre secondo le stime dell’organizzazione, si aggira tra le 60 e le 62 mila presenza contando solo i primi due giorni. Il campus è un melting pot infinito di lingue ed etnie. Sono arrivati da tutto il mondo. E come ci siano arrivati è già una storia da raccontare. “GCi hanno tenuto 5 ore fermi in frontiera - mi spiega un attivista algerino -. Non volevano farci passare con la scusa che il nostro bus non era autorizzato. Sono state le donne le prime a scendere e dire alla polizia che se il problema era il bus loro sarebbero andate a Tunisi a piedi. Solo allora hanno aperto le sbarre della dogana...”
Chi non può essere presente fisicamente ha mandato video ed interventi che vengono letti nei vari “atelier”, laboratori di approfondimento. E’ il caso di una associazione di donne messicane gemellata con una associazione di donne tunisine. Scusate l’assenza, mandano a dire, ma non avevano la “plata” per venire sino a qui. Cosa hanno in comune donne tunisine e messicane? I figli, emigrati e dispersi. Le donne messicane organizzano periodicamente carovane verso il nord portando le foto dei loro cari scomparsi. A chiunque incontrano,mostrano l’immagine e domandano se hanno visto il loro figlio. Una ricerca disperata che qualche volta viene anche coronata da successo. “Quest’anno - legge una donna tunisina - tre di noi hanno ritrovato il figlio, disperso a nord di Guadalajara”.
Tutto questo è Social Forum. Caroselli di musiche e di canti. Grandi campi di calcio dove si gioca a tutti gli sport del mondo secondo i criteri dello “sport alla rovescia”. Grandi immagini di martiri e bandiere di tutti i colori. Cortei spontanei anche di poche persone che scandiscono slogan per lo più incomprensibili. Tutto questo e tanto altro ancora. Un contenitori di utopie tutt’altro che utopiche che ha lo scopo dichiarato di “rendere necessario ciò che ora è solo possibile”.
Sotto quest’ottica, anche le contraddizioni che pure non mancano, assumono un significato diverso. Anche la radicale disorganizzazione - che in alcuni casi diventa un vero e proprio delirio tra incontri programmati in aule che si scoprono inesistenti e traduttori che non conoscono la lingua che devono tradurre - si trasforma in un pregio. Pur tra gli inevitabili rischi, su tutti l’autoreferenzialità, il Social Forum di Tunisi offre l’impressione di essere un Social Forum vero, slegato da logiche di governabilità e capace di offrire nuova spinta propulsiva ai movimenti.
La Tunisia del dopo rivolta si specchia perfettamente in questo Forum che ne restituisce la complessa situazione in bilico tra manovre di restaurazione e tanto generosi quanto ingenui slanci democratici.
Anche questo è Social Forum. Le strade di El Manar sono incroci di storie in cerca di qualcuno che le voglia ascoltare. Maha, una bella ragazza nera, mi mette in mano un volantino e mi domanda se a mio parere lei sia tunisina. Prima che mi inventi una risposta, mi racconta che lei è sì tunisina ma una tunisina nera. “Siamo il 15 per cento della popolazione eppure hai mai visto un nero in tv o al Governo? In Tunisia, siamo discriminati per il colore della nostra pelle”. Tarek ha combattuto nella Primavera e mi racconta della cacciata di Ben Alì. “In Tunisia oggi c’è una certa democrazia ma non sappiamo come gestirla. I partiti ci sono solo che, come dire... non sanno come lavorare. Ma il problema vero non è neppure questo. la nostra economia è dipendente dalla Francia. Se ne sono andati ma hanno imposto la coltivazione della vita da vino, del grano duro e l’estrazione dei fosfati. Tutta roba che prende la via del mare e che non lascia soldi in Tunisia. Un commercio diseguale che da noi crea solo sfruttamento. Allora la domanda è? Cosa significa per noi democrazia senza il controllo della nostra economia?” Gli chiedo se esiste il rischio di una deriva islamista a Tunisi. “Queste sono paranoie europee costruite apposta per spostare il problema reale su uno costruito per comodo - mi spiega -. Gruppi come i salafiti sono nati qui nei primi anni ’80 da persone che si illudevano di riconquistare una dignità perduta durante la colonizzazione e mai recuperata nella post colonizzazione. Ben Alì ha fatto piazza pulita di tutti loro. In nome della laicità dello Stato? Macché! Lo ha fatto solo per consolidare il suo potere personale! Oggi ci sono gruppi estremisti, è vero, ma quello che voi non volete capire è che ci sono moltissimi modi di essere musulmani. Vedi, la verità non è mai una sola. E’ per questo che la storia non si può né insegnare né imparare. La storia va solo continuamente ricercata”.

Chi trova il suo workshop, trova un tesoro!
Tunisi, terzo giorno di carovana - A due anni di distanza dalla cacciata di Ben Alì, i centri nevralgici dalla capitale sono ancora recintati dal filo spinato e guardati a vista dai soldati della Guardia Nazionale col fucile in mano. Ma le tensioni sociali che si respiravano durante la primavera sono oramai un ricordo. L’ultima volta che ero stato a Tunisi, nell’aprile del 2011, le strade erano invase da montagne di immondizie e gli scontri violenti tra le opposte fazioni erano quotidiani. Oggi, la caotica vita della metropoli scorre accanto agli autoblindi armati di mitraglia come se questi facessero parte del paesaggio. L’area del Campus di El Manar dove si svolge il Social Forum viene evitata tanto dalla polizia quanto dall’esercito. Solo davanti ai due ingressi del quartiere universitario troviamo qualche vigile urbano, indaffarato a dirimere il traffico selvaggio (a dir poco) ed a far circolare i grossi autobus e il fiume di agili taxi gialli che trasportano i partecipanti al Forum. Se da un lato il Governo tunisino non vede di buon occhio queste migliaia di attivisti, per lo più stranieri, che vengono a discorrere di laicità e di democrazia a casa loro, dall’altro è evidente che si sta impegnando per offrire al mondo l’idea di una Tunisia democratica e, soprattutto in chiave turistica, sicura. Domani, comunque, ci attende a prova del nove quando parteciperemo alla grande manifestazione che concluderà il Social Forum e che, non a caso si svolgerà in occasione della giornata della terra che ogni 30 marzo ricorda l’assassinio di sei palestinesi che protestavano contro l’esproprio delle loro terre da parte del Governo israeliano.
Per noi, questa di oggi è stata quindi l’ultima giornata trascorsa interamente al Campus. Le dirette in onda sul nostro sito, che abbiamo sperimentato per la prima volta proprio in questa occasione, sono andate molto bene e anche senza considerare le decine e decine di interviste video e gli articoli di approfondimento sui vari atelier raccolti dagli attivisti di Ya Basta!, potremmo ben vantarci di essere il social media italiano e probabilmente anche europeo che ha coperto in maniera più completa ed esaustiva il Forum tunisino. Rimandiamo la lettura degli altri articoli presenti sul sito per fare il punto dei vari workshop che si sono svolti nel pomeriggio. Qui notiamo solo come l’impressione di radicale disorganizzazione che abbiamo avuto quando abbiamo messo il piede nel Campus la prima volta fosse tutt’altro che sbagliata! Incontri programmati in sale inesistenti (o perlomeno noi non siamo riusciti a trovarle), cambi e spostamenti all’ultimo minuto con aggiunte a penna sul programma ufficiale. Vi racconto solo un episodio. Avrei voluto partecipare ad un atelier sui diritti dei migranti ma la sala A5 pareva depennata dall’elenco delle aule della facoltà di Scienze. Dopo una mezz’ora di inutile ricerca con un volenteroso ma poco efficace “volunteer organisation”, il ragazzo mi ha portato su un lungo corridoio dove si affacciavano decine di aule e mi ha detto sospirando: “Guardi, qui si stanno svolgendo workshop per tutti i gusti. Ne cerchi uno che le piace e segua quello!” Come si fa a non volergli bene?

Ya Basta in corteo sulle note di Bella Ciao
Tunisi, quarto giorno di carovana - Diciamocelo senza timore: eravamo lo spezzone più bello di tutto il corteo! Tutti serrati dietro due bandiere di Ya Basta! e lo striscione in tre lingue “Diritti, dignità e giustizia sociale nell’euromediterraneo”. Attorno una marea di gente, di slogan, di sigle e di bandiere. Alcune incomprensibili, altre quantomeno discutibili. Come quelle a favore del dittatore siriano Assad, tanto per fare un esempio. Ma anche tante bandiere della Palestina - non a caso oggi è l’anniversario della Giornata della Terra - e tanti striscioni come il nostro che chiedevano pace e libertà nel rispetto dei diritti. La manifestazione che ha chiuso il Social Forum di Tunisi si è portata dietro tutte le contraddizioni che hanno caratterizzato queste giornate di incontri e che hanno messo in evidenza tanto le grandi potenzialità quanto la complessità dei movimenti che agitano il mondo arabo. Contraddizioni ben evidenti anche nell’assemblea conclusiva, dove al momento di presentare il documento programmatico, si è scatenato un tafferuglio sul palco dei relatori tra attivisti sarawi e marocchini.
Ma nel complesso, la manifestazione svoltasi nel pomeriggio tra place 14 Janvier e place Pasteur, meno partecipata di quella che ha aperto il Social Forum, si è svolta senza eccessivi problemi, fatto salvo qualche tentativo di provocazione di gruppi salafiti subito sedato dalla polizia con la collaudata tecnica dell’asso di bastoni. Non ci hanno fatto mancare neppure qualche scaramuccia tra sindacati e rappresentanti del partito di governo, proprio sotto l’ambasciata palestinese dove abbiamo concluso in bellezza la manifestazione.
Il nostro, scrivevamo in apertura, è stato lo spezzone più bello di tutto il corteo. Non siamo noi a dirlo ma le decine e decine di tunisini che si sono accodati spontaneamente dietro alle bandiere di Ya Basta! e che ci chiedevano di scandire slogan e intonare canzoni. Ci han chiesto “Bella ciao” e li abbiamo accontentati senza problemi. Ci hanno chiesto “Bandiera rossa” e qui qualche problema lo abbiamo avuto. Abbiamo scantonato proponendo un “ever greeen” di Raffaella Carrà. Idolatrata da queste parti.

Tempo di bilanci
Tunisi, quinto giorno di carovana - Carovanieri in libera uscita, oggi. Chiuso il Social Forum, un ristretto gruppo di attivisti è partito la mattina buon’ora per il sud per riprendere il lavoro nei vari progetti. Il grosso della truppa è rimasto a Tunisi e si è concessa una giornata di riposo. A cinque minuti dal nostro hotel, parte uno scassato trenino che collega Tunisi nord con gli scavi archeologici di Cartagine e il tranquillo villaggio di Sidi Bou con le sue caratteristiche case bianche e azzurre. Il secondo soprattutto, è un luogo spiccatamente turistico ma che vale comunque una visita, incastonato come è in un mare blu cobalto e circondato da colline rivestite di grandi fiori multicolori. Sul trenino, i ragazzi locali, questa mattina particolarmente su di giri per il derby calcistico che si sarebbe giocato nel pomeriggio, ci hanno insegnato come basti infilare un piede tra le porte mentre il treno sta partendo, per impedirne la chiusura e viaggiare poi con le porte spalancate attaccati alla carrozzeria esterna. Il che, secondo loro, è un gran divertimento.
Carovanieri in libera uscita, quindi, ciascuno seguendo l’ispirazione dettata dalle proprie inclinazioni, siano esse del genere “vacanze culturali” o “spiaggia e narghilè”. Domani, si parte per raggiungere i compagni al sud. La prima meta sarà Sidi Bouzid.
Ma adesso è venuto il momento di tirare un primo breve bilancio del Social Forum di Tunisi. Diciamo subito che chi si aspettava un forum dalle proposte forti, come è stato quello di porto Alegre, è rimasto deluso. D’altra parte, abbiamo già scritto che le grandi battaglie non passano più per appuntamenti di questo tipo. Non è stato neppure un forum di facciata, una passerella per associazioni governative e ong incapaci di proporre vere alternative alla globalizzazione, come è stato per quello di Dakar. Grazie anche alla caotica situazione politica tunisina, il Social Forum di Tunisi ha aperto i battenti a tante organizzazioni che hanno portato all’interno dei dibattiti tante contraddizioni ma anche tante potenzialità. In poche parole, se è vero che erano presenti nostalgici di Saddam Hussein e associazioni siriane filo Assad è anche vero che abbiamo incontrato tanti attivisti che lottano contro il regime, ben sapendo delle difficoltà di costruire in un auspicabile futuro post guerra, un percorso democratico al fianco delle formazioni integraliste oggi loro alleate contro il dittatore. Contraddizioni e potenzialità che sono presenti in tutti i livelli sociali di questa sponda di Euromeditteraneo.
Piuttosto vale la pena di sottolineare le assenze di questo forum. In quanto a quelle geografiche, abbiamo notato l’assenza di tanti movimenti sudamericani che sono state l’anima pulsante dei primi forum sociali. Ma i motivi di tale assenza fondamentalmente sono da ricercarsi nella lontananza e nel costo del viaggio. Per quanto riguarda quelle tematiche, se tanto spazio è stato dato alla questione femminile, non abbiamo trovato un solo stand, un solo atelier (perlomeno non non ne abbiamo visti) dedicati all’orientamento sessuale. Per il mondo arabo questi temi continuano ad essere tabù.
Ma a conti fatti, il Social Forum è stato comunque una grande vetrina dei movimenti. Le interviste, i dati, le mail, i contatti, gli articoli, le informazioni che abbiamo recuperato saranno utili per costruire battaglie future capaci di suscitare una eco anche dall’altra parte del mare perché anche dall’altra parte del mare ci sono attivisti e associazioni che lottano per quell’ “otro mundo” che è sempre più possibile.

Verso sud
Sidi Bouzid, sesto giorno di carovana - Bastano due ore di autobus per lasciarci alle spalle le verdi colline di Tunisi dipinte di fiori gialli e viola. Man mano che la carovana procede verso sud, del mare blu cobalto rimane solo il ricordo. Le colline si addolciscono sino a diventare un deserto percorso da greggi di pecore ed interrotto, nelle vicinanze dei rari centri abitati, da sterminate coltivazioni di ulivi separate da barriere di fichi d’india.
Abbiamo lasciato La Guoulette in tarda mattinata. Dopo una pausa a Kairquam, città sacra dell’Islam dalla grande moschea e dalle strette vie affollate di artigiani e commercianti, ci siamo diretti a Sidi Buazid, la prima meta della nostra carovana. Ci arriviamo verso le 6 di sera e subito ci attende l’incontro con gli amici tunisini del locale centro culturale dove alcuni attivisti di Ya Basta! in collaborazione con Un Ponte Per stanno lavorando per formare degli operatori di media center. La regione, ci ha spiegato un portavoce dell’Unione Laureati Disoccupati, è una delle più emarginate del Paese e la rivoluzione non ha portato miglioramenti in questo senso. Eppure, proprio su queste strade, si è accesa la miccia della Primavera araba, quando nel dicembre del 2010 il giovane Mohamed Bouazizi si è suicidato per protestare contro le angherie del regime. Una sua grande foto campeggia nella piazza centrale della cittadina, accanto ad un monumento che rappresenta il suo carretto di ambulante. In questa città circondata dal deserto, le sommosse sono state represse in modo particolarmente violento e la repressione della polizia ha causato ben 10 vittime. Oggi, Sidi Bouzid è una cittadina di 40 mila abitanti, dai grandi viali contornati da alberi potati a squadra, proprio come le sue basse case bianche. La disoccupazione colpisce particolarmente le donne, molte delle quali – nonostante il titolo di studio – sono costrette a lavorare nei campi per un compenso di 4 euro al giorno, e ad accettare un trattamento da “caporalato” e a pagarsi addirittura il trasporto al lavoro. La presenza integralista qui non è, in percentuale, particolarmente significativa ma rimane comunque pesante perché coagula la disperazione dei giovani e può contare sul circuito di denaro e di organizzazione legato alle moschee. “I sefarditi reclutano tra i ragazzi più giovani, meno istruiti e più disperati - mi racconta in responsabile del Centro Culturale -. Nelle moschee vengono indottrinati su falso islam ed imparano a leggere il Corano in maniera acritica. Io credo che la cultura sia il mezzo più efficace per contrastare questa pericolosa deriva retrogada. Ed è per questo che, progetti come quelli che ci state aiutando a portare avanti voi, rappresentano l’arma più efficace per contrastare questa deriva”.
La situazione a Sidi Buazid è tesa. Per non compromettere tutto il lavoro che i formatori di Ya Basta! e di Un Ponte Per stanno svolgendo nella città, e per non offrire spazio a provocazioni che alla fin fine danneggerebbero solo i nostri amici tunisini, abbiamo deciso di non uscire dal centro culturale se non per recarci all’ostello dove passeremo la notte in camerate rigorosamente separate tra uomini e donne. Anche per la cena, usciremo alternandoci a gruppi. Non c’è pericolo di sbagliare ristorante. Ce n’è uno solo in tutta la città!

Quattro chiacchiere al narghilè
Regueb, settimo giorno di carovana - A quaranta chilometri di niente da Sidi Bouzid, si trova il villaggio di Regueb. Uno di quei posti che ci puoi solo capitare o per sbaglio o con Ya Basta! Poco più di 15 mila anime perse nel deserto di una regione in cui la maggior parte della popolazione campa di una semplice agricoltura di sussistenza.
La carovana ci è arrivata in tarda mattinata con l’obiettivo di incontrare gli attivisti di Radio 3 R - tre R che stano per Regueb, Révolution e Renouveau (rivoluzione e rinnovamento) - e intervistare i portavoce di alcune associazioni che lavorano nel territorio come l’Union Diplomé Chomeur (unione laureati disoccupati) e l’Associazion Liberté & Développement. Rimandiamo agli articoli specifici e ai video che abbiamo realizzato, il resoconto di queste attività.
Ma al di fuori degli incontri ufficiali, per noi carovanieri è stata l’ennesima occasione per parlare non solo con gli attivisti politici ma anche con tanta gente del luogo, curiosi di sapere di noi tanto quanto noi eravamo curiosi di sapere di loro. Il mezzo comunicativo per eccellenza, sotto queste latitudini, è senza dubbio il narghilè. Altri costumi, altri tempi, altri cieli. Nel Magreb non è considerata una perdita di tempo starsene spaparanzati dietro un tavolino e chiacchierare scambiandosi il tubo del narghilè, sorseggiando un tè alla mente o alle mandorle. Accade anche che il barista si sieda vicino al suo ospite europeo e cominci a chiedere della sua vita, mentre racconta la sua. Ho conosciuto così Abidi. “A Regueb non si vive male - mi spiega -. Per lo più ci sono persone che lavorano nel terziario. La povertà la trovi più che altro nelle campagne, dove vive la maggior parte della popolazione della regione. Coltivano la terra o allevano le greggi. Ma ne ricavano appena per mangiare. Ci sono anche possedimenti più grandi che non appartengono però a gente del luogo. Qui lavorano le donne”. Perché le donne? “Perché le pagano meno e sono sfruttate di più. Si ammalano respirando i veleni dell’agricoltura, in particolare le porcherie che buttano nelle viti. Alcune sono morte, altre trasmettono le malattie ai figli”. Nessuno si oppone? “Le donne no. Si ritengono fortunate se lavorano. C’è molta rassegnazione ed ignoranza. Studiare, d’altra parte, è costosissimo e pochi se lo possono permettere. Se aggiungi che poi non trovi occupazione nemmeno col titolo di studio...”. Cosa è cambiato con la cacciata di Ben Alì? “Beh, si sta senz’altro meglio. Qui comandava un cugino della moglie ed era una vera disgrazia. Rubava tutto. Adesso c’è la democrazia. Ma l’economia è sempre nella mani degli stessi di prima e su questo fronte non è cambiato niente”. L’integralismo? “Vedi, chi come me lavora le sue ore al giorno, quando va a casa non ha voglia di occuparsi di religione. I salafiti reclutano tra i giovani disoccupati. Ragazzi disperati che non hanno futuro certo. Si sentono disgraziati e derubati perché non hanno né lavoro né soldi per sposarsi e uscire da casa. Da noi è considerata una cosa umiliante. Tieni presente che da noi il matrimonio è ancora combinato dai genitori ed è una cosa costosissima che non tutti possono permettersi. Questi ragazzi sono ricattabili e quindi facili prede dell’integralismo“. Il futuro? “Guarda verso l’orizzonte! E’ come quella tempesta di sabbia che si sta alzando. Potrebbe quietarsi all’improvviso come infuriarsi e spazzare tutto”.

Villaggi resistenti
Menzel Bouzaiene, ottavo e ultimo giorno di carovana - Per raggiungere Menzel Bouzaiene, la prima città che si è ribellata al regime di Ben Alì, bisogna scendere ancora più a sud.
A metà mattinata, lasciamo Sidi Bouzid e il suo sgangherato ostello che definire spartano è dargli eccessivo credito, senza troppi rimpianti. Ricorderemo le due serate trascorse a far assemblea nelle scale comuni perché uscire, come abbiamo già spiegato, ci era stato sconsigliato, le camerate e i piani separati per genere, le estenuanti battaglie con una wifi particolarmente esasperante e gli accesi confronti con gli altri ospiti tunisino dell’ostello. A questo proposito, in un altro articolo racconteremo di un incontro con le donne tunisine impegnate nel cambiamento.
Dopo settanta chilometri di deserto intervallato da coltivazioni di ulivi, raggiungiamo Menzel Bouzaiene, un villaggio di neppure seimila anime e di poche case quadrate e basse, al quale neppure le guide di viaggio più avventurose hanno mai dedicato una nota. Eppure, se battete il suo nome su Google, vi comparirà nello schermo un bel numero di video You Tube che immortalano i violentissimi scontri che qui si sono svolti durante la Primavera. “Quando è cominciata la rivoluzione - ci spiega Mohamed un attivista di Accun - il regime ha cercato di impedire che si diffondessero le immagini e le riprese delle battaglie. Per fortuna mio fratello gestisce un internet point e lo ha messo a disposizione di tutti, spiegando loro come aggirare la censura con i proxy”.
Menzel Bouzaiene è tagliato in due da una lunga linea ferroviaria riservata esclusivamente ai treni merci. Lunghi convogli arrugginiti sferragliano in mezzo al paese per trasportare carichi di fosfati dalle miniere ai porti mediterranei dove vengono stivati per raggiungere le coste di Francia. I sassi su cui poggiano le traversine sono stati le armi con le quali i manifestanti di Menzel Bouzaiene hanno respinto le violente cariche della polizia. “Quando abbiamo saputo della morte di Mohamed Bouazizi, siamo scesi tutti in piazza - continua l’attivista di Accun -. Quando la polizia si è resa conto che non poteva disperderci con le cariche ha sparato e ha ucciso due di noi. Menzel Bouzaiene ha pagato col sangue la rivoluzione. Anche il primo morto nella casbah di Tunisi era del nostro villaggio. I ragazzi da qui partivano a piedi per raggiungere la capitale e dare man forte alla rivolta”.
Ya Basta! sta collaborando con i ragazzi di Menzel Bouzaiene per far vivere un media center. La struttura è già pronta e sorge proprio a ridosso della ferrovia. Adesso si tratta solo di potenziare il parco informatico. “Qui possono venire tutti - continua Mohamed -. Siamo aperti alle donne come ai disoccupati. Pari opportunità vuole dire anche dare la possibilità a tutti di accedere alla rete. Noi di Menzel Bouzaiene sappiamo bene come è importante conoscere e far conoscere quando accade!”
Oggi il villaggio è ancora senza delegato del governo (come dire il sindaco). La polizia è tornata ma non esce dalle caserme e si limita alla normale amministrazione. Molti attivisti però sono ancora in carcere e chi è ancora a piede libero sa bene che rischia la cattura se esce dal villaggio. “Ci sono comunque aggressioni continue e tentativi di arresto. Ieri sera due persone hanno cercato di accoltellare mio fratello. Cosa vi devo dire? Ben Alì è caduto ma per il resto tutto è rimasto come prima. Gli slogan che gridavamo durante la Primavera per chiedere lavoro, uguaglianza e dignità sono gli stessi che dobbiamo gridare ora”.
Dopo aver aver abbracciato i compagni di Accun e i nostri che si fermano a Sidi Bouzid per portare avanti i progetti che vi abbiamo descritto, lasciamo Menzel Bouzaiene, ultima tappa della prima carovana di Ya Basta! nel Maghreb.
C’è appena il tempo di visitare un villaggio berbero che troviamo sulla strada. Ampie grotte scavate nella montagna dove i pastori sostavano durante la transumanza. Alcuni ragazzini ci vengono incontro sventolando la bandiera berbera e ne approfittiamo per scambiare due parole e regalare loro una bandiera di Ya Basta!
Sul pulman che si è messo in moto per raggiungere Tunisi, ci attende una simpatica sorpresa. I ragazzino berberi ci hanno aspettato sui loro motorini e ci scortano per un paio di chilometri. Sorridono e sventolano le nostre due bandiere legate assieme.

Bulgaria, continua la mobilitazione in piazza

Le dimissioni del premier, Boiko Borisov, e l’annuncio delle elezioni anticipate non hanno placato le proteste in Bulgaria. Le piazze di Sofia e delle maggiori città del Paese continuano ad essere presidiate giorno e notte da migliaia di manifestanti che si rifiutano di smobilitare, che hanno accolto con fischi il tentativo del capo dello Stato, Rossen Plevneliev, di calmare gli animi e che rispondono con pietre, bastoni e bottiglie alle cariche della polizia volte a ripristinare l’ordine.
Solo martedì scorso, una delle giornate in cui la protesta ha assunto contorni maggiormente violenti, si sono registrati 25 feriti, mentre a Varna ed a Veliko Tarnovo due manifestanti si sono dati fuoco. Una protesta, questa bulgara, che dura da oltre due settimane e che dopo aver costretto alle dimissioni l’impopolare ministro delle finanze ha travolto tutto il Governo di Borisov, primo ministro e leader dello schieramento di centro destra vincitore delle ultime elezioni. Boiko Borisov, eletto nel 2009, aveva portato avanti una politica di “risanamento economico” tanto benedetta dalla Unione Europea quanto maledetta dai cittadini. Vai a spiegare a quanti non riescono a coniugare il pranzo con la cena che grazie ai tagli del welfare, il debito pubblico è calato al 19,5 per cento del pil! Un “successo” pagato con una macelleria sociale senza precedenti, disastri ambientali cui non si potrà più porre rimedio ed una corruzione oramai istituzionalizzata.


Ma la protesta generalizzata esplosa nelle piazze di Bulgaria non ha denunciato solo il carovita e la corruzione dilagante tra i soliti noti dell’oligarchia politica - composta dagli stessi personaggi che ieri erano filosovietici e oggi sono tutti convinti liberisti. Sotto accusa sta tutta la politica di austerity che ha portato povertà e disperazione, e svenduto il Paese alle multinazionali straniere. In particolare, sotto accusa, sono i gruppi economici che hanno “acquistato” la produzione dell’energia elettrica causando un esponenziale aumento delle bollette. Questo infatti, è indicato da molti analisti come la causa scatenante la mobilitazione che è stata chiamata anche la “rivolta delle bollette”.
Quello che va sottolineato è che la protesta dei bulgari non è a favore di questo o quello schieramento politico. Tutti i tentativi dei partiti all’opposizione di guidare o anche di inserirsi nelle mobilitazioni sono stati respinti con forza dai manifestanti che accusano tutti i partiti, indistintamente, di aver gettato sul lastrico la popolazione. La protesta che non accenna a calmarsi è guidata da associazioni, sindacati di base, gruppi di cittadini appartenenti ad ogni categoria sociale: impiegati statali, professori, studenti, contadini e anche appartenenti ai sindacati di polizia.
Lo slogan più gettonato è “Basta con la miseria e la corruzione”, seguito da “Basta con i monopoli” e “Fuori i partiti, basta con la mafia del potere”.
Sostengono, i manifestanti, di avere tre nemici: i partiti, i politici e le multinazionali straniere. Ma a voler fare una ulteriore sintesi, il nemico è uno solo: quella insostenibile politica bancaria di “risanamento economico” che ha già macellato la Grecia e che, a partire dai Paesi più poveri come la Bulgaria, sta mietendo uno alla volta tutti gli Stati europei.

L'Ungheria tra nazismo e popolismo

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E’ notte fonda a Budapest. E la premesse c’erano tutte. Gli scandali e il malgoverno che hanno travolto il partito socialista al potere da due legislature, la crisi economica che ha devastato soprattutto le categorie più deboli, il rafforzarsi di partiti di destra e di formazioni dichiaratamente naziste e xenofobe. Nessuno si è sorpreso quando, l’11 aprile 2010, il partito conservatore Fidesz ha vinto le elezioni e il suo leader Viktor Orbàn ha riconquistato la poltrona di primo ministro, carica che aveva già coperto tra il ’98 e il 2002. Piuttosto, quello che ha sorpreso anche i più attenti analisti politici è la valanga di consensi alle destre usciti dalle urne: il Fidezs ha ottenuto il 53% dei voti che gli consentono non solo di governare senza sottostare a mediazioni con partiti più moderati come era avvenuto in passato, ma anche di avere i numeri per mettere mano alla Costituzione. Il primo passo è stato il cambiamento del nome dello Stato che da “Repubblica Ungherese” è stato trasformato in un più nazionalistico “Ungheria”. Per Orbàn evidentemente, il termine “Ungheria” da scandire in piedi e con la mano nel cuore, basta e avanza. Cose come “repubblica” o “democrazia” sono aggettivi di secondaria importanza rispetto all’orgoglio nazionalistico. Orgoglio che fa si che qualsiasi manifestazione di protesta venga etichettata, e di conseguenza duramente repressa, come antipatriotica. Anche l’opposizione non scherza, nel parlamento di Budapest. Se si trascura il 7,5 per cento ottenuto dai Verdi, gli unici a tentare di difendere quel che rimane dei diritti civili - una disperata resistenza che pagano quotidianamente con arresti, botte e persecuzioni - va registrato il successo ottenuto dal partito Jobbik (salito dal 2% nel 2006 al 16,7% nelle ultime elezioni) che non fa mistero ma un vanto di richiamarsi direttamente all’ideologia nazista. Tanto è vero che il suo leader, il 31enne Gabor Vona, ha recentemente avanzato una proposta di legge volta a schedare tutti i cittadini di origine ebraica. Un provvedimento giustificato naturalmente con lo scopo di “garantire la loro sicurezza”. Discorsi già sentiti e che fanno correre brividi lungo la schiena. Impossibile non ripensare a quando scriveva Primo Levi: “Inutile chiederci perché. E’ successo. Succederà ancora”.
I neo nazisti di Jobbik, nei fatti, hanno la funzione di appoggiare dall’esterno il governo di Viktor Orbàn, spingendolo sempre più a destra. Gli effetti si sono già fatti sentire. Tutti i giornali di opposizione e anche quelli che semplicemente hanno rifiutato il ruolo di mere passaveline dei comunicati del regime hanno chiuso i battenti. Lo storico Nèpszava ha pubblica la sua ultima edizione riportando una sola frase tradotta nelle 23 lingue europea: “la libertà di stampa in Ungheria è finita". Una disperata richiesta di aiuto alla comunità internazionale che è stata deliberatamente ignorata.


Che aria tiri in quella che sino a poco tempo fa era la Repubblica Ungherese, ce lo hanno spiegato chiaramente i jazzisti dello splendido Szoke Szabolc Quartet che girano l’Europa per far conoscere tanto la loro musica quanto la situazione ungherese. Situazione che trova assai poco eco nei nostri media, tradizionalmente poco attenti a quando accade al di là delle Alpi, anche in Paesi come l’Ungheria che dista non più di tre ore d’auto dalla frontiera.
“Ed è una vergogna perché le formazioni di estrema destra mantengono contatti molto stretti tra di loro - ha spiegato in occasione di un incontro al laboratorio Morion di Venezia, domenica 20 gennaio, Gabor Juhàsz, chitarrista del gruppo -. Sappiamo che qualche tempo fa diversi autobus carichi di nazisti ungheresi si sono recati proprio nella vostra regione per partecipare ad un concerto organizzato dal Veneto Fronte Skinhead. La cosa che più mi sorprende è che è stato fatto tutto alla luce del giorno. La polizia si è limitata a controllare che i mezzi fossero parcheggiati nei posti assegnati mentre dal palco si urlavano inni alla violenza, all’odio etnico e a Hitler. Ma la vostra Costituzione non vieta forse la propaganda dell’ideologia fascista?”
Juhasz, intervistato da Vilma Mazza dell’associazione Ya Basta, ha raccontato le persecuzioni cui sono sottoposti i musicisti e, più generalmente, gli scrittori, gli artisti e tutte le persone che fanno cultura in Ungheria. “Musei, fondazioni, teatri sono stati o chiusi o assegnati a servi del regime che li usano solo a fini propagandistici. La musica però non ha confini e un artista ama sempre la libertà perché sa che senza libertà non si può suonare né produrre cultura. Noi inoltre siamo musicisti jazz che è una forma musicale per sua natura meticcia e transnazionale. Questo è il motivo per cui dobbiamo suonare all’estero. Al regime piacciono più gli inni nazionali e detesta una musica come la nostra che essenzialmente vuol dire libertà e interculturalità”.
Non è solo la cultura a fare le spese della deriva fascista ungherese. Con la nuova Costituzione la magistratura è stata mesa sotto il diretto controllo dell’esecutivo, alla faccia di quella divisione dei poteri che sta alla base delle repubbliche moderne (non è un caso quindi che, come abbiamo detto, il Governo abbia rinunciato al termine “repubblica” davanti ad “Ungheria”). La persecuzione razziale ha colpito soprattutto i rom che sono stati tutti schedati come appartenenti ad una etnia “non ungherese” e che, per lavorare, hanno come unica alternativa inserirsi in un programma di “lavori socialmente utili”. In cambio di uno stipendio da fame, vengono spostati e concentrati in campi di lavoro sorvegliati a vista da poliziotti armati. Le differenza con un lager di concentramento nazista non sono poi molte. Per adesso.
Un altro punto forte del programma elettorale di Orbàn, era quello di pubblicizzare le banche sotto lo slogan che i soldi degli ungheresi sono degli ungheresi. Come immaginerete, si trattava solo di un patetico tentativo a fine populista. Fare le scarpe alle banche non è facile come ghettizzare i rom o schedare gli ebrei. E’ bastata un’alzata di ciglio della Banca Mondiale per far abortire ignominiosamente tutto il progetto. Anche in Ungheria, come in Italia e nel resto del mondo, si potranno anche randellare i diritti e i lavoratori, ma guai a toccare il capitale. Una scelta questa che ha ottenuto l’immediato e caloroso plauso del Governo Cinese. Il ministro dell’Industria di Pechino, il compagno Miao Wei, ha recentemente dichiarato che il suo Paese investirà forti somme nello “sviluppo economico” dell’Ungheria in quanto, ha affermato testualmente, in questo Paese, unico in Europa, la manodopera costa poco e i lavoratori - bontà loro - accampano pochi diritti. Evviva il comunismo e la libertà!
Ecco quanto accade in Ungheria. Un Paese che, come per la Bosnia, si trova ad un tiro di schioppo dall’Italia, ma che nell’opinione comune costruita dai nostri mass media, sembra situato in un altro e lontano continente. Eppure non dovrebbe essere difficile rendersi conto che, in questo mondo globalizzato, quanto accade dietro la porta di casa nostra è come se accadesse a casa nostra. E non solo per una pur imprescindibile questione di giustizia universale che, come ci ha spiegato un tipo chiamato Ernesto Guevara, ci dovrebbe spingere a sentire ogni prepotenza compiuta in un qualsiasi angolo del mondo come se fosse stata fatta contro di noi. Il problema è anche che ogni attacco ai diritti fondamentali che avviene in un qualsiasi paese del Mondo si traduce prima o poi in un attacco simile anche ai nostri diritti fondamentali. Non possiamo più illuderci di poter vivere liberi in un mondo di schiavi.
“Se l’Ungheria perde libertà - ha concluso Vilma Mazza - anche l’Europa perde libertà”.

In Bosnia vince il genocidio

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Ancora, la storia non ha insegnato niente. Le elezioni amministrative di domenica scorsa in Bosnia Erzegovina hanno registrato la netta affermazione dei partiti etnici di destra. Nelle Repubblica Srpska, l'Alleanza Socialdemocratica (Snds) di Milorad Dodik al governo del Paese, è riuscita a mantenere per un pugno di voti solo Banja Luka ma dovuto abdicare in circa metà dei municipi dove governava a favore dei candidati dell‘Sds, il partito nazionalista filo serbo, che durante il conflitto era guidato da Radovan Karadzić.
Speculare il risultato nella Federazione Croato-Musulmana che con la Repubblica Srpska, compone la Bosnia Erzegovina. Anche in casa musulmana, gli elettori hanno premiato i partiti della destra etnica. Il partito di ispirazione islamica Azione democratica (Sda), ha trionfato in 38 dei 78 Comuni della Federazione chiamati al voto. Stesso discorso nei territori croati, dove i nazionalisti dell’Unione Democratica (Hdz), pur con percentuali leggermente più basse rispetto al passato, hanno confermato di essere la maggioranza del paese. Tirando due somme sugli ultimi dati forniti della commissione elettorale governativa, su 138 dei 141 Comuni fino ad ora scrutinati in tutto il Paese, le tre destre etniche hanno conquistato il 55% dei voti. La Sda musulmana ha conquistato 34 sindaci, la SDS serba 27, la HDZ croata 14. Come dire che i serbi hanno votato per i serbi, i musulmani per i musulmani e i croati per i croati. Pressapoco lo stesso risultato ottenuto nelle prime elezioni libere degli anni ’90. Poco dopo il dissolvimento della Jugoslavia. Poco prima della guerra civile.


Un passo indietro di oltre vent’anni.
Grandi sconfitti i due partiti di governo, i Socialdemocratici Multietnici (Sdp) - la sola grande formazione politica transnazionale - e l'Alleanza Socialdemocratica Serba di ispirazione putiniana che ha pagato le spese di una politica economica disastrosa basata su privatizzazioni e tagli al welfare. Val la pena di sottolineare il risultato a sorpresa del “Berlusconi di Bosnia”, Fahrudin Radončić, magnate dell’informazione, che è riuscito a piazzare un suo sindaco nella Sarajevo federale, pur se nel resto del Paese il suo partito si attesta su percentuali molto basse.
Buona nel complesso l’affluenza al voto che si attesta sul 56% per quanto riguarda la Federazione e sul 59% per la Republika Srpsk. In entrambi i casi, di un paio di punti sopra la percentuale delle precedenti consultazioni.
Male invece le liste civiche e di movimento, come gli anti-nazionalisti di Naša Stranka, il partito fondato dal regista Danis Tanović. Cocente sconfitta anche per Zdravko Krsmanović, oramai ex sindaco di Foča, che aveva cercato di portare avanti un coraggioso programma di riconciliazione nazionale in questa cittadina che fu teatro di atroci crimini di guerra e una delle roccaforti di un nazionalismo di ispirazione fascista.
Capitolo a parte per Srebrenica, che non caso è uno dei tre Comuni dove il risultato non è ancora stato ufficializzato. I due candidati, Ćamil Dukarović sindaco uscente musulmano e la sfidante serba Vesna Kočević, combattono sul filo di poche decine di voti.
Qualche casa in croce incastrata in una gola stretta e profonda, con i muri ancora scrostati dalle pallottole, due chiese dove sventola l’aquila serba e due moschee dove gli fa eco la mezzaluna islamica. Srebrenica è tutta qua. Le sue amministrative si meriterebbero appena due righe sul giornale locale se non fosse che durante la guerra il paese è stato teatro di uno dei più atroci genocidi della recente storia europea. Genocidio che i partiti nazionalisti serbi si sono sempre rifiutati di ammettere. La stessa candidata Vesna Kočević, nell’inutile tentativo di smorzare lo scandalo di una sua possibile elezione, ha più volte dichiarato che lei non intende alimentare il “negazionismo”. Anzi, lei non ha difficoltà ad ammettere che durante il conflitto a Srebrenica “furono perpetuati da entrambe le parti molti crimini”. Crimini appunto. E “da entrambe le parti”. Ma definire “crimine” il massacro premeditato di oltre 8 mila civili musulmani, disarmati ed innocenti, è come affermare che il mostro di Firenze era un mattacchione.
Sarà lei, una serba nazionalista, la prossima sindaca del paese dove, per raggiungerlo, bisogna attraversare la spianata coperta di tombe islamiche del memoriale di Potočari?
A cinque giorni dal voto, ancora non ci sono certezze. Lo soglio prosegue nella massima lentezza. Una lentezza che non può non alimentare qualche sospetto.
Srebrenica non ha mai avuto un sindaco serbo. Prima del genocidio, la comunità musulmana era l’80% della popolazione e non aveva difficoltà ad esprimere un suo sindaco. Ma oggi la maggior parte della popolazione rimasta è di etnia serba. I musulmani sopravvissuti ai massacri sono scappati in paesi controllati dalla Federazione.
Neanche a farlo apposta, una recente legge nazionale consente il voto solo ai residenti registrati nelle locali liste elettorali. I musulmani della diaspora sono stati quindi tagliati tutti fuori dal voto. “E’ come se avesse vinto il genocidio - ha commentato Ćamil Dukarović -. Prima ci hanno massacrati, poi buttati fuori dalle nostre terre e ora ci impediscono anche di votare”. Durante la campagna elettorale, Dukarović si è dannato l’anima nel contattare personalmente tutti i musulmani che abitavano a Srebrenica per chiedere loro di registrarsi nelle liste elettorali del paese. Ma che ce l’abbia fatta a tenere il Comune è ancora tutto da verificare. Le urne di Srebrenica, come era da prevedersi, hanno assegnato la vittoria alla candidata serba (3.400 voti contro 2.900) ma le schede che stanno arrivando per posta stanno lentamente spostando l’ago della bilancia verso il bosniacco. Al momento in cui scrivo, Dukarović ha annunciato la sua vittoria dal suo sito internet, mentre alcuni lanci di agenzie internazionali concordano nell’assegnare la maggioranza dei voti alla serba.
Ma comunque vadano le cose, è chiaro che i veri vincitori sono i partiti della destra nazionalista e che in Bosnia ogni ipotesi di riconciliazione è stata sotterrata prima ancora di imparare a respirare. La politica del genocidio ha ottenuto il suo scopo.

Quando i Caschi Blu ti mandano al macello

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Srebrenica - Hasan Nuhanović era là, quel maledetto luglio del ’95, dentro il campo dei caschi blu olandesi di stanza a Srebrenica. Vide i venticinquemila profughi bosniacchi fuggire terrorizzati dalla città caduta in mano agli ultra-nazionalisti serbo bosniaci, ed implorare protezione ai soldati dell’Onu. E vide i caschi blu accogliere le prime 5 mila persone per chiudere poi i cancelli della base e abbandonare tutti gli altri alle efferate rappresaglie dell’esercito nazionalista guidato dal criminale di guerra Ratko Mladiić e dalle formazioni paramilitari "Lupi della Drina" e "Skorpijoni". Hasan era uno dei traduttori in forza al comando dei caschi blu olandesi e partecipò di persona alle trattative in cui il generale Thomas Karremans comandante del Dutchbat decise di accettare le richieste dei serbo-bosniaci e di consegnare anche i profughi che aveva accolto dentro la caserma, fidandosi della parola di Mladic secondo cui “non sarebbe stato fatto loro alcun male”. Toccò a lui, Hasan Nuhanović, tradurre dall’olandese al bosniaco “uscite dalla base in gruppi da cinque e andate dai serbi che vi porteranno al sicuro”. Intanto, - come racconterà un dottore di Medici senza Frontiere - fuori dalla base riecheggiavano già gli spari e le urla delle esecuzioni sommarie. I fascisti stupravano le donne e gli ammazzavano i figli davanti agli occhi.
Tra i cinquemila che uscirono dalla base per andare incontro ai loro carnefici c’era anche il padre, la madre e il fratello di Hasan. Non li rivide più. I loro nomi oggi compaiono tra le 8372 steli bianche del memoriale di Potočari. Attorno al campo, un’ampio spazio verde è pronto per accogliere i corpi di altri 1300, forse 1500 o anche più, assassinati. Il recupero e il riconoscimento dei corpi è una impresa disperata perché, tre mesi dopo l’eccidio, i serbi riaprirono le fosse comuni con mezzi pesanti e straziarono i cadaveri e spargerli in fosse più piccole. Un tentativo crudele quanto inutile e stupido di nascondere un crimine contro l’umanità.


Oggi, Hasan Nuhanović non è poi così diverso da come appare in quel video, girato una quindicina di anni fa, che proiettano al memoriale di Potočari. Il filmato scorre sui volti terrorizzati di donne e bambini in fuga dal paese caduto in mano ai serbo-bosniaci. Scene di guerra, rastrellamenti, cadaveri abbandonati per strada. Con lo sguardo basso, cercando a fatica di mantenere un tono neutro, Hasan racconta i giorni del genocidio. Ma Hasan non si limita a raccontare la storia. Hasan vuole giustizia.
Otto anni fa ha iniziato una causa penale al tribunale di Amsterdam accusando il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori. Il secondo grado di giudizio gli ha dato ragione e l’esercito olandese, che continua a protestarsi innocente, è stato costretto a fare ricorso al terzo grado, quello paragonabile alla nostra Cassazione. Tra un paio di anni, tempi forensi, avremo il giudizio definitivo. Nessuna speranza di ottenere pene detentiva ma un cospicuo risarcimento che Hasan devolverà ad una fondazione per aiutare i parenti delle vittime della strage di Srebrenica a intraprendere la medesima strada legale.
Ho incontrato Hasan Nuhanović questa mattina, al centro giovani di Srebrenica in occasione della settimana della memoria organizzata dalla Fondazione Alex Langer nell’ambito del progetto Adopot Srebrenica.

Hasan, tu hai cominciato una causa in terra olandese, al tribunale olandese, contro l’esercito olandese. Come sta andando?
I tempi legali sono sempre molto lunghi. Il secondo grado di giudizio mi ha dato ragione. Speriamo che anche il terzo grado confermi la sentenza. Sarebbe un precedente importantissimo perché un tribunale stabilirebbe in via definitiva che anche un contingente militare che batte bandiera Onu non può esimersi dalle sue responsabilità richiamandosi ad una responsabilità superiore che per sua natura gode dell’immunità internazionale come le Nazioni Unite.

Quali sono le motivazioni a sostegno della colpevolezza dei caschi blu olandesi?
La linea dell’accusa sostiene che, pur essendo stati uccisi dalle forze serbe, il contingente olandese ha della responsabilità precise perché li ha consegnati ai serbo-bosniaci pur sapendo che il mandato che gli aveva assegnato l’Onu era quello difendere i civili ad ogni costo. Non potevano non sapere che gli assedianti avevano dichiarato che avrebbero passato per le armi ogni uomo di Srebrenica. Infatti la sentenza del giudice che mi dà ragione vale solo per mio padre e mio fratello. Per quanto riguarda mia madre, il tribunale ha sostenuto che il contingente Onu non può dirsi responsabile in quanto i serbo- bosniaci non avevano detto nulla riguardo alle donne. Anche se nei fatti sono state ammazzate lo stesso.

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Come si sta difendendo l’esercito olandese?
Intanto bisogna dire che l’Olanda si è sempre rifiutata di confrontarsi con gli avvenimenti di Srebrenica. Ho dovuto iniziare io la causa perché altrimenti i militari non sarebbero mai stati incriminati (un governo di destra ha assegnato loro addirittura una medaglia al valore, immediatamente revocata dal successivo governo di sinistra.ndr). Spero che la sentenza aiuti a promuovere una discussione sul ruolo dei loro caschi blu nella guerra di Bosnia. Per quando riguarda la difesa, tendono a fare le vittime: ma come? noi ci siamo sacrificati per voi e questo è il vostro ringraziamento? All’inizio semplicemente negavano i fatti. Noi non abbiamo mai mandato fuori dalla base i profughi. Abbiamo fatto il possibile per difendere tutti. Poi, di fronte all’evidenza dei fatti, hanno sostenuto che loro non potevano sapere cosa avrebbero fatto i serbi ai prigionieri. Ma il mandato Onu era proprio quello di difenderli e di verificare che non fosse fatto loro alcun male! E poi non era possibile non udire dalla base gli echi degli spari delle esecuzioni sommarie!
Durante l'operazione Oluja (che significa “Tempesta”.ndr) l'esercito croato entra nella Krajina e conquista Knin, nella costa dalmata. Come è successo a Srebrenica, gli abitanti si sono rifugiati in una base di caschi blu. Ma qui c’erano i canadesi e le cose sono andate diversamente. Il capitano canadese ha detto ai croati che avrebbero dovuto passare sul suo cadavere prima di mettere le mani anche su un solo rifugiato e alla fine nessuno è stato ucciso. Certo, Ratko Mladic era un pazzo sanguinario. Magari avrebbe anche attaccato le forze Onu... ma la paura non può essere una giustificazione per un soldato.

Gli olandesi hanno anche sostenuto che non c’era spazio nella loro base per le 25 mila persona in fuga.
Hai visto anche tu la base. I 5 mila profughi che inizialmente sono stati accolti occupavano solo la rimessa dei mezzi. Tutti gli altri edifici erano vuoti. E poi c’era il campo attorno alla base. No. Lo spazio c’era. Anche le riprese aeree lo hanno dimostrato. Su questo punto i giudici non hanno avuto nessun dubbio. I soldati avrebbero potuto, avrebbero dovuto, aiutare e difendere tutti i 25 mila rifugiati. Ed invece hanno scelto di mandare a morire anche quelle 5mila persone che inizialmente avevano accolto.

Come sei riuscito a dimostrare al tribunale che il comando olandese ha avuto delle corresponsabilità precise nel genocidio?
Non ho mai commesso l’errore di mettere la mia parola contro quella dei generali olandesi. Io so che mi hanno fatto tradurre alla mia gente: “Mettetevi in fila per cinque e andate dai serbi che non vi faranno del male”. Ma loro avrebbero negato tutto. No. Ci sono i fatti che parlano al posto mio. I documenti che registrano l’ingresso di 5 mila persone che poi non c’erano più. Le testimonianze dei Medici senza Frontiere che erano al campo e degli stessi soldati olandesi che oggi pingono quando visitano Potočari. I fatti sono incontestabili. Il problema piuttosto è il livello di responsabilità. Io sostengo che gli olandesi dovevano difendere la popolazione e non lo hanno fatto, quindi sono colpevoli.

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Ecco che siamo arrivati al punto. Perché gli olandesi si sono comportati così?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Di sicuro la caduta di Srebrenica e la consegna di tutti i profughi ai serbo-bosniaci per loro è stata una benedizione. Il mandato ordinava loro di rimanere a presidiare la zona sino a che ci fosse stato anche un solo civile da difendere. La sera stessa che hanno mandato i profughi a farsi massacrare hanno telefonato al comando di Sarajevo dicendo che davano inizio alle operazioni di rientro. Da qualsiasi parte la vuoi guardare, questa è un modo di agire immorale, inumano e illegale. Non parlo solo della cacciata dei profughi ma anche della giustificazione bugiarda che dai al tuo comando: non è rimasto più nessuno da difendere quindi noi torniamo a casa. Ma non ci sono più perché li avete mandati voi al macello! La sera stessa i telegiornali li hanno immortalati a Zagabria, mentre festeggiavano quella che per loro era la fine della guerra. E il generale Karremans, tutto sorridente, si scambiava “doni di pace” con Mladic.
Devi considerare che è anche una questione di mentalità. Un contingente spagnolo o francese non si sarebbe mai comportato così. Non perché siano più buoni o più bravi, ma per una questione di dignità. Non si sarebbero permessi una vergogna di questo livello.

Cosa intendi per mentalità?
Intendo che tra i soldati del contingente olandese, parlo a tutti i livelli, serpeggiava un razzismo neanche tanto nascosto. Non solo nei confronti dei musulmani ma anche dei serbi. Popoli slavi dagli istinti primitivi e tribali, ci consideravamo. Certo questo non posso dimostrarlo e non sono neppure cose che si possono mandare a processo. Ma spiegano comunque certi atteggiamenti di superiorità e di menefreghismo nei confronti di coloro che dovevano proteggere. Dovevano rappresentare parte della soluzione del problema ed invece si sono dimostrati parte del problema. Ripeto, se invece degli olandesi ci fossero stati altri... Gli olandesi si comportavano come se la cosa non li riguardasse, come se fossero semplici osservatori intoccabili e dotati di immunità in una guerra di gentaglia primitiva e sanguinaria.

La religione ha giocato un ruolo importante nel conflitto?
No. Ha giocato un ruolo importante casomai nell’escalation del conflitto. Quella nata dal disfacimento della Jugoslavia è stata una guerra di conquista territoriale e basta.
La prima guerra è stata in Slovenia, la seconda Croazia. Tutti paesi cristiani. Quando è arrivata in Bosnia la religione ha giocato un ruolo solo per i politici che cercavano di manipolare la realtà dei fatti per ottenere consensi nazionali o internazionali. Ma gli stessi musulmani bosniaci non si ritenevano neppure una comunità. Se i serbo-bosniaci attaccavano un villaggio dicevano “a noi non succederà. Con i serbi di qui siamo sempre andati d’accordo”.

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Come è la Bosnia oggi?
Nessuno parla di quello che è successo durante la guerra. Non ci sono neppure tentativi di comunicazione tra le parti. Ognuno fa la sua vita e segue aspettative radicalmente diverse. I musulmani sperano di ritornare nei luoghi da cui sono stati cacciati e di ridiventare maggioranza. I serbo-bosniaci sperano che i profughi restino dove sono e che le terre che oggi occupano si stacchino dalla Bosnia ed entrino nella Serbia. Entrambe le aspettative sono assurde ed irrealizzabili. I musulmani oggi occupano il trenta per cento del territorio. In uno spazio così piccolo non potranno mai diventare maggioranza nel Paese. Ma anche il passaggio territoriale di mezza Bosnia alla Serbia è una prospettiva irrealizzabile. Eppure, da una parte e dall’altra, politici che tra loro non si parlano continuano a promettere alla loro gente questi orizzonti irraggiungibili. Cosa succederà quando tutti capiranno che né una cosa né l’altra potrà accadere sino a che esisteranno o i serbi di Bosnia o i musulmani di Bosnia?

Lo Stato Che Non C'è nel cuore dell’Europa

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Odessa - Inutile cercarla sulla carta geografica. La democratica repubblica comunista della Transnistria non è segnata su nessuna mappa. Ma se viaggiate attraverso la Moldavia, da ovest ad est, come sto facendo io, con l’intenzione di raggiungere il confine ucraino, rischiate di cascarci dentro. E sono cavoli vostri perché da queste parti la legge la detta solo chi ha un Kalashnikov in mano! Stiamo parlando di una specie di Isola Che Non C’é, dove però Capitan Uncino ha fatto fuori Peter Pan e se la governa da padrone.
Per l’Europa e per la comunità internazionale, la Transnistria semplicemente non esiste. Quella lunga e stretta striscia di terra sulla sponda orientale del fiume Nistro che fa da cuscinetto tra la Moldavia e l’Ucraina, appartiene giuridicamente alla Moldavia. Ma nei fatti, è una repubblica perfettamente indipendente con tanto di polizia, esercito, prigioni, bandiera, moneta propria, presidente (dittatore) e parlamento. Ma è uno Stato che nessun altro Stato sulla faccia della terra si sognerebbe mai di riconoscere, fatto salvo per altri Governi non riconosciuti da nessuno come l’Abcasia e l’Ossezia del Sud.


Le rivendicazione territoriali della Moldavia che continua a ritenere la terra a ridosso del fiume Nistro come un suo territorio, la lasciano perfettamente indifferente. Il governo di Chisinau non né la forza politica né quella militare per riprendersi quella regione che nel 2 settembre del 1990 si è dichiarata unilateralmente indipendenti in seguito ad un colpo di mano della 14ª armata dell’esercito sovietico stanziata a Tiraspol, oggi capitale dello Stato fantasma, approfittando della confusione legata alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Proprio la dissoluzione gigante sovietico ha decretato la fortuna economica e di conseguenza anche quella politica di questa repubblica della banane. Subito dopo aver dichiarato l’indipendenza, i generali della 14ª armata hanno cominciato a mettere sul mercato l’unico bene a loro disposizione: le armi dell’armata Rossa. La Transnistria è diventata così un gigantesco bazar dove, pagando sull’unghia, si può comperare di tutto: mitraglie Policeman, pistole Makarov, lanciarazzi anticarro Rpg7, lanciamine Vasiliok, lanciagranate Gnom e Spg9, razzi Bm 21 Grad, missili portatili Duga. Per non parlare di tutte le enormi quantità di materiali nucleari, chimici e radioattivi stoccati nei depositi oggi abbandonati dell’esercito sovietico, come i famigerati missili Alazan dotati di testata agli isotopi radioattivi che fino a qualche anno fa erano piazzati all’aeroporto di Tiraspol e di cui si sono oggi perse le tracce.
A tenere le redini di questa ebay del terrore è la mafia russa che in questo Eden del contrabbando della droga, del petrolio e delle armi non è mai neppure stata dichiarata una organizzazione illegale. Anzi, alle ultime elezioni ha democraticamente fatto eleggere l’attuale “presidentissimo” con la percentuale del 103% degli aventi diritto al voto. Neanche i conti, sanno fare!
Il tutto, sotto le bandiere di un vetero comunismo che farebbe la felicità di certi nostalgici amici miei. La Repubblica della Transnistria infatti è tutt’oggi il solo Stato a dichiararsi ufficialmente leninista con gran sventolio bandiere rosse, falci e martelli, gigantografie di Marx, Lenin, Stalin, orride statue ad eroi operai.
Qualche ingenuo potrebbe domandarsi come possa la comunità internazionale tollerare l’esistenza di un tale “Stato Canaglia” senza che nessun politico si sogni mai di proporre contro la Transnistria anche solo un centesimo di quelle sanzioni che ancora oggi continuano ad impoverire Cuba. La risposta è semplice. La Transnistria è utile quanto, e forse più della Svizzera: in questa sottile striscia di terra vengono a rifornirsi, come ad in un gigantesco “discount”, dittatori, stragisti, servizi segreti più o meno deviati, mafie e gruppi terroristici di tutto il mondo. Non c’è da meravigliarsi se quando si parla di politica internazionale, tutti facciano finta che la Transnistria non esista. Eppure la Transnistria esiste, eccome. E se ci cascate dentro - e non sieste dei mafiosi - vi obbligano pure a pagare tutto due volte. Ogni spesa infatti viene effettuata prima con la moneta della Transnistria (che è come dire i soldi del Monopoli o quelli col muso di Bossi) e poi in rubli (che valgono sul serio). Il cambio, alla frontiera, è ovviamente obbligatorio. E provate voi a dire di no ad uno che vi punta il kalashnikov sulla pancia.
Benvenuti nella libera repubblica della Transnistria. Secondo stella a destra, questo è il cammino.

La guerra nascosta sotto il Tetto del Mondo

DSC06546Dushanbe - Nel leggere i comunicati diffusi dal ministero della guerra tajiko, nel Pamir sarebbero in atto solo delle “scaramucce tra l’esercito regolare e bande di trafficanti di droga”. Sempre secondo questi comunicati, che la maggior parte dei media occidentali ha ripreso pari pari e senza nessuna verifica - a dimostrazione dell’interesse praticamente nullo che tanto l’Europa che gli Usa nutrono per questo angolo di mondo -, si sarebbero registrati non più di venti morti dall’inizio di agosto ad oggi, equamente divisi tra militari e narcotrafficanti.
Fatto sta che queste cosiddette “scaramucce” sono tuttora in atto e, anzi, si stanno intensificando, tanto che l’ambasciata tedesca di Dushanbe si è assunta l’incarico di radunare tutti gli europei presenti nel sud del Paese e riportarli a casa. Anche l’ingresso nel Paese è diventato più difficile. Ottenere un visto turistico o anche lavorativo per il Tajikistan, lo so per esperienza diretta, è oggi una impresa più difficile del consueto. E anche quando riesci ad ottenere il sospirato visa (non di rado allungando qualche mazzetta da un centinaio di dollari ai funzionari dell’ambasciata), un timbro supplementare mette in chiaro che il tuo permesso di ingresso “non vale per il Pamir”.


Viene il dubbio quindi che quanto sta succedendo sotto il Tetto del Mondo, non siano solo “scaramucce tra esercito e banditi”.
Anche se i giornali locali fanno a gara per riprendere i comunicati ufficiali del Governo senza uscire di una sola virgola - da queste parti si finisce in galera per molto meno! - le storie che ti raccontano la gente per strada, i viaggiatori allontanati dal Pamir e i volontari delle tante ong impegnate in progetti di sostegno con fondi europei, sono completamente diverse. I morti, intanto. L’esercito avrebbe subito perdite superiori ai duecento soldati. “Hanno mandato sulle montagne i ragazzini di 18 anni appena arruolati e i pamiri li hanno fatti a pezzi” mi ha detto un amico di qui al quale, scusatemi, ho promesso l’anonimato. “Il Governo ha cercato di nascondere tutto quello che è successo parlando di lievi perdite e cercando di sminuire gli avversari. Ma la realtà dei fatti è che i pamiri hanno sempre mantenuto il controllo delle loro montagne. Dalla fine della guerra civile non è cambiato niente da quelle parti. Questa estate, l’esercito ha cercato di riprendere il controllo di un territorio che è una delle porte del traffico di droga proveniente dall’Afghanistan, ma da come vanno le cose, le sta prendendo di brutto. Anche la televisione di regime manda in onda solo immagini di repertorio e chiacchiera di una serie di ‘importanti vittorie ma parziali’. Che è come dire che stanno perdendo”. La prima vittima di una guerra, si sa, è sempre la verità.
Durante i cinque anni di guerra civile, dal ’92 1l ’97 (cinque anni ufficiali, nei fatti gli scontri nel Pamir si sono protratti per altri due anni sino a che l’esercito non si è ritirato), i pamiri, popolazione con una forte presenza ismaeleita, hanno combattuto dalla parte della fazione perdente, il partito islamico. L’avvento del presidentissimo Emomali Sharifovich Rahmon, padre padrone della patria, ha posto fine ai combattimenti ma, di fatto, l’esercito si è ritirato sia dalle provincie più a sud, il Pamir, che da quella ad est del Paese, il Gorno-Badahšan, dove in pratica non ha autorità.
I problemi maggiori sono però nel Pamir, dove sono duri ai banchi gli ismaeliti, una potente fazione sciita, riconosce come capo spirituale solo l’Aga Khan che li finanzia generosamente, così come fa il governo di Teheran.
Quella che accade nel Pamir insomma, è una vera e propria guerra civile che rischia di mettere a dura prova la credibilità interna del presidentissimo Emomali Rahmon e del suo regime talmente “democratico” che non ha bisogno di indire libere elezioni per seguire la volontà del popolo. Rahmon si è fatto costruire da un architetto italiano una sede presidenziale proprio nel mezzo di Dushanbe che è la copia esatta della Casa Bianca. Gli orridi palazzoni della città - dei veri e propri incubi architettonici! - sono pieni di sue gigantografie che lo ritraggono mentre coglie il grano o sorride al popolo in mezzo a campi di papaveri. Palazzoni che sono quasi tutti di sua proprietà o di proprietà di qualcuno dei suoi nove figli. La figlia maggiore in particolare, sembra abbia una vera a propria vocazione da “palazzinara”, come diremmo in Italia.
Il post sovietismo in Tajikistan ha traghettato tutto il peggio dell’ex Cccp ma senza poter contare sulle sue risorse economiche. La scuola, la sanità, i principali servizi civili sono gratuiti ma è come se non ci fossero. La delinquenza è praticamente sconosciuta ma la corruzione è eletta a una vero e propria attività commerciale che nessuno può evitare come non si può evitare di uscire di casa per andare a fare la spesa. Lo studente che vuole passare l’esame deve pagare il professore, il professore che vuole lavorare deve pagare il preside, il preside il provveditore e il provveditore il ministro. Il ministro infine deve consegnare una percentuale dei suoi guadagni a lui, al presidentissimo, e alla sua famiglia di squali. Tutto questo “commercio” in nero ha una ricaduta pesantissima sulla società. Uno come il Trota qui, potrebbe diventare medico o ingegnere in due giorni e senza scandalizzare nessuno. Le lauree le vendono un tanto al chilo. Ma negli ospedali aperti al popolo, dove le attrezzature sono ferme a vent’anni fa, mai rinnovate e mai sottoposte a manutenzione, trovare qualcuno in grado di formulare una diagnosi corretta è praticamente impossibile. Così gira la ruota in Tajikistan. La droga che arriva dall’Afghanistan qui non crea problemi sociali perché non si ferma che per elargire le regolari mazzette ai funzionari di frontiera. I trafficanti sono riconoscibili a vista. Girano in auto fiammanti di grossa cilindrata, sgommando ai semafori con accelerazioni da formula uno, mentre i poliziotti, presenti ad ogni angolo di strada, girano la testa per far finta di non vedere.
“Rahmon? Sì, ruba, lo sappiamo tutti che ruba - mi sono sentito rispondere da più persone del posto -. Ma lui ha portato la pace dopo la guerra civile. Meglio lui che gli islamici. Noi siamo musulmani ma siamo abituati a bere birra e vodka, i precetti li osserviamo ma anche non li osserviamo. In moschea a pregare regolarmente qui ci va il 10 per cento della gente”. E così a denunciare la corruzione del regime come un male sociale sono solo i mullah sunniti che rimproverano al presidentissimo di essere più incline ai principi dello zoroastrismo che a quelli del Corano. La risposta di Rahmon non si è fatta attendere: ha chiuso tutti i centri salafiti - ristoranti compresi - e richiamato in patria tutti i giovani tajiki che studiavano nelle madrasse (scuole di teologia) estere.
Decisioni che non sembrano sufficienti a fermare l’avanzare dell’islamismo. A Dushanbe il numero di donne che abbandona il copricapo tajiko (in pratica un fazzolettone colorato annodato dietro la nuca alla contadina) per il velo islamico, che non fa assolutamente parte della tradizione locale, è sempre più alto. In un Paese in cui l’organizzazione politica o sindacale è un reato contro lo Stato e se scendi in piazza per protestare ti sparano, la moschea è l’unico luogo in cui può ritrovarsi chi è schifato da un regime che ha eletto la corruzione a principio democratico.
La guerra civile che si combatte sul Tetto del Mondo rischia di precipitare sino a Dushanbe.

La piccola dea di Kathmandu

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Kathmandu, Nepal - L’ultima volta che sono passato per Kathmandu, sono andato a vedere la Kumari. La dea bambina si è affacciata dal balcone che dà sul cortile interno del Kumari Ghar, la “casa dell’incarnazione” in cui vive prigioniera. Se ne è rimasta una ventina di secondi a guardare dall’alto in basso i suoi fedeli adoranti come se fossero trasparenti e poi è tornata dentro. Dietro il rimmel che le alterava lo sguardo e l’Occhio di Fuoco, il sacro chakchuu, che le orna sempre la fronte, la piccola aveva l’aria un po’ scazzata. Certo non deve essere facile fare la dea bambina... Io, che ho una spiccata tendenza naturale a fare la cosa sbagliata nel momento sbagliato, le ho fatto “ciao ciao” con la mano ma la piccola dea non mi ha risposto. Mi hanno spiegato che potevo ritenermi assai fortunato. Se la Kumari avesse anche solo posato gli occhi su di me come minimo mi toccava una grave perdita finanziaria. Se avesse tremato (eventualità da non scartare, considerato che in Nepal fa un freddo da battere brocche) sarei finito presto in galera (altra eventualità da non scartare per tutta una serie di vicende che non vi sto a raccontare). E se, sempre nel guardarmi, le fossero lacrimati gli occhi, oltre a rovinarsi il trucco, avrebbe significato che per me era già stampato un bel biglietto di sola andata per andare a spalare carbone nelle miniere di messer Satanasso. Come direbbe il mio amico Tex Willer.


Insomma, c’è tutta una cabala interpretativa dei gesti della piccola dea che i fedeli che dalla sera alla mattina affollano il cortile del suo palazzo, prendono per oro colato. Una cabala tutta in negativo. Anche se la Kumari ride o scherza, per te sono comunque cavoli amari. L’auspicio migliore, mi hanno raccontato, si ha quando la dea si comporta come se non si accorgesse di te. E se ci riflettete un momento, in questo concetto ci potete trovare una profonda saggezza sul rapporto sbilanciato che ha l’uomo con il suo dio, comunque se lo immagini. Solo nelle religioni occidentalizzate, e più ricche, il credente si rivolge a dio per ottenere un guadagno. Tra gli altri popoli va già bene quando la divinità ti risparmia le consuete disgrazie.
Bisogna anche anche considerare che, alla fin fine, la Kumari è l’incarnazione sì di una dea, ma di una dea terribile: Kalì, l’inaccessibile.

Una partita a dadi
La leggenda che sta alla base del culto della dea bambina di Kathmandu racconta che in una fresca notte d’estate - e vi assicuro che da quelle parti anche in estate le notti sono sempre fresche - il re Jayaprakash Malla giocava a dadi con la dea Durga, cosa che gli capitava di fare di sovente, considerato che la dea era la patrona del suo lignaggio reale. Adesso dovete sapere che la dea Durga, una delle tante versioni di Kalì, era quella che popolarmente viene definita una gran figa e, per non indurre in tentazione i poveri mortali, mascherava la sua avvenenza dietro un manto di divinità. Tutto procedeva come al solito, quella sera: il re stava bene attento a non vincere e la dea si godeva la sua partita a dadi pensando di essere una grande giocatrice quando nella stanza entrò un grosso serpente rosso. Credo che non ci sia bisogno di scomodare Freud per spiegarvi che cosa significa l’arrivo del grosso serpente, giusto? Fatto sta che nelle testa del povero re cominciarono ad affastellarsi una serie di pensieri assai poco decenti su cosa avrebbe voluto farci con quel gran pezzo di divinità invece di stare a perder tempo con quello stupido gioco. Ma Durga - Kalì si accorse subito del mutato atteggiamento del re che invece di guardare i dadi le guardava altre cose. Si infuriò come solo una dea terribile sa infuriarsi. Uscì dal palazzo reale sbattendo la porta e avvertendo il re che non sarebbe più tornata se non incarnata in una bambina pura - Kumari significa per l’appunto “vergine” - che lui avrebbe dovuto onorare col rispetto che si deve ad una dea. Cominciò così la ricerca della bambina posseduta dallo spirito di Durga - Kalì e nacque il culto della Kumari, la piccola dea protettrice della dinastia reale e di tutto il popolo nepalese.
Questa perlomeno è una delle tante leggende, così come mi è stata raccontata. Di mio ci ho messo solo il termine “gran figa” per rendervi bene l’idea. Ma vi avverto che esiste perlomeno un altro centinaio di versioni sull’origine della Kumari. E tutte diverse. La verità, tanto nella storia quanto nel mito, è un concetto tutto nostro. In Nepal non gliene frega niente a nessuno e ciascuno la racconta come la vuole.

Nel bel mezzo di Kathmandu
Oggi la Kumari, che quando era soltanto una bambina si chiamava Matina Shakya, abita l’antico palazzo di legno nero e di mattoni rossi posto a lato della Durbar Square, la piazza principale di Kathmandu. La porta del cortile su cui si affacciano i balconi dell’appartamento della dea, al primo piano, è sempre aperta. Dentro ci trovate a tutte le ore del giorno varie decine di fedeli che fremono nell’attesa che la Kumari appaia alla finestra. Attendono anche delle ore tra i fiori profumati del cortile, pregando sottovoce per non disturbare sua santità. In un angolo c’è una piccola porta, anch’essa sempre aperta, che conduce direttamente alle stanze della dea. C’è solo un cartello che ti prega di non entrare a meno che tu non sia la reincarnazione del dio Rama che nel “Who is who” delle divinità induiste sarebbe lo sposo della dea Kalì. Io sono stato lì lì... ma poi ho deciso che fare la reincarnazione di Rama era troppo pure per me. Sono stato comunque fortunato perché dopo un paio di minuti sul balcone si è affacciato il Chitaidar, per metà sacerdote e per metà maggiordomo della Kumari, per avvisare che sua santità stava per degnarsi di mostrare il suo bel viso. Mentre tutti si inginocchiavano, mi si sono avvicinate le guardie del palazzo per ordinarmi di tener buona la reflex, che fare foto non ufficiali della dea era strettamente proibito. Al diavolo anche le divinità incarnate! Venti secondi dopo era già tutto finito. I fedeli con l’aria soddisfatta - la Kumari non li aveva cagati neppure di striscio - uscivano cercando fantasiose interpretazioni sui battiti delle lunghe ciglia della piccola dea. Solo allora mi venne da riflettere che nel cortile c’erano sia fedeli induisti che buddisti. La cosa mi colpì alquanto (nonostante tutti i viaggi che ho fatto continuo a ragionare da occidentale e cerco le contraddizioni su tutte le cose). Come è possibile che la stessa dea incarnata sia venerata da due religioni diverse? Ma ciò può stupire solo chi non conosce - e conoscere vuol sempre dire amare - questo incredibile Paese dove la marjuana cresce spontanea ai bordi delle strade. Per i nepalesi pregare è un atto naturale come vivere, mangiare e fare l’amore. Dei e dee ce ne sono tanti, conosciuti e sconosciuti, e neppure il bramino più santo può vantarsi di padroneggiare a fondo tutta la sterminata biblioteca sacra. I comportamenti delle divinità, se possono insegnare qualcosa all’uomo, alla fin fine risultano misteriosi proprio come misteriosa, alla fin fine, è la nostra vita su questo piano di esistenza. Girare in senso orario attorno ad uno stupa che simboleggia buddha o rintoccare le mille campanelle attorno ad un tempio per attirare l’attenzione di Visnù non vale né più né meno che inginocchiarsi davanti ad un crocifisso o in direzione di un mihrab sciita. “Gli dei sono molto suscettibili ed è bene pregarli tutti“ mi ha spiegato l’amico nepalese che mi ha fatto da interprete e che, quando viene in Italia, non trascura mai di andare a sentire qualche messa. L’amico mi ha pure confessato che trova molto sciocco l’atteggiamento di tanti occidentali, convinti che il loro dio sia unico e migliore degli altri. Mi ha chiesto perché continuiamo a ragionare come dei bambini ma non ho saputo dargli una risposta.

Kumari si nasce
Vale la pena di spendere due parole su come viene scelta, oggi come cento anni fa, la Kumari. Per prima cosa la bambina deve appartenere all’alta casta Newar Shakya propria di chi lavora o commercia oro, argento e pietre preziose. I suoi genitori devono risiedere a Kathmandu da almeno tre generazioni e essere di provata fedeltà alla famiglia reale. Alla sua identificazione partecipano otto grandi saggi tra i quali il sacerdote induista di Durga, alti prelati buddisti e l’astrologo del re. La candidata deve essere perfetta nel fisico, non avere cicatrici e presentare le cosiddette “32 perfezioni divine” tra le quali figurano: occhi neri e profondi, piedi e braccia proporzionate, cosce di daino, organo sessuale non sporgente, lingua piccola, corpo come un banano (non ho capito cosa significhi), guance come quelle di un leone (come prima), ciglia come quelle di una mucca (ancora meno), denti perfetti e... una bella ombra!
Una volta dimostrato di possedere questi requisiti - e vorrei sapere come fanno a valutare l’ombra - la candidata deve sottoporsi ad una serie di esami atti a testarne il carattere divino. La Kumari non può piangere ma nemmeno ridere. Una dea infatti è sempre disinteressata alle vicende umane. Deve essere soprattutto una bambina tranquilla, considerato che ogni suo movimento viene sempre interpretato in termini di spaventose sciagure per i fedeli e per il Paese. Per saggiarne la “tranquillità” le bambine vengono sottoposte ad una prova terrificante: sono chiuse in una stanza buia riempita di teste di capre mozzate e di bufali scannati mentre uomini mascherati da demoni urlano per spaventarle. La bimba che si addormenta “tranquilla” è la vera Kumari.
Quando mi hanno raccontato questa storia, ho chiesto cosa fanno ingurgitare (o fumare) alla povera dea prima della prova ma mi hanno risposto che “sono riti segreti”.
Il compito della Kumari è fondamentalmente quello di farsi adorare e di porre la tika, il sacro segno rosso, sulla fronte del re del Nepal che una volta all’anno si reca nel suo palazzo per baciarle i piedi. Per tutta la durata della sua carica, la Kumari non può lasciare i suoi appartamenti se non in rare celebrazioni religiose dove viene trasportata su una speciale portantina dorata. I sacri piedini della dea non possono mai posarsi sul vile terreno. Neppure le scarpe può indossare. Al massimo calze ma solo se di seta rossa. Dopo che gli otto saggi hanno riconosciuto la sua divinità, i genitori si fanno immediatamente da parte e potranno rivedere la figlia dea solo in casi eccezionali e nelle vesti di semplici fedeli. Alla fanciulla sono concessi solo due compagni di gioco attentamente selezionati tra i bambini maschi della sua casta. Ovviamente la Kumari non va a scuola. Una dea sa sempre tutto. Il suo Chitaidar copre comunque anche le funzioni di precettore, pur se non può certo costringerla a studiare e neppure chiederle di impegnarsi in una cosa qualsiasi. Tutto le viene insegnato solo le lei lo desidera.

Kumari non si muore
La dea bambina rimane in carica sino alla prima perdita di sangue. Il che non significa necessariamente la prima mestruazione. Basta anche una piccola ferita o un graffio. Quando capita, la dea Kalì si riprende la sua divinità e va alla ricerca di un’altra bambina meritevole di ricevere cotanto dono. L’oramai ex Kumari viene accompagnata fuori dal palazzo e privata di tutta la sua venerabilità dopo un’ultima una cerimonia che dura 4 giorni. Chi lo sa come appare in quel momento il mondo che sta fuori dal cortile del Kumari Ghar alla piccola ex dea? La ragazzina fa ritorno alla sua famiglia con il solo conforto di un vitalizio di circa 6 mila rupie al mese. Neanche 100 euro per noi ma quattro volte un salario medio per un nepalese. In futuro potrà anche sposarsi se lo desidera, ma il suo sposo, racconta la tradizione, è destinato a morire tossendo sangue dopo circa sei mesi dalle nozze.
Ma il Kumari Ghar, il palazzo prigione della piccola Kalì, rimarrà vuoto solo per poco tempo. A Kathmandu gli otto si mettono immediatamente alla ricerca un’altra Kumari mentre la vita sotto il Sagaramāthā, la Grande Madre Celeste che gli inglesi hanno voluto chiamare Everest, scorre come tutti gli altri giorni.
Di giorno, quei catorci che qui chiamano automobili si incolonnano in file lunghe chilometri davanti ai distributori vuoti. Di notte, il flusso della corrente elettrica si interrompe puntualmente, nonostante le quotidiane dichiarazione del Governo che tutto funziona alla perfezione, e l’intera vallata piomba nel buio. La gente per scaldarsi esce di casa e accende grandi falò ai bordi delle strade. Sono le uniche luci che illuminano l’ampia valle del Bagmati dopo la luna e le stelle. Vista dall’alto, dal santo monastero buddista di Kopan dove i monaci intonano con voce profonda l’om padme hum, Kathmandu sembra uno sterminato accampamento di nomadi. Quando il partito comunista ha vinto le elezioni ponendo fine alla guerra civile, l’India e la Cina hanno staccato la spina dei rifornimenti energetici. La vita è dura per “questa piccola radice tenera che cerca di crescere tra due macigni” come recita un antico detto sul Nepal.
Ma tutto questo la Kumari non lo sa.
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