La piccola dea di Kathmandu

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Kathmandu, Nepal - L’ultima volta che sono passato per Kathmandu, sono andato a vedere la Kumari. La dea bambina si è affacciata dal balcone che dà sul cortile interno del Kumari Ghar, la “casa dell’incarnazione” in cui vive prigioniera. Se ne è rimasta una ventina di secondi a guardare dall’alto in basso i suoi fedeli adoranti come se fossero trasparenti e poi è tornata dentro. Dietro il rimmel che le alterava lo sguardo e l’Occhio di Fuoco, il sacro chakchuu, che le orna sempre la fronte, la piccola aveva l’aria un po’ scazzata. Certo non deve essere facile fare la dea bambina... Io, che ho una spiccata tendenza naturale a fare la cosa sbagliata nel momento sbagliato, le ho fatto “ciao ciao” con la mano ma la piccola dea non mi ha risposto. Mi hanno spiegato che potevo ritenermi assai fortunato. Se la Kumari avesse anche solo posato gli occhi su di me come minimo mi toccava una grave perdita finanziaria. Se avesse tremato (eventualità da non scartare, considerato che in Nepal fa un freddo da battere brocche) sarei finito presto in galera (altra eventualità da non scartare per tutta una serie di vicende che non vi sto a raccontare). E se, sempre nel guardarmi, le fossero lacrimati gli occhi, oltre a rovinarsi il trucco, avrebbe significato che per me era già stampato un bel biglietto di sola andata per andare a spalare carbone nelle miniere di messer Satanasso. Come direbbe il mio amico Tex Willer.


Insomma, c’è tutta una cabala interpretativa dei gesti della piccola dea che i fedeli che dalla sera alla mattina affollano il cortile del suo palazzo, prendono per oro colato. Una cabala tutta in negativo. Anche se la Kumari ride o scherza, per te sono comunque cavoli amari. L’auspicio migliore, mi hanno raccontato, si ha quando la dea si comporta come se non si accorgesse di te. E se ci riflettete un momento, in questo concetto ci potete trovare una profonda saggezza sul rapporto sbilanciato che ha l’uomo con il suo dio, comunque se lo immagini. Solo nelle religioni occidentalizzate, e più ricche, il credente si rivolge a dio per ottenere un guadagno. Tra gli altri popoli va già bene quando la divinità ti risparmia le consuete disgrazie.
Bisogna anche anche considerare che, alla fin fine, la Kumari è l’incarnazione sì di una dea, ma di una dea terribile: Kalì, l’inaccessibile.

Una partita a dadi
La leggenda che sta alla base del culto della dea bambina di Kathmandu racconta che in una fresca notte d’estate - e vi assicuro che da quelle parti anche in estate le notti sono sempre fresche - il re Jayaprakash Malla giocava a dadi con la dea Durga, cosa che gli capitava di fare di sovente, considerato che la dea era la patrona del suo lignaggio reale. Adesso dovete sapere che la dea Durga, una delle tante versioni di Kalì, era quella che popolarmente viene definita una gran figa e, per non indurre in tentazione i poveri mortali, mascherava la sua avvenenza dietro un manto di divinità. Tutto procedeva come al solito, quella sera: il re stava bene attento a non vincere e la dea si godeva la sua partita a dadi pensando di essere una grande giocatrice quando nella stanza entrò un grosso serpente rosso. Credo che non ci sia bisogno di scomodare Freud per spiegarvi che cosa significa l’arrivo del grosso serpente, giusto? Fatto sta che nelle testa del povero re cominciarono ad affastellarsi una serie di pensieri assai poco decenti su cosa avrebbe voluto farci con quel gran pezzo di divinità invece di stare a perder tempo con quello stupido gioco. Ma Durga - Kalì si accorse subito del mutato atteggiamento del re che invece di guardare i dadi le guardava altre cose. Si infuriò come solo una dea terribile sa infuriarsi. Uscì dal palazzo reale sbattendo la porta e avvertendo il re che non sarebbe più tornata se non incarnata in una bambina pura - Kumari significa per l’appunto “vergine” - che lui avrebbe dovuto onorare col rispetto che si deve ad una dea. Cominciò così la ricerca della bambina posseduta dallo spirito di Durga - Kalì e nacque il culto della Kumari, la piccola dea protettrice della dinastia reale e di tutto il popolo nepalese.
Questa perlomeno è una delle tante leggende, così come mi è stata raccontata. Di mio ci ho messo solo il termine “gran figa” per rendervi bene l’idea. Ma vi avverto che esiste perlomeno un altro centinaio di versioni sull’origine della Kumari. E tutte diverse. La verità, tanto nella storia quanto nel mito, è un concetto tutto nostro. In Nepal non gliene frega niente a nessuno e ciascuno la racconta come la vuole.

Nel bel mezzo di Kathmandu
Oggi la Kumari, che quando era soltanto una bambina si chiamava Matina Shakya, abita l’antico palazzo di legno nero e di mattoni rossi posto a lato della Durbar Square, la piazza principale di Kathmandu. La porta del cortile su cui si affacciano i balconi dell’appartamento della dea, al primo piano, è sempre aperta. Dentro ci trovate a tutte le ore del giorno varie decine di fedeli che fremono nell’attesa che la Kumari appaia alla finestra. Attendono anche delle ore tra i fiori profumati del cortile, pregando sottovoce per non disturbare sua santità. In un angolo c’è una piccola porta, anch’essa sempre aperta, che conduce direttamente alle stanze della dea. C’è solo un cartello che ti prega di non entrare a meno che tu non sia la reincarnazione del dio Rama che nel “Who is who” delle divinità induiste sarebbe lo sposo della dea Kalì. Io sono stato lì lì... ma poi ho deciso che fare la reincarnazione di Rama era troppo pure per me. Sono stato comunque fortunato perché dopo un paio di minuti sul balcone si è affacciato il Chitaidar, per metà sacerdote e per metà maggiordomo della Kumari, per avvisare che sua santità stava per degnarsi di mostrare il suo bel viso. Mentre tutti si inginocchiavano, mi si sono avvicinate le guardie del palazzo per ordinarmi di tener buona la reflex, che fare foto non ufficiali della dea era strettamente proibito. Al diavolo anche le divinità incarnate! Venti secondi dopo era già tutto finito. I fedeli con l’aria soddisfatta - la Kumari non li aveva cagati neppure di striscio - uscivano cercando fantasiose interpretazioni sui battiti delle lunghe ciglia della piccola dea. Solo allora mi venne da riflettere che nel cortile c’erano sia fedeli induisti che buddisti. La cosa mi colpì alquanto (nonostante tutti i viaggi che ho fatto continuo a ragionare da occidentale e cerco le contraddizioni su tutte le cose). Come è possibile che la stessa dea incarnata sia venerata da due religioni diverse? Ma ciò può stupire solo chi non conosce - e conoscere vuol sempre dire amare - questo incredibile Paese dove la marjuana cresce spontanea ai bordi delle strade. Per i nepalesi pregare è un atto naturale come vivere, mangiare e fare l’amore. Dei e dee ce ne sono tanti, conosciuti e sconosciuti, e neppure il bramino più santo può vantarsi di padroneggiare a fondo tutta la sterminata biblioteca sacra. I comportamenti delle divinità, se possono insegnare qualcosa all’uomo, alla fin fine risultano misteriosi proprio come misteriosa, alla fin fine, è la nostra vita su questo piano di esistenza. Girare in senso orario attorno ad uno stupa che simboleggia buddha o rintoccare le mille campanelle attorno ad un tempio per attirare l’attenzione di Visnù non vale né più né meno che inginocchiarsi davanti ad un crocifisso o in direzione di un mihrab sciita. “Gli dei sono molto suscettibili ed è bene pregarli tutti“ mi ha spiegato l’amico nepalese che mi ha fatto da interprete e che, quando viene in Italia, non trascura mai di andare a sentire qualche messa. L’amico mi ha pure confessato che trova molto sciocco l’atteggiamento di tanti occidentali, convinti che il loro dio sia unico e migliore degli altri. Mi ha chiesto perché continuiamo a ragionare come dei bambini ma non ho saputo dargli una risposta.

Kumari si nasce
Vale la pena di spendere due parole su come viene scelta, oggi come cento anni fa, la Kumari. Per prima cosa la bambina deve appartenere all’alta casta Newar Shakya propria di chi lavora o commercia oro, argento e pietre preziose. I suoi genitori devono risiedere a Kathmandu da almeno tre generazioni e essere di provata fedeltà alla famiglia reale. Alla sua identificazione partecipano otto grandi saggi tra i quali il sacerdote induista di Durga, alti prelati buddisti e l’astrologo del re. La candidata deve essere perfetta nel fisico, non avere cicatrici e presentare le cosiddette “32 perfezioni divine” tra le quali figurano: occhi neri e profondi, piedi e braccia proporzionate, cosce di daino, organo sessuale non sporgente, lingua piccola, corpo come un banano (non ho capito cosa significhi), guance come quelle di un leone (come prima), ciglia come quelle di una mucca (ancora meno), denti perfetti e... una bella ombra!
Una volta dimostrato di possedere questi requisiti - e vorrei sapere come fanno a valutare l’ombra - la candidata deve sottoporsi ad una serie di esami atti a testarne il carattere divino. La Kumari non può piangere ma nemmeno ridere. Una dea infatti è sempre disinteressata alle vicende umane. Deve essere soprattutto una bambina tranquilla, considerato che ogni suo movimento viene sempre interpretato in termini di spaventose sciagure per i fedeli e per il Paese. Per saggiarne la “tranquillità” le bambine vengono sottoposte ad una prova terrificante: sono chiuse in una stanza buia riempita di teste di capre mozzate e di bufali scannati mentre uomini mascherati da demoni urlano per spaventarle. La bimba che si addormenta “tranquilla” è la vera Kumari.
Quando mi hanno raccontato questa storia, ho chiesto cosa fanno ingurgitare (o fumare) alla povera dea prima della prova ma mi hanno risposto che “sono riti segreti”.
Il compito della Kumari è fondamentalmente quello di farsi adorare e di porre la tika, il sacro segno rosso, sulla fronte del re del Nepal che una volta all’anno si reca nel suo palazzo per baciarle i piedi. Per tutta la durata della sua carica, la Kumari non può lasciare i suoi appartamenti se non in rare celebrazioni religiose dove viene trasportata su una speciale portantina dorata. I sacri piedini della dea non possono mai posarsi sul vile terreno. Neppure le scarpe può indossare. Al massimo calze ma solo se di seta rossa. Dopo che gli otto saggi hanno riconosciuto la sua divinità, i genitori si fanno immediatamente da parte e potranno rivedere la figlia dea solo in casi eccezionali e nelle vesti di semplici fedeli. Alla fanciulla sono concessi solo due compagni di gioco attentamente selezionati tra i bambini maschi della sua casta. Ovviamente la Kumari non va a scuola. Una dea sa sempre tutto. Il suo Chitaidar copre comunque anche le funzioni di precettore, pur se non può certo costringerla a studiare e neppure chiederle di impegnarsi in una cosa qualsiasi. Tutto le viene insegnato solo le lei lo desidera.

Kumari non si muore
La dea bambina rimane in carica sino alla prima perdita di sangue. Il che non significa necessariamente la prima mestruazione. Basta anche una piccola ferita o un graffio. Quando capita, la dea Kalì si riprende la sua divinità e va alla ricerca di un’altra bambina meritevole di ricevere cotanto dono. L’oramai ex Kumari viene accompagnata fuori dal palazzo e privata di tutta la sua venerabilità dopo un’ultima una cerimonia che dura 4 giorni. Chi lo sa come appare in quel momento il mondo che sta fuori dal cortile del Kumari Ghar alla piccola ex dea? La ragazzina fa ritorno alla sua famiglia con il solo conforto di un vitalizio di circa 6 mila rupie al mese. Neanche 100 euro per noi ma quattro volte un salario medio per un nepalese. In futuro potrà anche sposarsi se lo desidera, ma il suo sposo, racconta la tradizione, è destinato a morire tossendo sangue dopo circa sei mesi dalle nozze.
Ma il Kumari Ghar, il palazzo prigione della piccola Kalì, rimarrà vuoto solo per poco tempo. A Kathmandu gli otto si mettono immediatamente alla ricerca un’altra Kumari mentre la vita sotto il Sagaramāthā, la Grande Madre Celeste che gli inglesi hanno voluto chiamare Everest, scorre come tutti gli altri giorni.
Di giorno, quei catorci che qui chiamano automobili si incolonnano in file lunghe chilometri davanti ai distributori vuoti. Di notte, il flusso della corrente elettrica si interrompe puntualmente, nonostante le quotidiane dichiarazione del Governo che tutto funziona alla perfezione, e l’intera vallata piomba nel buio. La gente per scaldarsi esce di casa e accende grandi falò ai bordi delle strade. Sono le uniche luci che illuminano l’ampia valle del Bagmati dopo la luna e le stelle. Vista dall’alto, dal santo monastero buddista di Kopan dove i monaci intonano con voce profonda l’om padme hum, Kathmandu sembra uno sterminato accampamento di nomadi. Quando il partito comunista ha vinto le elezioni ponendo fine alla guerra civile, l’India e la Cina hanno staccato la spina dei rifornimenti energetici. La vita è dura per “questa piccola radice tenera che cerca di crescere tra due macigni” come recita un antico detto sul Nepal.
Ma tutto questo la Kumari non lo sa.

Bahía del Correo

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Puerto Baquerizo Moreno - Dietro le Americhe, a tre giorni di mare da Puerto Baquerizo Moreno, tempeste permettendo, si trova l’ufficio postale più incredibile del mondo. Siamo nelle Galapagos. Più precisamente a Floreana, l’isola più a sudovest di quel lontano arcipelago dove, in un lontano ottobre del 1935, approdò un giovane e curioso naturalista di nome Charles Darwin.
A dir la verità, il vero nome di Floreana sarebbe Santa Maria, in onore delle più celebrate delle tre caravelle di Cristoforo Colombo. Ma lo scopritore delle Americhe non è particolarmente amato in questo lato del mondo dove, vai a capire il perché, gli indigeni sono tuttora convinti che non avevano nessun bisogno di essere “scoperti”. E così preferiscono chiamare quest’isola Floreana che significa pressappoco “fiorita”, alludendo alla rigogliosa vegetazione che prospera sull’isola. Sono gli ultimi colori di un continente. Colori che rallegravano gli occhi dei marinai che da Floreana dirigevano la prua della nave verso il mare aperto.

Per i lunghi mesi a venire il loro sguardo avrebbe vagato dall’azzurro del mare e all’azzurro del cielo. I profumati fiori di Floreana, la sua lussureggiante vegetazione sarebbero stati un prezioso ricordo da conservare nell’anima. Floreana era l’ultimo angolo di terraferma sulla rotta delle navi che si preparavano ad affrontare il proprio destino navigando nelle acque dell’oceano più grande e più pericoloso: il Pacifico. Navi da corsa, vascelli militari, brigantini delle società geografiche, baleniere, galeoni di pirati, velieri con corsari e avventurieri al timone. Tutti salutavano Floreana come l’ultima isola del continente americano prima di varcare la frontiera del grande oceano.
Ed è proprio qui che ancora oggi si trova il più straordinario Correo del mondo. La leggenda racconta che fu un capitano inglese di nome James Colnett il primo che, in quella spiaggia di Floreana, posò a terra un barile vuoto con la scritto “postal office”, ufficio postale. Era un qualche giorno dell’estate del 1793. Colnett era quello che definiremmo un vero lupo di mare. Aveva navigato con James Cook al suo secondo viaggio transoceanico e, nella sua lunga carriera di ufficiale di sua maestà nonché pirata a tempo perso, si era azzuffato con le navi spagnole in pressoché tutti i mari del mondo. Capitan Colnett sapeva bene cosa significava per un marinaio trascorrere lunghi anni lontano da casa, senza neppure il conforto di poter spedire una lettera ai propri cari. L’idea che gli venne quel giorno, poco prima di salpare da Floreana, era semplice e geniale al tempo stesso. Prima o poi, ragionò, qualche altro vascello approderà in questa spiaggia. Magari sarà una baleniera spagnola che fa rotta a Cartagena, oppure un brigantino statunitense che ha costeggiato tutto il continente e ora scende sino a Punta Arenas per doppiare lo stretto di Magellano e raggiungere i porti sicuri della vecchia Europa. Contando su quella solidarietà che tra la gente di mare non è mai venuta meno, neppure durante le battaglie più cruente, Colnett confidò che qualcuno si sarebbe preso carico delle lettere sino a portarle a destinazione. Certo, ci sarebbero voluti mesi, probabilmente anni, ma con ogni probabilità la lettera sarebbe comunque arrivata a casa prima del marinaio che l’aveva spedita. Un servizio di mano in mano del tutto gratuito, mai venuto meno nel corso dei secoli a venire. Chi aveva bisogno, lasciava nel barile la sua lettera. Chi poteva, prendeva la corrispondenza e si impegnava a recapitarla al destinatario personalmente o ad affidarla ad altri marinai, in altre navi, in altri porti. Così è nato e così è sopravvissuto sino ai nostri giorni il Correo dei bucanieri. Correo in spagnolo, vuol dire “posta”. Il nome bucanieri invece indica che i maggiori fruitori del servizio non erano quel che si dice degli stinchi di santo. Eppure, quella spiaggia divenne un santuario di pace. Una zona neutrale, diremmo oggi. Chi sbarcava per depositare o per prelevare la posta era considerato inviolabile. Non c’era Spagna, non c’era Inghilterra che contava. Non c’erano pirati e non c’erano soldati. Tutti avevano diritto di gettare l’ancora nella Bahía del Correo e di poter riprendere il mare sani e salvi. La posta in gioco, è proprio il caso di dirlo, era troppo importante.
Io ci sono sbarcato in una giornata in cui il cielo era così azzurro da apparire innaturale, dopo aver ormeggiato la barca in quell’insenatura che ha ispirato lo scrittore Stevenson: Devil’s Crowd, la corona del diavolo. Una serie di scogli affioranti sistemati in semicerchio che sono quanto rimane della bocca da fuoco di un vulcano oggi spento. La spiaggia era piena di foche spaparanzate al sole con la tranquillità di chi sa bene che è un animale protetto. Camminare sulla sabbia era percorrere un labirinto di pelo lucido e baffoni, stando bene attenti a non calpestare qualche pinna. Il Correo non è visibile dal mare. Bisogna inoltrarsi per un centinaio di metri nella vegetazione. Ti appare improvvisamente dietro una curva del sentiero che ti vien da domandarti in quale film sei capitato. Che cosa sia non è facile descrivere. Questo è uno di quei momenti in cui ringrazi di avere con te la macchina fotografica perché il vocabolario non contiene parole a sufficienza. Il semplice barile di Colnett si è trasformato in una scultura di legno dove tutti coloro che sono passati, ci hanno messo del loro. Nel legno sono intagliati disegni, nomi e date che risalgono anche a cent’anni or sono. Chi ci ha avvitato una targa automobilistica, chi ha appeso un pupazzo o il teschio di qualche strano animale. Qualcuno ha lasciato una radio rotta, altri collage di puntine per il disegno, manifesti di rockstar, copertine di libri, foto, bottiglie con messaggi, chiodi con appesi nastrini colorati...
Anche la posta che trovi dentro il barilotto più grande è in stile col Correo. Ci sono cartoline, lettere, diari, pagine di libri, fogli e buste di tutte le dimensioni e colori. Qualcuno ha lasciato il suo messaggio ricamato su fazzolettini. Un originalone ha adoperato carta igienica. Un intero rotolo scritto fitto fitto in un alfabeto che non ho riconosciuto. Il Correo parla tutte le lingue del mondo e scrive in tutti gli alfabeti del mondo. Ci ho trovato una corteccia di albero destinata, se non ho letto male, ad una ragazza tedesca di Düsseldorf e un mezzo guscio di noce di cocco con inciso un indirizzo e una frase. La noce era destinata ad una ragazza di Sidney e gliela inviava (lo so che non è educato leggere la corrispondenza degli altri, ma in questo caso...) un ragazzo di Newcastle. Il messaggio era solo questo: I love you. La data era di un paio di anni prima. Ogni tanto, ancora oggi, mi chiedo se la ragazza di Sydney l’abbia ricevuta, la sua noce di cocco, o se ancora l’attende ancora. Io, al Correo dei Bucanieri, ci ho lasciato una lettera ma non vi dirò per chi.
Ma spulciando tra le tante buste contenute nel Correo, ne ho trovata una destinata Treviso. Città in cui, avendo la fortuna di vivere a Venezia, mi capita ogni tanto di passare. Così l’ho portata con me. Era una busta blu chiusa, con sopra nome e indirizzo, e doveva aver trascorso un bel po’ di tempo nel Correo, considerando quanto era sgualcita.
Un paio di mesi dopo il mio ritorno dalle Galapagos, sono stato invitato a Treviso a presentare il mio libro “Liberalaparola” che racconta la storia di una scuola di italiano per migranti, gratuita e aperta a tutti. Finito l’incontro ho salutato tutti e ho cercato la via. Al numero civico indicato corrispondeva il nome giusto. Mi ero ripromesso di suonare e di consegnarla a mano. Un vero corsaro gentiluomo avrebbe fatto così. Ma all’ultimo momento mi è mancato il coraggio e l’ho lasciata nella cassetta delle lettere. O non sono un corsaro, o non sono un gentiluomo. O forse Floreana era troppo lontana.

Un rinoceronte di nome Obama

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Kampala - L’ultimo rinoceronte dell’Uganda fu abbattuto nell’estate del ’78. Non fu un safari ad ucciderlo e neppure dei cacciatori tribali. Non furono neppure quei bracconieri che hanno contribuito non poco alla quasi scomparsa della specie. Non toccò a loro sparare l’ultimo colpo. Furono i soldati dell’esercito ugandese a mitragliarlo dopo averlo scovato e rincorso a bordo di un elicottero militare.
Chi crede, o finge di credere, che la caccia sia uno sport, magari inorridirà pure nel leggere che in Uganda i rinoceronti venivano cacciati dall’esercito regolare come se si trattasse di azioni di guerra. Ma, al di là di ogni ipocrisia sulla presunta sportività dell’attività venatoria, bisogna considerare che per un qualsiasi generale, il risultato conta sempre più del mezzo. E l’unica cosa che conta di un rinoceronte è il corno cui una tradizione tanto falsa quanto dura a morire attribuisce miracolose proprietà afrodisiache. Fatto sta che al mercato nero la quotazione di un grammo di corno doc oscilla dai 100 ai 150 dollari. Come dire che l’oro, l’argento e la stessa cocaina, al confronto, sono merci da poveracci!

Lo scorzo del corno inoltre, viene acquistato dagli artigiani arabi per ingioiellarlo e farne foderi di pugnale. Le zampe, scavate e lavorate, sono di gran moda nei salotti di classe degli Stati Uniti come posacenere di gran lusso con quel tocco di esotico che è sempre di moda. Tutto questo per spiegare come mai il dittatore ugandese Idi Amin Dada, che da qualche tempo non riusciva più a farsi assegnare mutui dalle banche europee per mantenere il suo corposo esercito, concesse ai suoi soldati in arretrato di stipendio il permesso di abbattere gli ultimi rinoceronti del Paese. In fondo, tra i tanti titoli che il dittatore folle si era attribuito, subito dopo quello di Conquistatore dell’Impero Britannico, c’era anche Signore di Tutte le Bestie della Terra e di Tutti i Pesci del Mare. Parliamo di uno psicopatico convinto di essere in comunicazione telepatica con i coccodrilli. Il che, tra le altre cose, non salvò i coccodrilli dall’essere cacciati proprio come i rinoceronti.
Ma le pallottole che uccisero l’ultimo rinoceronte furono comunque tra le ultime sparate dalle truppe di Amin. Svenduto tutto quello che poteva svendere del suo Paese, ridotto alla fame nera i suoi sudditi, senza più crediti politici con la comunità mondiale né, soprattutto, economici con le finanze che contano, il dittatore avrebbe da lì a poco giocato la sua ultima carta tentando di invadere la Tanzania, dove di rinoceronti ce n’erano ancora. L’ammutinamento delle sue truppe e l’entrata nel Paese degli esiliati al seguito dell’esercito tanzano, misero fine alla sua dittatura costringendolo ad abbandonare Kampala l’11 aprile del 79. Per l’Uganda si chiudeva una stagione di terrore che non ha uguali nella storia dell’umanità. Ancora oggi il numero delle vittime di Amin è avvolto dal mistero: non meno di 80 mila secondo alcune stime, vicine al 300 mila secondo altre. Secondo i dati di una organizzazione solitamente molto ben informata come Amnesty International, il numero più probabile si aggira sul mezzo milioni di morti. Il tutto in nemmeno nove anni di governo. Un vero e proprio massacro mentre in Europa i giornali davano spazio solo alle “stranezze” del dittatore e lo dipingevano come l’ennesimo capo tribale un tantino sbalconato, sul tipo di quelli che girano con la sveglia rotta al collo, che si presenta al genetliaco della Regina d’Inghilterra con un carico di banane per “aiutarla a sfamare il suo popolo”.
Oggi, in Uganda, a nessuno piace parlare di Idi Amin Dada. Anche la sua morte, avvenuta a causa di una insufficienza renale il 16 agosto del 2003 in Arabia Saudita, dove viveva come un esiliato di lusso, non si meritò che una mezza pagina nei giornali locali. Un trafiletto o neanche quello sui quotidiani europei. Solo gli elefanti hanno la memoria lunga.
Curiosamente, la scomparsa del dittatore ha coinciso con la rinascita dei rinoceronti in Uganda. Solo qualche mese prima della morte di Amin, grazie al lavoro di una ong e ad un finanziamento della Comunità Europea, veniva approvato il progetto di realizzare un’oasi ambientale dedicata al ripopolamento dei rinoceronti. Nasceva così lo Ziwa Rhino Sanctuary, il parco dei rinoceronti. Settanta chilometri quadrati di savana a poche decine di chilometri dalla capitale Kampala, dove oggi vivono dodici grandi rinoceronti bianchi. Tredici non appena una femmina di nome Hope (speranza) si deciderà a partorire. Tra le due specie presenti in Africa, questa del rinoceronte banco è la più grande. Un maschio adulto sfonda facilmente il tetto dei 3 mila chili. A vederli dal vivo sono animali davvero impressionanti e ti rendi conto del perché ci volevano le mitragliatrici militari per buttarne giù uno. Gli stessi bracconieri usano pallottole esplosive.
I primi rinoceronti reintrodotti nel parco furono un maschio proveniente dal Kenya e una femmina nata in cattività in uno zoo della California, trasportata in Uganda grazie ad un finanziamento di varie associazioni ambientaliste Usa e di aziende private tra cui spicca la Walt Disney. Il percorso di reinserimento è stato lungo e complesso ma alla fine fu proprio questa femmina “californiana” a dare alla luce il primo cucciolo del parco. Era il 4 agosto del 2009. Lo stesso giorno di nascita dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Inoltre, il piccolo rinoceronte era figlio di una femmina americana e di un padre keniota. Come non chiamarlo Obama?
Adesso Obama è un bestione di quasi due tonnellate. Mi sono avvicinato per fotografarlo sino ad una decina di metri. I rinoceronti bianchi, a differenza di quelli neri, sono piuttosto tranquilli e non caricano mai l’uomo. Ma è comunque meglio stare a debita distanza e infilare un teleobiettivo nella reflex. Mica voglio mettermi a litigare con due tonnellate di presidente dei rinoceronti d’America.
Mentre scattavo, Obama se ne è stato tranquillo tutto il tempo a sonnecchiare sotto una frasca, sorvegliato a vista da due gentili ranger. “Non li perdiamo mai di vista i nostri dodici rinoceronti - mi ha spiegato uno di loro -. Il parco è recintato e noi ranger siamo sempre vigili, ma anche ieri abbiamo notato tracce di pneumatici sospetti. I bracconieri sono sempre pronti a colpire. Con quel che vale un corno nel mercato nero, ogni rischio gli appare lecito”. Non ci sono più i soldati di Amin ma la sopravvivenza dei rinoceronti in Uganda, come in tutta l’Africa, continua ad essere in pericolo. Obama intanto dorme il sonno del giusto. Non sa che la sua è una specie a rischio. Non sa neppure di aver un nome così importante.

Rwanda, 18 anni dopo

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Kigali - La primavera in Rwanda si tinge di viola. E’ il colore del lutto. E’ il colore del genocidio a colpi di machete che 18 anni fa, nell’aprile del ’94, insanguinava il Paese delle Mille Colline. Torrenti di sangue trascinavano a valle i corpi macellati dei tutsi, sino al lago Vittoria dove si impigliavano nelle reti dei pescatori. Oggi le tracce delle fosse comuni scavate sulle sponde ugandesi del lago da cui nasce il Nilo, culla di civiltà, sono state cancellate per non turbare le coscienze dei turisti che non riuscivano a dare un senso ad una tale ecatombe. Non facciamone una colpa. E’ impossibile farsi anche una pallida idea di cosa significa un milione di morti ammazzati in meno di tre mesi. E’ come parlare delle stelle. Come dire che Proxima Centauri dista “solo” quattro milioni di anni luce, mentre Aldebaran è 500 volte più luminosa del sole. Numeri esatti ma senza senso per il nostro limitato sentire comune. Ma mai, mai nel corso della storia dell’uomo, sono state uccise così tante persone in così poco tempo e con mezzi così banali come machete, coltelli da cucina, bastoni e martelli. Non era una scelta di campo. La Banca Mondiale aveva negato il finanziamento per le più pratiche armi da fuoco, sostenendo che il governo dell’Hutu Power non era economicamente solvibile. Per risolvere le sue faccende interne, poteva concedere al Rwanda al massimo un prestito per quegli 80 mila machete di seconda mano che la Cina, generosamente, era disposta a fornire a prezzi scontati. Di necessità virtù. Così è cominciato quello che è stato definito il “genocidio dei poveri”. Ma non c’era nessun’altra ragione che giustificava l’uso dei machete se non che le pallottole costavano un sacco.



IL GRANDE MAUSOLEO
Adesso, un milione di morti dopo, non è più possibile pensare di visitare il Rwanda seguendo un itinerario solo naturalistico, pure se le profonde valli coltivate a tè, a caffè o a cacao si aprono al viandante in spettacolari panorami che non hanno uguali in tutto il continente. Ogni strada ha le sue lapidi di cemento per ricordare i blocchi stradali dei miliziani dell’Interahamwe (letteralmente “Colpiamo insieme”) che filtravano la popolazione in fuga e non lasciavano scampo a chi non poteva dimostrare di essere un hutu fedele al regime. E per provarlo, doveva lui stesso macellare un tutsi. Ogni villaggio, anche di poche capanne, ha il suo monumento funerario a cifre tonde. Cinquemila morti qua, tremila di là. Si va ad occhio. Alla “più o meno”. Ancora oggi, capita che un contadino intento a piantare un banano scopra una fossa comune con qualche decina di teste mozzate e vari pezzi di uomo. Con una recente legge, il governo rwandese ha deciso di smettere di innalzare monumenti funerari sui luoghi degli eccidi e di tumulare gli ultimi ritrovamenti nel grande mausoleo innalzato sopra una collina della capitale, Kigali. Davanti al fabbricato che ospita una terrificante esposizione che prova a raccontare la storia del genocidio, c’è una enorme fossa con una lastra mobile di marmo bianco. Almeno una volta alla settimana, qualche gruppo di sopravvissuti vi si reca per depositare casse di ossa recuperate da qualche parte, sotto le mille colline di quel Paese che negli anni ’70, quando le multinazionali ci investivano camionate di dollari per lo “sviluppo economico del terzo mondo”, veniva chiamato la “Svizzera d’Africa”. Proprio come il Libano per il Medio Oriente. E’ una definizione che porta male, evidentemente. Ti viene da riflettere sul come mai alla Svizzera vera non succeda mai niente.

I FUNERALI DI CHARLES
La cerimonia di tumulazione è semplice. Un impianto stereo suona l’inno nazionale, dei soldati in alta uniforme spostano la lapide e calano la cassa con i resti, i sopravvissuti piangono. Ho buttato l’occhio dentro la fossa. E’ immensa ma c’è ancora un bel po’ di posto. “Ci vengo tutte le volte che posso e che seppelliscono qualcuno – mi racconta un signore di mezza età -. Io ero a Londra a studiare medicina all’epoca. Mia madre, mio padre, i miei due fratelli, le mie tre sorelle, e cugini, zie… li hanno ammazzati tutti. Di alcuni ho identificato e recuperato i corpi ma di altri, come mia madre, ancora no. Adesso vengo qua e spero di capitare, magari per caso, al suo funerale”. E’ vestito elegante, il signor Charles. Preferisce essere chiamato all’inglese che alla francese, mi spiega, anche se parla correttamente tutte e due le lingue oltre, si capisce, al kinyarwanda, la lingua locale. Indossa un bel completo grigio e una cravatta viola con fazzolettino in tinta che gli spunta dal taschino. Porta con sé un grande quadro incorniciato in argento che ritrae una coppia in posa per una foto ricordo, come quelle che si andavano a fare per certe ricorrenze speciali nello studio di un professionista. “My mother, my father”, mi dice. Quando è tornato dall’Inghilterra non ha trovato più niente di quello che aveva lasciato. La casa devastata, la famiglia distrutta. “I vicini che ci erano amici prima del genocidio non avevano il coraggio di guardarmi. E io non avevo il coraggio di guardare loro perché non potevo sapere che parte avevano avuto nel massacro dei miei. Non ce l’ho più fatta a vivere nel paese dove sono nato e mi sono trasferito nella capitale a fare il medico”.

VITTIME O CARNEFICI?
Non si viaggia leggeri in Rwanda. Non si può non chiedersi continuamente come sia stato possibile un tale scoppio di violenza genocida. Non si può non chiedersi che parte avremmo avuto noi se fossimo stati là, nel paese delle Mille Colline, in quell’aprile di 18 anni fa. Vittime o carnefici? Non erano possibili né tollerate, vie di mezzo. Quando l’esercito ha ordinato a due bulldozer di abbattere la chiesa di Nyange, dove si erano rifugiati alcune centinaia di donne tutsi con i loro bambini, il primo conducente si è rifiutato ed è stato immediatamente ucciso con una pallottola in testa. Il secondo ha messo in moto il suo mezzo e ha buttato giù le pareti seppellendo tutti vivi.

“COSE INSEGNATE DALLA COLONIZZAZIONE”
A differenza di altri e più celebrati genocidi come la shoah, perpetrato da carnefici “professionisti” come le Ss dei lager, quello del Rwanda è stato un genocidio di popolo portato a compimento dalla gente comune: i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Anche i parenti, considerato che moltissime famiglie erano miste. Hutu contro tutsi. Ma anche hutu contro quegli hutu che non ci stavano e che si rifiutavano di massacrare col machete o con i martelli le “blatte” tutsi. Oggi le chiese dove i tutsi si rifugiavano sperando inutilmente di essere risparmiati sono sconsacrate e stipate dei loro resti. Le ossa spaccate, i crani sfondati ammucchiati a ridosso delle pareti, i vestiti oramai ammuffiti dove vi hanno scavato la tana grossi ragni, sono appesi al soffitto e raccolti in pile davanti agli altari. L’odore è nauseante ed è dura passarci in mezzo senza dare di stomaco. Se chiediamo ai sorveglianti il perché di tutto questo, che l’esposizione dei morti non fa parte della cultura africana, ti rispondono che neppure il genocidio lo era. “Sono tutte cose che ci sono state insegnate dalla colonizzazione”. Fuori, coperto da stoffe viola, si alza l’immancabile monumento commemorativo. “Never again” ci trovate scritto. “Mai più”. Sempre in lingua inglese. Anche il genocidio rwandese può essere letto in funzione di quella guerra tra il capitalismo anglofono e quello francofono eredi della colonizzazione dell’Africa. Tra un Paul Kagame, leader del Rwandan Patriotic Front (Rpf), sostenuto dagli Usa e il governo dell’Hutu Power spalleggiato dall’allora presidente francese, il socialista Francois Mitterand.

LA RICOSTRUZIONE
Il Rwanda di oggi è un Paese che sta sostituendo il francese con l’inglese anche nella cartellonistica stradale. Anche i capitali stranieri investiti hanno una diversa provenienza rispetto a vent’anni fa. Più dollari e yuan che franchi (o euro), per intenderci. Soldi che comunque sono andati a finanziare anche opere meritorie. Il Paese offre ospedali di buon livello, per gli standard africani, gratuiti e aperti a tutti. Ha scuole per bambini e strade neanche tanto disastrate (se siete arrivati in auto dal Congo, vi sembreranno autostrade). Le Mille Colline sono coltivate sino a dove è possibile coltivare. Tutte le persone che ho conosciuto sanno leggere e scrivere e mi hanno lodato il programma di alfabetizzazione che il presidente Kagame ha realizzato, grazie anche a cospicui aiuti internazionali. Le Banca Mondiale, la stessa che ha fatto il bonifico per l’acquisto dei machete, si è impegnata a sostenere l’esportazione di tè e caffè. Perlomeno fino alla prossima “crisi”. Ma oggi, anche chi non ha niente, può scendere le valli ed immergersi nelle sterminate piantagioni di tè, raccogliere le piccole foglie e ricavarne quantomeno il minimo vitale. In Africa non è poco.

EFFICIENZA AFRICANA
La pubblica amministrazione del Rwanda, se diamo credito alle statistiche condotte da alcune organizzazioni per i diritti civili internazionali, è la meno corrotta dell’Africa: Nell’hit parade internazionale sembra sia anche meno corrotta di quella italiana – piuttosto giù di classifica – e di poche tacche sotto Svezia e Danimarca. Il suo parlamento è il primo nella storia dell’umanità ad avere, come elette, più donne che uomini ed è l’unico Paese centroafricano non solo a non perseguitare penalmente ma neppure a discriminare legalmente gli omosessuali. Inoltre ha da poco varato una legge contro la violenza nei confronti delle donne che è considerata tra le più avanzate del mondo. Le elezioni che per la terza volta consecutiva hanno visto trionfare il presidente Paul Kagame con una di quelle percentuali che una tempo ci divertivamo a definire “bulgare”, si sono svolte, a giudizio degli osservatori Onu, senza neppure troppi brogli. E’ questo il Rwanda nato dal genocidio? Di sicuro, Paul Kagame e il suo Rpf hanno avuto, politicamente parlando, vita facile nel gestire i resti di un Paese terrorizzato e reduce da un macello. Viene anche da riflettere su tutti quei “ritardi” nell’avanzata dell’esercito del Fronte Patriottico, in quella tremenda estate di 18 anni fa, nonostante il comandante di quello sparuto gruppo di Caschi Blu rimasto in Rwanda, Romeo Dallaire, supplicasse Kagame di fare presto, se voleva trovare ancora “qualcuno di vivo”. Freddo calcolo militare o spietato ragionamento politico?

PAUL KAGAME
Naturalmente, anche queste medaglie hanno il loro rovescio. Tra tutti i governi africani, quello di Paul Kagame è l’unico che non si preoccupa solo di controllare le azioni dei suoi cittadini ma anche, e soprattutto, quello che pensano. Il genocidio è materia di studio obbligatoria in tutte le scuole in tutti i livelli. E la risposta giusta alla domanda finale d’esame “Chi ha posto fine al genocidio?” è sempre e solo “Paul Kagame”. Per la lode bisogna aggiungere “amato padre della Patria”. L’iscrizione al partito di governo per gli adulti non è obbligatoria ma fortemente consigliata. I giornali di opposizione nascono liberamente ma sono sempre costretti a chiudere dopo pochi numeri. Giornalisti critici e avversari politici, prima o poi, finiscono in galera. E l’accusa infamante che apre le porte del carcere è sempre la stessa: negazionismo. E’ questa la parola magica. Il genocidio è un nervo scoperto. Chi osa criticare il presidente Kagame che ha posto fine allo sterminio non può che essere uno che nega il genocidio e offende la memoria di quel milione di morti ammazzati. Basta una accusa generica di negazionismo e si finisce dritti sotto processo. Quei pochi che mormorano che oggi in Rwanda vige un “razzismo opposto”, e le cariche più prestigiose, i lavori più pagati sono prerogativa esclusiva dei tutsi, lo fanno dall’estero, dalla Francia. Son cose che qui non si possono neppure bisbigliare.

TUTSI E HUTU
E d’altra parte, per chi ancora vive nel Paese delle Mille Colline, termini come tutsi e hutu sono diventati un tabù. Scomparsi non solo dalle carte di identità, dove ce li avevamo messi i colonizzatori belgi preoccupati di dividere la popolazione per controllarla meglio, ma anche dai libri di storia e dagli stessi musei etnologici. Solo nel mausoleo del genocidio ne ho trovato traccia. Difficile anche capire se davvero tutsi e hutu possono essere definite due etnie diverse, considerato che condividono la stessa lingua e gli stessi miti. Una ricerca etnologica compiuta ai tempi della colonizzazione dai Padri Bianchi belgi, preoccupatissimi di trovare un qualcosa che distinguesse gli uni dagli altri, stabilì solo che gli hutu avevano in media il naso di due millimetri più piccolo dei tutsi. Se si fa un simile “studio scientifico” tra veneti e lombardi si trovano più differenze! Probabilmente, come ha osservato Ryszard Kapuściński, più che di etnie è corretto parlare di caste. Pure se ben diverse da quelle stagne dell’induismo. “I tutsi erano allevatori, gli hutu contadini – mi ha spiegato un ragazzo, studente di legge alla National University di Butare che ho conosciuto al museo dell’Olocausto – ma se il re per premiarti ti regalava una mandria di ankole (le tipiche vacche centroafricane dalle enormi corna.ndr) tu, hutu, diventavi immediatamente tutsi”. Soltanto caste quindi. Soltanto una ingombrante eredità di un tempo che non c’è più ma che sarebbe bastata a scatenare i massacri.

“SONO SOLO UN RWANDESE”
Quando mi azzardo a chiedergli se lui viene da una famiglia tutsi o hutu, il ragazzo mi guarda inorridito e mi balbetta che la mia domanda non ha più senso. Che lui è solo un rwandese tra i rwandesi e che compie un pericoloso errore chi cerca di spiegare quanto è accaduto affidandosi alle categorie tribali di “tutsi e hutu”. Con lui visito l’ultima ala del mausoleo dedicata agli altri genocidi che hanno insanguinato gli ultimi decenni della storia dell’umanità: l’olocausto nazista, gli armeni, il Darfur, la Cambogia… Nel portone d’uscita, in alto, a caratteri cubitali, ancora la scritta “Never again”. Ripenso a Primo Levi. Non cercate ragioni. E’ accaduto. Accadrà ancora.

I gorilla del Congo

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Provincia di Kivu, Repubblica Democratica del Congo - Le prime due ore di marcia non sono neppure impossibili. Il sentiero sale dolcemente lungo un declivio verde brillante costellato da radi arbusti. Sullo sfondo, l’imponente presenza del vulcano Karisimbi si innalza con i suoi 4500 metri nell’azzurro terso del cielo. Dietro il massiccio, le alte montagne congolesi si addolciranno sino ad aprirsi nelle lunghe valli coltivate a tè e a caffè del Rwanda, il Paese delle Mille Colline. Ma questo possiamo solo immaginarcelo. La linea dell’orizzonte è impenetrabile per la fitta foschia generata dalla calda umidità della foresta pluviale. Non c’era da aspettarsi altro, dalle montagne delle Nebbie. Come se non bastasse, siamo nel bel mezzo della stagione delle piogge. Per tutta la notte, sono cascati dal cielo veri torrenti d’acqua. Il sole equatoriale che ora ci scalda non è riuscito, in queste poche ore, a mitigare la furia degli acquazzoni. Il folto manto d’erba cede improvvisamente al nostro passaggio e, ogni dieci passi, finiamo con una gamba nell’acqua sino al ginocchio. Ma questi sono inconvenienti da mettere in conto, per chi vuole vedere i gorilla dalla schiena argentata.

I grandi primati descritti da Dian Fossey messi in pericolo di estinzione per la follia dell’uomo: deforestazione, cambiamenti climatici e bracconaggio. Siamo arrivati sino a qua dopo aver fatto tappa a Kisoro, capoluogo dell’omonimo distretto dell’Uganda. Una anonima cittadina che sorge sotto le pendici del vulcano Mufumbiro. L’unico interesse di Kisoro è la prossimità della frontiera con il Congo e la riserva naturale di Virunga. La guerra civile che continua ad insanguinare le provincie orientali dell’ex Zaire, oggi repubblica democratica del Congo, per il controllo dei ricchi giacimenti di coltan, rende sconsigliabile arrivare al Virunga da Kinshasa. Molto meno rischioso giungerci dall’Uganda e attraversare la frontiera che corre tra i laghi Edward e Kivu. Dalla stessa Kisoro, non è difficile contattare i ranger congolesi del Virunga Park e trovare una guida disposta ad accompagnarti nella foresta. Il Congo è un paese in guerra, anche se non sono le armi ma la malnutrizione e la mancanza di cure sanitarie a causare la maggior parte dei 38 mila decessi al mese dal 2006 ad oggi stimati dalle associazioni per i diritti umani. Le regioni ad est del Paese sono comunque attraversata da milizie paramilitari legati alle mafie del coltan che non fanno prigionieri. Come se non bastasse sono all’opera anche numerose bande di bracconieri che cacciano i rinoceronti per i corni, gli elefanti per le zanne e, trofei ancora più pregiati, i gorilla. Dalle loro mani, tagliate ed imbalsamate, si ricavano preziosi portacenere da smerciare di contrabbando nei mercati orientali e statunitensi. “Da dieci anni a questa parte – ha raccontato il ranger che mi ha fatto da guida – i bracconieri hanno ucciso oltre 140 miei commilitoni. In media viene ucciso un ranger al mese. Per questo viaggiamo armati. Incontrarli nella foresta significa difendersi o morire. E per questo dobbiamo sorvegliare giorno e notte gli ultimi gruppi di gorilla rimasti nel nostro parco”. All’appuntamento con i ranger, arriviamo dopo un’ora e mezza di terrificanti ed incessanti sobbalzi su uno sterrato dove le grosse buche sono più una regola che un’eccezione, percorso appesi alle sbarre di uno scassato furgone dell’esercito congolese. Il mezzo militare si ferma in mezzo ad un mare di campi coltivati a cacao, cotone, e canna da zucchero. Da qui in avanti si può procedere solo a piedi. Ed è un sollievo, dopo quella sorta di pista da motocross. Come abbiano detto in apertura, il cammino all’inizio non appare difficile. I grandi campi coltivati lasciano presto spazio ad una umida piana erbosa costellata di acquitrini i e pozzanghere che non sempre è possibile evitare. Ci vogliono due ore buone per arrivare al muro della foresta. Sì, un muro. La giungla comincia improvvisamente, alle pendici delle montagne dellaLuna. Il confine è netto tra due mondi distinti: uno aperto e soleggiato, l’altro chiuso e buio. Il manto erboso si spegne davanti ad una muraglia verde e fitta, appena nascosta da una umida nebbiolina che si ostina a resistere sotto il cocente sole d’Africa. Non ci sono sentieri, nella foresta. Si entra a colpi di machete e ti basta mettere la testa dentro per rimpiangere il cielo che hai lasciato fuori. Si procede lentamente, scavalcando tronchi putrescenti e chinando la testa sotto improvvisate gallerie di foglie, liane, rami. Se piove, là sotto, non te ne accorgi nemmeno. Ad ogni passo i piedi pesano sempre di più e devi strapparli alle piante che li trattengono e ti fanno inciampare. Le caviglie sprofondano nei tanti strati di vegetali che marciscono per terra. Pare di camminare su altalene e materassi molli. Ti viene da pensare che se anche ti cade la batteria della reflex, ce la lasci là, perché trovarla sarebbe una impresa impossibile, sprofondato come sei sino alle caviglie in quello stagno di verde putrescente. L’umidità ti avvolge dappertutto. Manca il fiato e i pungenti odori della foresta ti prendono allo stomaco. L’espressione “inferno verde” si colora di significato. E poi ci sono gli innumerevoli insetti, enormi millepiedi, ragni, zanzare, zecche, cavalletti, scarafaggi, vermi, termiti… una enciclopedia naturale dove nessuna voce manca. Le formiche in particolare sono terribili. Salgono dall’apertura dei pantaloni e i loro morsi ti lasciano il segno per due giorni. Prima di inoltrarci nella foresta, avevamo chiuso colletti, polsini e bottoni delle camicie. Avevamo infilato i pantaloni dentro le calze, rinforzando il tutto con generosi giri di nastro adesivo per pacchi. Tutte precauzioni necessarie ma che non ci hanno comunque risparmiato da contatti indesiderati. Per fortuna, ci spiega il ranger, il gruppo di gorilla che stiamo cercando, non dovrebbe essersi addentrato molto nella foresta. Solo un paio di giorni prima, li hanno visti scendere a valle per rubare la frutta ai contadini. Col nostro passo, entro un’ora al massimo dovremmo trovarli. Sono in tutto 18 esemplari tra cui alcuni neonati. Il capo branco è un grosso gorilla dalla schiena argentata che, ci assicura, “abbastanza raramente attacca i visitatori”. Nel caso, basta chinarsi in posizione fetale ed evitare di guardarlo negli occhi in modo da fargli capire che non intendiamo sfidarlo o mettere in dubbio la sua supremazia. In tutto il parco di Virunga sono rimasti solo 4 gruppi di gorilla. Gli altri sono stati tutti sterminati dai bracconieri. Questo gruppo si chiama “mapu”, che significa “nasoni”, e sono i diretti discendenti dei gorilla descritti da Dian Fossey nel suo celebre libro “Gorilla nella nebbia”. La prima traccia della loro presenza la troviamo, come ci aveva garantito l’amico ranger, proprio dopo un’ora circa di cammino nella foresta. E’ una piazzola di erba ben calpestata che i grossi primati hanno usato per dormire la note precedente. Tra i mille odori della giungla spicca una sfumatura dolciastra e selvatica. Ci siamo. Dieci minuti dopo, il rumore di un tronco che si schianta ci fa capire che i “nasoni” sono vicini. Il primo esemplare che incrociamo è una femmina che allatta un piccolo. Spaparanzata in mezzo al verde non si cura di noi e continua a divorare interi rami di foglie. Riusciamo ad avvicinarci sino ad un paio di metri. E’ tranquilla e pare occuparsi solo al suo pasto. L’incontro ci ha talmente emozionato che non ci siamo neppure accorti di essere finiti in mezzo al branco. I mapu dalla schiena argentata sono tutti intorno a noi. Salgono sugli alberi sino a piegarli con il loro peso. Poi saltano a terra liberando il tronco che ondeggia come una frusta. Si rotolano per terra pigri e non smettono un istante di mangiare grandi foglie. Solo i cuccioli trascurano il pranzo per interessarsi ai visitatori e ci regalano uno spettacolo improvvisato saltando con agilità, nonostante la mole, di ramo in ramo, attorno a noi. Sono incuriositi e, proprio come farebbe un cucciolo d’uomo, si dannano l’anima per farsi notare da questi strani esseri spelacchiati arrivati da chissà dove: si spintonano, si saltano sulle spalle, fingono di cadere, urlano e sberciano nella nostra direzione come per invitarci ad unirci ai loro giochi. Tacciono solo quando un secco rumore di rami schiantati sovrasta tutti gli stridii della foresta. Il capo branco ha deciso di scendere dal suo albero e di mettere fine alla cagnara. Con la sua enorme stazza si fa largo tra il verde nella mia direzione. A quattro metri dal mio obiettivo si siede tra le piante come su un trono, scrutandomi con uno sguardo indecifrabile. Quindi comincia a… petare come neanche in una caserma. E’ lui, il maschio dominante, e me lo vuole far capire in tutti i modi. I giovani e le femmine si sono allontanati tutti. Improvvisamente, l’imponente gorilla decide di darmi un’ulteriore dimostrazione della sua potenza. Si alza sulle zampe posteriori in tutta la sua enormità e si batte il petto a mani aperte, lanciando minacciose grida di sfida. Una scena vista in tanti film di Tarzan, ma dal vivo, ve lo assicuro, fa tutta un’altra impressione! In un batter d’occhio, mi chino a terra, prono. Non ho nessuna voglia di mettermi a discutere di democrazia con quella montagna di carne. Il capo branco pare soddisfatto del mio gesto e si lascia cadere nel suo trono verde senza più degnarmi di uno sguardo. Queste strane scimmie senza pelo talmente imbranate da non riuscire neppure muoversi nella foresta, deve aver giudicato, non possono certo mettere in pericolo la mia supremazia. Ritornando a valle, tra inevitabili ruzzoloni e dolorosi scorticamenti, non posso fare a meno di pensare a quanto quei giganteschi gorilla, tanto forti quanto vulnerabili, siano simili a noi, animali umani.

Terremoti e processi nel Kurdistan turco

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Diyarbakir, Turchia orientale - Che aria tiri in Turchia lo si capisce già all’aeroporto Ataturk di Istanbul. A farne le spese è l’avvocato romano Augusto Salerni, uno dei legali di Giuristi Democratici, che si era aggregato alla spedizione in terra curda promossa dall’associazione Verso Il Kurdistan. Al controllo del passaporto l’avvocato Salerni viene immediatamente riconosciuto come uno dei legali che al tribunale europeo dei diritti umani aveva perorato la causa del “terrorista” Ocalan. Già “terrorista”. Nella democratica Turchia del premier Erdogan, è obbligatorio tanto per i giornalisti quanto per gli stessi avvocati difensori di Abdullah Ocalan, anteporre sempre al suo nome l’attributo “terrorista”. A chiamarlo solo “signore” si finisce dritti in galera, come è capitato due mesi ad un redattore di un quotidiano d’opposizione. All’ombra di Santa Sofia, a fare il giornalista o l’avvocato si rischia di più che a rapinar banche.

L’avvocato Augusto Salerni ha la buona sorte di tenere in tasca un passaporto italiano e se la cava con una notte di fermo. “Quando abbiamo visto che lo hanno fermato ai controlli - spiega Antonio Olivieri, portavoce di Verso il Kurdistan - abbiamo immediatamente informato il console italiano che ci ha detto di stare tranquilli che ci pensava lui. Un’ora dopo mi ritelefona e mi dice, tutto contento, che è riuscito a sistemare la questione: domani rimandano il nostro avvocato in Italia! Non è esattamente quello che volevamo noi. Proibire l’accesso in in Paese ad un avvocato che non ha commesso alcun reato e che, per di più si recava a monitorare un processo assai discusso come quello avviato contro i sindaci curdi, è un atto proibito dalle normative internazionali e che, per di più, lede i diritti fondamentali dell’uomo”. Il problema sta tutto qua: nei diritti fondamentali dell’uomo che in Turchia, quando va bene, sono riconosciuti solo ai turchi. “A differenza dell’Europa e di altri Stati con ordinamento democratico, - mi ha spiegato Mehmet Emin, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir e uno degli ultimi difensori rimasti ai sindaci imputati. Intendo, uno degli ultimi rimasti ancora a piede libero - la giurisprudenza turca non è finalizzato a garantire principi di giustizia sociale ma a difendere la cosiddetta ‘turchità’ dello Stato. Chi non si allinea, sia esso un sindaco, un deputato, un giornalista o un povero contadino che per semplice ignoranza non sa parlare la lingua turca, viene inesorabilmente perseguitato. Gli avvocati non sono da meno. Solo osare difendere un politico curdo viene letto come un attentato alla turchità. L’arresto di 56 avvocati difensori per un singolo processo, mi riferisco a quello di Diyarbakir, credo sia un record imbattuto in tutti i Paesi del mondo. Vi ricordo che questo è anche il Paese in cui i pubblici dipendenti non possono scioperare perché il loro rapporto con lo Stato deve essere improntato solo su basi etiche”. Mehmet Emin è stato il protagonista di una divertente contestazione in un processo contro i curdi: davanti al pubblico ministero che accusava un imputato di adoperare la lettera W, che esiste nell’alfabeto curdo ma non in quello turco, e di inquinare così la purezza della lingua patria, Emin chiese cortesemente al presidente della Corte, a proposito dell’inquinante lettera W, quale fosse l’indirizzo web del sito del tribunale! Lo scherzo gli costò qualche mese di galera.
Sette anni di carcere invece se li è sorbiti il sindaco Abdullah Demirbas della municipalità Sur di Diyarbakir (l’amministrazione di una città turca è spartita tra varie municipalità. A Diyarbakir, ad esempio, ce ne sono 16) colpevole di aver pubblicato una brochure sui servizi offerti ai cittadini in quattro lingue: turco, armeno, curdo ed inglese. “Due giorni dopo la stampa, venne la polizia ad arrestarmi. E con me portarono dentro tutti gli assessori, anche quei due che non avevano votato la delibera con la quale finanziavamo l’opuscolo. Poi sciolsero d’ufficio il consiglio comunale”. Demirbas si fece i suoi anni di galera e poi si ripresentò alle elezioni ancora col Bdp, il partito Democratico del popolo che, in pratica, è l’ala politica del Pkk. Riconquistò la poltrona di primo cittadino ottenendo una fiducia ancora più ampia col 76% dei votanti. “Governare è dura per gli amministratori curdi perché lo Stato utilizza tutti i sistemi per non passarci una lira e poter dire poi alla gente: vedete a votare il Bdp! Non vi danno nessun servizio. Ed invece i nostri sindaci riescono ad amministrare bene lo stesso con pochissime risorse a disposizione. Come facciamo? Eliminiamo del tutto la corruzione che, nelle amministrazioni del partito di Erdogan assorbono l’80% delle risorse”. Sul groppone Demirbas ha ancora una ventina di processi in corso per un totale di 232 anni di galera. “Sono costi che chi fa politica in Turchia deve mettere in conto preventivo” ti dice con un sorriso.

A un giorno di camionetta da Diyarbakir, raggiungiamo la zona terremotata di Van, la città dei gatti sordi con gli occhi di due diversi colori. Una città che non esiste più. Le due scosse del 23 ottobre e 9 novembre hanno raso al suolo una trentina di villaggi sulle sponde del grande lago e l’intero centro storico di Van. Due terzi della popolazione, tutti coloro che potevano permettersi di andare via, hanno fatto le valigie e abbandonato la regione. Gli altri, quasi 30 mila persone, vivono sotto i tendoni e fanno la fila alle mensa comuni per cercare qualcosa da mangiare. Qualche giorno fa, alla lunga lista dei morti si sono aggiunti due bambine, bruciate vive in una tenda non ignifuga. Tira vento gelido e butta a neve dalla catena del monte Ararat che sovrasta Van. I curdi sono costretti ad accendere fuochi dentro le tende se vogliono cercare di sopravvivere al freddo.
Abbiamo incontrato il sindaco Bekir Kaya in un piccolo prefabbricato montato all’interno di quello che una volta doveva essere il parco cittadino e che ora è una stracciata tendopoli. Anche lui è reduce dalla galera. Dodici anni filati per sospetto terrorismo e subito dopo eletto sindaco con una percentuale che una volta avremmo definito “bulgara”. Nel piccolo studio c’è una stufetta a legna ma è fredda. Sulla sua scrivania un piccolo computer che, spiega, ogni tanto ha pure collegamento in rete. Inutile chiedergli la mail. Il Governo turco gliela ha vietata per “motivi di sicurezza”. Chiedergli come va è una domanda inutile. Gli domandiamo allora se gli aiuti internazionali sono arrivati fin quaggiù. Kaya tira gli occhi. “Noi curdi non possiamo ricevere aiuti perché per lo Stato turco non esistiamo. I finanziamenti arrivati dall’estero per aiutare i terremotati li gestisce il premier Erdogan in persona. Come sono stati usati? Non lo so. Mica posso rivolgermi al prefetto per chiedere informazioni! Sarebbe il modo più spiccio per tornare in carcere. Noi andiamo avanti con quello che ci dà la nostra gente e con quello che ci portano le associazioni che, sfidando il Governo, arrivano sino a qua. Proprio come hanno fatto gli amici di Verso il Kurdistan. Solo grazie a loro sopravviviamo”. Per la strada abbiamo visto due palazzi nuovi in fase di rifinitura. Il cartello diceva che erano realizzati dal Governo turco. “Ah, lei si riferisce a quei due bei palazzoni azzurri davanti al lago? Sono di una ditta privata cui Erdogan ha concesso in esclusiva l’appalto per la ricostruzione. Li hanno ultimati da poco e quei bastardi li hanno subito messi in vendita! Ma li hanno costruiti solo per i finanziamenti statali, eh? Mica sperano davvero di venderli o affittarli! San bene che nessuno di noi che è rimasto può permettersi una spesa simile! Ed infatti, neanche fanno la fatica di cercare un affittuario. Sono e resteranno vuoti”. Un bell’esempio di quello che Naomi Klein ha definito la Shock Economy, quel porcilaio economico che si mette in moto dopo un disastro che, alla fine dei conti, non è mai del tutto naturale.

Anche se il quadro della Turchia che ci siamo fatti sarebbe già sufficiente a rispondere alla fatidica domanda “sotto il profilo imprescindibile del rispetto dei diritti dell’uomo, la Turchia ha le carte in regola per entrare in Europa?”, torniamo ancora a Diyarbakir per seguire una seduta del processo contro i sindaci del Bdp. Per il Governo turco, è il processo al Kck, una sigla con la quale il pubblico ministero ha genericamente chiamato il cosiddetto terrorismo curdo. Qualche dato prima di tutto. Gli imputati in completo isolamento da 32 mesi, celle separate e passeggiata per il cortile ad orari diversi, sono in tutto 151. Tra questi troviamo 12 sindaci, 2 presidenti di provincia e 2 vice sindaci. Ci sono anche due imputati già giudicati estranei ai fatti, arrestati per mero scambio di persona. Alla richiesta della difesa di liberare almeno loro, il tribunale ha risposto: “No, perché si sono difesi in curdo”. Da sottolineare che la giurisprudenza turca riconosce in fase processuale il diritto alla traduzione a tutti ma non ai curdi arrestati per sospetto terrorismo. Come dire che se stupri o ammazzi hai più diritti che se stampi una brochure bilingue.
Dei 56 avvocati difensori dei sindaci curdi finiti in carcere con l’incontestabile accusa di essere avvocati difensori dei sindaci curdi abbiamo già accennato, ecco allora altri dati: il processo Kck è alla 28esima udienza. Il 95% delle accuse agli imputati si basa su mail anonime e su intercettazioni. Un imputato è dentro solo per essere uscito ed entrato più volte dal portone dell’ufficio di un avvocato, ora in carcere, di Ocalan. Il disgraziato abitava sotto lo studio del legale e, come pesante aggravante, era pure curdo.
Bisogna sottolineare che i 151 imputati di Diyarbakir sono solo la classica punta dell’iceberg. Di processi avviati dal tribunale speciale contro i curdi ce ne sono perlomeno un’altra trentina. Questo di Diyarbakir è il più importante perché si svolge proprio nel cuore del Kurdistan turco. Dall’aprile del 2009, data in cui il Pkk ha proclamato una tregua, sono oltre 5 mila i politici curdi arrestati e in attesa di processo. Il dato è dell’ordine degli avvocati di Istanbul. Più precisi nel numero non possiamo essere perché il Governo turco non ama che queste “faccende interne” siano risapute. Gli arresti inoltre, si susseguono tutti i giorni. Praticamente tutto il vertice politico del Bdp è in carcere. Difficile fare politica democratica in queste condizioni. “Lo scopo del processo - ci spiega il sindaco Abdullah Demirbas - è proprio questo: impedire ai curdi di seguire la via democratica e spingerci alla lotta armata per poter dire all’Europa ‘ecco vedete? i curdi sono solo terroristi. Non intendono altre ragioni che l’uso delle armi’. Ed infatti, come possiamo noi spiegare ai giovani che non devono cedere alla violenza? Più di duemila ragazzi negli ultimi due anni sono saliti sulle montagne. E con loro c’è anche mio figlio. E’ quello che il Governo turco vuole da noi. Non è un caso se un guerrigliero catturato col mitra in mano rischia al massimo 6 anni e 8 mesi di carcere mentre nessun imputato del Bdp ha accuse inferiori ai 35 anni. Il Governo ha paura della democrazia, non di una battaglia militare. Ci arrestano perché nel '99 noi curdi abbiamo conquistato 37 municipi, nel 2004 ne abbiamo presi 54 e nel 2009 addirittura 99 municipi. I nostri deputati nel '91 erano 16, nel 2007 22 ed ora, dopo le ultime elezioni, nel 2011, ben 36, anche se, per la maggior parte, carcerati. Questo fa paura ad Erdogan. Ma se ci mettono in galera solo perché siamo curdi, come possiamo continuare a percorrere la strada delle riforme democratiche?”

Un Governo, quello turco, con la galera facile e... silenziosa. Fatti interni dove gli europei non devono ficcare il naso. Il tribunale di Diyarbakir, il giorno della 28esima udienza, martedì 6 dicembre 2011, pare una cittadella fortificata. “Questioni di sicurezza” ci ripetono in continuazione mentre ci proibiscono qualsiasi cosa. Gli stranieri non possono assistere ai processi. Per fortuna, arrivano due neo eletti deputati baschi e una battagliera deputata svedese di discendenza curda del Left Party con operatori tv al seguito che piantano un casino della madonna. Due ore di discussione accesa e in conclusione la polizia consente l’entrata a deputati, avvocati e giornalisti ma solo fino all’esaurimento dei posti riservati al pubblico. Con la tessera dell’abbonamento all’Actv (quella dell’ordine l’ho dimenticata a casa) riesco a passare pure io. Sono uno degli ultimi. Poi la porta si chiude per tutti anche se i posti destinati al pubblico risulteranno riempiti solo a metà. Questioni di sicurezza. Tre o quattro perquisizioni dopo sono in aula. Requisite telecamere, macchine fotografiche, registratori e cellulari. Mi esaminano con sospetto persino il blocco per gli appunti. Gli imputati sono già al loro posto circondati da tre poliziotti ciascuno. Sono solo sei. Agli altri 145 non è concesso difendersi neppure al loro processo. Questioni di sicurezza. Uno di loro prende la parola per rispondere ad una domanda della Corte. Subito il microfono gli viene spento. Ha parlato in curdo. Il presidente del tribunale si incazza e ammicca al pubblico ministero seduto al suo fianco che gli fa cenno che va bene così. Qui le cose funzionano in questo modo. Al pubblico ministero viene anche consentito di entrare in camera di concilio assieme alla giuria. Lo scopo di tutto il baraccone è quello di difendere la turchità dello Stato. La giustizia non c’entra nulla. Prendono la parola gli avvocati difensori, mentre il palco destinato alla stampa turca è completamente vuoto. Dopo le ultime retate di giornalisti che si sono beccati accuse per pene ultra centenarie, a nessuno viene più in mente di fare l’eroe. Chi vuole vivere a lungo sta in redazione e passa la velina. Ma la presenza dei Giuristi Democratici e dei deputati europei ottiene comunque qualcosa. Alla prossima udienza, assicura il giudice, tutti gli imputati potranno assistere in aula al loro processo. Poi tutto viene rinviato al prossimo mese. La detenzione in attesa di giudizio in Turchia può prolungarsi sino a dieci anni. Dieci anni che poi non vengono neppure scontati dalla pena definitiva. Tanto vale prendersela comoda tanto gli imputati non possono andare da nessuna parte. “Una piccola vittoria - commenta Mehmet Emin nella sua veste di avvocato difensore -. Adesso attendiamo la prevedibile reazione della magistratura che colpirà anche noi avvocati. Oramai lo sappiamo bene: quando il procuratore ci convoca, salutiamo i nostri familiari perché non li vedremo più per tanto tempo”.

E questa è la democrazia con la quale il Governo turco chiede di entrare in Europa?
“Il fatto è che al Governo turco non importa più nulla dell’Europa” mi spiega l’avvocato Mahmut Taşçi che col collega Mazlum Dinç, sono gli ultimi due avvocati rimasti al “terrorista” Ocalan. Sino a due giorni fa ve n’era un terzo ma l’hanno ingabbiato giusto ieri e spedito a raggiungere gli altri 36 precedenti. Fare l’avvocato di Ocalan non è un mestiere per tutti. “Oramai il Governo sa bene che la distanza dagli standard europei in tema di diritti è troppo grande per continuare a fare carte false. Inoltre, entrare in Europa in questi tempi di crisi non è più vantaggioso come qualche anno fa. Per questo Erdogan, anche su sollecitazione degli Stati Uniti, si sta politicamente avvicinando ai governi del Medio Oriente. La sua ambizione è quella di rappresentare una terza via per i popoli mussulmani, tra la dittatura militare e il regime islamico. Erdogan aspira a rappresentare la via democratica. Ma se è democrazia questa... l’unica differenza con il regime militare precedente è che prima ammazzavano i curdi per le strade ora li incarcerano e li lasciano morire dietro le sbarre. La stessa differenza tra una morte immediata e una lenta agonia”.
Lei è uno degli ultimi avvocati di Ocalan attualmente detenuto nell’isola prigione di Imrali. Ha qualche notizia del suo assistito? “Da luglio nessuno sa più nulla di Abdullah Ocalan. Gli ho spedito una lettera ma dubito che gli sia stata recapitata. E’ in isolamento completo dal febbraio del 1999, data del suo arresto. Non può ricevere o spedire lettere o mail, leggere i giornali, collegarsi ad internet. Non può neppure scrivere, leggere libri o parlare con qualcuno. All’inizio gli erano concesse due ore di aria al giorno, ora non so. Come vuole che stia Abdullah Ocalan? I miei colleghi avvocati che sono andati a visitarlo sono stati subito dopo incarcerati con l’accusa di far da tramite tra il ‘terrorista’ Ocalan e il Pkk. E comunque, come le ho spiegato, da luglio nessuno sa neppure se è vivo o se è morto. Neanche i suoi familiari. Alle nostre regolari richieste di incontrarlo, ci rispondono con scuse del tipo che il traghetto non funziona o che c’è mare grosso. O più semplicemente tirano in ballo le solite questioni di sicurezza. Ma Ocalan non è un terrorista. Lui voleva solo gettare un ponte tra il popolo curdo e quello turco. E per il Governo, proprio questo è stato il suo crimine”.
Prima di fare ritorno in Italia, la delegazione italiana torna a salutare il sindaco Abdullah Demirbas. Un gruppo di valsusini gli regala una bandiera No Tav in segno di fratellanza tra due popoli che combattono per difendere la loro terra e le loro tradizioni. “Tempo fa abbiamo cercato di far venire Abdullah in val di Susa per un dibattito - mi racconta uno di loro -. Aveva il biglietto e tutti i documenti in regola ma all’aeroporto Ataturk lo hanno fermato per accertamenti sino a che non ha perso il volo. Non c’è niente da fare. La Turchia non vuole che i sindaci curdi raccontino al mondo come si vive e si lotta in Kurdistan”.
Nonostante tutto questo, i curdi continuano a lottare con coraggio e determinazione. Il perché ce lo spiega chiaro proprio Demirbas. “Noi non vogliamo uno Stato curdo. Non vogliamo l’ennesimo Stato nazionalista fondato su principi di razza e di religione che magari dopo finisce per opprime altre sfortunate etnie minoritarie. Noi combattiamo per un modo diverso di vivere. Oggi la Turchia ha una precisa ideologia ufficiale: tutta la Turchia è turca, la lingua della Turchia è solo il turco, la cultura della Turchia è solo quella turca. Altro non può esistere. Noi invece pensiamo che la Turchia sia multiculturale, multilingue e multireligiosa. Noi non siamo turchi ma siamo comunque cittadini turchi e vogliamo una Turchia più democratica, una costituzione più libera, il diritto all'educazione nella propria lingua, l'abolizione del reato di opinione, la libertà di culto, la possibilità di vivere liberamente le differenze. Vogliamo il rispetto dei diritti umani e una partecipazione più diretta del popolo attraverso i consiglio di villaggio per superare il corrotto centralismo dello Stato attuale. Per questo i curdi si battono. Qualche volta con la lotta politica, altre volte con la lotta armata. Ma noi imbracciamo le armi solo quando la lotta politica ci è preclusa. Non amiamo la violenza ma con la violenza rispondiamo alla violenza dello Stato”.

Iraq: l'anafabetismo è donna

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Ebil, Iraq - Prima dell’invasione delle truppe Usa, nell’aprile del 2003, l’Iraq era la nazione più avanzata del mondo islamico dal punto di vista dell’alfabetizzazione. Nell’82, quando ancora il nome del dittatore Saddam Hussein compariva nella lista Stelle e Strisce dei “buoni” e combatteva il “cattivo” di turno, l'ayatollah Khomeyni, irriducibile nemico degli Stati Uniti, il Paese mediorientale si era aggiudicato il premio Unesco per l’istruzione.

Il tasso di analfabetismo delle donne era sceso dal 91 per cento nel 1957 al 12 per cento e le studentesse universitarie erano passate dal 16,6 per cento del totale della popolazione femminile di pari età nel 1977 al 35,7. Un dato di poco inferiore alla media europea.
“L’occupazione americana ha distrutto 40 anni di conquiste di diritti civili per le donne in Iraq. Oggi più del 50 per cento delle donne sono analfabete e disoccupate per l’oscurantismo medievale di questo governo corrotto filo iraniano che gli Stati Uniti ci hanno imposto solo perché gli sciiti li hanno aiutati ad impossessarsi del Paese” denuncia Souad Al Azzawi, 62 anni. Souad ai tempi di Saddam ricopriva un ruolo oggi inconcepibile per una donna: vice-rettore della Mamoun University e docente d'ingegneria ambientale presso l'Università di Baghdad. Nel 2003 la docente è stata insignita del premio internazionale Nuclear Free Future Award.
“A partire dagli anni Settanta - continua Souad -, le leggi promulgate dal partito baathista sull’istruzione obbligatoria avevano portato la condizione della donna ad uno dei livelli più alti del medio oriente. Nel 1980 le donne rappresentavano il 46 per cento degli insegnanti iracheni, il 29 per cento dei medici, il 70 per cento dei farmacisti. Nel 1991, quando io stessa sono rientrata in Iraq dal Colorado per divenire direttrice dei Programmi di dottorato della Facoltà di Ingegneria ambientale dell’Università di Baghdad, le docenti donne nelle facoltà e nei centri di ricerca
erano più del 30 per cento del totale. L’emancipazione era stata resa possibile anche dalle garanzie costituzionali di pari opportunità, con un sistema di istruzione misto per maschi e femmine, che ha rafforzato nelle donne l’autonomia e la sicurezza in se stesse. Nel 1990 le donne rappresentavano il 67 per cento del corpo docente iracheno fra elementari, superiori e università”.
L’arretramento della condizione delle donne in Iraq è cominciato con la prima guerra del Golfo del 1991 durante la quale i bombardamenti anglo-americani hanno devastato le infrastrutture civili irachene, non ultime quelle educative, ed è proseguito dopo il conflitto con 12 anni di durissimo embargo economico. Il colpo di grazia è arrivato nel 2003 con l’arrivo degli americani che, come leggiamo nel rapporto Unesco del 2010 sulla condizione dell’istruzione in Iraq, hanno trasformato le università e ben 738 scuole superiori in caserme per il loro esercito. Inoltre, smantellando le forze di sicurezza irachene, il Paese è piombato nel caos e l’istruzione da diritto di tutti è diventata un lusso per pochi. Il tasso di abbandono scolastico dei bambini attorno ai sette anni oscilla tra il 55 per cento tra i maschi e il 45 per cento tra le femmine. “La sharia, la legge islamica, non c’entra niente - assicura Souad -. E’ stata la guerra e l’invasione americana a riportare l’orologio della storia indietro di mezzo secolo. Sotto l’occupazione straniera le donne sono state costrette a lasciare la scuola e il lavoro a causa della povertà, dell’insicurezza, della detenzione ingiusta e illegale dei capifamiglia. Il sistema sanitario è stato gravemente danneggiato. È per questo che oggi ci ritroviamo con cinque milioni di orfani, più di due milioni di vedove, quattro milioni di profughi all’estero in gran parte diplomati e laureati e, di riscontro, un tasso di analfabetismo femminile interno che è uno dei più alti al mondo. Ci sono aree dell’Iraq dove il 70 per cento delle donne risulta analfabeta”.
Oggi frequentare una scuola viene considerata una attività a forte rischio. Secondo l’ultimo rapporto Unesco pubblicato lo scorso anno, dal 2003 al 2008 sono stati denunciati ben 31.598 assalti militari contro le istituzioni scolastiche. Le più colpite da questa situazione sono soprattutto le donne. La politica dell’attuale governo iracheno nei loro confronti è dettata dall’ala più intransigente dell’integralismo islamico. Addirittura è stato reintrodotto il muta’a, il matrimonio a tempo, con il quale, in cambio di una “dote”, la famiglia può cedere una ragazza ad un uomo per una sola notte come per un paio d’ore. In poche parole, una forma ipocrita di prostituzione. “I politici attuali pensano che le donne dovrebbero stare chiuse in casa come schiave adoranti dei mariti: vengono dissuase dallo studio e dal lavoro dal clima di oscurantismo medioevale, di intimidazione e di usanze tribali nel quale è stato gettato il Paese - conclude amaramente Souad -. Le ragazze non possono andare all’università se non coperte dalla testa ai piedi e accompagnate da padri o fratelli per evitare di essere rapite, torturate o violentate”.
Le donne irachene, prima della guerra, godevano dei più alti livelli di libertà del mondo arabo. L’invasione ha causato oltre 750 mila vedove di guerra che hanno scarsi se on addirittura nessun mezzo per sopravvivere. La nuova Costituzione irachena, benedetta dagli Usa nell’indifferenza di una Europa pronta ad indignarsi solo quando sono i talebani a promulgare quelle stesse leggi, dà sempre e comunque precedenza alla legge islamica su quella civile. E così il traffico di donne schiave a scopo sessuale è aumentato esponenzialmente, così come i “delitti d’onore”. Nella sola città curda di Erbil, quest'anno sono già state uccise ben 25 donne. Nessuno dei loro assassini ne ha mai risposto in un tribunale.

La piccola Roma dell'Iraq

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Alkosh, Iraq - “La cristianità è un gregge di pecore in transumanza. Quella che fa la matta, quella che sbaglia direzione è sempre la pecora che sta davanti. Ma quella che si piglia la randellata sul groppone è sempre quella in fondo, quella vicina al bastone del pastore”.
Padre Ghazwan Baho vive sotto assedio. Da cinque anni oramai non abbandona più il villaggio di Alkosh, nel nord dell'Iraq. “Qualche giorno fa a Mossul hanno ammazzato a coltellate un altro cristiano. Due settimane fa un gruppo armato di integralisti è riuscito ad arrivare sino a qui forzando la linea difensiva dei curdi. Volevano prendere il vescovo e sono entrati in canonica sparando. L'esercito curdo è intervenuto con le armi e dopo una breve battaglia sono riusciti a respingerli, per questa volta almeno. E tenete conto che Alkosh è anche considerato il villaggio caldeo più sicuro per i cristiani! Ma ogni volta che l'America e l'Europa intraprendono qualche assurda crociata contro l'Islam, siamo noi, i cristiani caldei, quelli che ne pagano le spese”.

Alkosh, con la sua antica chiesa che contiene le tombe del patriarca Michele e del profeta biblico Naom, è il cuore della cristianità in terra irachena. Qualche centinaio di case abbarbicate come un gregge di capre sulle pendici dell'altopiano che ad est sale sino alle montagne dell'Iran e ad ovest scende verso le distese desertiche dell'Iraq. In lontananza, dietro una foresta di pozzi di estrazione, alti fuochi e sbuffi di fumo nero delle raffinerie, si intravede l'azzurognola sagoma di Mossul.
I cristiani caldei chiamano pomposamente Alkosh la “seconda Roma”. Ben pochi di loro comunque saprebbero trovare la capitale d'Italia su una carta geografica. Della Roma vera, queste quattro case in croce di pastori e contadini non hanno proprio niente con cui spartire. E' solo un appellativo dettato dalla fede e dalla voglia di rimarcare ad un’Europa sempre più sorda che qui, in Iraq, continuano a vivere dei cristiani. Gli ultimi cristiani che continuano a parlare e a pregare nella lingua di Cristo, l'aramaico.
Un paese arroccato su se stesso sin dall’arrivo del Vangelo, portato dal patriarca Michele nei primi anni del 400, e che è rimasto fedele alla sua fede originaria anche quando l’intera Arabia si convertiva al dio misericordioso ed onnipotente predicato dal profeta Maometto.
Una legge tradizionale, non scritta ma cui nessuno ha mai trasgredito, vieta alla gente di Alkosh di vendere la propria abitazione e la propria terra a chiunque venga da fuori, non parli l’aramaico e non garantisca una discendenza caldea. Preservare la propria identità, su queste monti, è fondamentale per la sopravvivenza.
Tutta la fascia premontana abitata dai caldei, a confine tra il governatorato curdo di Erbil e quello sunnita di Ninive, appartiene amministrativamente alla provincia di Mussul ma nei fatti è occupata militarmente dall'esercito curdo. Per giungere ad Alkosh da Erbil ho contato sei posti di blocco. Nell'ultimo, quello a ridosso della “seconda Roma”, le milizie curde ti sequestrano il passaporto. Per riaverlo (da queste parti è saggio non farsi trovare mai senza) sei obbligato a ripassare dallo stesso posto di blocco. Non c'è comunque modo di fare di testa propria. Un miliziano con un uzi carico a tracolla e che parla solo un dialetto siriaco ti segue per tutta la permanenza in città. Prima dell'intervento americano, non era così, mi racconta padre Ghazwan. Le porte delle case, ad Alkosh, erano sempre aperte. Anche per i curdi perseguitati da Saddam che trovavano scura protezione nei cristiani caldei. Fu proprio il vescovo cristiano di Baghdad ad intercedere con il dittatore per salvare la vita all'attuale presidente dell'Iraq, il curdo Jalai Talabani.
“Oggi ci stanno ricambiando il favore. Se siamo vivi oggi, lo dobbiamo all'esercito curdo. Ma se passa l'idea di fare del territorio caldeo un'area cuscinetto tra i curdi e i mussulmani, noi siamo spacciati. Speriamo che gli americano cambino idea! Son loro che comandano qui. Ho paura che finiranno per dividere l’Iraq in tre Stati separati: uno per i curdi, uno per i sunniti e uno per gli sciiti. Fa comodo a tutti, oramai. Ma nel caso noi speriamo che Alkosh rimanga in zona curda e che l’esercito di Erbil non si ritiri dalle attuali posizioni. Il governo del Kurdistan vorrebbe le città di Mossul e di Kirkuk. Ma Mossul non gliela daranno mai senza combattere. Mi chiedi di Saddam Hussein? Cosa posso rispondere? Saddam era un feroce dittatore impostoci dagli Usa ma con lui avevamo elettricità 24 ore al giorno e non per sole due ore come adesso. Non c'era il limite settimanale di 30 litri di benzina, c'era uno Stato, un solo esercito, c'erano leggi e non c'era guerra tra cristiani e mussulmani. Sciiti e sunniti pregavano insieme. Si sposavano tra loro addirittura. Una cosa inconcepibile oggi. Adesso l'Iraq è tutta una frontiera e un posto di blocco. Neanche le autoambulanza fanno passare se non hanno la targa col colore giusto. E’ questa quella 'democrazia' che a voi, in occidente, pare così importante?”
Più in alto, incastrato in mezzo ai monti che ti vien da chiederti come abbiano fatto a mettercelo, c'è il monastero in rovina di santa Madonna. I frati si sono spostati all'inizio della strada “per essere più vicini alla gente” mi spiega il priore, padre Gabriele dove hanno tirato su un orfanotrofio. Una bella struttura moderna. Cento posti disponibili anche i se i piccoli ospiti sono solo 24. Se gli chiedi perché lo abbiano fatto così grande, padre Gabriele ti risponde domandandoti se davvero credi che non ci saranno più guerre in questo angolo di mondo. Come tanti altri su queste montagne, anche padre Gabriele è uno sfollato. Viveva a Baghdad col suo ordine religioso “quando Baghdad era ancora una città civile e non una città occupata”. “Il mondo non lo sa oppure fa finta di ignorarlo - racconta - ma ai tempi di Saddam a Baghdad c’era mezzo milioni di cristiani. Oggi sono poco meno di ventimila quelli che resistono perché non hanno altro posto dove scappare. Ogni quartiere era una mescolanza di genti e di religioni diverse. Oggi ci sono posti di blocco sulle strade e ogni zona deve innalzare o la mezzaluna sunnita o la Mano di Fatima sciita. I cristiani non hanno più diritti e sono perseguitati da un integralismo islamico sempre più feroce. Ma quelli che ci hanno cacciato via da Baghdad non sono gli arabi ma l’esercito americano: ‘Qui non c’è più posto per voi, ci hanno detto mentre ci accompagnavano alla frontiera, andate in Kurdistan o in Europa dove sarete accolti come rifugiati’. Perché ci hanno mandato via dalle nostre case? Gli Usa hanno sempre fatto così. Con la guerra fredda hanno diviso il mondo con le ideologie tra democrazie e comunismi. Oggi lo vogliono dividere con le religioni tra cattolici e mussulmani. Non c’è posto per chi è nato dall’altra parte della frontiera”. Dividi et impera. Lo dicevano anche in quell’altra Roma. Quella dell’impero.

Iraq: maratona per la pace

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Ebil, Iraq - Erbil è una città disegnata col compasso. Le grandi arterie della capitale amministrativa della regione autonoma del Curdistan iracheno disegnano dei larghi e perfetti cerchi concentrici all'antica cittadella che domina l'intero complesso urbano di un milione e 300 mila abitanti dai suoi 27 metri di altezza, sopra quella strana collina che ancora oggi nessuno sa dire se sia di origine naturale o costruita oltre 5mila anni or sono dai suoi primi abitanti. Centro del culto della dea Ishtar in epoche in cui sulle sponde del Tigri dominavano gli assiri, la cittadella è sopravvissuta a battaglie, assedi e conquiste straniere, attraversando l'intera storia dell'umanità. Per ammazzarla, ci è voluto un programma di "sviluppo economico" che ha tra i suoi promotori anche aziende italiane.

Due anni fa i suoi ultimi abitanti - 200 poveracci che non avevano altro tetto sulla testa, sono stati cacciati a pedate nel sedere dal governo locale per fare spazio ad una radicale ristrutturazione che prevede la trasformazione dell'intero complesso in un polo di attrazione turistica con negozi di souvenir e locali da danza del ventre. Adesso, la cittadella è un cantiere a cielo aperto ma tra qualche anno vi troverete tutto quello che un occidentale televisionato in cerca di avventura col suo tour operator immagina di trovare in un paese del medio oriente. D'altra parte, l'intera città, capitale culturale del Curdistan iracheno, è un cantiere a cielo aperto. Non si riesce a girare la testa senza che lo sguardo caschi in un palazzo in costruzione. Di investimenti stranieri da queste parti ne arrivano a frotte, dagli usa, da israele, dall'europa, l'italia come vedremo occupa un posto di rilievo, e anche dalla stessa Turchia, grazie al patto di ferro tra erdogan e i curdi iracheni che individuato un comune nemico nel Pkk, il partito comunista combattente dei curdi turchi.
Una vagonata di miliardi di investimenti che viene spacciata sotto l'eufemistico nome di "aiuti alla ricostruzione" dopo la guerra a Saddam. E pazienza se tanti degli stessi capitali che ora "ricostruiscono" sono anche quelli che avevano armato l'esercito assassino di Saddam. Le porte per gli investitori del nostro paese sono state aperte dall'Italianexpo, svoltosi proprio ad Erbil nel 2007. Un evento pubblicizzato proprio come "una opportunità unica di penetrare in un mercato in forte espansione come quello curdo e iracheno". Opportunità immediatamente colta dalla holding tecnica del gruppo Flammini, la Fgtecnopolo, che a febbraio si è aggiudicata l'appalto per la realizzazione della metropolitana di Erbil. Un affare da oltre 400 milioni di dollari dichiarati. C'è da dire che da un punto di vista sia finanziario che politico - senza volutamente considerare quegli intoppi allo "sviluppo economico", chiamati democrazia e diritti umani -, la situazione di Erbil appare ideale.
La violenza di strada che ancora infiamma il sud del Paese, qui sembra lontana. L'ultimo sanguinoso attentato ad Erbil risale al maggio del 2005, quando un kamikaze si era fatto esplodere in un hotel in cui il Pdk, partito democratico curdo , aveva organizzato un incontro. Una sessantina di morti e un paio di centinaia di feriti, il bilancio. Da allora il governo curdo è riuscito a riprendere io controllo del territorio e la situazione, con i criteri rapportati a questa parte del mondo, appare quasi tranquilla e tutto sommato favorevole agli investimenti stranieri. Possiamo quindi star sicuri che la statua dello storico Ibn al Mistawfi che da tempo immemorabile dall'alto della cittadella sorveglia severo e, dico
no qui, custodisce amorevolmente l'antica Erbil, ne sta per vedere delle belle!
Certo, l'imperturbabile Custode della Cittadella, si sarebbe anche stupito nel vedere, ieri mattina, un mezzo migliaio di corridori attraversare la sua Erbil in questa prima maratona internazionale irachena. L'iniziativa è stata promossa da ll'international civil society solidariety initiative of Iraq grazie anche all'ampio supporto dato da associazioni italiane come Upter sport e Un ponte per che hanno partecipato con una delegazione di quasi 50 atleti. O forse è meglio scrivere attivisti per i diritti umani, alcuni dei quali comunque si sono pure sciroppati l'intero percorsi di 40 e passa chilometri. Quella italiana era anche la delegazione straniera più numerosa seguite da quella provenienti da Francia, Spagna, Stati Uniti, Kenia, Nigeria, Polonia, Canada, Sudan e Palestina. C'era anche
un tedesco. Riconoscibile perché era l'unico atleta che correva con i sandali e
i calzini. Inizialmente, la maratona doveva svolgersi a Baghdad il 2 ottobre, ma questioni
di sicurezza hanno spinto gli organizzatori iracheni a dirottare la corsa ad Erbil. "Certo, a Baghdad avrebbe avuto più senso" mi ha spiegato in inglese un ragazzo sciita di Bassora col numero 419 sul petto "ma mi auguro che grazie a questa manifestazione riesca a passere nel mondo occidentale il messaggio che l'iraq intero è stufo delle guerre che non fanno altro che alimentare il terrorismo. Vogliamo la pace, vogliamo i diritti, vogliamo la democrazia". Tutte cose che adesso in Iraq non ci sono, perché sono loro le prime vittime di una politica di guerra e di sfruttamento. Loretta Mussi, presidente di un Ponte per, ha anche lei un numero appuntato sul petto ma mi assicura subito che ha già scelto la versione soft della maratona. Quella "per famiglie" di soli due chilometri. "E senza correre" aggiunge. Più che l'avvenimento sportivo, a Loretta interessa quello che ci sta sotto. "La guerra, come sempre succede quando si dà via libera agli istinti più bassi, ha fatto tornare indietro di parecchi anni la storia dell'iraq. Oggi le donne stanno ancora peggio che sotto il regime di Saddam. Il governo locale curdo emana leggi sull'emancipazione che sono solo di facciata, quello centrale
sciita addirittura la ostacola. Nella sola Erbil quest'anno sono state uccise 25 donne per reati d'onore. Studiare e scegliere per una donna è oggi ancora più difficile che 10 anni fa. Alle coraggiose ragazze col velo, le scarpe da ginnastica e i pantaloni che vedi qui, non interessa tanto la maratona quanto ribadire che hanno pari dignità e diritti degli uomini". Diritti che non si comprano con gli investimenti miliardari per la ricostruzione.

Gli ultimi balenieri di Lamalera

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Lawoleta, Isole della Sonda - Dall’altra parte del mondo, lontano, nel sud dell’Indonesia, c’è un villaggio di balenieri che si chiama Lamalera. Arrivarci è tutta un’avventura. Dall’isola di Bali bisogna salire in uno di quei piccoli aerei che, dopo qualche inevitabile scalo intermedio come neanche un autobus di linea, atterra a Maumere, nell’isola di Flores, a poche miglia marine a nord di Timor. Da qui, dovete cercare di infilarvi in uno dei coloratissimi “bemo”, sorta di pulmini taxi, e raggiungere il porto di Larantuka, dall’altra parte dell’isola. Se non riuscite ad entrarci dentro, il vostro bemo, saliteci tranquillamente sul tetto oppure aggrappatevi alla portiera. Reggetevi forte e intanto vedete se riuscite, voi, a capire come diavolo fanno a guidare col parabrezza coperto di adesivi e completamente ostruito con ninnoli e peluche da far sembrare spoglio un albero di natale.


Da Larantuka, in giorni e orari imprecisati, salpa uno scassato ferry boat che, dopo una giornata di viaggio tra le isole della Sonda - in un mare tanto azzurro da regalarvi il miraggio del sampang di Sandokan che insegue a vele spiegate la sua Perla di Labuan - vi sbarca a Lewoleba, la cittadina più importante dell’isola di Lembata. Quattrocento case, una dozzina di strade, il resto spiagge e palmeti. Non fatevi impressionare dalla minacciosa presenza dell’Ili Api, la “montagna di fuoco” dal perenne sbuffo di fumo. Rivolgetegli soltanto un breve augurio di “buon sonno” come fanno i nativi, e cercate di non pensare che si tratta di uno dei vulcani più a rischio di eruzione di tutta questa nostra terra ballerina.
A questo punto comincia la parte più dura del viaggio. Per raggiungere Lamalera bisogna attraversare la catena montuosa e la foresta che fanno da spina dorsale all’isola. Impossibile sbagliare mezzo. C’è solo un balordo camioncino che collega il porto con Lamalera. Impossibile sbagliare strada. Ce n’è una sola. Casomai potreste obiettare come si fa a chiamare “strada” quello sterrato con buche talmente fonde da seppellirci un elefante. Ma il vero problema è l’innata cortesia degli indonesiani. La frase “mi spiace ma non c’è più posto”, in queste isole, è un grave atto di maleducazione. Vale invece il principio: “Dove ci sta uno ce ne stanno cento. E fate salire anche la scrofa con i maialini”. Quelle sei o sette ore di camion lasceranno in voi un ricordo indelebile. Tornati a casa, passerete le nottate a cercare di immaginare come sia stato possibile trasportare in un solo camioncino 22 sacchi di cemento, 11 cesti di frutta, varie assi di legno, 8 galline e 2 maialini vivi infilati in sacchetti di plastica, una dozzina di grossi sacchi contenti radici e tuberi, uno strano animale imbalsamato, 26 passeggeri senza contare il guidatore e due “buttadentro” di equipaggio, con un numero imprecisato di bambini, sporte, bagagli e valigie al seguito. E faccio grazia dei frutti di durian, talmente putrescenti da dare il voltastomaco ad una puzzola. Quando proprio non ne potete più, siete arrivati a Lamalera. Siete arrivati nell’ultimo villaggio di balenieri ecologici del mondo che ancor oggi cacciano i grandi cetacei su piroghe di legno utilizzando come unica arma un arpione di bambù e tanto coraggio.
Se “balenieri ecologici” vi pare un ossimoro, considerate che per questa gente, il capodoglio, così come la pesca di squali e mante, rimane l’unica fonte di nutrimento. La stessa Greenpeace ha definito assolutamente ininfluente ai fini della conservazione della specie quei 10 o al massimo 15 cetacei che i balenieri di Lamalera riescono a fiocinare in un anno e che danno sostentamento a tutto il villaggio. La cattura di un capodoglio, a queste latitudini, è un avvenimento che coinvolge tutta la popolazione. Sono i pescatori al largo, i primi ad urlare “Baleo! Baleo!” quando all’orizzonte appare lo sbuffo di un cetaceo. Quando il grido arriva a terra, la gente lo ripete a squarciagola per darsi forza e coraggio mentre le lunghe “tena” vengono spinte in mare e l’equipaggio rivolge una preghiera a dio e si prepara a salpare. I rematori cominciano a pagaiare forte, il timoniere tiene salda la prua verso il mare aperto ed incita i marinai, prestando orecchio alle indicazioni della vedetta arrampicata sull’asta. A prua, il capo barca prepara il suo arpione di bambù e si tiene pronto a gettarsi sul cetaceo con tutto il peso del suo corpo per far penetrare in profondità l’asta mentre il mare si tinge di rosso e l’equipaggio colpisce con coltelli e machete l’animale per fiaccarne la resistenza. Una battuta di caccia può durare anche una intera giornata e trascinare la tena a molte miglia dalla costa. Al ritorno, il grosso cetaceo viene trascinato a riva dove viene immediatamente smembrato dalla gente del villaggio seguendo criteri antichi. La carne scura spetta ai balenieri, il grasso della testa all’arpionatore, ogni famiglia del villaggio, compresi eventuali ospiti, riceve la sua parte. Tutto viene utilizzato. Due giorni dopo la cattura, del grande cetaceo non rimane che qualche chiazza di sangue sulla sabbia. Il martedì successivo, le donne di Lamalera con secchi zeppi di grasso in testa e le lunghe ossa del capodoglio in mano, si recano al mercato di Wulandoni, a quattro ore di cammino. Qui, i pescatori e i contadini di Lembata si incontrano per barattare i rispettivi prodotti seguendo valori dettati da una tradizione millenaria. I primi, i pescatori di Lembata, sono tutti cattolici. Hanno nomi come Maria, Giuseppe oppure chiamano i bambini con i nomi dei calciatori del Milan di cui sono tifosissimi. Ho conosciuto personalmente un Pato e un Gennaro (Gattuso). Una tena è stata battezzata “Fly Emirates”, lo sponsor del Milan. Ho chiesto in giro, ma non ho trovato nessuno che sapeva che si trattava di una compagnia aerea. I secondi, i contadini dei vicini villaggi, sono invece mussulmani e tendono a tifare per l’Inter o per il Chelsea. Le magliette con i colori delle squadre del cuore sono uno dei regali più ambiti dopo il cellulare (che comunque qui prende solo per un’ora al giorno). Le cose cambiano anche a Lamalera. “Che cambi l’uomo è cosa buona e giusta - mi spiega Antonio, timoniere della Fly Emirates, in un inglese che è senz’altro meglio del mio - ma che cambi il mare no. Ai tempi di mio padre, catturavamo 20 o anche 30 balene all’anno. Adesso i re del mare fanno sempre più fatica ad arrivare alla nostra isola. Grandi navi chiudono loro la strada (baleniere giapponesi.ndr). Sparano loro con arpioni di fuoco che esplodono. I loro equipaggi prendono tutto quello che si può prendere dal mare, senza criterio. Quanto grande è il loro villaggio, mi chiedo? A quanta gente devono dare da mangiare? Ma non capiscono che se oggi uccidono il grande mare domani non ci sarà più nutrimento per nessuno?” Antonio scuote la testa e per tirarsi su mi snocciola la formazione del Milan. Mi chiede da dove vengo. “Italia. Ah, Italia. E’ vicino a Milan vero?” Poi mi dà di gomito e ride. “Italia bunga bunga?” Niente da fare. Neppure Lamalera è abbastanza lontana.
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