Gli ultimi balenieri di Lamalera

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Lawoleta, Isole della Sonda - Dall’altra parte del mondo, lontano, nel sud dell’Indonesia, c’è un villaggio di balenieri che si chiama Lamalera. Arrivarci è tutta un’avventura. Dall’isola di Bali bisogna salire in uno di quei piccoli aerei che, dopo qualche inevitabile scalo intermedio come neanche un autobus di linea, atterra a Maumere, nell’isola di Flores, a poche miglia marine a nord di Timor. Da qui, dovete cercare di infilarvi in uno dei coloratissimi “bemo”, sorta di pulmini taxi, e raggiungere il porto di Larantuka, dall’altra parte dell’isola. Se non riuscite ad entrarci dentro, il vostro bemo, saliteci tranquillamente sul tetto oppure aggrappatevi alla portiera. Reggetevi forte e intanto vedete se riuscite, voi, a capire come diavolo fanno a guidare col parabrezza coperto di adesivi e completamente ostruito con ninnoli e peluche da far sembrare spoglio un albero di natale.


Da Larantuka, in giorni e orari imprecisati, salpa uno scassato ferry boat che, dopo una giornata di viaggio tra le isole della Sonda - in un mare tanto azzurro da regalarvi il miraggio del sampang di Sandokan che insegue a vele spiegate la sua Perla di Labuan - vi sbarca a Lewoleba, la cittadina più importante dell’isola di Lembata. Quattrocento case, una dozzina di strade, il resto spiagge e palmeti. Non fatevi impressionare dalla minacciosa presenza dell’Ili Api, la “montagna di fuoco” dal perenne sbuffo di fumo. Rivolgetegli soltanto un breve augurio di “buon sonno” come fanno i nativi, e cercate di non pensare che si tratta di uno dei vulcani più a rischio di eruzione di tutta questa nostra terra ballerina.
A questo punto comincia la parte più dura del viaggio. Per raggiungere Lamalera bisogna attraversare la catena montuosa e la foresta che fanno da spina dorsale all’isola. Impossibile sbagliare mezzo. C’è solo un balordo camioncino che collega il porto con Lamalera. Impossibile sbagliare strada. Ce n’è una sola. Casomai potreste obiettare come si fa a chiamare “strada” quello sterrato con buche talmente fonde da seppellirci un elefante. Ma il vero problema è l’innata cortesia degli indonesiani. La frase “mi spiace ma non c’è più posto”, in queste isole, è un grave atto di maleducazione. Vale invece il principio: “Dove ci sta uno ce ne stanno cento. E fate salire anche la scrofa con i maialini”. Quelle sei o sette ore di camion lasceranno in voi un ricordo indelebile. Tornati a casa, passerete le nottate a cercare di immaginare come sia stato possibile trasportare in un solo camioncino 22 sacchi di cemento, 11 cesti di frutta, varie assi di legno, 8 galline e 2 maialini vivi infilati in sacchetti di plastica, una dozzina di grossi sacchi contenti radici e tuberi, uno strano animale imbalsamato, 26 passeggeri senza contare il guidatore e due “buttadentro” di equipaggio, con un numero imprecisato di bambini, sporte, bagagli e valigie al seguito. E faccio grazia dei frutti di durian, talmente putrescenti da dare il voltastomaco ad una puzzola. Quando proprio non ne potete più, siete arrivati a Lamalera. Siete arrivati nell’ultimo villaggio di balenieri ecologici del mondo che ancor oggi cacciano i grandi cetacei su piroghe di legno utilizzando come unica arma un arpione di bambù e tanto coraggio.
Se “balenieri ecologici” vi pare un ossimoro, considerate che per questa gente, il capodoglio, così come la pesca di squali e mante, rimane l’unica fonte di nutrimento. La stessa Greenpeace ha definito assolutamente ininfluente ai fini della conservazione della specie quei 10 o al massimo 15 cetacei che i balenieri di Lamalera riescono a fiocinare in un anno e che danno sostentamento a tutto il villaggio. La cattura di un capodoglio, a queste latitudini, è un avvenimento che coinvolge tutta la popolazione. Sono i pescatori al largo, i primi ad urlare “Baleo! Baleo!” quando all’orizzonte appare lo sbuffo di un cetaceo. Quando il grido arriva a terra, la gente lo ripete a squarciagola per darsi forza e coraggio mentre le lunghe “tena” vengono spinte in mare e l’equipaggio rivolge una preghiera a dio e si prepara a salpare. I rematori cominciano a pagaiare forte, il timoniere tiene salda la prua verso il mare aperto ed incita i marinai, prestando orecchio alle indicazioni della vedetta arrampicata sull’asta. A prua, il capo barca prepara il suo arpione di bambù e si tiene pronto a gettarsi sul cetaceo con tutto il peso del suo corpo per far penetrare in profondità l’asta mentre il mare si tinge di rosso e l’equipaggio colpisce con coltelli e machete l’animale per fiaccarne la resistenza. Una battuta di caccia può durare anche una intera giornata e trascinare la tena a molte miglia dalla costa. Al ritorno, il grosso cetaceo viene trascinato a riva dove viene immediatamente smembrato dalla gente del villaggio seguendo criteri antichi. La carne scura spetta ai balenieri, il grasso della testa all’arpionatore, ogni famiglia del villaggio, compresi eventuali ospiti, riceve la sua parte. Tutto viene utilizzato. Due giorni dopo la cattura, del grande cetaceo non rimane che qualche chiazza di sangue sulla sabbia. Il martedì successivo, le donne di Lamalera con secchi zeppi di grasso in testa e le lunghe ossa del capodoglio in mano, si recano al mercato di Wulandoni, a quattro ore di cammino. Qui, i pescatori e i contadini di Lembata si incontrano per barattare i rispettivi prodotti seguendo valori dettati da una tradizione millenaria. I primi, i pescatori di Lembata, sono tutti cattolici. Hanno nomi come Maria, Giuseppe oppure chiamano i bambini con i nomi dei calciatori del Milan di cui sono tifosissimi. Ho conosciuto personalmente un Pato e un Gennaro (Gattuso). Una tena è stata battezzata “Fly Emirates”, lo sponsor del Milan. Ho chiesto in giro, ma non ho trovato nessuno che sapeva che si trattava di una compagnia aerea. I secondi, i contadini dei vicini villaggi, sono invece mussulmani e tendono a tifare per l’Inter o per il Chelsea. Le magliette con i colori delle squadre del cuore sono uno dei regali più ambiti dopo il cellulare (che comunque qui prende solo per un’ora al giorno). Le cose cambiano anche a Lamalera. “Che cambi l’uomo è cosa buona e giusta - mi spiega Antonio, timoniere della Fly Emirates, in un inglese che è senz’altro meglio del mio - ma che cambi il mare no. Ai tempi di mio padre, catturavamo 20 o anche 30 balene all’anno. Adesso i re del mare fanno sempre più fatica ad arrivare alla nostra isola. Grandi navi chiudono loro la strada (baleniere giapponesi.ndr). Sparano loro con arpioni di fuoco che esplodono. I loro equipaggi prendono tutto quello che si può prendere dal mare, senza criterio. Quanto grande è il loro villaggio, mi chiedo? A quanta gente devono dare da mangiare? Ma non capiscono che se oggi uccidono il grande mare domani non ci sarà più nutrimento per nessuno?” Antonio scuote la testa e per tirarsi su mi snocciola la formazione del Milan. Mi chiede da dove vengo. “Italia. Ah, Italia. E’ vicino a Milan vero?” Poi mi dà di gomito e ride. “Italia bunga bunga?” Niente da fare. Neppure Lamalera è abbastanza lontana.

Uniti per la Libertà a Ras Jadir

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Campo profughi di Ras Jadir, Tunisia
- Quando chiesero a George Lucas perché avesse scelto proprio il paesaggio della provincia di Tataouine, a sud della Tunisia, per ambientarci il primo Guerre Stellari - il pianeta natale di Luke Skywalker infatti si chiama proprio “Tatooine”, americanizzato -, il regista rispose: "Ma non lo avete visto? Sembra di stare in un altro mondo!"
Man mano che la carovana di Uniti per la Libertà, procede verso sud, il morbido paesaggio mediterraneo, lunghi filari di ulivi e di fichi d'india, si allarga in un deserto estraniante di pietre e sabbia, con rari villaggi di pastori e belanti greggi di pecore. Sopra, ci accompagna un cielo azzurro impastellato dall’afa cocente che pare di vederci volare il Millenium Falcon inseguito dalla flotta imperiale. Ma la guerra che si combatte a pochi chilometri da qui, appena dopo il confine con la Libia, è tutt'altro che stellare.


Le sagome delle tendopoli d’emergenza allestite dalla Mezzaluna Rossa appaiono subito dopo il paesino di Chibou. Prima decine, poi centinaia, poi migliaia di tende. Un mare di tendoni bianchi che copre tutto l’orizzonte."Questo è solo il campo numero tre - spiega un operatore della Mezzaluna Rossa che ci accompagna - in tutto sono quattro. Finora..."
La carovana di “Uniti per la Libertà” organizzata da Ya Basta! delle Marche partita da Tunisi all’alba di sabato 9 aprile è arrivata a destinazione nella tarda serata, dopo 600 chilometri di deserto, lo scoppio di qualche pneumatico, un considerevole numero di posti di blocco, continue soste per i motivi più disparati, sfinenti trattative con presidi militari.
I “carovanieri” partiti da Tunisi sono in tutto una quarantina, provenienti da tutta l’Italia, per la maggior parte legati ai centri sociali o ad associazioni come Action o Ya Basta! A loro si sono uniti altrettanti attivisti tunisini di movimenti per i diritti umani. Tutte associazioni costituitesi da pochi mesi o addirittura da pochi giorni. “Sotto Ben Alì era vietato riunirsi in associazioni - mi spiega uno di loro, Anwar Fatnassi - Dopo la rivoluzione è tutto un fiorire, anche caotico se vogliamo, di movimenti, di gruppi, di associazioni. Ma le stesse persone che sono stati incarcerate ed hanno fatto la rivoluzione sono le stesse che oggi lavorano per aiutare i profughi. Non si può pensare alla nostra libertà senza pensare prima a quella degli altri”.
La prima cosa da fare, arrivati ai campi, è quella di scaricare il materiale. Un grosso Tir colmo di medicinali e di attrezzature mediche che la Mezzaluna chiede di portare direttamente alla frontiera libica, dove file e file di profughi si accalcano senza interruzione giorno e notte. Carri armati, filo spinato, militari con le armi spiegate, in lontananza il rombare dei cannoni, bambini con gli occhi sbarrati dal terrore che trascinano fagotti più grossi di loro, famiglie con valigie piene di tutto quello che gli rimane, donne in pianto, feriti e mutilati, tutti in fila dietro barriere e armi spiegate. Solo oggi ne sono arrivati più di 10 mila, mi spiega un operatore della Mezzaluna, “e sono solo le nove di sera. E’ di notte che arriva il grosso. Lo fanno per evitare di trovarsi per strada sotto i bombardamenti più pesanti”. Dall’inizio della guerra sono arrivati anche 15, 16 mila persone al giorno. Nelle giornate più tranquille non si è mai scesi sotto i 6 mila arrivi. L’esercito tunisino, la Mezzaluna Rossa e le associazioni di volontari, cui le autorità hanno intelligentemente demandato il primo approccio con i profughi, stanno svolgendo un lavoro che, senza retorica, possiamo definire eroico. “Non respingiamo nessuno - mi spiega un militare -. Abbiamo un primo campo di accoglienza da cui smistiamo le persone in altri tre campi e diamo immediato avvio alle procedure per il riconoscimento dello status di profughi e per i rimpatri. Di là della frontiera, in mano alle truppe di Gheddafi, sta succedendo di tutto. Ieri un disgraziato impazzito si è gettato con l’auto contro le barriere ed è uscito urlando e bestemmiando dio e sparando contro tutto con due pistole. Abbiamo dovuto abbatterlo. I problemi quotidiano sono immensi. Mancano medicinali e soprattutto gli strumenti di profilassi. Qui la tubercolosi ammazza, ieri abbiamo registrato il primo caso di malaria, e poi c’è la febbre gialla. Tutta la roba che avete portato è un regalo dal cielo per noi”.
Al campo tre, dove i carovanieri concluso lo scarico si danno appuntamento e che ospita tra le 70 e le 80 mila persone, troviamo una quasi festa. La gente balla e canta e saluta un camion con una trentina di ghanesi che viene rimpatriata. Tutti ridono e si augurano che presto tocchi anche a loro. Un giovanotto sudanese mi racconta che è là da quasi un mese. Lavorava come elettricista in una ditta in una cittadina a due passi da Tripoli che è stata praticamente rasa al suolo. Ha già lo status di profugo e attende che il suo Paese metta a disposizione un aero per farlo tornare a casa assieme ai suoi compagni. Gli spiace, e mi indica tre uomini e una donna che se ne stanno un po’ in disparte, per quegli amici là. “Sono del Ciad. Anche loro sono profughi ma il loro Paese è tanto povero. Non hanno soldi per una aereo. Chissà per quanto dovranno stare qua, poveretti”. Come si vive al campo? “Non c’è guerra, nessuno ci vuole accoppare e questo è già una cosa buona. Ma il cibo è poco e queste tende non sono fatte per il deserto. Di giorno il caldo (il mio termometro ha toccato i 41 gradi dentro un tendone.ndr) fa svenire le donne. E poi ci sono serpenti e scorpioni. Le ultime scorte di medicine per il loro veleno sono giustamente riservate ai bambini. Insomma, che ti devo dire, spero che tocchi a me, tornare a casa, la prossima volta!”
“Una bella differenza con l’Italia del bunga bunga, delle escort, degli scandali vero? - commenta Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana Uniti per la Libertà - Che poi è la stessa Italia infame ed egoista che urla contro i migranti e usa a sproposito parole come ‘clandestini’. Pensiamo all’ipocrisia del ministro Roberto Maroni che ha creato ad arte l’emergenza di Lampedusa e afferma che l’Italia accoglierà solo i veri profughi che sono solo i libici. Perché, viene da domandargli, un somalo che è scappato da una guerra civile solo per finire dentro un’altra, che cosa è se non un vero profugo?”
La sera ha lasciato spazio alla notte, nelle tendopoli di Ras Jadir. I militari avvicinano un per uno i ragazzi di Ya Basta! e li invitano con fermezza ad uscire dalla tendopoli con la promessa di farli ritornare domani. Tutte le autorizzazioni ottenute a Tunisi qui non servono a nulla. La carovana dovrà accamparsi ad almeno una ventina di chilometri dal confine. Ragioni di sicurezza, dicono. Siamo italiani, l’Italia è in guerra con la Libia e le truppe fedeli al Raìs sono ad un tiro di fucile dal campo. A malincuore i carovanieri ricaricano gli zaini nel pulman mentre i profughi e gli operatori della Mezzaluna Rossa salutano questi strani italiani che non parlano come Bossi o Berlusconi, portano medicine e non bombe, girano in scassatissimi autobus e non su aerei di guerra, credono nella solidarietà e non nei respingimenti. Italiani che raccontano di un Meditterraneo antico e futuro. Un Meditterraneo che sia un ponte tra i popoli e non una frontiera di guerra.

Ya Basta in carovana

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Tunisi - In questa Tunisi dove la rivoluzione è tutt’altro che finita, una ventina di attivisti di “Ya Basta” provenienti da tutta l’Italia si è data appuntamento per portare nel sud del paese, nei campi profughi di Ras Jadir dove sono transitati per lo meno 150mila profughi - che cosa è al confronto Lampedusa? - un grosso carico di medicinali e di attrezzature medi- che. «perché lo facciamo?», spiega Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana denominata “Uniti per la libertà”, «innanzitutto per portare per portare solidarietà e aiuto a persone che ne hanno bisogno, ma anche per testimoniare nei fatti che l’Italia non è solo Bossi e Berlusconi».


L’avventura dei ragazzi di “Ya basta” che stanno per entra- re in zona di guerra, ai con- fini con la Libia, non è passata indifferente tra l’opinione pubblica tunisina che ha dato loro ampio spazio nelle televisioni, nei media e nel- le radio. Venerdì si è svolta un’affollata conferenza stam- pa e un incontro con le de-
legazioni dei movimenti dal basso e degli universitari che sono stati i veri motori della rivolta contro Ben Alì. oggi la carovana farà rotta a sud con una scorta dell’esercito e della Mezza luna rossa. al momento in cui scriviamo, le forze armate tunisine hanno proibito ai carovanieri di pernottare all’interno del campo 2 di ras Jadir, che ospita circa 10mila profughi, giustificando il divieto con l’eccessiva vicinanza al confine libico. «non dimentichiamoci - ha spiegato un portavoce dell’esercito - che l’Italia è un paese in guerra con la Libia».

Tunisi blindata

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Tunisi, dopo la Primavera Araba
- Corruzione, corruzione e ancora corruzione. se chiedete a un tunisino se la rivolta di gennaio sia scoppiata per il pane o per la democrazia, vi risponderà che a rendere insostenibile il regime di Ben alì è stata la piaga di una corruzione diffusa elevata a sistema di governo. e a tesserne le trame investendo tutti i settori della vita pubblica, spiegherà, non era tanto il dittatore quanto la moglie Leila trabelsi che aveva lottizzato l’intero paese tra una decina di famiglie mafiose che imponevano tangenti e governavano più dello stesso governo. «eravamo arrivati al punto», spiega un giovane laureato che durante le sommosse ha inchiodato il suo certificato di laurea a mo’ di protesta sul portone del palazzo di governo «che chi voleva lavorare doveva pagare percentuali fisse. era un ladrocinio istituzionalizzato».


Oggi Tunisi è più libera di tre mesi fa. Ma sono stati tre mesi di lotte continue. Dopo che il movimento chiamato Casbah 1 ha cacciato il dittatore e l’odiata consorte, pagando un duro tributo di sangue, le famiglie mafiose e i ministri del governo di Ben alì hanno tentato in più occasioni di riciclarsi e di mantenere il potere politico ed economico. Ma la Casbah non ha abbandonato le piazze della rivolta, riuscendo a far dimettere uno dopo l’altro tutti o quasi i membri del vecchio governo. «Thank you facebook», si legge sui muri della capitale. Così Casbah 2 ringrazia il social network che durante gli scontri di febbraio ha consentito ai rivoltosi di passarsi informazioni e di tenere i contatti in un paese in cui la stampa è strutturalmente asservita al potere.
Oggi, tre mesi dopo la rivolta di gennaio, Tunisi sta ancora cercando la strada della democrazia. il governo di transizione è praticamente inesistente. scioperi continui paralizzano le poste e i trasporti, e la macchina statale. L’immondizia che ormai ostruisce le entrate alle caratteristiche viuzze, e i cui miasmi coprono l’odore di spezie, testimonia lo sciopero pressoché continuo degli spazzini. Le piazze della rivolta sono circondate da lunghe trincee di filo spinato e dai blindati dell’esercito. esercito che comunque viene salutato come liberatore, in quanto al momento della ribellione ha rifiutato di sparare sulla folla, come invece hanno fatto i pretoriani di Ben alì e la polizia, contribuendo di fatto alla caduta del dittatore. il centro storico di tunisi due minuti dopo il coprifuoco pare nuclearizzato. anche il coloratissimo mercato di medina dopo il tramonto si trasforma in un deserto da cui conviene girare al largo. e neppure di giornoil quartiere è tranquillo. È in atto una vera guerriglia tra vecchi commercianti e nuovi ambulanti che provengono da fuori città. i turisti sono oramai un ricordo passato. nelle aree popolari della città, nei quartieri universitari, qua e là si formano gruppi spontanei che poi danno vita ad approssimativi cortei che si concludono con violenti scontri.
In questa caotica situazione, gli islamici, partigiani del 26 aprile, latitanti per tutto il corso della rivoluzione, stanno alzando la cresta e si intrufolano nei cortei dei sindacati e degli studenti e, dall’interno, spintonano via le donne e chiedono la proibizione dei liquori. Molti bar di Tunisi hanno già messo al bando birra e vino. Gli islamici cancellano le scritte delle ragazze dell’università femminista - non femminile- di Tunisi. «Le donne tunisine sono libere e libere resteranno».
«Sono una netta minoranza - spiega una ragazza - ma hanno soldi e potere. a parole chiedono la libertà di culto e presentano la faccia pulita, ma tra loro parlano di istituire la legge islamica».
Portano la barba - li chiamano “i barbuti” - indossano il turbante che qui nessuno porta, sventolano le bandiere dell’arabia saudita che li foraggia generosamente. spendono e spandono in beneficenza, specie nelle aree più povere. in puro stile Hamas, rischiando di fare il pieno di voti alle prossime elezioni quando si dovrà decidere quale tra i 52 partiti nati dopo la caduta di Ben alì dovrà governare quello che rimane della tunisia. Chi ha fatto la rivone il prima possibile, ma gli islamici pretendono una proroga di tre mesi e hanno trovato sponda nei comunisti che sperano di avere più tempo per organizzarsi. La Casbah 3, che domina oggi la piazza non è altro che il prodotto di questa confusa anche se non insolita alleanza tra marxisti e islamici. Votare e farlo subito è quanto continuano a chiedere quelli che la rivoluzione l’hanno fatta. Lasciare altri 3 mesi, di cui uno di ramadan, agli integralisti potrebbe voler dire cancellare anche l’ultima scritta che ricorda che le donne della tunisia sono libere e libre resteranno. allora non potranno neppure più dire «Thank you facebook».

I poveri miliardari dello Zimbabwe

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Victoria Falls, Zimbabwe
- Nel mio portafogli, dove raramente ospito più di 30 euro, conservo una banconota da 50 bilioni di dollari. Sì. Avete letto bene: bi-lio-ni! Ve la metto pure in cifre: 50 000 000 000 dollari. Che sarebbero - secondo la numerazione anglosassone - cinquantamila milioni di dollari. Una bella cifra, eh? E non sono soldi del Monopoli ma banconote ufficiali con tanto di timbro “Reserve bank”, lussuosa filigrana anti falsificazione, firma autenticata del ministro delle Finanze e numero di serie. Avrei potuto averne anche una più bella da 5 trilioni di dollari, che sarebbero - se non ho cannato i conti col sistema inglese - 5 mila miliardi di dollari, ma l’esoso tipo che me la voleva vendere pretendeva in cambio ben 10 rand sudafricani. Quasi un euro! Decisamente troppo per qualche trilione di dollari.

Così ho frugato in una delle due borse della spesa piene di miliardi di miliardi di dollari che mi porgeva, sino a che ho trovato questa notevole banconota da 50 bilioni che da allora conservo vicino all’abbonamento del vaporetto con la venerazione riservata ad un santino di San Precario. Aspetto solo che qualcuno mi chieda cosa significhi il termine “neo liberalismo” per sbattergliela davanti agli occhi.
I miei 50 bilioni di dollari li ho comprati, dopo stressante contrattazione, da un plurimiliardario affamato e senza scarpe per 5 rand (50 centesimi di euro). E l’affare l’ha fatto lui. Fossi un tipo che guarda ai soldi, avrei potuto tirare ancora un paio di rand. Qui, sotto gli eterni arcobaleni delle cascate Vittoria, il luogo dove “le grandi acque tuonano" e l’inviato Harry Stanley incontrò il dottor Livingstone, le strade son piene di gente che gira con carriole di dollari.
Non che ci sia qualcosa da comprare. I rari supermercati hanno gli scaffali mezzi vuoti. E anche se fossero pieni non cambierebbe niente; da queste parti, con 50 bilioni di dollari non ti porti a casa neppure, non dico una decina di sigarette sfuse, ma neanche una mezza bottiglia di acqua. Che da quando gli acquedotti sono stati privatizzati, i rubinetti buttano sono negli hotel per turisti. Acqua comunque non potabile. Tutti vanno con un secchio in mano a tirar su dallo Zambesi, anche se il Governo lo avrebbe vietato sostenendo che l’acqua in bottiglia è più igienica e sicura.
Eppure, i felici abitanti dello Zimbabwe sono tutti ricchi come zio Paperone. Tutti con le tasche piene di fantastiliardi e sbirillioni. Ce lo ripete sino allo sfinimento Robert Gabriel Mugabe, presidente democraticamente ed ininterrottamente eletto e rieletto dal 1982 ad oggi grazie ad una capillare e costante azione di persecuzione, incarcerazione e tortura degli avversari politici, violenze sistematiche e appropriazione dei generosi aiuti internazionali per farsi le campagne elettorali e corrompere i tribunali elettorali.
Nelle ultime elezioni, nel 2008, l’ha fatta più grossa del solito. Siccome i sondaggi gli dicevano che la gente non ne poteva più di lui, lanciò l’operazione Murambatsvin, parola che in lingua shona significa “fare piazza pulita”. Spazzò letteralmente via dalle bidonville due milioni e mezzo di disgraziati soltanto perché avrebbero probabilmente votato per il partito d'opposizione. “Tolleranza zero per gli sfaccendati che sporcano, non lavorano e danno una cattiva immagine del nostro Paese” ha detto in tv. Quante persone siano state massacrate e buttate in fosse comuni non lo sa nessuno. E non si è fermato qua. Alcune associazioni pacifiste hanno denunciato (dall’estero) che Mugabe, assillato dall’idea di ripulire le città, ha creato appositamente le condizione per la diffusione del colera che dal 2008 ad oggi nelle zone più indigenti del paese ha contagiato 70 mila persona e ammazza con una media che va dalle 2 alle 3 mila persone all’anno. L’acqua inquinata è uno dei veicoli principali dell’infezione. Ma qui, come abbiamo detto, non ti bastano 50 bilioni di dollari per comprare dalla solita multinazionale una bottiglia di acqua “pulita”.
Adesso, va spiegato che Robert Gabriel Mugabe, non è solo il solito dittatoruncolo delinquente da repubblica delle banane, ma un vero e proprio pazzo psicopatico. Come definire altrimenti un tipo che firma documenti ufficiali a nome di dio asserendo di averne la delega, racconta nella sua biografia - testo d'obbligo per le scuole - che George Bush lo voleva nominare ministro delle finanze degli Stati Uniti e che ha massacrato tutti gli omosessuali del paese asserendo che se la godevano a diffondere l’aids?
Il tutto nel più completo menefreghismo della società internazionale. Una mezza colonna sullo Zimbabwe compare di tanto in tanto nei giornali solo per segnalare la sovrumana quantità di aragoste importate dalla Giamaica con cui Mugabe riesce giornalmente ad ingozzarsi mentre il suo popolo muore di fame. Forse è per questo che in Zimbabwe i giornalisti non sono bene accetti. Quando sono sbarcato all’aeroporto, mi hanno portato in una saletta privata, fotografato, fatto un sacco di domande e consegnato un documento con il quale mi sarei dovuto presentare alla polizia segnalando ogni mio spostamento. Cosa che mi son ben guardato dal fare. Mi hanno spiegato fuori dai denti che il Governo non ama la stampa estera e che ogni tanto “son costretti ad arrestare qualcuno” che “scrive cose false sul nostro Paese”. False come provare a capire perché lo Zimbabwe sia allo sfacelo? E’ un bel mistero, questo! E sì, che il nostro Mugabe, sin dal suo insediamento, ha seguito pedissequamente i dettati per un perfetto “sviluppo economico” impartiti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario col dichiarato obiettivo di arrivare in tempi brevi al cambio uno a uno col dollaro americano: ha privatizzato tutto quello che si poteva privatizzare e poi anche quello che non si poteva, ha aperto le porte a tutte le multinazionali occidentali consegnando tutte le ricchezze del paese per sfruttarle con tecnologie avanzate e creare posti di lavoro, ha attuato una riforma agraria dettata dall’esemplare criterio di buttare fuori gli inutili contadini e assegnare la terra a chi davvero sapeva farle fruttare: i suoi amici di merenda governativa che si son subito messi a seminare ogm. Il collasso che ne è seguito è ad un livello tale che la Banca Mondiale si rifiuta di fare statistiche sul tasso di inflazione del Paese. Secondo alcuni si aggira sui 13 milioni per cento, ma capirete che son percentuali che non hanno più significato. Per descrivere la situazione, la Banca Mondiale ha coniato il termine “iperinflazione” e per risolverla ha semplicemente depennato lo Zimbabwe dalla lista dei paesi solvibili sconsigliando gli investitori di perderci ancora tempo. Un malato terminale sul quale nessun intervento medico ha senso e speranza. Più che fallito, lo Zimbabwe è morto. E senza che nessun geniale economista ci abbia spiegato il come e il perché, considerato che qui sono state applicate tutte le ricette neoliberiste di “sviluppo economico”. Oggi, lo Zimbabwe, se lo sono comprato i cinesi a prezzi, è il caso di dirlo, di inflazione, senza che il passaggio dal capitalismo al comunismo abbia migliorato o peggiorato le condizioni dei suoi miliardari morti di fame. Comprato a suon di dollari americani, intendo, eh? Mica con i dollari zimbabwesi che non valgono la filigrana con cui son stampati. Queste banconote senza il senso del ridicolo non le vuole proprio nessuno, qui, a Victoria Falls, sotto gli eterni arcobaleni dove “le grandi acque tuonano” e dove anche il paesaggio è proprietà privata di una catena internazionale di alberghi di lusso. Al massimo, riescono a rifilarle, come souvenir, a qualche turista che se le porta a casa per farci una risata sopra. Si compra e si vende - per chi ne ha - in euro, rand del Sudafrica, pula del Botswana, rial iraniani... qualsiasi cosa è più credibile di questi trilioni di dollari senza vergogna. E qui un’ultima osservazione la devo proprio fare. Sulla mia banconota bilionaria c’è scritto in stampatello “I promise to pay the bearer on demand”. Prometto di pagare il portatore su richiesta. Che dite? Se gliela porto a Mugabe me la cambia con un bilione di dollari americani? Mi accontento anche della metà...

Le brigate mediche di Ya Basta

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Caracol de La Realidad, Chiapas - Il 1997 fu un anno decisivo per l’insorgenza zapatista nel Chiapas. Quel settembre, mille cento e undici guerriglieri dell’Ezln - l’esercito zapatista di liberazione nazionale - marciarono dalla selva Lacandona sino allo Zòcalo, l’immensa piazza posta nel cuore di Città del Messico. Gli “insurgentes”, protetti dal caratteristico passamontagna nero, denunciavano le continue aggressioni di militari e paramilitari alle comunità indigene del sud e chiedevano l’applicazione degli accordi di San Andrés che consentivano forme di autogoverno per i 56 popoli nativi del Messico. Accordi che il governo, l’anno precedente, aveva firmato e subito dopo disconosciuto, grazie anche all’appoggio esterno del Prd, il forte partito di centrosinistra allora all’opposizione. L’ingresso degli zapatisti nella capitale fu un’apoteosi di folla: quasi un milione di messicani si riversò sulle piazze per salutare, applaudire e sostenere los rebeldes del Chiapas.

Il quotidiano la Jornada scrisse che nemmeno un redivivo Emiliano Zapata avrebbe saputo infiammare di tale entusiasmo le strade di Mexico City. La risposta del governo fu immediata e violenta. L’80 per cento delle forze militari messicane, rinforzate da “consiglieri di guerra” Usa, fu dirottato nella regione del Chiapas per soffocare la rebeldia. I reparti speciali dell’esercito intensificarono le incursioni nelle comunità indigene e parallelamente, gruppi paramilitari finanziati dai latifondisti compivano sanguinose azioni terroristiche che culminarono nella strage di Acteal, dove il 22 dicembre furono torturati e ammazzati 45 indigeni tra cui 25 donne e 15 bambini. Appartenevano ad una associazione di matrice cattolica e pacifista. Nessuno di loro aveva mai partecipato ad alcuna azione di guerriglia e le uniche armi trovate nel villaggio furono due forconi e un machete.
E’ in questi anni tragici che l’associazione italiana Ya basta! attiva quelle che più tardi chiamerà le “brigate mediche” a sostegno delle rete sanitaria che gli zapatisti, tra tante difficoltà, cercavano di costruire nella selva.
“Il nostro primo impegno - ricorda Vilma Mazza, portavoce dell’associazione - fu la raccolta di fondi e di medicinali per realizzare la prima clinica indigena, la Guadalupana, situata nel municipio autonomo di Oventic. Successivamente, contribuimmo a costruire una seconda clinica a San José del Rio, nella zona Selva. Queste furono le nostre prime iniziative sul campo medico. Negli anni successivi portammo ambulanze, personale, medicine e strumentazioni seguendo sempre le indicazioni delle giunte di governo indigene che puntavano ad un modello sanitario diffuso e radicalmente opposto a quello offerto del governo messicano, arroccato sui grandi ospedali cittadini, quasi sempre privati e certo non usufruibili dagli indigeni”.
Significativa a questo proposito, la vicenda della grande clinica che il governo realizzò nel ’94 a Guadalupe Tepejac, un piccolo centro nel bel mezzo della selva Lacandona, ad una decina di ore di auto da San Cristóbal de las Casas. Fu una bella inaugurazione: giornalisti, ministri, televisioni, strutture moderne, stanzoni lindi e dipinti a fresco, noti primari delle cliniche di Città del Messico che illustravano ai tanti ospiti “vip” della televisione e della politica, le meraviglie delle apparecchiature presenti. Il giorno dopo la festa, i macchinari erano già imballati e pronti per essere rispediti alle cliniche private del nord che li avevano cortesemente prestati. Il personale medico e paramedico faceva ritorno alle proprie sedi di lavoro, e nel villaggio di Guadalupe Tepejac restava ad imputridire nel verde della selva un perfetto esempio di “cattedrale nel deserto”. Tre anni dopo, inoltre, il paesino fu occupato dall’esercito e presidiato con cannoni e carri armati: l’ospedale - che comunque era tutt’altro che operativo - fu definitivamente reso inaccessibile alle popolazioni indigene per le quali era stato costruito.
Contro queste ipocrite operazioni dettate esclusivamente da possibili ritorni elettorali e propagandistici, gli zapatisti si impegnarono a realizzare una rete di piccoli ma diffusi centri di salute, capaci di coprire l’intero territorio. In un ambiente ancora per buona parte selvaggio, come la selva Lacandona, dove le distanze tra le varie comunità si misurano in giorni di marcia a piedi o a dorso d’asino, un grande ospedale è una struttura senza senso pratico. Così come non ha senso l’introduzione di certi medicinali realizzati per l’utilizzo nelle nostre città. Un esempio è il veleno del serpente che gli indigeni chiamano “ocho pasos”, otto passi. Il nome sta ad indicare che chi viene morso può fare ancora otto passi ma non di più. L’antidoto esiste ma è costoso, deperisce rapidamente e comunque deve essere conservato in un frigorifero. Sotto tali condizioni, meglio rivolgersi alla medicina tradizionale che da secoli ha messo a punto rimedi realizzati con le erbe della foresta, magari non efficaci come un vero siero antiofidico, ma che comunque consentono di salvare la vita al malcapitato.
Nella costruzione delle rete sanitaria zapatista, si sono rivelate di fondamentale importanza le varie spedizioni dell’associazione Ya basta! che a partire dall’anno di nascita dei caracoles, hanno periodicamente portato nel Chiapas personale medico altamente qualificato non tanto per assistere i malati, quanto per formare operatori locali indigeni specializzati nelle patologie più frequenti nell’area. Siamo nel 2002. Sono trascorsi oramai otto anni da quel primo gennaio del ’94 in cui il Messico si trovò a fronteggiare una rivoluzione indigena che per tanti versi richiamava quella zapatista del 1910, e il mondo ascoltava attonito il grido di un uomo col volto coperto da un passamontagna che si faceva chiamare soltanto Marcos, che dalla finestra del municipio di una San Cristóbal occupata con le armi in pugno, urlava al mondo: Ya basta! - adesso basta! Dopo otto anni di guerriglia, di massacri e di accordi traditi, l’Ezln decide di rompere definitivamente col governo, con tutti i partiti e col potere politico, per intraprendere la strada di una autonomia che parta dal basso. Gli zapatisti fondano le loro isole di libertà costituite da 39 municipi autonomi raccolti in cinque regioni autogovernate chiamate caracoles ognuna delle quali retta da una “Junta de Buen Gobierno” eletta dagli indigeni col sistema della rotazione periodica degli incarichi. Per inciso, “caracol” significa “lumaca”, il cui guscio a spirale, secondo una tradizione cara alle popolazione del centroamerica, simboleggia una concezione orizzontale e democratica della politica, contrapposta a quella centralizzata e piramidale.
In questi anni, Ya basta! intensifica la sua collaborazione con l’Ezln portando avanti, oltre alle brigate mediche, anche tanti altri progetti vincenti come, solo per fare un paio di esempi, la diffusione in Italia del caffè Rebelde prodotto dai pueblos indigeni e le continue “carovane” di osservatori internazionali per rispondere alla disinformazione del governo messicano sulla rivoluzione zapatista in atto nel Chiapas.
Pervinca Rizzo, è una dottoressa specializzata in ginecologia. Non se ne avrà a male se la descriviamo come una “ginecologa da battaglia”, sempre in prima linea per tutto quanto riguarda i diritti e la salute delle donne, tanto nel suo ambulatorio nell’entroterra veneziano dove assiste le migranti quanto nella selva Lacandona con le indigene. Pervinca è stata una delle prime dottoresse a seguire le brigate mediche di Ya basta! nelle impervie montagne del Chiapas.
“Gli zapatisti ci avevano chiesto del personale in grado di formare una rete di ‘promotori di salute’ in grado di intervenire nelle patologie più frequentemente riscontrabili nei villaggi - spiega la dottoressa -. Fin dall’inizio era chiaro che non volevano un rapporto assistenziale né con noi né con nessun altro ente, ma che avrebbero gradito comunque un aiuto per essere messi il prima possibile in grado di camminare da soli. E questa è anche la filosofia che ha sempre guidato le nostre brigate mediche. Ogni anno, e spesso anche più di una volta all’anno, io e altri miei colleghi, selezionati in base alle specializzazioni richieste dalle Juntas de buen gobierno, ci rechiamo al caracol de la Realidad e ci mettiamo a disposizione per trasferire le nostre conoscenze scientifiche ai ‘promotori di salute’ indigeni. Non di rado, anche noi impariamo qualcosa dalla loro medicina tradizionale e dagli splendidi erbari che hanno realizzato all’interno delle loro strutture ospedaliere. I ‘promotori’ sono sempre persone motivate e ben preparate. Purtroppo per loro è impossibile compiere l’ultimo passo e diventare veri e propri medici. L’accesso all’università messicana gli viene sempre negato. Abbiamo cercato di farne venire qualcuno in Italia a studiare, offrendoci di coprire noi tutte le spese, ma per la nostra legislazione sono e restano sempre ‘immigrati clandestini’, purtroppo”.
A distanza di 16 anni dallo scoppio dell’insorgenza, i risultati ottenuti dalle Juntas de buen gobierno sulla vita quotidiana delle popolazioni indigene saltano all’occhio viaggiando da un villaggio controllato dall’esercito regolare ad un altro liberato dall’Eznl. La messa al bando degli alcolici, in particolare, con i quali i latifondisti “pagavano” e “pagano” tuttora in certe zone, il lavoro dei contadini, abbruttendoli e controllandoli con la dipendenza, ha migliorato le condizioni di vita dei nuclei familiari. I bambini non girano nudi a chiedere la carità, ma hanno scuole, vestiti e assistenza sanitaria. Le donne, in particolare sono state le prime protagoniste e le prime beneficiarie di questo cambiamento. Le promodoras de salud feminil raggiungono, camminando anche per intere giornate, i villaggi più sperduti, anche pueblos che non si professano zapatisti, per educare le donne ad avere cura del proprio corpo ed a vivere in maniera soddisfacente la propria sessualità con tecniche di contraccezione. Secondo una statistica ufficiale realizzata da un ente governativo sanitario messicano, prima dell’insorgenza, una indigena del Chiapas aveva in media una dozzina di bambini, di cui gliene sopravvivevano meno di metà. Oggi, nei villaggi zapatisti, le donne hanno 4 o 5 figli con alte probabilità di sopravvivere all’infanzia.
Sono conquiste come queste che hanno dato orgoglio, vita e speranza di futuro alla rivoluzione zapatista.
“Le donne del Chiapas hanno avuto il coraggio di riprendersi in mano la loro vita - spiega Pervinca - Un proverbio citato spesso da queste parti recita: quando avanzano le donne, nessun uomo può retrocedere. Ed è stato proprio così. Le donne del Chiapas sono state le prime a capire che così non potevano più andare avanti e che, per i loro figli, per il loro futuro, non avevano altra scelta che quella di fare la rivoluzione. Quando sono arrivata nella selva Lacandona per la prima volta, mi sono trovata davanti a situazioni tremende. Col beneplacito del governo, operavano sedicenti organizzazioni ‘umanitarie’ che sterilizzavano senza consenso le donne indigene che si sottoponevano a trattamenti medici operatori. Alle donne in allattamento, affermando che ‘faceva bene alla loro salute’, venivano praticate da medici che non esito a definire indegni, iniezioni di un farmaco chiamato depo-provera a base di ormoni progestinici con lo scopo di evitare che portassero avanti altre gravidanze. Questi farmaci sono medicinali pericolosissimi per la salute sia della puerpera che del bambino in allattamento, ma che venivano ugualmente iniettati in dosi massicce a donne inconsapevoli degli effetti. Per dire le cose come stanno, le indigene venivano trattate come bestie. Nessuna meraviglia che siano state le donne le prime a prendere in mano il machete e a mettersi il cappuccio in testa!”
Combattere la povertà (ammazzando tutti i poveri?) e favorire lo “sviluppo economico” delle aree arretrate del Chiapas. Era questo l’obiettivo perseguito da enti governativi e benemerite associazioni di medici - macellai, quasi tutte statunitensi e finanziate dai “programmi umanitari” di multinazionali. Agivano in collaborazione con il governo dello Stato del Chiapas e con i latifondisti, per legge costituzionale, padroni di tutta la terra, di tutta l’acqua e di tutti gli indigeni che vivevano nelle loro fincas e che dovevano pure pagargli l’affitto dei campi in ore lavorative. Un modo come un altro per dire schiavi. Era la loro voce, quella che il primo gennaio del 1994 gridava dalla finestra del municipio di San Cristóbal de las Casas: ya basta!

La sacra acqua degli himba

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Epupa Falls, Namibia - Nelle regioni settentrionali della Namibia, nell’arida regione del Kaokoland, tra la vasta e polverosa piana dell’Etosha a sud, e le sconfinate foreste pluviali dell’Angola a nord, vive il popolo degli himba. Gli herero, con i quali condividono la lingua ma non certo i costumi, antepongono al nome “himba”, il popolo, l’aggettivo “ova”, medicanti, che dà il termine “ovahimba”, ovverosia popolo di mendicati, con il quale sono denominati in Namibia. Ancora oggi gli herero occidentalizzati rinfacciano agli himba di aver abbandonato circa un secolo e mezzo fa, per paura delle aggressioni delle tribù dei nama, la terra degli avi e aver attraversato il sacro fiume Kunene per chiedere ospitalità alle tribù boscimani delle quali successivamente adottarono e rielaborarono gli stili di vita. Così che, quando, nel 1920, ritornarono nella terra natia, gli himba portarono con sé usi e costumi completamente diversi da quelli con i quali erano partiti.

L’esilio in terra boscimana permise al popolo himba di evitare l’occidentalizzazione forzata imposta dai colonizzatori tedeschi che, al contrario, fece piazza pulita dell’antica cultura herero al pari delle altre culture native del territorio occupato. Oggi, con una “tradizione” risalente tutt’al più al tardo ‘800, gli himba sono probabilmente il gruppo etnico più “moderno” che cammina su questa nostra terra.
I circa mille e cento himba ancora rimasti sono prevalentemente nomadi e pastori. Gli uomini seguono le vacche in lunghe transumanze che possono durare anche varie settimane. Le donne fanno tutto il resto: allevano capre e pollame, curano i bambini, raccolgono gli ortaggi, costruiscono le capanne con argilla, legno e sterco, cuociono e conservano il cibo, realizzano manufatti, si occupano della medicina tradizionale e delle pratiche religiose. Al centro dei villaggi himba, brucia sempre l’okuruwo, il fuoco sacro che con il suo bagliore allontana i cattivi demoni che avvelenano i cuori degli uomini e fanno ammalare i bambini. Ad aver cura giorno e notte del piccolo falò, che serve anche a far bollire le farine, è sempre una sciamana donna, scelta tra le più anziane della tribù.
Fino a poco tempo fa, una parte importante nella vita quotidiana degli himba, sia pure non paragonabile all’allevamento, ce l’aveva anche l’agricoltura. L’inverno tropicale portava con sé le “piccole piogge” che fecondavano la terra inaridita. Era il tempo della semina in attesa che le successive “grandi piogge” facessero germogliare e crescere i raccolti. Ma nel giro di due generazioni, mi ha raccontato una donna himba, tutto è cambiato. Le piccole piogge sono sempre più povere e più distanti. Le grandi piogge arrivano copiose, violente ed improvvise, non portano la vita ma allagamenti e disastri, sino ad isolare l’intera regione per un paio di mesi all’anno. Lei non può saperlo, ma in poche parole mi ha descritto il Climate Change, meglio di un rapporto dell’Ipcc. I villaggi himba hanno come base sociale un nucleo familiare allargato. Ogni uomo può sposare più donne: il primo matrimonio viene sempre combinato dagli anziani, per i successivi è necessario il consenso sia dello sposo che della sposa. Solo le donne possono possedere una capanna. Gli sposi debbono chiedere sempre il consenso alla moglie per dormirci la notte. In compenso, soltanto agli uomini maritati è consentito adoperare una sorta di scomodissimo cuscino “poggiatesta” in legno che gli himba considerato il massimo della comodità e il primo dei vantaggi della vita coniugale. L’acqua per gli himba, è sacra. Solo agli uomini sposati è consentito lavarsi. E soltanto come preparazione alle cerimonie religiose in particolari periodi dell’anno. Le donne si prendono cura del proprio corpo - operazione piuttosto complessa e per la quale impiegano buona parte della giornata - cospargendosi con una mistura di grasso di vacca, burro di capra, terra d’ocra, argilla più qualcos’altro (che ad un uomo come me pare che possa essere rivelato). Con una simile mistura che dona loro quel caratteristico colore rosso scuro, intrecciano anche i lunghi capelli. Le donne si limitano ad indossare per lo più un corto gonnellino ma non trascurano mai di ornarsi con grossi bracciali, lunghe collane e pesantissimi paramenti.
Va sottolineato che gli himba, non ignorano l’occidentalizzazione. Semplicemente la rifiutano. Ad Epupa o a Ondangwa, è consueto di vedere donne himba fare la fila nei supermercati o bersi una birra in un bar. Non di rado, la tribù possiede un furgone o comunque un mezzo meccanico per portare nei mercatini i loro prodotti artigianali, pur se non c’è verso di chiedergli la patente o l’immatricolazione. D’altronde, da queste parti non ci sono neppure strade così come le intendiamo noi. In certi casi, i capi tribù si rivolgono ad avvocati per tutelare i loro diritti e indicono frequenti conferenze stampa per denunciare le costanti pressioni omologative del governo centrale.
In una recente intervista alla Bbc, il ministro namibiano Hidipo Hamutenya ha spiegato che gli Himba “devono abbandonare le loro usanze e imparare a indossare camicie, cravatte e giacche come me e come tutti gli altri» e ha denunciato “l’ipocrisia dei soliti europei che vorrebbero che questa gente continuasse a vivere come bestie per soddisfare la proprie malsane curiosità”. A parte il fatto che gli himba non vivono come bestie e sono perfettamente in grado di compiere le loro scelte, l’attacco del ministro Hamutenya che, non a caso, ha la delega allo “sviluppo economico”, è una conseguenza della lotta che da anni la popolazione himba conduce contro il progetto di una enorme diga sulle Epupa Falls che priverebbe il Kaokoland dell’acqua necessaria al sostentamento dei villaggi indigeni, himba e non himba. Come denunciato da varie organizzazioni ambientaliste africane ed europee, d’altro non si tratta che del solito ecomostro dall’inaudito impatto ambientale e sociale che certo non serve al fabbisogno energetico della regione, già ampiamente soddisfatto, ma alle esigenze delle multinazionali petrolifere che, poco più a nord, stanno devastando le foreste pluviali. Un altro bell’esempio di capitalismo predatorio: un disastro ecologico per alimentare un altro disastro ecologico. Povertà e miseria per pagare altra povertà e miseria. E’ questa l’occidentalizzazione che gli himba rifiutano. Non è una villa a Beverly Hills, ciò che questo cosiddetto “sviluppo economico“ porterebbe loro, ma un letto di cartone ai bordi di una dei tanti “slum” africani.

Or non vuole uccidere

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Venezia - Ha soltanto 19 anni, Or Ben-David. Un musetto da ragazzina impertinente col piercing al naso e l’mp3 pieno di orrida musica hip hop. Chi la incontra, e conosce la sua storia, non può fare a meno di chiedersi dove abbia trovato, questo soldo di cacio qui, tutto il coraggio per fare quello che ha fatto. Perché Or è una “shmnistim”, termine ebraico che indica i diplomati alle scuole superiore rifiutano il servizio militare. “Mi hanno chiamata criminale, ebrea rinnegata, traditrice, ingrata e vigliacca perché altri stanno combattendo e morendo anche per la mia libertà. Ma io so che non è un crimine rifiutarsi di uccidere e dire no ad una società che costringe i ragazzi della mia età ad imbracciare le armi e sparare ai palestinesi”. Il suo “no” all’esercito israeliano le è costato caro: gravi minacce a lei e alla sua famiglia, pesanti conseguenze sul proseguo degli studi e sulla ricerca di un lavoro, quattro mesi di carcere militare. Eppure Or ha sempre tenuto duro. Alla fine, le autorità militari l’hanno congedata con un certificato di inidoneità per “gravi disturbi psichici”.


“E’ una prassi usuale. Quando vedono che non riescono a piegarti ti dichiarano pazzo. Poi ti fanno un discorso che potremmo riassumere così: va bene, hai vinto, ti lasciamo a casa, ma tu vedi di stare zitta e la pianti di denunciare quanto succede nell’esercito”.
Cosa che Or non ha mai neppure messo in preventivo di fare! Tanto è vero che appena uscita dalla galera ha accettato l’invito dell’associazione Payday per una giro di conferenze di denuncia in Europa. Or se ne è partita dalla sua Gerusalemme con un biglietto aereo pagato e una ventina di euro in tasca. Ma che non abbia paura di niente, questo oramai l’ha capito pure l’esercito sionista.
Dopo Londra e Bruxelles, Or è venuta in Italia. L’abbiamo incontrata a Venezia, martedì giugno 2010, in occasione di una iniziativa alla scoletta dei Calegheri, ospite dell’assessorato alla pace del Comune di Venezia. Nei prossimi giorni l’attendava un fitto calendario di incontri: dallo Sherwood festival di Padova al Presidio permanente contro la base Dal Molin di Vicenza.

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Or, perché non hai voluto fare il servizio militare?
Perché combattere per la pace è come scopare per la verginità. In Israele anche i bambini che non sanno ancora leggere e scrivere sono bombardati da una propaganda a favore della guerra. I palestinesi sono quelli che ti odiano e che ti vorrebbero cacciare dalla tua casa, ci dicono. Anche la storia viene falsata. La guerra terrorista che ha portato alla nascita dello Stato di Israele e che ha cacciato i palestinesi è spacciata come la gloriosa guerra di indipendenza. Nella scuole soprattutto, siamo di fronte ad un lavaggio del cervello vero e proprio. Pensate che ogni classe ha come insegnante di sostegno una soldatessa che fa continua propaganda per l’esercito, unico baluardo democratico contro il terrorismo arabo. Ogni classe, inoltre, all’ultimo anno di scuola, trascorre una settimana dentro una caserma che viene proposta come una specie di premio di fine corso. Tutto viene presentato come un gran divertimento. E in effetti, quella settimana è solo una goliardata. Niente di più che una gita scolastica dove i ragazzi, lontani da casa e senza obblighi di studio, si sentono autorizzati a fare un po’ di pazzie. I militari ti incoraggiano a sfogarti e tutto viene fatto passare come una festa. Non ti spiegano però che poi la vera vita militare sarà tutta un’altra cosa!

Ci sei andata anche tu?
Scherzi? Io gli ho tirato la manca. Ma l’ho pagata tutta perché la settimana in caserma è obbligatoria. Mi hanno affibbiato una tesina sull’esercito israeliano e mi hanno tolto 10 punti da tutte le materie. Arte e matematica compresi. Mi sono diplomata per il rotto della cuffia. Ho voluto partecipare però al viaggio che le scuole israeliane annualmente organizzano per visitare i campi di sterminio nazisti. Io ho scelto Birkenau, in Polonia, perché ci era stato mio nonno. Quel che ho visto mi ha fatto star male e per tante notti ho avuto gli incubi. Ma anche in questa terribile occasione, dopo la conferenza sull’olocausto, arrivava puntuale l’incontro con le autorità dell’esercito che ti raccontano come sia indispensabile arruolarsi e difendere con le armi la nostra patria perché non succedano più queste orrori. Ma, mi chiedo io, si può giustificare lo sparare ai palestinesi con l’olocausto?

Come hai maturato questa presa di posizione pacifista?
Non è stato un percorso facile perché sin da bambini ci insegnano ad aver paura. Io avevo 12 anni quando è scoppiata la seconda intifada. Sentivo di autobus che saltavano in aria, di manifestanti palestinesi che tiravano pietre ai nostri soldati. Anche tra i miei parenti e i miei amici si sono stati feriti. Io non riuscivo a capire cosa poteva spingere un uomo ad abbandonare il lavoro e a farsi saltare in aria in un bar solo perché era frequentato da ebrei. Ricordo di aver chiesto alla mia maestra perché succedevano questa brutte cose e lei mi rispose che era sempre stato così: i palestinesi odiano gli ebrei e gli ebrei si devono difendere da questo odio. Quando avevo 16 anni ero orgogliosa di essere israeliana ed ero pronta ad arruolarmi per fare il mio dovere e dare il mio contributo alla mia patria e alla nostra libertà. Quando la mia migliore amica che proveniva da una famiglia pacifista, mi disse che lei non avrebbe risposto alla chiamata di leva ricordo che mi arrabbiai moltissimo con lei. La chiamai traditrice ed ingrata. Le dissi esattamente tutte quelle cose che ora dicono a me. Ma un po’ alla volta cominciare a pensare e a pormi delle domande: davvero tutto quello che mi stavano insegnando a scuola corrispondeva alla verità? O piuttosto non erano tutte bugie che mi erano state messe in testa per farmi fare quello che volevano che facessi? Ma la storia si può falsare solo fino ad un certo punto. Le prepotenze e le ingiustizie perpetrate dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi sono talmente tante e talmente evidenti che solo chi non vuole vederle non le vede.

Quindi sei diventata una shmnistim?
Già. Ho spedito una lettera al ministero spiegando loro che non avrei risposto a nessuna chiamata dell’esercito. È cominciata una guerra psicologica. Sono stata convocata dal preside ed agli insegnanti che hanno cercato di farmi cambiare idea. Poi è toccato alle autorità dell’esercito. Tutti a dirmi che facevo una gran stupidaggine e che l’avrei pagata cara e che con me l’avrebbe pagata cara anche la mia famiglia. Ma io ho tenuto duro. Così mi hanno condannato ad una settimana di carcere militare a titolo dimostrativo e poi mi hanno mandata a casa. Era un modo per dirmi: vedi com’è brutta alla galera. Basterebbe accettare fare come tutti gli altri per evitarla. Ma tutte queste esperienze e queste pressioni mi spingevano ancora di più a tenere duro perché in fondo mi dicevano solo che avevo ragione io. Così sono tornata in prigione. Dopo quattro mesi di carcere mi hanno chiamata per un colloquio e mi hanno domandato se avevo cambiato idea e se fossi disponibile a fare il servizio di leva. Ho risposto di no. A questo punto mi hanno congedata con il certificato di inidoneità per gravi disturbi psichici di cui ti dicevo.

Quanti sono gli shmnistim israeliani?
Chi può dirlo? Di certe cose in Israele non si può parlare. E l’esercito di sicuro non rilascia statistiche. Molti rifiutano la leva ma, al contrario di me, fanno di tutto per nasconderlo. Vuoi perché hanno paura di ritorsioni verso di loro o verso le loro famiglie, o vuoi perché a dirlo pubblicamente hai solo svantaggi. Ti ripeto che non è una scelta facile. Isreale è un paese in guerra e non è la stessa cosa che fare l’obiettore in altre parti del mondo.

Come ha vissuto questa scelta la tua famiglia?
Vengo da una famiglia composta per la maggior parte da ebrei mizrachi (sono gli ebrei appartenenti alle comunità provenienti dai paesi arabi.ndr). In qualche modo, i mizrachi si sentono in dovere di dimostrare di essere più ebrei degli ebrei, quasi che avessero qualcosa da farsi perdonare. Sono per la grande maggioranza di destra e i miei non fanno eccezione. Detto questo, sono la mia famiglia e voglio loro bene tanto quanto loro ne vogliono a me. Mi considerano, nella migliore delle ipotesi, una testa calda ma non hanno mai smesso di dimostrarmi il loro affetto anche se non condividono la mia scelta. Mia sorella più piccola, ad esempio, non vede l’ora di fare la soldatessa quasi per rimediare allo sgarro compiuto da me.

Come vivono i giovani questa situazione di guerra continua?
Con rassegnazione. E’ difficile anche cercare il dialogo con i palestinesi. Bisogna considerare anche la barriera della lingua. Gli ebrei vedono i palestinesi solo come un pericolo: sono quelli che ti lasciano la bomba sotto il sedile dell’autobus, quelli sempre pronti ad accoltellarti alle spalle. I palestinesi, d’altro canto, conosce noi ebrei solo come i coloni o come i soldati che gli tirano giù la casa col bulldozer. Prendete Gerusalemme. E’ una città mista ma palestinesi ed ebrei non si incontrano mai, non hanno né luogo né occasioni di incontro.

Neppure nelle scuole?
Ma chi è l’ebreo che manderebbe suo figlio in una scuola dove ci sono anche i palestinesi? E magari a studiare l’arabo? L’incomprensione ha radici profondissime e l’esercito, che in Israele è una vera e propria vacca sacra, ha gioco facile nell’imporre proprio a partire dalle scuole una mentalità di guerra perenne e far fiorire stereotipi e incomprensioni. Anche tra i giovani, l’idea più diffusa, sia da una parte che dall’altra, è che così è sempre stato e così sempre sarà. Palestinesi contro ebrei, ebrei contro palestinesi. Anche all’estero, non si esce da questo luogo comune. Fateci caso, anche da voi, in Italia, si parla di Israele e Palestina come di una partita di calcio, da tifare per una parte o per l’altra. Ma non è così semplice.

Cosa significa fare il servizio militare in Israele?
Fare la guerra e portare altre ingiustizie a gente come i palestinesi che già ne hanno subite troppe. Ma non sono solo loro le vittime dell’esercito. Quello che in Israele non si può dire e che l’esercito non vuole che si sappia è il trattamento cui sono sottoposti i soldati di leva. Le violenze fisiche e psichiche sono quotidiane. In particolare sulle donne. Il reparto fureria, ad esempio, che è sempre femminile, viene chiamato il “reparto materasso”. E non c’è nulla da ridere perché son tutti stupri. Pensa che se ogni donna militare ha diritto ad un aborto gratuito (in Israele l’aborto è libero ma si paga.ndr), una che presta servizio in fureria ne ha due. E la medie per le ragazze in servizio di leva è proprio questa: due aborti in due anni di servizio militare.

Non usano sistemi anticoncezionali?
Ma che bel ragionamento da maschietto! Devi sapere, caro mio, che nessuna ragazza, sia ebrea o araba o di dove vuoi tu, prende la pillola perché mette in preventivo di essere violentata. Lo fa se vuole avere rapporti col suo ragazzo ma ti assicuro che in quello schifo di guerra e in quello schifo di vita, l’amore è l’ultima cosa che ti viene in mente! Il problema vero è che sotto le armi, lo stupro di un superiore o di un commilitone non è neppure considerato un reato. “Son cose che succedono – ti dicono – Ci son passate tutte e ci passerai pure tu”.

Scusa tanto. E i ragazzi di leva?
Capita che vengano stuprati pure loro, pur se con altre conseguenze che per le donne. Il trattamento alla fine dei conti non è molto diverso. Scarafaggi. Sono trattati come scarafaggi. E considera che nella logica dell’esercito deve necessariamente essere così, altrimenti non riuscirebbero a fargli fare tutto quello che fanno ai palestinesi. Più lo incarognisci e più il soldato ti torna buono per la guerra.

Ancora una domanda. Nel tuo giro per l’Europa hai incontrato molte associazioni che propongono il boicottaggio dei prodotti israeliani. Che ne pensi di questa politica?
Che da sola non serve a niente. Anzi, rischia di essere controproducente. Mi spiego meglio. Non sono contraria al boicottaggio se questo serve a smuovere l’opinione pubblica all’estero, ma devi considerare che in Israele viene visto solo come un atteggiamento antisemita che spinge gli ebrei a rinchiudersi ancor di più in se stessi. Ti faccio un esempio. Durante l’ultima intifada, la cantante pop Shakira ha annullato il suo tour in Israele per protestare contro le violenze dell’esercito israeliano nei territori occupati. Ma cosa è passato nei mass media ebraici? Solo la prima parte del discorso: “Shakira ha annullato il suo tour in Israele”. Di conseguenza, Shakira ce l’ha con noi ebrei. Shakira è antisemita. Via tutti i dischi di Shakira dalle nostre rivendite. E’ questo, mi domando, il risultato che si voleva ottenere? Meglio hanno fatto altre rock star che hanno tenuto ugualmente i loro concerti ma prima hanno parlato agli spettatori spiegano loro che non era giusto che i soldati israeliani facessero quello che stavano facendo. Per molti giovani, è stata la prima occasione di sentire una campana diversa da quella che gli suona la scuola o l’esercito. Per il boicottaggio la penso alla stessa maniera. Da solo, se non è supportato da iniziative di contro informazioni capaci di fare breccia nella società, non serve a niente se non a rafforzare il nostro atteggiamento di popolo in continua guerra contro tutti.

Pay Day e il movimento dei “refusing”

“Refusing to Kill is not a Crime”. Rifiutarsi di uccidere non è un crimine. Al contrario, è una scelta etica e coraggiosa perché, come ha scritto Or Ben-David nella lettera che ha inviato alle autorità dell’esercito israeliano per motivare la sua decisione di obiettare al servizio militare, “Rifiutare significa dire no: no alla guerra, no a una società che costringe i giovani a portare armi, a uccidere e a essere uccisi”. Una scelta etica e coraggiosa, dicevamo, perché chi rifiuta di imbracciare il fucile, viene immancabilmente incarcerato, perseguitato e diffamato. Per questo è importante che i refusing non siano lasciati soli e che associazioni, enti, partiti, movimenti e cittadini che si riconoscono nei valori della pace e del disarmo, si schierino a loro sostegno con iniziative che facciano conoscere la loro storia e la loro situazione. Anche una semplice cartolina, può essere determinante. “In tutti quei mesi che ho trascorso in carcere, sottoposto a torture fisiche e psicologiche - ha scritto un refusing curdo che si è rifiutato di prestare servizio militare nell’esercito turco – quello che mi ha dato la forza di tenere duro sono state le lettere di incoraggiamento che mi arrivavano da tutte le parti del mondo. Tante erano scritte in linguaggi incomprensibili ma tutte mi dicevano che al di là di mura c’era della gente che era d’accordo con me e che non mi considerava un traditore e un vigliacco ma un uomo libero che aveva scelto la pace alla guerra”. Sostenere i refusing e le loro scelte, è lo scopo è dell’associazione internazionale Payday (che significa “Giorno di paga”) che sostiene le lotte di tutti i refusing del mondo, dagli shministim israeliani ai militari inglesi e americani che si rifiutano di uccidere in Afghanistan, alla Turchia, alle Filippine, sino all’Honduras e alla Colombia.
Nel sito dell’associazione,
www.refusingtokill.net potete leggere le storie di tantissimi “signornò”. Storie che raccontano di come sia stata sofferta ma irrinunciabile la decisione di rifiutarsi di eseguire gli ordini dei loro superiori e di quanto gliela abbiano fatta pagare cara. Storie che nessun esercito vorrebbe mai far ascoltare.

Waorani, il popolo resistente

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Comunità Waorani Tobeta, Orellana, Ecuador - Dayuma era una bambina di cinque o sei anni quando quattro pastori evangelici l’hanno rapita e portata a New York. I primi mesi, Dayuma piangeva tutti i giorni e tutte le notti. Guardava quell’assurdo orizzonte di cemento e grattacieli sognando l’apparire di suo padre alla testa di tutti i cacciatori waorani con lance e machete, venuti per riportarla nella sua capanna sul grande rio Napo. Col lento trascorrere del tempo, la piccola Dayuma, cominciò ad accettare le premure di quegli strani uomini bianchi che l’avevano rubata alla sua foresta. Un poco alla volta, cominciò ad apprendere il loro linguaggio mentre i pastori annotavano diligentemente tutte le parole della lingua waorani che lei pronunciava e gliene chiedevano il significato. Dayuma raccontava loro la storia di Waengongi, il dio scimmia creatore della foresta e di tutto l’esistente ma che non doveva essere né temuto né adorato.

Narrava dell’ayahuasca e di come questa magica bevanda, con l’aiuto dello sciamano, ti permette di riappacificarti con il tuo Wenae, che sempre è dentro di te anche se qualche volta tace. Raccontava della morte e di come questa non deve essere temuta perché lo spirito che abbiamo nel cervello ascende al cielo e quello che abbiamo nel cuore diventa un giaguaro. Gli uomini bianchi ascoltavano attentamente quello che Dayuma diceva, prendendo appunti e scuotendo le teste. E intanto le parlavano del Cristo crocifisso dalla cattiveria degli uomini e del peccato originale che deve essere mondato dal bettesimo. La insegnavano che il vero dio era uno e uno solo, e non aveva la testa di giaguaro né l’astuzia della scimmia. E lui, Dayuma, era la prescelta da questo dio onnipotente ed infallibile per portare a termine una grande missione: convertire alla vera e unica fede il popolo waorani.
Quando Dayuma ebbe una quindicina di anni, i pastori evangelici le dissero che doveva essere felice perché era arrivato il gran giorno del suo ritorno al popolo waorani e che loro l’avrebbero accompagnata per aiutarla a convertire al cristianesimo l’ultima nazione indigena che ancora rifiutava ogni contatto con la civiltà. Così Dayma fece.
Adesso la sua tribù non esiste più. Con il vangelo arrivarono morte, malattie e una civiltà che non ammetteva confronti e relativismi. Arrivarono le ruspe, le strade, i coloni, i madederos (commercianti di legname pregiato) e poi anche le multinazionali del petrolio che adoravano uno strano dio chiamato ‘sviluppo economico’ che doveva portare ricchezza e benessere per tutti. Gli ultimi discendenti della tribù di Dayuma oggi ciondolano alcolizzati per le baraccopoli di Quito o di El Coca e non sanno più nulla di come, dopo la morte, lo spirito si reincarni nel giaguaro.
Questo accadeva negli anni ’40. Oggi Dayuma è una vivace novantenne che tira avanti bevendo litri di mate alla coca e si intrattiene volentieri con tutti coloro che le chiedono di narrare la sua storia. Solo, chiede di non essere fotografata per un qualcosa che ha a che fare con l’anima. Tira dalla cannuccia e racconta di quella giovane ragazza waorani ritornata alla sua tribù dopo oltre quindi anni di assenza per accorgersi che oramai non poteva più vivere né nella foresta né nelle città degli uomini bianchi. Racconta di uomini bianchi che credeva amici, che le avevano fatto da famiglia solo per usarla ed ingannarla. Racconta di un ritorno tanto sognato e di come con lei arrivarono le sciagure che sterminarono la sua gente.
Ma la storia di Dayuma non finisce qui. Col denaro che le avevano dato gli uomini bianchi, lei ha contribuito a fondare una comuna che oggi porta il suo nome e dove convivono fraternamente indigeni kichwa e campesinos ecuadoriani. E oggi questa comuna, spiega con orgoglio nonna Dayuma,è la più resistente di tutta l’Amazzonia ecuadoriana.
Grazie alla disponibilità del portavoce di Ya Basta! in Ecuador, Eugenio Pappalardo, abbiamo raggiunto la comuna Dayuma, che si trova a un paio d’ore di pick up da Puerto Francisco de Orellana (El Coca, per gli ecuadoriani), capoluogo di una provincia che nuota in un mare di petrolio. Le multinazionali, tra le quali, non dimentichiamo c’è l’italiana Agip, qui fanno il bello e il cattivo tempo. I loro sgherri piantano posti di blocco, chiedono documenti, si informano su chi sei e su dove vai. Non vogliono giornalisti o osservatori internazionali tra i piedi. Non è bello che si venga a sapere in giro per il mondo di quella specie di stupro sistematico cui i petroleros sottopongono quotidianamente il “polmone verde dell’umanità”! Così, ad ogni domanda, Eugenio ed io mentiamo regolarmente e spudoratamente. E pure senza sensi di colpa. La carretera scorre accompagnata da chilometri e chilometri di tubi. Tubi di tutte le misure e di tutte le dimensioni. Con un solo denominatore comune: sono fatiscenti e senza valvole di sicurezza. I petroleros puntano sulla quantità perché la qualità del crudo non è delle migliori e l’Amazzonia non ha rivali su questo fronte. Anche se una perdita inquina un’area grande come il lago di Garda, il profitto complessivo non ne risente. ”Ne risente il colono o l’indigeno che vede morire il bestiame e ammalare i figli e non può farci niente – mi racconta Diocles Zambiano, leader della rete per i diritti umani Angel Shingre -. Lamentarsi o sporgere denuncia è cosa poco intelligente. Arrivano gli sgherri dei petroleros e la polizia a menarti con l’accusa di aver sabotato i tubi”. Angel Shingre è il nome di un campesino che, per l’appunto, si è lamentato una volta di troppo.
Diocles è stato uno promotori del grande “paro” del 2007 che vide l’intera comunità di Dayuma –campesinos e indigeni insieme – bloccare per oltre una settimana la strada che collega El Coca con i pozzi. Gli sgherri stavolta non bastarono a riportare l’ordine. E neppure la polizia. Ci vollero mezzi blindati e 3 mila uomini dei reparti speciali ecuadoriani, espressamente inviati dal compagno presidente Rafael Correa (ma sì! quello che parla tanto di socialismo!). Prima di capitolare la comuna si difese utilizzando lo stesso tritolo con cui i petroleros effettuano la cosiddetta introspezione sismica, esplosioni a varie profondità per verificare la portata del giacimento, e riuscirono a far saltare in aria un paio di autoblindo.
Una targa, posta lo scorso anno all’entrata del municipio di Dayuma, commemora il grande “paro” e la durissima repressione che ne seguì.
“E’ vero, il compagno Correa ha nazionalizzato qualche impresa petrolifera ma le imprese statali si comportano come le multinazionali straniere se non peggio - mi spiega Diocles-. Ha mandato via gli americani dalla base di Manta ma ha chiamato i cinesi… Fa l’amicone con Chavez che è un altro bel tipo che massacra l’ambiente e calpesta i diritti dei popoli indigeni. La verità è che il comunismo è una mierda proprio come il capitalismo perché sotto sotto l’idea di economia insostenibile che perseguono è la stessa”.
Grazie alla junta paroquial (come dire, il consiglio comunale) di Dayuma, riusciamo a raggiungere, ad un solo giorno di viaggio, la comunità waorani Tobeta per parlare col loro “capo di guerra”
Marco (il suo nome spagnolo. Quello waorani proprio non l’ho capito…)
E’ un momento delicato. Due giorni prima (il 12 agosto), alcuni waorani presumibilmente “non contattati” hanno massacrato una intera famiglia di coloni. L’aggressione è avvenuta a pochi chilometri di distanza da Dayuma. Madre, padre, un figlio e una figlia tutti uccisi a colpi di lancia. Gli aggressori sono poi fuggiti nella foresta con il terzo bambino, un bebè di pochi mesi, lasciando otto lance di guerra piantate nel petto della madre.
Marco arriva in tarda serata e ci riceve dopo che abbiamo compiuto tutti i rituali di ospiti: bere la cicia, consegna dei regali (due bottiglioni di coca cola taroccata), presentazione agli anziani e alla sciamana. E’ preoccupato e soddisfatto al tempo stesso. Preoccupato perché teme che il massacro pregiudichi i mai idilliaci rapporti tra coloni e waorani. Soddisfatto perché poche ore, e grazie all’aiuto del suo cane, fa è riuscito a ritrovare il bambino ancora vivo abbandonato in una pozza d’acqua. “Abbiamo battuto la foresta gridando nella nostra lingua che anche noi siamo waorani, che vogliamo solo il bambino rapito e che non vogliamo fare del male a nessuno. Hanno lasciato il bimbo ma non ci hanno risposto. E se non vogliono farsi trovare non c’è niente da fare – racconta Marco – Certo, non posso giustificare il massacro di innocenti che hanno compiuto. Ma dobbiamo tener conto che sono terrorizzati. Vedono morire la foresta attorno a loro, non capiscono quel che succede e non sanno distinguere tra giusti e innocenti, tra petroleros e campesinos. Ma noi waorani Tobeta abbiamo gli occhi per vedere i nostri figli giocare sui tubi di crudo e ammalarsi. E abbiamo ancora la saggezza di ricordare l’epoca non lontana in cui mio padre guidava i nostri cacciatori contro i bianchi. Voi siete ospiti e amici, e potete fermarvi quanto volete, ma in cambio dovete dire al mondo che i waorani non lasceranno morire la foresta che è la loro vita. Siamo un popolo guerriero e siamo pronti a riprendere in mano le lance per cercare quanto meno una morte dignitosa”

Come ti tarocco l'elezione

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Sensuntepeque, dip. di Cabañas, El Salvador
- A Sensuntepeque, cittadina di 17 mila anime sprofondata nella selva tropicale del dipartimento di Cabañas, a due passi dalla frontiera con l’Honduras, un voto costa 20 dollari. E 20 dollari, qui in Salvador, sono 20 giorni di vita per un bambino, considerando che il latte costa un dollaro a litro.
I “vigilates” dell’Arena, l’Alleanza repubblicana Nazionalista, che dovrebbero per l’appunto “vigilare” sul corretto svolgimento della pratica elettorale, girano per le strade con rotoli di banconote nuove fiammanti che provengono direttamente dagli Stati Uniti.

Un contributo alla campagna elettorale da parte di alcuni faccendieri nordamericani interessati ad un progetto di sfruttamento minerario, contestassimo dai contadini locali perché significherebbe il prosciugamento delle poche ed inquinate ma comunque vitali risorse idriche di mezzo dipartimento. Chi accetta la banconota, si fa fare un segno di pennarello indelebile sul dorso della mano perché non vendae due volte lo stesso voto. Se qualche osservatore internazionale ha qualcosa da ridire, l’arenero gli risponde che in Salvador non è vietato fare regali alla popolazione e che il beneficiato rimane comunque libero di votare per chi gli pare. “Sì señor, è vero – mi ha spiegato un anziano campesino con la mano segnata-. Ma sanno che nessuno di noi lo farebbe. Siamo poveri ma onesti. Ho accettato i soldi e ora devo votare per l’Arena, il partito dei ricchi, anche se so che è l’Fmln il partito dei poveri”.
Questo è solo uno delle tante situazioni di corruzione più o meno legale che ho registrato nella mia esperienza come giornalista e osservatore internazionale alle elezioni svoltesi il 15 marzo in Salvador. Nei giorni precedenti ho assistito al regalo di quintalate di ondulati per i tetti in cambio della consegna del Dui (il documento di identità) e di forniture di acqua potabile. In Salvador – paese campione mondiale del neo liberalismo dove di pubblico ci sono solo i debiti – l’acqua ancora bevibile è stata tutta privatizzata.
Non sono mancate le minacce ad osservatori e giornalisti. “Sta attento… molto attento. Perché non posso garantire la tua sicurezza in un paese come questo pieno di comunisti feroci - mi ha detto il responsabile locale del Tribunale Elettorale -. Per fortuna, sia pure come ultima istanza, per mantenere l’ordine abbiamo i volontari della Humo”. La Humo è una squadra della morte. Cinque omicidi e due desaparecidos, e parlo solo di casi accertati, è stato il bilancio pre elettorale degli squadroni neri.
Ma all’apoteosi del tarocco elettorale mi è toccato assistere il giorno delle votazioni. Ho contato personalmente e senza allontanarmi troppo dal “parque”, la piazza centrale dove erano i seggi, 14 carri bestiame, stracarichi di contadini stipati come bestie. Tutti a votare con la testa bassa, in fila ordinata col Dui in mano, dietro al vigilante arenero che li distribuiva ai seggi. Attorno, la gente dell’Fmln, il Frente Farabundo Martin di Liberazione Nazionale, gli urla di tornare a casa loro. “Sono tutti honduregni – mi ha spiegato un collega giornalista di Tegucicalpa, capitale dell’Honduras -. Lavorano come schiavi nei campi di caffè. Ogni volta che a Cabañas ci sono le elezioni, il loro padrone li porta qui come regalo agli amici fazenderos del Salvador”. Come fanno ad avere un Dui salvadoregno, mi chiedete? Beh… come ho già scritto, qui il governo ha privatizzato tutto il privatizzabile e anche di più. Compreso la stampa dei documenti di identità. L’appalto se lo è aggiudicato una impresa gestita da un noto politico dell’Arena. E nessuno controlla? Certamente. Il governo arenero ha incaricato alcuni funzionari di verificare la correttezza delle emissioni. Sono tutti areneri, tutti diventati improvvisamente deputati nelle ultime elezioni e tutti regolarmente inquisiti dalla magistratura. Sono anche tutti ricchissimi. Il Dui “falso ma vero” non serve solo per le elezioni politiche. Un ottimo cliente è pure il narcotraffico.

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