Wirikuta, il deserto dove l’uomo bianco ruba il sole

Il sole è nato a Wirikuta. Tanto tempo fa, quando quasi la totalità della terra era coperta dalle acque ed i nostri antenati vivevano in una canoa, il sole bambino si levò dalla collina sacra chiamata Cerro Quemado. Camminò per tutto il giorno e, già grande, si fermò sopra le nostre teste, asciugando il mondo che ha la forma tonda di un peyote. Quindi scese ad Haramara, nel lontano ovest, si trasformò in un serpente e dovette lottare per la sua vita. Vittorioso, salì ancora in cielo da est, soffermandosi in tutti i luoghi in cui gli antichi avevano piantato alberi affinché egli non cadesse. E così il tempo degli dei si tramutò nel giorno e nella notte, affinché il popolo degli uomini potesse vivere.
Così raccontano gli sciamani huichol ai xukuri kate, che significa pressapoco “portatori delle ciotole”, che si apprestano al lungo pellegrinaggio verso la collina sacra per raccogliere il cactus hikuli, meglio conosciuto da noi come “peyote”. Non importa la strada. Quello che conta è il viaggio. Come recita un antico proverbio huicol, “tutte le strade portano a Wirikuta”. L’importante è andare, rinnovare l’antico patto tra il dio e l’uomo, conoscersi per quello che si è e conoscere il mondo per quello che noi siamo. Perché le credenze, come ha spiegato Lévi-Strauss con la sua scienza del concreto, altro non sono che fatti pragmatici. Wirikuta non è solo un pezzo di deserto nello Stato messicano di San Luis Potosí, ma l’essenza stessa, la ragione di esistere del popolo huicol.
Di tutto questo, la compagnia mineraria canadese First Majestic Silver vuol fare un bel piazza pulita, con la complicità del governo messicano che ha pensato bene di mettere all’asta una terra che non era sua ma degli huicol. Non è la prima volta che questo accade nel mondo. In particolare, nell’America latina. In particolare, qui nel deserto di Wirikuta, dove già nel 1600 gli spagnoli, alla ricerca di miniere d’argento, causarono lo sterminio degli indigeni guachichiles.
Oggi la storia rischia di ripetersi con altri carnefici e con altre vittime.
“Gli huicol vedono in Wirikuta la propria casa, il cielo, l’universo. Questo luogo è il fondamento stesso del loro divenire materiale e immateriale. A Wirikuta le essenze delle divinità wixaritari si incontrano con la biodiversità. Wirikuta è anche riconosciuto come Luogo Sacro Naturale del popolo huichol. Nell’ottobre 2000 è stato dichiarato Area Naturale Protetta per il suo grande interesse naturalistico. Purtroppo, come abbiamo visto, questo non ha impedito che diversi governi abbiano concesso licenze minerarie su questo territorio” spiega l’antropologo messicano Arturo Gutiérrez del Ángel, una delle più autorevoli voci che si sono spese contro le concessioni minerarie nel Wirikuta.
A fianco degli indigeni, sono scesi in campo gli ambientalisti, in nome di un “diritto alla natura” che accomuna popoli antichi e moderni ecologisti che sanno guardare al futuro senza perdere di vista il passato. Il Wirikuta è una delle tre aree semidesertiche biologicamente più ricche del pianeta; ospita specie endemiche esclusive, e - per quel che vale - è stato dichiarato area protetta anche dall’Unesco. Da sottolineare che la zona minacciata dalle estrazioni minerarie, che poi è quella dove si svolge il pellegrinaggio dei xukuri kate, pur facendo geograficamente parte del deserto di Chihuahua per appena lo 0,28 per cento della sua superficie complessiva, ospita il 50 per cento della flora, l’85 per cento degli uccelli e il 60 per cento dei mammiferi della regione. Nel territorio sono state riconosciute 453 specie florali, alcune di queste a rischio di estinzione, come il peyote. Questo paradiso di biodiversità è messo a rischio dall’attività estrattiva canadese che presuppone l’uso di inquinanti chimici, di cave a cielo aperto e di esplosivi. Senza contare l’enorme utilizzo di acqua per la lavorazione del materiale che, in una regione arida come questa, sarebbe sottratta alle coltivazioni e all’ecosistema, con l’effetto di desertificare tutto.
Nel Wirikuta, come in tutto il mondo, la battaglia per l’ambiente è la battaglia per la democrazia. La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sugli indigeni tribali stabilisce che l’organo della consulta è un diritto di tutti i popoli. Lo Stato messicano l’ha adottata ufficialmente nel giugno del 1990. Eppure questo diritto viene sistematicamente negato ogni qual volta si presenta all’orizzonte una “grande opera” che colpisce gli interessi degli indigeni ma che è sostenuta da un potentato economico.
“Perché - si chiede Arturo Gutiérrez del Ángel - negli ultimi anni si concedono indiscriminatamente terre messicane e di altri paesi impoveriti a imprese minerarie soprattutto canadesi? Perché gli Stati, tanto in America Latina quanto in Asia o Africa hanno risposte tanto deboli di fronte a queste imprese? Certo, il denaro e la corruzione sono il lubrificante che permette il movimento di questo meccanismo ma non è questa la sola spiegazione. Il governo federale canadese, nonostante tutti i trattati sui diritti umani che ha sottoscritto, continua ad offrire alle imprese minerarie protezione giuridica ed economica perché non si sentano minacciate da nessun tipo di atti di pressione”.
Ma c’è anche un altro scenario da considerare. In Messico, come in altri Paesi dell’America latina e dell’Africa, l’attività mineraria era stata parzialmente abbandonata dopo una serie impressionante di fallimenti e di devastazioni ambientali che avevano portato interi popoli che prima campavano con proprie risorse a mendicare negli “slum” delle grandi città. La tendenza si è invertita quando, sul finire degli anni novanta, nel panorama dell’economia globale si è affacciato un nuovo attore: la Cina comunista. Metalli come lo zinco, l’oro, l’argento, lo stagno, il bronzo, il nichel e il ferro sono indispensabili per la nuova potenza industriale che spinge per riaprire un mercato nel quale i diritti umani contano zero ma al quale i governi più poveri, e più ricattabili, non sanno rinunciare. Secondo il rapporto 2012 di The Gaya Foundation, tra il 2005 e il 2010 il settore minerario cinese è aumentato del 25 per cento e, nello stesso periodo, sono stati portati avanti 173 progetti minerari in 212 comunità di 16 Paesi dell’America latina. Nessuna di loro è stata preventivamente consultata sull’avvio del progetto, alla faccia della Convenzione 169 dell’Onu.
“In Messico, negli anni ’90 - conclude Arturo Gutiérrez del Ángel - il governo del presidente Ernesto Zedillo ha aperto le porte alle imprese minerarie, offrendo concessioni senza misurare le conseguenze sociali ed economiche che si sarebbero avverate nel futuro. L’aumento in scala dell’estrazione mineraria negli ultimi dieci anni è stato sorprendente e spaventoso. Sappiamo che le imprese minerarie non si auto regolano affatto. Sono gli Stati che dovrebbero avere questo ruolo. E decisioni di questa portata devono sorgere dal consenso emanato da una consulta aperta, trasparente e pubblica, di tutti gli attori coinvolti, in primis, i popoli indigeni. Gli alti livelli del potere federale non possono decidere quello che conviene ai popoli. Gli huicol devono essere gli architetti del loro futuro e hanno l’inviolabile diritto di conservare la propria tradizione, che dipende sostanzialmente, e non misticamente, da Wirikuta”.

Terra e libertà. Los Panchos di Città del Messico

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Dallo Zocalo, la grande piazza dove si affaccia il palazzo del Governo e dove sventola la bandiera nazionale più grande del mondo, dovete mettere in conto almeno un'ora di metropolitana, con gli immancabili venditori di caramelle e suonatori di chitarra che salgono e scendono ad ogni fermata. Arrivati alla "delegazione" di Acapatzingo, cercare la piazzetta dei “collettivi”, un miscuglio tutto sudamericano tra bus e taxi, che effettuano un percorso più o meno stabilito e che partono quando l'autista decide che è ora di partire. Vedete di farvi scarrozzare pressappoco dalle parti della colonia Polvorilla. Dopo una mezz’oretta, quando non ne potrete più di sobbalzare su “carreteras” che definire disastrate è fargli un complimento, scendete. Anche se tutto è andato bene, sappiate che non siete ancora arrivati. L’ultimo passo è quello di affidarvi a uno degli sconclusionati taxi locali. Vedete di inventarvi qualche balla con l’autista, che certo sarà curioso di sapere che caspita cerca un "gringo" da quelle parti. Ma si sa che “los grigos”, sotto la latitudine di Tucson, sono “todos locos” per definizione!



Alla fine dei conti, avrete alle spalle un viaggio di perlomeno tre ore ed avrete difficoltà a pensare che non avete raggiunto neppure la prima periferia di quell'immensa, inimmaginabile megalopoli che è Mexico City. Una città talmente grande che nessuno sano di mente può anche soltanto pensare di pensare di conoscerla sufficientemente. 
Ed è proprio una Ciudad de México che non ti aspetti, quella che ti si apre dietro al portone con due grandi stelle rosse. Ma, se sei arrivato sino a qua, vuol dire che non cercavi solo i tramonti delle spiagge di Acapulco o la musica dei mariachi. Hai appena messo piede nel “barrio” dei “panchos” del Frente Popular Francisco Villa Indipendiente. 
L’effetto è pressapoco quello dell’armadio fatato di Narnia, che ti trasporta dal tuo reale ad uno fantastico. Te ne accorgi subito e non solo dalle case, che qui dentro sono tanto curate e colorate quanto fuori sono fatiscenti e grigie. Oppure dalla cura con la quale sono tenuti i viali con tanto di fiori e piante ornamentali. Te ne accorgi soprattutto dall’orgogliosa aria di “rebeldia” che qui dentro si respira.

Ad accogliere la delegazione di Ya Basta è Gherardo, uno dei portavoce della “junta”  di governo che ci racconta la storia della colonia intanto che giriamo tra i grandi spazi comuni del quartiere attrezzati a campi gioco, giardini, biblioteche, scuole, sale di riunione, stanze con accesso alla rete internet. 
Tutto quanto vediamo, spiega Gherardo, è il frutto di un ventennio di lotte. E quando in Messico dicono “lotta” intendono proprio “lotta”. Non so se mi sono spiegato… Ancora oggi, che il “barrio” ha avuto un qualche riconoscimento ufficiale - tanto è vero che sono allacciati alla rete elettrica (con bolletta autoridotta però) e idrica (autoridotta anche questa bolletta, ovviamente) - i tentativi di sgombero non sono ancora finiti. Ed è per questo che il portone di accesso al quartiere è rinforzato e continuamente presidiato. 

Tutto è cominciato negli anni ’80 con una cava a cielo aperto che, come sempre succede in Messico (ma anche in tutto il resto del mondo), ha devastato l’ambiente, inquinato acqua e aria, per portare in cambio tanti soldi per il padrone e tanta miseria anche per coloro che ci erano pure andati a lavorare. Quello che resta della cava è ancora visibile dalla cime della collinetta dove sorge il “barrio”. Se ne sta là come un monumento alla stupidità e al servilismo umano. Tutta la zona attorno apparteneva al padrone della cava. Uomini e donne compresi. Questi è un tizio che, grazie ai proventi della miniera, oggi ha smesso l’attività mineraria per dedicarsi ad un commercio molto più fruttuoso. il narcotraffico. La prima occupazione che ai panchos (li chiamano così perché si ispirano a Pancho Villa) è costata botte e sangue è avvenuta proprio sopra una discarica (abusiva) della cava. 

Qui c’è da spiegare che in Messico, esattamente al contrario di quanto avviene in Europa, l’occupazione della terra - Villa e Zapata avranno pur imbracciato il fucile per qualcosa! - è più o meno tollerata mentre le occupazione delle case vengono immediatamente sgomberate anche con l’aiuto dell’esercito. 

“All’inizio eravamo poche famiglie - spiega Gherardo -. Non avevamo una terra o soldi per acquistarla. Così ci siamo sistemati qui, Ci siamo costituiti in una cooperativa per avere accesso a dei mutui agevolati e abbiamo cominciato a costruire case per tutti. Tutte uguali nella metratura, tutte diverse negli spazi interni. Abbiamo tenuto duro e, un po’ alla volta, tante altre famiglie che vivevano nella baraccopoli si sono aggiunte a noi. Abbiamo affrontato tante battaglie, che non sono ancora finite, per ottenere ad un prezzo accessibile l’energia elettrica e altri servizi. Oggi qui vivono 596 famiglie che significa tra le 2500 e le 3000 persone. Molti lavorano nelle nostre cooperative, altri fuori del quartiere. Nessuno però soffre la fame, i bambini crescono sani e vanno a scuola. Non è così negli altri quartieri poveri di Città del Messico”. 
Già. I bambini. Ce ne sono a centinaia che giocano e saltellano negli spazi comuni (qui la gente vive con le porte aperte e più fuori che dentro le case). Cosa farete quando cresceranno e anche loro avranno bisogno di una casa? 
“Che domande? Occuperemo altre terre naturalmente, e tireremo su altre case anche per loro!” 

Proprio vero: Villa e Zapata avranno pur imbracciato il fucile per qualcosa!

¿Dónde están todos?


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Il 26 settembre 2014 a Iguala, nello Stato del Guerrero, Messico, 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa vengono sequestrati da uomini incappucciati. Secondo il Governo, sono stati fermati dalla polizia municipale e poi consegnati ai narcotrafficanti che li hanno massacrati. Ma i corpi non si trovano ancora e la versione ufficiale contrasta con la realtà dei fatti. Padri e madri dei ragazzi desaparecidos domandano giustizia e chiedono: "Dove sono tutti?"

Caracol di Oventic, Stato del Chiapas, 31 dicembre 2014

Freddo, pioggia e fango. Sul grande palco nel cuore del villaggio controllato dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, il sub comandante insorgente Moises dà il benvenuto ai familiari delle vittime di Ayotzinapa. Sono i padri, le madri e i fratelli dei 43 studenti indigeni rapiti il 26 settembre scorso. Non portano né paliacate né cappuccio nero. Sul loro viso si legge solo sofferenza. Salgono lentamente sul palco, reggendo ciascuno una grande foto di un ragazzino scomparso. Dai guerriglieri e dalle guerrigliere zapatiste si alza un urlo di dolore: "Vivos los llevaron, vivos los queremos". Vivi li hanno portati via, vivi li vogliamo. Manca un'ora allo scoccare della mezzanotte. Prende la parola il padre di Manuel. Aveva 15 anni, faceva il contadino e studiava perché voleva diventare un maestro.

Novantasei giorni prima
Tutte le ricostruzioni di quanto accaduto quel venerdì 26 settembre, ad Iguala, cittadina di 120mila abitanti dello Stato del Guerrero, sono lacunose o addirittura fuorvianti. Basti pensare che il primo comunicato della polizia municipale recitava: "Non è accaduto niente di significativo". Solo sei morti, una trentina di feriti di cui due tuttora in gravissime condizioni e 43 desaparecidos. Ecco il "niente di significativo"!
Ma per comprendere l'accaduto, è indispensabile capire cosa sono le scuole normali rurali in Messico.



Le scuole del diavolo
Nate sull'onda della rivoluzione dei primi del '900, quella di Francisco Villa ed Emiliano Zapata, le normali rurali sono tuttora il solo orizzonte scolastico che si apre ai figli dei campesinos e va dato loro il merito di aver alfabetizzato intere generazioni di indigeni. O il demerito, se vogliamo vederla dal punto di vista dei latifondisti e della gerarchia cattolica che hanno sempre visto con sospetto l'avvicinarsi degli indigeni ai libri, sino a definire le rurali: "las escuelas del diablo". Pur se previste nell'articolo 3 della Costituzione, negli ultimi vent'anni le normali sono state penalizzate e criminalizzate dal Governo. Lo stesso presidente Enrique Peña Nieto le ha definite "covi di guerriglieri" e "nidi di bolscevichi". E, va detto, che dal suo punto di vista ci ha pure ragione, il presidente! Dalle rurali escono i "maestri" che insegnano ai campesinos indigeni che quella terra che lavorano è la loro terra, un bene che non si vende e non si compra. Un diritto che va difeso tanto dai narcos quanto dal mal gobierno che, su quella terra che dà vita e dignità a tanta gente, hanno le stesse identiche mire: venderla (regalarla) ai latifondisti. I primi ci vogliono far droga, i secondi cassa (c'è la crisi, no?)
Di oltre cento che erano, oggi di rurali ne sopravvivono solo 17. Studenti, maestri e comunità indigena tengono duro. Ma il prezzo che queste scuole pagano è pesante. Nel solo Stato del Guerrero, dei 17 civili uccisi dai
narcos nel 2014, 15 erano normalisti. Dei 33 desaparecidos, 28 frequentavano, o avevano frequentato, le rurali.

Quel 26 settembre ad Iguala
Cosa è successo quel giorno ad Iguala? Quello che è sicuro è che un centinaio di ragazzi indigeni provenienti dalla scuola normale rurale "Raúl Isidro Burgos" di Ayotzinapa, si è recato nel capoluogo, a 120 chilometri di distanza, per "sequestrare" tre autobus di una compagnia privata con l'intento di recarsi a Città Del Messico per partecipare all'annuale manifestazione in ricordo della strage di piazza Tlatelolco, dove il 2 ottobre del 1968 oltre 300 studenti furono massacrati dalla polizia.
Va detto che il "sequestro" degli autobus per partecipare alla manifestazione studentesca del 3 ottobre, in Messico. è una "tradizione" che si ripete ogni anno. Tanto è vero che in giorno precedente gli autobus sono lasciati con la porta aperta per evitare scassi, senza benzina, con l'assicurazione in regola e, alla fine, vengono sempre restituiti in buone condizioni. I gestori inoltre, quasi mai sporgono denuncia.
Ma stavolta qualcosa è andato storto.

Signor sindaco e signora
Quel venerdì a Iguala era un giorno speciale. Il signor sindaco uscente, José Luis Abarca, presentava il candidato del suo partito, il Prd (centrosinistra), alle prossime elezioni: sua moglie, María de los Ángeles Pineda. L'arrivo degli studenti fu visto come una provocazione e, secondo quanto affermano la Procura e il Governo, fu proprio lui a scatenare la polizia municipale contro i ragazzi. Il primo scontro avviene nel pomeriggio. I poliziotti intimano ai ragazzi di consegnarsi. Gli studenti rispondono con le pietre e la polizia spara, uccide un ragazzo e ne ferisce altri dieci. Verso sera, il secondo scontro. Un ragazzo sputa in faccia ad un poliziotto che gli intima di allontanarsi. Viene arrestato e portato via. Il giorno dopo il suo cadavere sarà ritrovato a 200 metri di distanza con la faccia scarnificata e senza occhi. Nel tentativo di farlo rilasciare, i giovani riprendono a lanciare pietre ma arrivano squadroni di incappucciati che sparano a tutto ciò che si muove. Uccidono un tassista e una signora di passaggio. Sparano su un autobus con i colori simili a quelli degli studenti. Dentro c'è una squadra di una scuola locale e ammazzano un ragazzino. Uccidono altri 2 studenti della rurale e ne feriscono gravemente una ventina. Nel parapiglia, gli incappucciati e i poliziotti sequestrano gli occupanti dell'ultimo autobus, dove c'erano i ragazzi più giovani, quelli dei primi anni.
Sono questi i 43
desaparecidos.

Arrestato il sindaco. Anzi, no. Anzi, sì.
Il giorno dopo, il sindaco di Iguala cerca di sdrammatizzare l'accaduto. "Una scaramuccia con alcuni facinorosi", ed offre di tasca sua un risarcimento di 60mila pesos (3mila euro) ai familiari delle vittime che i parenti dei ragazzi della rurale di Ayotzinapa rifiutano sdegnosamente, pur se una cifra del genere, per un campesino, non la mette assieme in tutta la vita.
Grazie ai giornalisti locali che erano stati convocati in conferenza proprio durante il secondo attacco, la storia fa il giro del mondo. Il Governo e la Procura Federale sono costretti ad intervenire, arrestando 22 poliziotti municipali. La versione che viene data è che questi siano in combutta con i
narcos e che siano stati questi ultimi a massacrare i giovani, dopo che i poliziotti glieli hanno consegnati. Nei giorni seguenti viene tirato dentro anche il primo cittadino che fa in tempo a scappare con la consorte.
Verranno arrestati due volte. La prima volta a Veracruz, la seconda in un quartiere di Città del Messico.
Luis Hernàndez Navarro, direttore de La Jurnada, uno dei principali quotidiani messicani che mi ha gentilmente ricevuto in redazione, mi spiega come funziona la faccenda. "Il doppio arresto è, purtroppo, una pratica consolidata nel mio Paese. La Procura prima ha prima dato notizia dell'arresto del sindaco a Veracruz, a casa di un noto trafficante di droga che è padrone di mezza città. Due giorni dopo ha smentito tutto. Altri due giorni dopo e José Abarca è miracolosamente arrestato un'altra volte. Dove? In un quartiere del Distretto Federale che è una roccaforte storica del Prd. In modo da non turbare la tranquillità del noto ed intoccabile trafficante, ma lasciando intendere che il fuggitivo è stato protetto dal suo partito. Insomma, il Pri al Governo non ha perso l'occasione di giocare la partita provando ad addossare tutte le colpe al partito rivale, accusandolo di essere dalla parte dei
narcos".

Ma chi sono i narcos?
La tesi che sposano la Procura e il Governo Federale è che la strage sia da imputare esclusivamente ai corrotti politici del partito di opposizione che hanno consegnato i giovani ai narcos.
Se ne esce pubblicamente pure il presidente Enrique Peña Nieto che in una conferenza stampa si alza in piedi alzando il pugno chiuso ed urla: "Todos somos Ayotzinapa!"
Come? Il presidente Nieto? Proprio
quel Nieto? Già proprio quello. L'ex governatore mandante della repressione di Atenco, quando il 5 maggio 2006 la polizia ammazzò una persona, ne arrestò oltre 400 persone (di cui 17 sono tutt'ora desaparecidos). Quel Nieto che ordinò di stuprare le 42 donne arrestate per "dare loro una significativa punizione". Quel Nieto riconosciuto colpevole, graziato e poi eletto presidente dello Stato.
Ma davvero la colpa è tutta del corrotto sindaco Abarca quanto accaduto a Iguala?
Gli studenti rurali, tanti testimoni neutrali, gli stessi giornalisti hanno raccontato che agli scontri hanno partecipato anche federali e militari. "Il punto è proprio questo - sottolinea il direttore de La Journada-. Sono stati arrestati, sino ad ora, solo poliziotti municipali ma non erano loro a sparare ai ragazzi, quella notte".
Uomini e mezzi dell'esercito sono intervenuti agli scontri. Anche le telecamere di sicurezza lo hanno dimostrato. Il Governo Federale e l'esercito non possono dichiararsi innocente.
"Con questo massacro il Messico si è giocato quella poca credibilità internazionale che gli rimaneva - conclude Hernàndez -. Nieto è riuscito a farsi scaricare anche da alleati storici come il Vaticano e la Casa Bianca, che è anche la paladina di quell'antiproibizionismo che versa ogni anno miliardi di dollari assassini nelle tasche dei
narcos. Mi domando allora, se davvero il Governo Federale non sapeva niente e non sta coprendo nessuno, perché pagare un costo politico così elevato? Mi chiedo anche se sia un caso che non ci sia una linea investigativa nei confronti dell'esercito che certo, quella notte, non è stato a guardare. La caserma di Iguala è notoriamente legata al cartello narcos dei Cavalieri Templari. Insomma, il Governo dice che sono stati i narcos. Ma chi sono i narcos in Messico, mi domando?"

¿Dónde están todos?
Intanto i corpi dei 43 ragazzi non si trovano da nessuna parte. La procura federale se ne esce una settimana sì e una no con una risposta differente. Senza peraltro spiegare come sia arrivata a questa ipotesi. "Sono stati gettati in un lago profondo". Ma non ci sono laghi così profondi nelle vicinanze da non poterci fare una immersione. "Sono stati bruciati nella discarica di Iguala". Ma aveva piovuto per tutta la settimana. Carbonizzare 43 corpi senza che resti traccia identificabile col Dna comporta un grande falò che dovrebbe ardere per almeno una giornata. Nessuno degli abitanti delle case che danno sulla discarica ha visto qualcosa di simile.
I militari consegnano ad una associazione di medici argentini che seguono il caso come periti di parte dei familiari, un osso di un dito e un dente. Viene identificato come appartenente ad uno studente. Ma i soldati si rifiutano di dire - per motivi di sicurezza nazionale! - dove lo hanno trovato. Intanto, vengono alla luce decine di fosse comuni. Ci sono centinaia di corpi ma nessuno, sino ad ora, appartiene agli studenti di Ayotzinapa.
A metà dicembre la Procura decide di aver fatto abbastanza per degli indigeni. Sospende le ricerche per il periodo della vacanze natalizie con la scusa di attendere gli esiti degli esami sui corpi già trovati nelle fosse. In realtà, vuole lasciar scorrere un po' d'acqua sotto i ponti, sperando che i media parlino d'altro e che i familiari dei
desaparecidos si mettano il cuore in pace, magari accettando la "generosa" riparazione economica offerta dal Governo.
Ma con questa gente qua, hanno fatto male i conti.

Quartiere Meraviglia
San Cristobal de las Casas. Tra le ultime case dell'elegante cittadina del Chiapas e la selva sorge il Quartiere Maravilla. In realtà, è una favella fetente. L'unica "meraviglia" è che la gente riesca a sopravviverci. Eppure, proprio al centro della baraccopoli, troviamo una vasta area ben curata: ci sono scuole, aule studio con computer, case per studenti e maestri, biblioteche, sale riunioni, collegamenti alla rete, serre didattiche. Pure le aiuole sono fiorite. Tutto è pulito e colorato. Le targhe davanti alle aule ricordano Ivan Illich, Immanuel Wallerstein, Raimon Panikkar... Siamo all'Università della Terra, dove i ragazzi dei villaggi zapatisti vengono a studiare dopo le elementari. Qui, dove si sta svolgendo la parte finale del Festival della Rebeldia, incontro il giovane rurale Omar Garcia. Quella notte a Iguala, si è salvato solo perché ha cercato di portare in ospedale un compagno ferito alla testa da una pallottola e tuttora in coma profondo. "I politici al potere, ed anche quelli all'opposizione, ci vorrebbero rassicurare dicendo: tranquilli, prenderemo i colpevoli e li castigheremo. Non hanno capito che non è questo il vero punto della questione. Noi non ci accontenteremo di veder punita la mano che ha ucciso, e neppure il diretto mandante, fosse pure ad alto livello. Quello che noi chiediamo è la messa in stato d'accusa dell'esercito e del sistema politico stesso. Quello che noi vogliamo è una giustizia vera. Quello che noi pretendiamo è terra e dignità. Quello che per cui siamo pronti a morire ancora è la democrazia".

Feliz año nuevo
Caracol di Oventic. Il papà di Manuel che voleva fare il maestro comincia a parlare. "Siamo indigeni, siamo contadini, siamo poveri. Difendiamo la nostra terra come la nostra vita. Paghiamo un prezzo altissimo alle violenze dei narcos e del Mal Gobierno che vogliono rubarci la terra e la vita. Ma oggi ci hanno inferto un dolore infinito. Dove sono i nostri figli? Sono vivi? Sono morti? Li stanno torturando?"
L'anno nuovo è già arrivato da un pezzo ma nessuno ha voglia di brindare. Dietro il cappuccio nero, gli occhi dei guerriglieri zapatisti si riempiono di lacrime.



Terra e dignità. Incontro con i familiari dei 43 studenti desaparecidos


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Città del Messico - Da qualche parte, tra le sconfinate cuadras di Città del Messico, si trova la Cafeteria Zapatista. Un pugno di colori chiapanechi tra le lunghe e desolate calles periferiche del Districto Federal. E' uno dei tanti cuori della rebeldia messicana. Quella rebeldia che sa resistere come si resiste da queste parti: con tanta determinazione quanta allegria.
Tra queste mura multicolori che inneggiano alla Comandanta Ramona e ad Emiliano Zapata, la carovana di Ya Basta incontra i familiari dei 43 studenti che proprio tre mesi or sono, il 26 settembre, furono "desaparecidos" dopo una manifestazione a sostegno della scuola pubblica a Iguala, nello Stato del Guerrero.
Sono padri, madri, fratelli di quei giovani che oramai nessuno ha ancora il coraggio di sperare che siano vivi. Reggono in mano grandi foto dei loro figli e fratelli scomparsi. Parlano come se fossero i loro cari a parlare per bocca loro. "Viviamo di mais e dei frutti della terra - dice un padre - e questo è il solo delitto che può essere imputato a noi e ai nostri figli. Volevano solo difendere la loro scuola di Ayotzinapa dove cercavano di costruire un futuro dignitoso per loro e per la nostra gente tutta".
Le scuole normali rurali sono il solo orizzonte che si apre ai figli dei contadini indigeni. Sono nate nell'inizio del secolo scorso, sull'onda della Rivoluzione tradita, quella di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, con lo scopo di alfabetizzare e preparare i figli dei campesinos alla vita pubblica e alla gestione dei campi. Le normali rurali dovevano essere la linfa vitale di quella democrazia dal basso - quella democrazia legata alla riforma agraria e alla fine del latifondo - per la quale Villa e Zapata si sono fatti ammazzare. All'inizio le scuole rurali erano tante. La loro esistenza dovrebbe essere garantita da un articolo stesso, il terzo, della Costituzione messicana. Oggi, ne sono sopravvissute solo una quindicina e sono sottoposte a provocazioni e attacchi continui da parte del Governo dello Stato e di quello Federale. "Covi di guerriglieri" e "nidi di bolscevichi", le hanno definite. E c'è da dire che, dal suo punto di vista, il Governo ci ha pure ragione! Alfabetizzando gli indigeni, insegnando loro che la terra è di tutti e che va rispettata come un bene comune, le scuole rurali normali sono una barriera contro quel liberalismo cui il Messico da tempo ha venduto la sua anima più vera. E con l'anima, ha venduto anche l'istruzione, la sanità, le risorse naturali, l'acqua... tutto privatizzato, tutto regalato alle grandi multinazionali del nordamerica.



L'ultima cosa che ancora resta de svendere è la terra. Quella terra che ancora dona sostentamento alle popolazioni indigene e contadine. Quella terra che Zapata aveva restituito a chi voleva lavorarla e che oggi fa tanta gola ai tanti cartelli di narcotrafficanti che, diciamolo pure, si sono comperati, in saldo e senza neppure spenderci un peso di "propina", l'esercito, la polizia, le istituzioni. La stessa democrazia messicana.

"Ci hanno raccontato che a far sparire i miei compagni di scuola siano stati i narcos - racconta Omar Garcia -. Ma ricordiamoci che i narcos sono dentro la polizia e l'esercito. Ci sono stati arresti e dimissioni eccellenti. Ma ancora non sappiamo che fine abbiamo fatto i nostri amici. Il punto vero della questione è che il Governo non vuole o forse neppure può, fare luce su quanto è successo".
Dal 23 dicembre e sino 6 gennaio, le ricerche dei corpi sono state interrotte. La motivazione ufficiale è che la polizia deve attendere i risultati dei laboratori di ricerca che lavorano per identificare alcuni corpi rinvenuti in fosse comuni. Ad oggi, un solo corpo è stato identificato, e solo grazie al lavoro esterno di un laboratorio austriaco. La verità è che hanno sospeso tutto per le feste di Natale e intanto sperano che il "problema" si sgonfi da solo. Soluzione questa, molto "sudamericana" ma che non ha fatto i conti con la determinazione dei familiari delle vittime che chiedono giustizia per sé e per il Paese.
Quarantatre ragazzini, per lo più minorenni, fatti sparire in un colpo solo, sono troppi anche per uno Stato come il Guerrero dove, solo negli ultimi tre anni di governo federale, si sono contati 17 morti ammazzati ed una trentina di desaparecidos. E anche questi erano tutti studenti, maestri delle rurali o sindacalisti usciti da questi "covi di guerriglieri" e "nidi di bolscevichi".
Dopo quest'ultima infamia, possiamo scrivere senza problemi di sorta che il Governo Messicano si è giocato quel poco di credibilità internazionale che ancora gli rimaneva, riuscendo addirittura a farsi "scaricare" da alleati storici come il Vaticano - che pure tramite le gerarchie ecclesiastiche locali aveva sempre definito la rurali "scuole del diavolo" - e la Casa Bianca - che è anche la paladina di quell'antiproibizionismo che versa ogni anno miliardi di dollari assassini nelle tasche dei narcos.

"Per questi diciamo che il nostro NarcoGoverno non è un soggetto che possa fare giustizia su quanto è accaduto - conclude Omar Garcia -. I politici al potere, e anche quelli all'opposizione, ci vorrebbero rassicurare dicendo: tranquilli, prenderemo i colpevoli e li castigheremo. Non hanno capito che non è questo il vero punto della questione. Non ci accontenteremo di veder punita la mano che ha ucciso, e neppure il diretto mandante, fosse pure ad alto livello. Quello che noi chiediamo è la messa in stato d'accusa dell'esercito e del sistema politico stesso. Quello che noi vogliamo è una giustizia vera. Quello che noi pretendiamo è terra e dignità. Quello che per cui siamo pronti a morire ancora è la democrazia".
Questi sono gli studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, "nido di bolscevichi" e "covo di guerriglieri".
Questo il vero motivo per il quale sono stati massacrati.

I miei tre incontri col subcomandante Marcos

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Venezia - La prima volta che l’ho incontrato ero al caracol de La Garrucha. Ciondolavo in santa tranquillità nella mia amaca, sotto la tettoia che gli zapatisti avevano riservato a noi “internazionali”. Oh... mica una amaca qualsiasi! Era una di quelle intessute dai “presos politicos” e vendute per sostenere le lotte dall’interno delle carceri. I “presos” sono indigeni che hanno appoggiato la rebeldia e che per questo sono finiti dietro le sbarre dopo processi che definire “sommari” è fargli un complimento. Processi nei quali vengono interrogati e giudicati in una lingua - lo spagnolo - che neppure parlano o capiscono compiutamente. Se in qualche centro sociale vi capita di trovare un mercatino di Ya Basta comperatene una anche voi, di queste grandi e comodissime amache.
Fatto sta che mi stavo appisolando sotto l’ampio cielo del Messico con un dito a tenere il segno sul libro di Cacucci (chi altri?) abbandonato sul petto, quando un “compa”, un compañero, col paliacate sul volto mi viene vicino e mi sussurra “Marcos esta llegando”. Quindi fa il giro dell’accampamento a svegliare allo stesso modo tutti gli altri belli addormentati delle brigate mediche di Ya Basta che senza patemi d’animo si erano calati nel rito tutto messicano della siesta. Che a queste latitudini dura dalle 2 alle 5 del pomeriggio e forse qualche cosa in più.
Intanto che cercavo pazientemente le mie scarpe che i bambini del villaggio avevano preso l’abitudine di nascondermi ogni volta che mi arrotolavo nell’amava, il “compa” ci spiega che il sub intende incontrarci. Il che era di per sé un vero avvenimento perché da perlomeno due stagioni Marcos non era più uscito pubblicamente e, come sempre, al di là dei confini del Chiapas cominciavano già a fiorire leggende su un suo ritiro politico se non addirittura sulla sua dipartita eterna. Sempre il “compa” ci invita a fare un po’ di spazio per permettere anche a tutta la gente del caracol di entrare nel capannone e ascoltare il sub. In fretta, addossiamo gli zaini su una parete e cominciamo a slegare tutte le nostre amache che avevano rigorosamente sistemato nella maniera più casuale possibile (di notte ogni tanto si rompeva un palo e qualcuno finiva col sedere a terra tra le risate generali) così che il capannone degli internazionali pareva una ragnatela intessuta da un ragno drogato con l’lsd. In pochi secondi facciamo piazza pulita e ci precipitiamo fuori, nel grande spiazzo che sta davanti al grande Agua Caliente, quella sorta di teatro rialzato che si trova in ogni caracol zapatista. Cinque minuti dopo arriva il subcomandante.


Assistere all’arrivo di Marcos in un villaggio del Chiapas è una di quelle cose che ti vien da dire: “Cazzo! Valeva la pena vivere solo per essere qui in questo momento”. Gli insurgentes col passamontagna nero e la divisa dell’esercito messicano che si schierano in picchetto d’onore, le donne e gli uomini delle tante “commissioni” e della junta de buen gobierno del caracol che si preparano all’accoglienza tirandosi i rammendi sui vestiti, l’orchestrina dei milites col paliacate che intonano l’inno zapatista “Vamonos adelante” su strumenti che li diresti buoni solo per far legna, bambini che corrono dappertutto, qualche donna anziana che esce dalla sua casa con una torta di mais in mano (che il sub non rifiuta mai). E poi arriva lui, a cavallo, testa alta, con la pistola sotto l’ascella, fumando la sua pipa, seguito da una dozzina di cavalleggeri col passamontagna. I primi due reggono la bandiera insorgente con la stella rossa e il tricolore con l’aquila che attacca il serpente del Messico. “Cazzo! Valeva la pena vivere solo per essere qui in questo momento”.
Questa è stata la prima volta che l’ho incontrato. La seconda volta è stata a San Cristobal de las Casas al festival della Degna Rabbia dove il subcomandante dell’Ezln, l’esercito zapatista di liberazione nazionale, ha narrato ad una platea di ribelli venuti da tutto il mondo la storia dei venti che soffiavano sul capitalismo mondiale. Ci sono tante ingiustizie al mondo. Perpetrate in nome dell’interesse di pochi ai danni di indigeni delle selve o delle montagne, di residenti di periferie di immense città, di sfrattati, di contadini derubati della terra, di migranti, lavoratori, sfruttati, povera gente. Ebbene, viviamo tutte queste ingiustizie come se fossero fatte a noi stessi. Incazziamoci quindi. Ogni giorno più di ieri. Ma che sia una rabbia giusta e degna che abbia come obiettivo la giustizia e la libertà. Tutto deve essere di tutti, niente deve essere solo per noi. Para todos todo, nada para nosotros.
La terza volta l’ho intravisto solo. Un capodanno che batteva un freddo cane. Ero al caracol di Oventic. Ho aspettato l’anno nuovo brindando con la camomilla perché gli alcolici sono vietati nei municipi zapatisti ed era finito anche il tè. Il sub ha fatto una comparsata sul palco ma non ha detto nulla perché era una giornata di festa e magari voleva divertirsi pure lui. Gli indigeni, i milites e gli insurgentes ballavano nella piazza senza levarsi dal volto paliacate e passamontagna. E col vento che tirava avrei voluto averlo pure io un passamontagna.
Adesso vengo a sapere che non ci sarà un quarto incontro. Qualche giorno fa, dal caracol della Realidad, in una cerimonia di commemorazione di José Luis Lopez Solis “Galeano”, il maestro elementare assassinato da una banda di paramilitari, il subcomandante Marcos ha salutato tutti e se ne è andato. E se ne è andato come era venuto, sorprendendo tutti. “Noi crediamo che è necessario che uno di noi muoia affinché Galeano Viva. Quindi abbiamo deciso che Marcos oggi deve morire”.
Il discorso integrale tradotto in italiano lo potete trovare sul sito di
Global Project. Vi assicuro che vale la pena leggerlo.
Marcos è sceso dal palco e se ne è andato con le luci spente, seguito dall’applauso, l’ultimo, della sua gente. Se ne è andato come doveva andarsene perché Marcos, lui stesso lo ha sempre rimarcato, a guardar bene non è mai esistito.
“E’ una nostra convinzione ed una nostra pratica - ha ricordato salutando tutti - che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader né capi né messia né salvatori. Per lottare si ha solo bisogno di un po’ di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione.
Non è un addio quindi, per tutti quelli come noi che, davanti a quanto accade nel mondo, proviamo tanta vergogna, difendiamo coi denti quel po’ di dignità che riusciamo a mantenere e qualche volta proviamo pure ad organizzarci!
Non è un addio. Anche se ora so che non incontrerò più il mio subcomandante Marcos, so che c’è tanta, tantissima gente che dietro la faccia che mostrano tutti i giorni hanno un passamontagna nero. Tutti loro sono Marcos.
Todos somos Marcos.

Dall’Emilia a Srebrenica. Così la scuola che funziona combatte xenofobia e razzismo

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Sarajevo - Nel suo Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, Alex Langer insisteva sulla importanza di coloro che lui definiva “costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Oggi, quasi vent’anni dopo il tragico epilogo della sua vita a Pian dei Giullari, ci viene da pensare che l’ambientalista altoatesino sarebbe certamente contento nel vedere che una quarantina di studenti di due scuole superiori ferraresi ha voluto “continuare in ciò che era giusto” ed ha compiuto un intenso viaggio in quella Bosnia dove lui travasò tutto se stesso e dove, ancora oggi, la fine della guerra non ha portato la pace.
Fa anche piacere ogni tanto, a noi che scriviamo, riportare qualcuna di quelle “buone notizie” che per un certo giornalismo non è neppure “notizia” e constatare che la nostra scuola riesce ancora a dare agli studenti qualcosa che non sia solo un insieme di nozioni. Certo, il merito va più a quei pochi docenti che ancora riescono a trovare motivazioni nell’insegnamento, più che nei programmi scolatici o nei disastrosi tagli all’istruzione.
“Portare i nostri ragazzi a Saraievo e Srebrenica è stata una vera impresa! - mi ha confessato Grazia Satta -. Nelle nostre scuole oramai ci si accontenta di organizzare gite in località turistiche o settimane bianche per andare a sciare. Ma un preside o un docente che vogliano proporre qualcosa di più, come un viaggio di istruzione in Bosnia per discutere di pace e dei problemi della convivenza interetnica, si trovano con tanti muri da superare. Eppure, mi chiedo, non è forse questo che la scuola dovrebbe fare?”


Sempre quei muri che Langer ci chiedeva di saltare. Ed è quanto hanno fatto 26 studenti del triennio dell’Iti Ipsia Niccolò Copernico Carpeggiani di Ferrara e 14 l’Iti Ipsia di Portomaggiore. Quaranta ragazzi in tutto che - anche questo sarebbe piaciuto a Langer - rispecchiavano quel melting pot di culture e lingue che è la migliore Italia, che è l’Europa che verrà, che è il mondo. Tra loro c’erano ragazzi provenienti dal Pakistan, dall’Ucraina, dai Paesi Baltici, dall’Olanda... alcuni già cittadini italiani, altri col permesso di soggiorno in mezzo al passaporto da esibire alla frontiera europea per essere guardati con occhi sospetti dalle guardie. Come fossero diversi dagli altri!
Ancora muri da saltare, ancora ponti da costruire. Ma se un giorno riusciremo a costruire una Europa aperta e migliore, il merito sarà anche di chi si è speso per realizzare viaggi come questo. A chi, come i docenti Sergio Golinelli, Riccardo Rimondi e la già citata Grazia Satta sono convinti che la scuola pubblica non possa esimersi dal trattare tematiche di pace e convivenza. O come i due presidi, Francesco Borciani e Roberto Giovannetti, che hanno avuto la sensibilità di aiutarli arrabattandosi con la terrificante scarsità di risorse economiche che sta strangolando la scuola. Ed a questo proposito, un grazie va anche alla Rete Lilliput che ha contribuito generosamente alle spese.
E così, per una settimana, la carovana di studenti emiliani ha potuto viaggiare per i luoghi della guerra, attraversando la Sarajevo dei mille giorni d’assedio, la Srebrenica del massacro, il memoriale di Potocari dove riposano quasi novemila vittime innocenti che i Caschi Blu hanno mandato al macello. Un viaggio in cui hanno potuto conoscere e confrontarsi con i loro pari età bosniaci e farsi raccontare le trappole dell’odio etnico, le vigliaccherie del nazionalismo e le difficoltà di trovare risposte a chi addita nel “diverso” la causa di ogni male, istigando alla violenza e alla xenofobia.
Quelle stesse rispose che, grazie a questo viaggio, ora i quaranta ragazzi ferraresi sono pronti a dare anche in Italia.

Il Burundi si prepara alla pulizia etnica

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Il genocidio corre sul fax. Quattro pagine in tutto che portano la data di giovedì 3 aprile 2014. Quattro sintetiche pagine con le quali l’ufficio di rappresentanza dell’Onu di Bujumbura, capitale del Burundi, informa l’assemblea delle Nazioni Unite che il Cndd, il partito al potere nel piccolo Stato centrafricano, ha cominciato a distribuire armi, alcolici e uniformi ai miliziani dell’Imbonerakure.
Una storia che abbiamo già letto. Impossibile non ritornare con la memoria a quel sanguinoso aprile del 94’ quando in Rwanda il Governo distribuì birra e machete ai paramilitari dell’Interahamwe e cominciò il genocidio dei tutsi.
All’epoca, fu il generale dei Caschi Blu Roméo Dallaire che nel suo libro “Ho stretto la mano al diavolo” indicò questa mossa come il punto di non ritorno di quanto accadde poi, a spedire da Kigali un simile fax alle Nazioni Unite. Ieri come oggi, l’avvertimento e caduto nel vuoto e l’assemblea dell’Onu non si neppure degnata di una risposta.


I paralellismi con il genocidio rwandese sono davvero preoccupanti. In Burundi, come già era in Rwanda, la maggioranza hutu al Governo preme per rafforzare il suo potere ai danni della minoranza tutsi. La crisi e una politica economica asservita ai dettami di “sviluppo” imposti della Banca Mondiale che ha privatizzato l’intero Paese, svenduto le risorse e fatto piazza pulita di ogni ammortizzatore sociale, ha gettato la popolazione nella disperazione. Un palcoscenico ideale per dare sfogo all’odio razziale ed individuare nei tutsi la causa di tutti i mali che affliggono il Paese. Esattamente quento sta facendo il presidente Pierre Nkurunziza nell’intento di costringere la Corte Costituzionale a scombinare le carte in tavola e permettergli di ripresentarsi alle elezioni per il terzo mandato consecutivo. Proposta questa, che il Parlamento gli ha bocciato per un solo voto di scarto. L’asseblea degli eletti in cui è costituzionalmente garantita una forte rappresentanza tutsi compresa la carica di vice presidente, è il principale ostacolo che si frappone tra il presidente Nkurunziza e il consolidamente del suo potere politico. Per bypassare il legittimo parlamento, il presidente hutu ha proposto una dozzina di emendamenti alla Costituzione che mirano ad azzerare l’attuale equilbrio tra le due etnie e a consentirgli di non dover abdicare dopo la scadenza del suo secondo mandato, nel 2015. Il “pacchetto” prevede inoltre l’abolizione del diritto per militari e polizia di associarsi in sindacato e di scioperare, uno sbarramento al 5% per la rappresentanza dei partiti in parlamento, e l’istituzione di un insindacabile diritto di veto a disposizione del Capo del Governo (che è sempre Nkurunziza) sull’eleggibilità dei candidati alle elezioni presidenziali.
Un colpo di Stato in piena regola per attuare il quale, Pierre Nkurunziza deve necessariamente soffiare sul fuoco dell’odio interetnico e percorrere la stessa strada che in Rwanda ha portato alla guerra civile e al genocidio.
Secondo quando afferma il sempre ben documentato sito African Voices, dalle montagne del Burundi ha già cominciato a trasmettere Radio Rema Fm diffondendo notizie false sulle responsabilità dei tutsi nella crisi e incitando la popolazione al massacro. Anche questa è una storia già letta nel vicino Rwanda, quando Radio Mille Colline sputava odio su tutto il Paese invitando la gente a “schiacciare con ogni mezzo gli scarafaggi tutsi”. Stando ad una indiscrezione del giornale inglese Guardian, a tirare le file di Radio Rema Fm ci sarebbe lo stasso Georges Reggiu, già conduttore di Radio Mille Colline e condannato a svariati anni di carcere dal tribunale speciale costituitosi per giudicare i responsabili del genocidio rwandese. Grazie ad un accordo tra l’Italia e le Nazioni Unite, Reggiu, che aveva un passaporto belga, era stato estradato in Italia per scontare la sua pena ma fu, immediatamente e misteriosamente, graziato dal nostro presidente Silvio Berlusconi.
Georges Reggiu fu anche uno dei principali teorici del cosidetto “Potere Hutu” che afferma la superiorità della “razza hutu” sui tutsi cosiderati alla stregua di “blatte” da eliminare necessariamente prima di incamminarsi verso gli alti destini cui gli hutu sono destinati per grazie divina. Una ideologia (se possiamo chiamarla così) semplice ed efficace adatta a far presa su persone disperate, violente e alcolizzate come erano gli Interahamwe, “coloro che combattono assieme”, del Rwanda e ora gli Imbonerakure, “coloro che vedono lontano”, del Burundi.
Gli effetti di questo scroscio di violenza sono già palpabili nel piccolo Paese centrafricano. Le poche voci di ambientalisti, giornalisti e pacifisti che invitavano al dialogo e alla difesa dei diritti costituzionali, sono già state fatte zittire. Oltre un migliaio di persone - sia tutsi che hutu - sono state incarcerate. Altri ancora fatti sparire dalle milizie paramilitari. Il clou è stato toccato nell’ultimo 8 marzo, giornata mondiale della donna, quando una pacifica manifestazione nella capitale è stata repressa con brutalità inaudita, stupri e pestaggi compresi, dalle forze dell’ordine al diretto comando del presidente Nkurunziza. In questa occasione sono stati arrestati e già condanati all’ergastolo per “tentata insurrezione” tutti i 71 principali esponenti del Movimento Solidarietà e Democrazia, il primo partito di opposizione.
Lo scoppio di una guerra civile in Burundi rischierebbe inevitabilmente di estendersi ai Paese confinanti, Congo, Uganda e Rwanda per primi.
In Congo, ricordiamolo, sono tuttora stanziati i campi addestramento dei circa 12 mila miliziani dell Fdlr, le cosidette Forze democratiche per la liberazione del Rwanda che costituirono la manodopera per il genocidio perpetuato a colpi dei machete acquistati in saldo dalla repubblica Popolare comunista della Cina del ’94.
Ancora, storie già lette che si ripresentano nell’indifferenza, se non nella complicità, del mondo civile. Neppure un anno fa, nel settembre del 2013, col supporto neppure tanto velato del Governo congolese che sperava di toglierseli dal suo territorio, e della Francia che mirava a riconquistare l’influenza economica perduta dopo la presa del potere di Paul Kagame in Rwanda, i paramilitari dell’Fdlr tentarono inutilmente di invadere il Paese confinante per “finire il buon lavoro cominciato nel ’94”, come disse un loro esponente. L’operazione che in Francia chiamarono “Abacuguzi”, non riuscì per l’intervento di Inghilterra e Usa.
Ancora, come all’epoca del colonialismo, a dettare i tempi di stragi e genocidi sono sempre e comunque le civili potenze occidentali.
Vale la pena, in chiusura del mio articolo, di spendere due parole su tutsi e hutu. Contrariamente a quanto i più credono non si tratta di due diverse etnie. Piuttosto, come spiega l’indimenticabile giornalista Ryszard Kapuściński, si tratta di due caste: i tutsi legati all’allevamento e alla gestione del potere politico, e gli hutu all’agricoltura. Ma gli appartenenti all’una o all’atra casta sono biologicamente indistinguibili gli uni dagli altri. Non si trattava neppure caste chiuse, come quelle indiane. Il re del Paese della Mille Colline aveva il potere, ad esempio regalando una mandria ad un suo fedele vassallo, di elevare un hutu in tutsi. La cattiva sorte o la perdita dei suoi “lunghe corna” trasformava invece un tutsi in hutu. Furono i colonizzatori belgi e in particolare i missionari cristiani a farne due etnie, formalizzando l’appartenenza alla “razza” tutsi o hutu sui documenti. Una mossa pensata per dividere il Paese e governarlo meglio, contando sulla minoranza tutsi per affiancare i “padroni bianchi” sulla gestione del potere politico.
Neppure 50 anni dopo, tutto ciò si tradurrà in genocidio. Una parola che prima che arrivassero i colonizzatori era non solo sconosciuta ma anche intraducibile nelle tante lingue del continente nero.

Diario di viaggio della carovana Brasil Em Movimento

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Come ti pacifico la favela, la storia di Rocinha

Rio de Janeiro
- Per darvi un’idea dell’ostello dove la carovana di Ya Basta ha preso alloggio, potreste pensare ad un quadro di Escher. Uno di quelli con le scale “matte” che si accavallano in tutte le direzioni. Solo, dovete immaginarlo dipinto con tutti i colori di un mercato della frutta! E se la cosa vi sembra un controsenso, non dimenticatevi che siamo in Brasile. L’Art Hostel si trova nel nel mezzo di Rio de Janeiro - ammesso e non concesso che una città come Rio posso avere qualcosa che si possa definire “centro” - nel quartiere di Catete. Per raggiungere Ipanema, prima tappa di questa prima giornata di carovana, dobbiamo prendere la metropolitana e scendere nella Rio sud, superando i quartieri di Botofago e Capocabana. Poi tocca salire su un autobus che si fa strada, chissà come ci riesce? tra stradine traboccanti di bancarelle che vendono frutta, strette tra canyon di eleganti grattacieli. La nostra meta è la favela di Rocinha, la più grande delle 1024 (sì, avete letto bene, mille e ventiquattro) favele di Rio de Janeiro

. Rocinha è anche la più grande del sudamerica. 60 mila abitanti secondo l’ultimo censimento. Ma “censimento” è una parola che in una favela non significa proprio niente perché presuppone una sorta di ordine o di legalità che in una favela proprio non c’è. Una stima più plausibile fatta dalle associazioni che a Rochina ci lavorano, parla di 150, forse 200 mila abitanti. Di sicuro, è un numero in continua crescita. La favela comincia improvvisamente dove cessano i grattacieli di Ipanema. Mi aspettavo una sorta di “zona franca”. Ed invece il taglio è netto. Di qua la ricchezza e di là la miseria.
Nel cuore di Rochina ci attende Barbara Olivi. Una volta, Barbara, aveva un’agenzia immobiliare a Milano. Poi, una ventina di anni fa, ha venduto tutto, ha sposato un brasiliano e si è trasferita qui per portare avanti una serie di progetti rivolti in particolare ai minori. Se glielo chiedete, l’unico rimpianto che ha è di non essere partita prima. E’ lei che ci racconta la storia di questa favela, una sorta di “discarica degli indesiderati”. I primi a costruirci la casa sono stati proprio gli italiani. Anarchici, per lo più, che nei primi anni del ‘900, varcavano l’oceano da perseguitati politici e che quando guardavano l’oceano dalle grandi onde che si frangono sui Dois Irmãos, immaginavano di vederci sorgere il Sol dell’Avvenir. E intanto che aspettavano, coltivavano frutta e verdura e la vendevano al mercato di Rio. Rocinha significa per l’appunto “il mio orticello”.
Anche la tortuosa strada che si inerpica per la favela si chiama Rua La Via Appia, strada La Via Appia. Pure i locali ricordano nei nomi l’Italia. Pranziamo in uno strano posto dove il cibo viene venduto solo a peso. Lo hanno chiamato La Roma.
Finalmente raggiungiamo Barbara nella sede della sua associazione. Un’ingarbugliata casa a più piani con stanze piccole distribuite in altezza. Ci sono ragazzi e ragazze di ogni età in ogni stanzetta che parlano, mangiano e smanettano ai computer. Nella terrazza dove è stata improvvisata una scuola di ballo (samba, mano a dirlo), chiacchieriamo con Barbara e suo marito. Che ragazzi vengono qua? Come li contattate? “Sono loro che vengono da noi - mi spiega -. Nella favela tutto sanno tutto di tutti. Voi, ad esempio, non siete certo passati inosservati. Tutti sanno dove siamo e chi ha bisogno entra. Sono ragazzi cui è stato rubato tutto. Nessuno gli ha mai dato niente. Né affetto, né cultura ma neppure cibo. Sai quanti di loro hanno carenze vitaminiche? Ti pare possibile in un Paese come il Brasile dove la frutta la trovi in ogni angolo? Ma un arancio costa come un piatto di fagioli e se hai fame scegli il secondo che ti riempie di più. E una economia diversa quella che vige qui dentro. A fianco della povertà, c’è anche un ceto medio. Intendo... medio per i criteri di Rocinha. Qui nessuno paga le tasse e c’è chi ha messo su piccole attività familiari con cui campa. Attività che però non gli consentono di cambiare vita e quartiere!”
A Rocinha tutto costa meno perché la gente non ha soldi. La favela, che qui chiamano “comunità”, è anche una discarica dell’economia globale. A pagarne le spese per primi sono i bambini. “Tra quelli che vedi ballare alle tue spalle - continua Barbara -, uno è mi è svenuto per la fame davanti alla porta, un altro non ha parlato con nessuno per anni. Poi mi ha raccontato che viveva accanto alla casa che i narcos usavano per le torture”. Rocinha infatti era gestita dai narcotrafficanti del cartello dell’Ada, Amigos dos Amigos. Il 13 novembre 2011, la favela è stata “pacificata”. Tremila soldati e 18 carri armati sono entrati e hanno cacciato i narcos che vi governavano. Ma si può davvero parlare di pacificazione? “Con 3000 soldati armati e 18 tank? Non farmi ridere! C’era da farsi addosso dalla paura! Per fortuna non ci sono stati morti e feriti come per la ‘pacificazione’ del Complexo Do Alemao (altra favela di Rio ndr). Ma non sono certo mancate le violenze gratuite! Per mesi avevamo paura ad uscire per le strade occupate da militari in divisa nera satinata che avevano come simbolo sulla divisa un teschio con un coltello infilato sul cranio e due mitra incrociati sotto! Avevano la licenza di uccidere e non si dimenticavano mai di ricordartelo. Se per te questo è pacificare... La verità è che le favele hanno sempre fatto comodo prima al potere dittatoriale e poi a tutti i governi. Ogni tanto fanno qualche progetto da campagna elettorale ma tutto resta come prima. Hanno cacciato il governo dei narcos e adesso son lì a chiedersi con cosa sostituirlo. Perché, ti ripeto, la verità è che le favele fanno comodo al potere politico ed economico”.
Salutiamo Barbara e scendiamo a Ipanema dove un gruppo di ragazzi da settimane sta bivaccando con tende e cartelloni d protesta nel bel mezzo della strada principale sul lungo mare, proprio davanti all’elegante palazzina del governatore dello Stato di Rio, Sergio Cabral. Qualche giorno fa, la polizia li ha sgomberati violentemente. Troppo violentemente anche per i criteri brasiliani che certo non sono teneri. Si è così creato un movimento di opinione che li ha sostenuti e li ha fatti scarcerare. La sera stessa, sono ritornati dove erano prima. Hanno messo anche qualche tenda in più.


Delocalizzazione o morte. O tutte e due

Rio de Janeiro
- Son le cose che gli italiani all’estero devono mettere in preventivo. Un signore mi avvicina mentre faccio colazione in quest’incasinatissimo groviglio di scale, corridoi, stanze e altane che è l’Art Hostel e mi chiede incuriosito come mai a “voi italiani” piace tanto il Berlusconi. Siccome non ho nessuna voglia di abbruttirmi arrampicandomi per ore in astruse spiegazioni, assolutamente inutili a far comprendere il fenomeno a chi non vive nel Bel Paese, quando mi fanno questa domanda - e succede sempre! - alzo gli occhi al cielo e sospiro in una maniera così penosa che non hanno più il coraggio di farmi altre domande. Per vendetta gli chiedo di Lula. Il gentile signore mi confessa che a Lula, lui, ci aveva anche creduto. “Qualcosa di buono ha fatto... e poi era sempre meglio della destra”.
Il signore dell’ostello non è il solo che al presidente operaio (intendo Lula, non quello nostrano) ci aveva creduto. Poi si son resi tutti conto che per la classe operaia non ci sono paradisi su questa terra. “Quando vinse le elezioni nel 2002 ci sembrava che tanti anni di lotte fossero arrivati alla conclusione. E agli inizi era proprio così. Lula accettò di istituire il ministero per la casa e ne affidò la direzione al sindaco di Porto Alegre, Olívio Dutra. Ci volle poco per capire che la lotta sociale non può mai abbassare la guardia e che un governo di sinistra può rivelarsi un avversario più ostico che un governo di destra”. A parlare è Lurdinha Lopes. A vederla per strada, sembrerebbe la classica zia che ti mette nel forno le torte di mele. A sentirla parlare di casa come diritto e non come merce, di occupazioni, e di resistenza agli sgomberi, cambi subito idea. Veste una maglietta rosso fuoco dell’Mnlm, il movimento national de luta pela moradia (lotta per la casa) di cui è una portavoce e ci accoglie in un palazzone che si erge nel bel mezzo della City, l’elegantissimo quartiere degli affari di Rio. Un palazzo occupato, naturalmente. L’hanno chiamato palazzo Manuel Congo, nome di un eroe popolare nero contro la schiavitù, e fa parte dello dello stesso complesso del Municipio di Rio. Come dire che hanno occupato l’entrata di servizio del signor sindaco! Ci vivono 46 famiglie sfollate dalle favela che non hanno altro tetto che quello sopra la testa. Bella gente che stride come il sale nel caffè tra gli incravattati uomini d’affari della City con le borse di pelle in mano e le mercedes parcheggiate attorno al Manuel Congo.
Non è la sola occupazione gestita dall’Mnlm. Qua e là per Rio, troviamo altri palazzoni occupati. Tutti con nomi di schiavi ribelli, come il Maria Criola, per un totale di circa 400 “recuperi”.
“Dopo aver partecipato a tre inutili Conferenze governative di un ministero che si è rivelato un bluff, senza finanziamenti e senza struttura giuridica per operare - ci spiega Lurdinha -. Abbiamo partecipato alla terza a modo nostro: occupando le case statali vuote”.
Dopo Lula, con l’arrivo di Dilma, il dialogo col governo si è fatto ancora più difficile. Il Pt (partito dei lavoratori) ha sposato la causa degli speculatori edilizi. Tiene sfitte le case popolari - che pure sarebbero sufficienti a dare un tetto a tutti, assicura Lurdinha -, per non abbassare il prezzo delle case e punta sulla crescita edilizia. “Oramai le grandi compagnie si sono specializzate in grandi opere e grattacieli. Tra poco non ci sarà una sola casa di sue piani in tutta Rio”.
Ma per far questo è necessario fare spazio, conquistare territorio. Ecco allora la parola magica: delocalizzazione. Termine elegante per un concetto fetente. 65 mila disgraziati sono già stati allontanati da Rio, sempre con le cattive e mai con le buone. “Entrano nelle favele come si entra in territorio nemico, le occupano militarmente e mandano via la gente con la forza, sparando proiettili veri. Ai più fortunati danno una casa a tre ore da Rio. Con quello che costano i trasporti, questi disgraziati finiscono lo stesso per dormire per le strade, considerato che devono comunque venire in città per lavorare o per sfamarsi”.
Ogni giorno, polizia e messi comunali, girano per le favela “pacificate” e segnano con una vernice gialla, come si fa con gli alberi, le case da abbattere. E’ una pratica che non ha nessun valore né legale né pratico, ma che basta a far scappare e qualche volta anche suicidare chi ci vive. Vero e proprio terrorismo psicologico.
Il mondiale si è rivelato un ottimo escamotage per giustificare queste operazioni militari contro la povertà per la conquista di terreni lottizzabili. Le telecamere di tutto il mondo che verranno ad immortalare le gesta di Messi e Balotelli, devono trovarsi di fronte ad un “Brazil lindo”. A Copacabana la polizia ti dà 150 reais di multa se butti una cicca per terra. I soldi per le infrastrutture sportive che non sono riusciti a raccattare con l’aumento dei costi dei trasporti, rientrato dopo le proteste, li cercano anche qui. Oppure tagliando le spese per l’istruzione. Mentre parliamo con Lurdinha, veniamo a sapere che proprio nella piazza vicina c’è una manifestazione di studenti e professori contro i tagli. “Hanno capito che meno la gente sa e meno è pericolosa - mi dice uno studente - per questo non vogliono che studiamo e che capiamo quali sono i nostri diritti”.
Iniziative di protesta come questa - e che vengono puntualmente soffocate violentemente con cariche e lacrimogeni dalla polizia militare (quella civile si limita quasi sempre a dare supporto all’esercito) - sono oramai giornaliere a Rio. E vanno ad aggiungersi ai vari “Ocupa”. Proprio sulla scalinata del municipio, da un paio di mesi - ogni volta che li hanno sgomberati sono sempre puntualmente ritornati - si trova un accampamento di giovani che fanno riferimento al movimento che ha dato origine agli scontri di giugno. Sono quasi tutti a volto coperto. “Abbiamo imparato a nostre spese che è meglio non farci riconoscere - mi dicono - Non solo per la polizia, quanto per i gruppi paramilitari. Sono loro quelli che fanno sparire la gente.”
Elisa ha ventisette anni. Fa parte del movimento. MI racconta con un sorriso che è di origini calabresi e vorrebbe venire in Italia a vedere come facciamo politica perché, dice, “da voi non è una cosa violenta”. Col suo compagno porta ogni giorno acqua e cibo per i ragazzi della scalinata. Il suo ruolo di portavoce e di supporto logistico le ha impedito di coprirsi il volto. Ora vive nella paura perché i paramilitari l’hanno minacciata di morte. “Siamo scesi in piazza senza esperienza di lotta. Perché lo abbiamo fatto? Perché ci fa schifo la corruzione dello Stato, la politica di partito, la partecipazione limitata a tracciare una x su una scheda di simboli tutti uguali, la povertà, le ingiustizie ... Ci hanno fatto pagare un prezzo molto duro. Non sappiamo neppure bene chi siamo. Anarchici? Comunisti? O che altro? Solo una cosa abbiamo chiaro e in comune tra tutti noi. La volontà di resistere”.


513 anni di massacri (dato in aggiornamento)

Rio de Janeiro
- Arriva il sole, a Rio, e noi andiamo via. In questi giorni di passaggio tra il mite inverno tropicale e l’estate, possiamo vantarci di aver preso l’ultima “garua” della stagione fredda. Quella fastidiosissima pioggia che non è pioggia, tipica della fascia tropicale sudamericana, che ti bagna dappertutto senza cadere dall’alto perché sta tutta intorno a te. Con la garua non servono ombrelli. Serve solo rassegnazione e aspettare il sole che ti asciughi. Sole che, assicura il meteo, arriverà proprio domani. Le incantevoli spiagge di Ipanema e Copacabana cominceranno a riempirsi di musica e di bagnanti, e la carovana di Ya Basta partirà per il sud. Ci aspetta una lunga notte in pullman. Da Rio a San Paolo ci sono pressappoco 500 chilometri da percorrere.
Dopo la serata di ieri in cui abbiamo filmato i violenti scontri tra polizia e manifestanti, ci attende una giornata tranquilla. In queste ultime ore dobbiamo ancora incontrare tante persone a Rio: artisti, attivisti, protagonisti dei movimenti che nel giugno di quest’anno, sono scesi in piazza gridando al mondo intero, venuto per assistere alla Confederation Cup, che “Il Brasile si è svegliato” e che, più che di stadi privatizzati, hanno bisogno di ospedali e servizi. Ospedali e servizi. Un modo come un altro per chiedere democrazia, partecipazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente e della diversità.
Le persone da incontrare, dicevamo, sono tante e decidiamo di dividerci in piccoli gruppi con l’intenzione di ritrovarci verso sera al Maracanà. Non per assistere ad un bel derby “Fla - Flu” tra il Flamingo e la Fluminense,ma per visitare una strana palazzina che ai tempi di don Pedro imperatore doveva essere pure elegante, ma che adesso ti guarda come se fosse appena scampata da un terremoto. Sorge a un tiro di sasso dal Maracanà tirato a lucido per il mondiale prossimo venturo. Vicino a quel complesso di architetture lineari ed avveniristiche, la palazzina disastrata salta agli occhi come un pinguino che passeggia per piazza San Marco.
Avvicinandosi all’edificio, si capisce subito che è sotto assedio. Un assedio “duro”, di quelli in cui non si fanno prigionieri. Sulla finestra nobiliare del primo piano campeggia una striscione: “resiste”. Tutto attorno è stato tirato sù un reticolato da cantiere edile. Nei cartelloni appesi si legge: “il petrolio è nostro e il Maracanà pure”, “513 anni di massacri”.
Dentro, è Amazzonia. Quelli che vengono ad aprire il lucchettone per farci entrare sono tutti indigeni, per lo più della nazione Guaranì, anche se ti mettono subito in chiaro che sono oltre una 50ina le tribù che hanno dato origine all’occupazione.
Due di loro, parlando a turno, ci raccontano la storia di quell’incredibile palazzo che fu donato agli indigeni dall’imperatore don Pedro Secondo nel 1862. “Fu il primo riconoscimento ufficiale ai popoli originari - mi spiega Evandro - Per anni è stato un luogo magico per noi, i capi di oltre trecento nazioni originarie venivano sin qui, dopo interminabili viaggi in canoa o a cavallo, per incontrarsi e discutere. Rio allora era la capitale del Paese. E anche il luogo è simbolico. Qui sotto c’è l’ultimo cimitero dei Tupinanbù, una delle tribù estinte per l’arrivo dei bianchi. Sempre qui, nel 1910 Candido Marechal Rondon, un indigeno che aveva il grado di maresciallo nell’esercito, fondò il Servizio di Protezione Indigeno, togliendo le competenze in tema di popoli originali al ministero per la Guerra. Ancora qui, il 19 aprile del ’53 ci fu un grande incontro di tutte le nazioni sopravvissute e fu istituito il Museu Do Indio. Ancora oggi, in Brasile, si festeggia il 19 aprile come il giorno dei “popoli originari”.
Poi arrivano gli anni della dittatura militare. L’Amazzonia, indigeni compresi, viene venduta - ma sarebbe il caso di scrivere “regalata” - alle multinazionali. Nel ’78 il Museo fu trasferito nel quartiere di Botafogo. Perse la sua funzione di luogo di incontro per divenire un museo sterile, con l’entrata a pagamento, destinato per lo più ai turisti. La palazzina fu abbandonata a se stessa e divenne una delle sedi in cui gli squadroni della morte torturavano ed uccidevano gli oppositori del regime.
Nel 2006, con Lula al potere, una rappresentanza di indigeni, molti dei quali studenti della vicina università che si trova proprio dall’altra parte del Maracanà, decise di occupare (“ma noi preferiamo dire: riappropriarci”) della struttura. La palazzina fu rimessa a nuovo, furono sistemati uffici e nuove esposizioni artistiche, si organizzarono corsi di lingua indigena e di artigianato.
A cambiare le carte in tavola, ci pensa la Confederation Cup e il Mondiale. Il terreno del Maracanà è una miniera d’oro per la speculazione edilizia. Le aziende che hanno preso in gestione il Maracanà, diminuendo i posti e alzando i prezzi dei biglietti (“oramai bisogna essere ricchi per andare allo stadio - mi ha confessato un tassista - Non è più il luogo dove si saltava e si cantava tutti insieme. Ci hanno rubato un pezzo di anima”) progettano di costruire sopra il Museu Do Indio uno shopping center.
La polizia arriva la prima volta il 12 gennaio e sgombera di brutto gli occupanti. Qualche giorno dopo, gli indigeni sfondano i sigilli e si rimpossessano della loro palazzina. La polizia militare ritorna ancora il 22 marzo. Stavolta è una guerra. “Io ero qui e non avevo mai visto uno schieramento simile. Neppure sotto la dittatura. Avevano portato anche i carri armati - racconta Maria De Fatima De Lima Pinel, antropologa all’università federale Fluminense - Hanno picchiato donne e bambini, spaccato tutto quello che hanno trovato, dalle finestre agli arredi... tutto l’artigianato artistico è stato buttato in discarica... hanno divelto il pavimento e sfondato i soffitti... roba che per poco non gli cadeva tutto in testa! Con le ruspe hanno rivoltato la terra dove sorgeva l’orto botanico indigeno, ammassandola verso le porte. Quella finestra che vedi semi coperta, era il piano terra. I militari non si sono fermati neppure quando la terra ha restituito le ossa dei torturati!”
“E sai perché sono stati così violenti? - mi spiega Evandro - Perché non avevano un mandato! Quello se lo sono fatto fare una settimana dopo!”
Tanta violenza, tanta distruzione, tanta stupidità, tanta cattiveria. Tutto per niente. Il 5 agosto, con l’appoggio dei movimenti popolari che protestavano contro la vendita ai privati del Maracanà, gli attivisti indigeni si sono ri- ripresi la loro palazzina.
Piano, piano, con la perseveranza di chi sa di essere nel giusto, la stanno risistemando. Ne vogliono fare un’università, dicono. La prima università mondiale dei popoli originari.
Nè le ruspe, nè le botte, nè i carri armati sono riusciti a fargli cambiare idea.
Loro sono ancora là. Come erano là, quel 12 ottobre del 1492, quando un certo Colombo arrivò a bordo di una caravella.


Miseria e grattacieli

San Paolo
- La stazione degli autobus di Rio, come di tutte le altre città sudamericane in cui sono vissuto, è quanto più in Europa somiglia ad un aeroporto. Collegano enormi e lontane città col criterio della “fermata unica”. Ore ininterrotte di “volo” senza neppure prendere in considerazione una sosta nelle periferie, che a queste latitudini del mondo sono considerate come fastidi necessari dalle logiche dello “sviluppo economico”.
Ci sono i gate, le grandi sale di attesa con annessi bar, ristoranti e negozi di souvenir, gli schermi luminosi delle partenze e gli stand delle tante compagnie. Anche il biglietto è illeggibile proprio come quello degli aerei. Tutto bello e luccicante. E la prima impressione è che tutto sia pure facile ed ordinato. E come tutto quello che in Sudamerica appare ordinato quando ci vai a sbattere scopri che è di un incasinato che travalica qualsiasi criterio occidentale di razionalizzazione del fenomeno. A pelo, col biglietto in mano e col sistema “fai finta di essere stupido, mostra il tagliando, domanda a tutti quelli che incontri e spera”, riusciamo a salire sul nostro autobus. Bisogna mostrare i documenti al gate e qualcuno di noi ha lasciato il passaporto a Rio (così come le mutande e le calze. “Però mi sono ricordato dello spazzolino”). Ma siamo in Sudamerica. Uno conosce uno che conosce un altro e si parte lo stesso. E puntuali pure. E’ mezzanotte e mezzo.
Dopo sei ore trascorse a battagliare contro lo schienale del posto davanti, arriviamo a San Paolo che il sole è appena spuntato.
“Fais un frio pracarahio” è stato il primo commento. Ci infiliamo tutto quello di pesante che troviamo nel nostro guardaroba e raggiungiamo l’ostello.
Dire che siamo “nel cuore” di San Paolo non vorrebbe dire niente. La città - 20 milioni di abitanti - è troppo grande per avere un cuore. Ci basta un’ora di metropolitana in puro stile “linea 1 per il Lido” e un’occhiata ai grattacieli che ci sovrastano non appena usciamo come topi spaventati dal tunnel della metro, per capire che San Paolo non ha un cuore. E’ solo una immensa strada, l’Avenida Paolista, dove non vive nessun vivo. Banche, telefonie, shopping, grandi firme. Quattro o cinque chilometri di finestre tirate a lucido, altissimi edifici che se hanno meno di 15 piani gli viene il complesso del pigmeo. Su questa strada, addirittura il Palais Lumiére di Piero Cardin avrebbe avuto un suo senso. Il problema è che qui, in un mare di architetture da base spaziale, nessuno si accorgerebbe neppure della sua esistenza.
Il nuovo ostello non è colorato come quello di Rio. Sorge nel quartiere Bella Vista colonizzato da migranti... indovinate voi la nazionalità! Tre o quattro stanzoni da nove posti l’uno. Due tazze e una doccia per tutti. Domani mattina sarà una guerra.
Il pomeriggio lo dedichiamo ad esplorare la città. C’è uno di noi che deve comperarsi mutande e calzini, oltre che capire come tornare a Rio senza passaporto.
Ci dirigiamo verso Praça da Sé, dove sorge la cattedrale dedicata ad un tizio che un bel giorno ha deciso che gli indigeni dovevano assolutamente essere convertiti e per questo lo hanno fatto santo. Gli hanno pure fatto un bel monumento. Lui in alto sul basamento che guarda verso dio e gli “indio” ai piedi con faccia illuminata dalla gratitudine.
Man mano che ci si allontana dall’avenida Paulista, i grattacieli diventano sempre più disastrati. Finestre rotte, intonaco da reduce di guerra... solo l’altezza rimane. Trenta piani là, quaranta e cinquanta qua. Per trovare uno sputo di verde - peraltro battuto da un via via continuo di pattuglie di polizia civile in moto e di autoblindo da guerra della polizia militare - bisogna arrivare alla cattedrale. Attorno ai ricami gotici dei pinnacoli, ho contato quattro accampamenti di senza casa. I più fortunati con una tenda rattoppata, i meno sotto un cartone. Ci saranno perlomeno due o trecento disperati. Senza contare quelli che abbiamo visto per la strada. E questa sarebbe la “piazza San Marco” di San Paolo. “La polizia ha provato più volte ad allontanarli - mi ha spiegato un amico che vive qui da tanti anni - ma non ci riesce. Tornano sempre. Sono troppi”.
Attorno a noi fa sempre più freddo e torniamo gelati all’ostello. La notte scende in fretta a San Paolo. E non per questioni astronomiche. I grattacieli sono troppo alti e rubano luce e respiro. Si cammina in strettissimi canyon di cemento, tra la puzza dei gas di scarico e il tanfo delle immondizie rivoltate dai disperati in cerca di cibo. Il sole sparisce presto dalle strade pauliste. Rimane solo per un altro po’ ad illuminare le cime dei grattaceli più alti.


Samba e cortei

San Paolo
- Oggi a São Paulo do Brasil si sono svolte tre manifestazioni e noi ce le siamo fatte tutte. Manco fossimo attivisti di Ya Basta!
Si comincia la mattina presto. L’appuntamento è alla sede paulista dei Sem Terra. E’ abbastanza vicina al nostro ostello. Basta solo attraversare il quartiere che qui tutti chiamano Cracklandia. Non sto a dirvi quale sia la specialità di questo quartiere.
La sede dei Sem Terra è una palazzina elegante e arredata con buon gusto. Confesso che mi attendevo delle stanze molto più spartane. Ci sono sale riunioni tappezzate di colorati quadri naif, segreterie efficienti e comode sale di attesa per gli ospiti. Alcuni militanti ci fanno vedere i manifesti che stanno preparando. C’è una vecchia immagine bianco e nero della presidente Dilma ragazzina col classico cartone numerato in mano. E’ una Una foto segnaletica che la polizia le ha scattato dopo un arresto. Sotto, la scritta recita pressappoco: “Dilma, un tempo la pensavi come noi. Non puoi averlo dimenticato”.
A nome della segreteria dei Sem Terra, ci accoglie Raul, un giovane attivista che ci invita a partecipare alle mobilitazioni al seguito di Levante popular da joventude, una associazione giovanile vicina ai Sem Terra. Ce ne sono tre un programma, ci spiega, la prima organizzata dagli insegnanti e dagli studenti, la seconda dai sindacati di base e la terza, serale, davanti alle della Globo, il colosso editoriale e televisivo del Brasile. Raul ci chiede a quale vogliamo partecipare e noi gli rispondiamo: “A tutte e tre, naturalmente”.
Cominciamo quindi con gli insegnanti. Concentramento alle tre pomeridiane in piazza della Repubblica per sfilare in corteo lungo l’avenida Paulista. Ci saranno due o anche tremila persone. Sono per lo più insegnanti che denunciano i tagli alla scuola pubblica e il precariato. “Entrare in una università pubblica è sempre più difficile - mi spiega Letizia che parla un ottimo italiano, imparato in occasione di uno scambio culturale a Pavia - e anche per i laureati trovare lavoro è una impresa. I giovani che si avvicinano allo studio e al mercato del lavoro sono sempre più ricattabili. I diritti e le garanzie sempre di meno. La terziarizzazione si sta mangiando una generazione intera”.
Siccome tra giornalisti ci si riconosce a colpo d’occhio, attacco bottone ad un collega brasiliano. Si chiama Bruno Mascharenhas e, dopo avermi informato pure lui delle sue origini italiane ed informato che ci sono più italiani a San Paolo che a Roma, mi spiega per quali motivi la gente è incazzata nera. “I brasiliani sono persone aperte e cordiali e sentono questa politica delle larghe intese come una cosa distante e... come dire? repellente. I giovani in particolare ne sono schifati. Vedi quel cartello? Denuncia lo scandalo di un deputato riconosciuto colpevole dal tribunale di essersi appropriato di denaro pubblico. Eppure non lo possono arrestare perché è deputato!” Ve ben... non è che in Italia... “Voi siete abituati a Cosa Nostra, mafia e Berlusconi. Ma qui la gente si indigna”. Cambiamo argomento. Come è fare il giornalista in Brasile? “Come da voi, penso. Sempre meglio che lavorare! A parte gli scherzi, siamo una categoria ricattabiile e ricattata. Vedi? Io faccio le riprese e le interviste ma non so ancora quanto spazio mi daranno e neppure se andrò in onda. Se poi sono qui, hai già capito che sono uno di quelli che non farà carriera”.
Quando il corteo si muove, lo fa a ritmo di samba sotto una dozzina di mongolfiere colorate. Sono i giovani e in particolare le ragazze a scandire gli slogan. E rispetto ai nostri cortei, c’è da dire che, in quanto a percussioni ci danno la cacca! E tanta anche. Gira e rigira, ogni canzone, ogni slogan va sempre a cascare sul samba. Vi dico solo una cosa: scrivo che è l’una di notte e ho ancora la testa che mi rimbomba! Patapim, patapam e patapum. Fatevi voi otto ore così!
Verso metà dell’avenida Paulista, il corteo si congiunge con quello dei sindacati e si prosegue insieme. Su e giù per l’arteria pulsante di San Paolo. Alle sei di sera, il nostro Raul ci avvisa che, se vogliamo partecipare anche alla manifestazione contro la Globo dobbiamo sbrigarci e salire su dei pulman del tipo Gran Turismo, organizzati dei Sem Terra per raggiungere il quartiere della Globo. Sempre che non siamo troppo stanchi, ci chiede. L’avenida Paulista è interminabile, a farsela a piedi.
Ma quando mai? Tre manifestazione al giorno, per noi, è un minimo sindacale.
La concentrazione è alle sette di sera. Pare sia normale a San Paolo. Finito di lavorare, prima di andare a casa, si fanno un corteo invece dello spritz.
Per raggiungere la piazza di partenza, il pulman ci impiega un’ora e mezzo a fare lo slalom in questa foresta di grattacieli che chiamano città. Appena scesi, si capisce che l’aria è diversa. Sono quasi tutti giovani e giovanissimi. Le ragazze qui sono in percentuale ancora maggiore. Sono loro che reggono tutti gli striscioni e le bandiere. Chiedono democrazia anche nei media. La Globo è un colosso multimediale che appartiene ad una solo famiglia, la Marinho. E’ una azienda a controllo privato ma che gestisce denaro pubblico. Stando ad alcune inchieste in atto, pure in maniera poco pulita. Inoltre, la Globo detiene pressoché il monopolio dell’informazione su carta e su etere del Brasile. Come se non bastasse, dicono i manifestanti, la Globo più che giornalismo fa politica e ha contribuito a far eleggere al senato alcuni suoi manager alquanto chiacchierati. (In Italia invece...)
Mentre su San Paolo calano le prime ombre della sera, il corteo per la democrazia nell’informazione si prepara a muoversi e raggiungere la sede della televisione, un paio di chilometri più avanti. E’ allora che si fanno vivi i black bloc. Gruppi auto organizzati che in Brasile ha una connotazione totalmente diversa che in Europa. Vestono di nero e coprono il volto con sciarpe e scialli. Dubito che ce ne sia uno solo con più di venti anni sulle spalle. Chiedo ad uno di loro chi sono. Parla volentieri e si lascia anche fotografare. “Siamo anarchici - mi racconta -. Copriamo il volto per proteggere noi stessi, così come il nostro scopo è proteggere il corteo dalla polizia militare”. Lo stesso Raul, mi ha spiegato che pur non avendo una vera connotazione politica e neppure una struttura organizzata, i Sem Terra non hanno problemi ad organizzare le manifestazioni con questi giovani ed anzi stanno dialogando con alcune loro figure di riferimento. In effetti, black bloc, Sem Terra e altri attivisti partono tutti insieme, sorreggendo gli stessi striscioni. Presto però, i black bloc si dispongono ai lati e alla testa del corteo. Parte qualche pietra contro una sede della banca tedesca ma niente di più. Il corteo non è autorizzato ma la polizia militare stavolta non interviene. Davanti alla Globo i manifestanti depositano una bella quintalata di merda puzzolente. Poi il corteo fa dietro front e ritorna alla piazza di partenza. Sempre a ritmo di samba, naturalmente.


La scuola dei Sem Terra

Jacarei
- Per trovare un po’ di quel verde per cui il Brasile è famoso, bisogna scammellare verso est sul solito pullman “gran turismo” per almeno un paio di orette. Quando la foresta grigia dei grattacieli cede finalmente il posto ai colori e ai profumi di quella tropicale, scendiamo a Jacarei, un piccolo municipio dello Stato di San Paolo che non ha assolutamente niente di notevole se non la presenza di una scuola molto particolare: la scuola nazionale Florestan Fernandes dei Sem Terra.
Arriviamo sin qua con Claudio, che è il nostro referente paulista. Ha sposato una brasiliana e vive da quest’altra parte dell’oceano da tanto tempo. E’ un astrofisico e vive con una borsa di studio dell’università di San Paolo per la quale sta preparando dei modelli matematici di simulazione del comportamento del gas cosmico. In Brasile però non ci è arrivato per l’astronomia ma per insegnare ai bambini delle favele a lavorare la terracotta. Lo aveva chiamato un prete suo amico legato alla teologia della liberazione. “Poi è cambiato il vescovo e quello nuovo, la prima cosa che ha fatto, è stata quella di buttarci fuori tutti e due” mi racconta. Così è tornato a lavorare come astrofisico. Dalla scienza al sociale, dal cosmo alla favela. Tutto ciò ti regala equilibrio? “No. Schizofrenia”.
Jacarei è una lunga strada di pietre che scorre tra “quasi” villette, con bei giardini adornati da grandi fiori colorati.
Trovare la scuola dei Sem Terra non è affatto difficile. Un ampio murales che inneggia alla riforma agraria ce la segnala. Veniamo accolti gentilmente da una ragazza che dopo i saluti iniziali ci mostra, non senza un po’ di orgoglio, le varie strutture della scuola realizzata non più di dieci fa grazie a contributi di poeti musicisti come il grande Chico Buarque. Ogni palazzina è costruita in cotto e legno, coperta di piante rampicanti tropicali. C’è la biblioteca con 50 mila volumi (“Tutti donati dai compagni. Noi non chiediamo ne riceviamo finanziamenti federali”), le foresterie capaci di accogliere 180 persone (“In tanti vengono da noi per studiare o per conoscerci meglio”), le scuole (“I giovani qui studiano agraria ma anche informatica o politica. Qui prepariamo i nostri dirigenti”), la serra (è un vero delitto che con la sola scrittura non possa comunicarvi i profumi e gli odori che ho sentito!), la mensa, la lavanderia e altri ancora.
La compagna dei Sem Terra snocciola numeri su numeri: quanta gente passi ogni anni per queste aule, quanti giovani dedichino uno o due anni della loro vita a lavorare a questa scuola che loro considerano un vero e proprio bene comune... Ma al di là dei numeri, che vogliono dire tutto e niente, quello che ho visto è un luogo incantevole dove la gente ti sorride, canta - c’è sempre qualcuno con la chitarra in mano - e lavora senza mai dimenticare di scherzare e ridere.
Oggi è una giornata speciale, mi racconta la ragazza. C’è una cerimonia in corso perché una di loro, dopo due anni di studio e lavoro nella scuola, torna a casa. Veniamo invitati alla festa. Non si capisce niente di quello che dicono, ma tutti sono commossi.
Nel campo c’è anche una rappresentanza cubana con tanto di ambasciatore al seguito. Stanno piantando un albero tra inni a Fidel e grida di “viva la revolucion cubana”. Tutto ‘sto sfoggio di socialismo reale non è proprio una cosa facile da digerire per noi, pur se bisogna comprendere che ogni cosa deve essere riportata al luogo e alle contingenze.
La presenza di Cuba, scopriamo, non è affatto casuale. Nell’aula magna della scuola è in corso un incontro di medici cubani. “Il Governo brasiliano - ci spiega Claudio - ha chiesto a Cuba di fornirgli dei medici per coprire i posti vacanti nel sistema sanitario del Paese. Qui in Brasile, come negli Stati Uniti la sanità è per lo più privata e gestita dalle assicurazioni. Tutti i medici migliori studiano nel pubblico perché la scuola privata, non dico che regali le lauree, ma quasi. Dopo gli studi però vanno a lavorare nelle cliniche private che li pagano tre volte tanto. Il tutto a grave discapito della sanità pubblica. Così il Governo ha chiesto a Cuba dei dottori da impiegare là dove i medici nostrani non vogliono lavorare, ma questo ha scatenato le durissime proteste dei medici. Il congresso in atto in questo momento nella scuola è un modo per dire che noi, i medici cubani, li vogliamo. Teniamo anche presente che nessun medico brasiliano accetterebbe di andare a lavorare nelle terre occupate dai Sem Terra. I cubani sì”.


Diritto di occupazione

Jandira
- L’altare è un tavolo di plastica bianco. Le sedie dei fedeli sono quelle che si trovano nei bar delle stazioni. La chiesa, un magazzino dal soffitto basso. L’affresco, un coloratissimo murales che ritrae dei bambini che giocano su un campo di grano. Padre Giancarlo, brasiliano di Padova, sta celebrando la messa in puro stile “teologia della liberazione” per una mezza dozzina di credenti. Lo aspettiamo fuori ed intanto ne approfittiamo per fare un giro per la Comuna.
Siamo nella favela di Jandira. Una città con poco più di centomila abitanti che, pur con un suo municipio autonomo, fa parte della Grande San Paolo. Qui non ci sono grattacieli. A valle si trovano le case della città, collegate alla capitale dall’onnipresente servizio di metropolitana. La favela si inerpica sulle colline a ridosso del complesso urbano. E’ una zona di frontiera tra l’urbanizzazione selvaggia e la foresta, tropicale sì ma non selvaggia.
La Comuna di Jandira è riconoscibilissima dalle bandiere dei Sem Terra, rosso fuoco con al centro dei contadini che alzano al cielo il machete. Ma è riconoscibile anche dalla forma delle case, tutte monofamiliari a due piani, tutte uguali nelle dimensioni ma diverse nella forma, sistemate in modo da formare delle piazzette tra loro. Mi richiamano subito alla mente le case popolari realizzate dell’architetto Scarpa a Burano, non fosse che qui non hanno ancora i soldi per sistemare gli intonaci e i mattoni rimangono a vista.
“Le abbiamo fatte noi” mi racconta Erika, una corposa e battagliera signora che mi puntualizza anche che lei è l’unica della Comuna a non tifare per il Corinthias e che di conseguenza non condivide tutta l’agitazione che si respirava attorno per la vicina partita col Flamenco. Partita, tra parentesi, vinta dal Corinthias per 4 a zero e con due gol dell’ex milanista Pato.
Erika che non ha impegni con la torcida, ci offre un caffè e ci racconta la storia della Comuna nata da 250 famiglie che avevano occupate un’area appartenente alle ferrovie dello Stato. Nel 2005 sono state sgomberate con un indennizzo da miseria di 1200 reais a famiglia (pressappoco 400 euro). Grazie a don Giancarlo, che qui tutti chiamano Gianchi, che li ha messi in contatto con i Sem Terra decidono di mettere i soldi in comune e di cercarsi un’altra terra da occupare. La trovano a Jandira, in quest’area che apparteneva ai salesiani. Entrano e ci piazzano le tende, quindi scrivono una lettera al presidente Lula informandolo dell’occupazione e chiedendogli aiuto economico. “Lula ci ha risposto un mese dopo - continua Erika - informandoci che era riuscito a far stanziare un milione e mezzo di reais per l’acquisto di questa area e per le prime spese. Per i Sem Terra la nostra occupazione è stata un punto di svolta perché prima avevano appoggiato solo occupazioni contadine e non urbane. Fatto sta che ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a costruire in mutirão”. Termine che indica un lavoro in comune. Tutti aiutavano a costruire la casa di tutti, secondo un disegno condiviso da tutti. Le case, dicevamo sono uguali nelle dimensioni - 75 metri quadri in due piani, più un terrazzino - ma diverse nella forma. “Ognuno poteva scegliere tra cinque tipi di case, a seconda delle sue esigenze familiari. Lavoravamo la domenica e il sabato. Tutti insieme. All’inizio non sapevamo neppure come si facesse la malta. Ora abbiamo imparato tutti il mestiere di muratori”. E pure di architetti, aggiungo io. E senza aver fatto lo Iuav. O forse, proprio per questo!
Cattiverie a parte. Le case della Comuna di Jandira, sarà che sono abituato agli standard abitativi della mia laguna, sono davvero piacevoli. Mancano di intonaco e di infrastrutture, questo è vero. Le strade sono a dir poco disastrate, l’acqua viene da dei tubi esterni che pescano chissà dove, le condotte delle acque reflue sono desaparecidas, gli impianti elettrici toglierebbero il sonno per sempre ad un tecnico della 626.
“Noi in tre anni abbiamo tirato su tutte le case - racconta Gianchi che ci ha raggiunto dopo aver sparso le sue benedizioni - la municipalità in dieci anni non è riuscita a far niente. Eppure i soldi erano stati stanziati. L’amministrazione comunale dice che ha dato i soldi alla ditta per i lavori, la ditta che non li ha ricevuto. E chissà dove sono finiti, questi soldi. Intanto noi stiamo così”.
Gianchi è uno di quelli che pensano che di occupazioni a questo mondo non ce ne sono mai abbastanza. Così ci infila tutti su due macchine scassate e ci accompagna a vederne altre due, dall’altra parte della collina. Sono occupazioni recentissime. Due giorni di vita appena. Commovente! “L’altra settimana eravamo su un altro campo. Poi sono arrivati 500 poliziotti con manganelli, lacrimogeni e pure un elicottero. Ci hanno mandato via a botte senza curarsi di dove avrebbero dormito i bambini quella sera”.
Siamo in mezzo ai campi. Sulla sommità di una collina che offre allo sguardo un panorama da mozzare il fiato. Le case di Jandira in basso immerse nel verde e sullo sfondo lo skyline degli enormi grattacieli di San Paolo. “Abbiamo scelto questo terreno perché appartiene ad un criminale che è indebitato sino al collo con il municipio di Jandira - mi spiega un occupante - E anche perché si gode di una bella vista!”
Sotto le bandiere dei Sem Terra che si gonfiano al vento dei tropici, donne, uomini e bambini lavorano per costruire le prime capanne. “Adesso attendiamo una risposta da parte del Governo. Ancora la polizia o qualche politico in cerca di voti per trattare - mi dice Gianchi - . Nel primo caso, occuperemo da qualche altra parte perché questa gente deve pur aver e un tetto e una terra. Nel secondo staremo a vedere”.
Arriva il momento di tornare in città. A San Paolo c’è la partita del Corinthias e metà carovana non vuole perdere un avvenimento di tale rilevanza culturale.
Gianchi ci saluta uno per uno, abbracciandoci. “Bene ragazzi. Grazie per essere venuti alla Comuna di Jandira. Raccontate a tutti quello che avete visto e, se avete problemi in Italia, tornate qua che tiriamo su una baracca anche per voi”.


Nostalgia canaglia

San Paolo
- Igor, Cassia e Carla sono tre dirigenti della sede paulista dei Sem Terra. Li andiamo ad incontrare in tarda mattinata. Il programma della giornata non prevede niente altro di particolare. I tre giovani ci aspettano nella sede dei Sem Terra che oramai conosciamo bene. E’ il momento di spiegare loro come è nata e come lavora Ya Basta. Quindi parliamo delle rivolte di giugno e dei motivi che le hanno scatenate. L’aumento dl prezzo dei trasporti, ci spiegano, è stata solo una scusa o, se vogliamo, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. “Il vero problema è la situazione di stallo che si è creata In Brasile dove gli spazi di partecipazione democratica si restringono sempre di più- afferma Igor -. La gente consegna ai partiti la possibilità di fare politica ma i partiti non riescono a farla perché questa è stata sequestrata dall’economia capitalista. La crescita economica che sta vivendo il Paese non ha portato nessun vantaggio reale, in particolare alla classe media che, assieme ai giovani, è stata la vera protagonista della mobilitazione”.
Lula e Dilma? “Si sono rivelati incapaci di apportare miglioramenti strutturali e di avviare un vero processo di democratizzazione del Paese. In questo stato di cose, sono i movimenti che devono portare avanti le battaglie di democrazia e di giustizia sociale. I partiti non possono fare più niente”.
Nel pomeriggio cerchiamo ancora contatti con le realtà che hanno dato origine alle manifestazioni di giugno. Ma oramai si sta avvicinando il giorno del nostro rientro in Italia. Questa notte partiremo per lo Stato del Paranà per visitare la cooperativa che fornisce lo zucchero che vendiamo nei nostri spazi. Non abbiamo ancora deciso quanto resteremo a sud. Cerchiamo comunque di completare un calendario di incontri per i pochi giorni che trascorreremo ancora a San Paolo.
A onor del vero, bisogna sottolineare che la città che all’inizio mi sembrava solo una New York dei poveri, mi sta rivelando un po’ alla volta la sua anima latino americana. San Paolo, seduta proprio sopra il tropico del Capricorno, non è sempre stata quella foresta di grattacieli che è ora. Negli anni ’30 era una piccola cittadina con appena 60 mila abitanti, tutta concentrata sull’asse dell’avenida Paulista. L’urbanizzazione selvaggia, senza uno straccio di piano regolatore, è avvenuta tra gli anni ’50 e ’60 quando ognuno si sentiva autorizzato a tiare su il suo grattacielo. Oggi, senza contare le periferie che sono oramai inglobate nella Grande San Paolo, la città conta più di 11 milioni di abitanti ed almeno 50 topi per abitante!
Bisogna viverci un po’, per rendersi conto che quelle strade sotto i grattacieli dove il sole batte poche ore al giorno, non sono tutte uguali. Ogni quartiere ha una sua identità e la suo scuola di samba dove, mi hanno assicurato, trovi sempre qualcuno che balla a tutte le ore del giorno e della notte. Per quanto ho potuto constatare io, è vero. Il mio ostello sta a Bela Vista (con una elle sola), il quartiere italiano. La sua scuola di samba occupa il primo e il secondo piano di un edificio di una dozzina di piani. Pochi da queste parti. Le finestre e le porte sempre spalancate per far uscire la musica. La scuola è un punto di riferimento sociale per tutto il quartiere. Ha i suoi colori, i suoi eroi e le sue scuole nemiche.
Ed è proprio la scuola di samba che ha organizzato, ieri sera, la festa italiana. Le strade erano piene di gente che rideva e scherzava sotto festoni di bandierine tricolori. I banchi vendevano “raviolli” (con due elle), “fogazza napoletana” (una specie di quella genovese), “rissotto” (con due esse), “calabresa” (una sorta di salsiccia ultra piccante che dubito abbia qualcosa a che fare non solo con la Calabria ma con tutta l’Europa)... C’erano pure le “pizzaria” (con la a) che sfornavano delle cose tonde che assomigliavano alle pizze. E poi cd e dvd della più terrificante musica melodica italiana, da Albano&Romina a dei mai sentiti prima cantanti in smoking che dubito si siano mai azzardati a salire su un palco in patria. Tante magliette con il Padrino, il bianconero della Juve con il nome Del Piero o la scritta “Venezia”. Tutto bianco, rosso e verde da muovere tenerezza. L’Italia, da questa parte dell’Equatore, è solo il ricordo spampanato di una nostalgia del bisnonno.


Trabalhar sem patrão

Paranacity
- L’alto Paranà è un’infinita e ondulata distesa di pascoli. Niente montagne, niente laghi, niente fiumi. Solo pianura attraversata da lunghi sentieri di terra battuta di un colore rosso crudo. Anche gli alberi sono rari. Gli sparuti villaggi sono formati da casette monofamiliari, rigorosamente piano terra, di mattone o di legno, dipinte per lo più di varie tonalità di giallo. Ogni casa è circondata da un giardino adornato da alberelli o da cespugli da cui sbocciano polposi fiori rosso acceso. Le rotonde delle stradine dove il nostro pullman Gran Turismo si infila a malapena, girano attorno a piccoli monumenti ingenui dedicati a mandriani al rodeo o ad animali come il feroce giaguaro o il timido capibara.
Arriviamo nello Stato del Paranà, uno dei più meridionali del Brasile, dopo una intera notte di viaggio. Otto ore per raggiungere Londrina, altre tre per arrivare a Paranacity dove ci attende un furgoncino della Copavi. Un’altra ora di strada sino ad una deviazione segnalata dalle bandiere rosse dell’Mst. Qui si entra nell’assentamento Sta. Maria, il cuore delle Cooperativa de Produção Agropecuária Vitória, da cui proviene lo zucchero di canna che Ya Basta vende negli spazi sociali per sostenere la lotta dei Sem Terra.
Il villaggio vero e proprio è composto da una trentina di case. Sono come le altre case del Paranà solo che i giardini non hanno muri o cancelli. Ci sono moltissimi fiori. I brasiliani evidentemente hanno un grande amore per le aiuole. Un amore che non riesco a mettere a fuoco se penso che già vivono in un mondo che più verde e fiorito non potrebbe essere. Gli spazi esterni sono attrezzati con amache e divani come chi ama vivere all’aperto e in comunione con i vicini.
Non veniamo ricevuti da un solo portavoce, come ci saremmo aspettati, ma da tutta la comunità. Chi in quel momento non è impegnato a lavorare per la cooperativa, si prende cura di noi e dei nostri bisogni. Francisco, uno dei coordinatori anziani, essendo in pensione è uno di quelli che ci dedica più tempo. Ci porta a vedere la lavorazione dello zucchero e poi, davanti ad una ottima cachaca rigorosamente auto prodotta “da reforma agraria” dalla cooperativa, ci racconta la storia della Copavi. L’occupazione del latifondo, circa 220 ettari di terreno, è avvenuta nel ’93 sotto le bandiere dei Sem Terra. Oggi ci vivono 22 famiglie per circa una settantina di persone, bambini compresi. Lavorano come dipendenti anche 15 lavoratori esterni. “I primi occupanti venivano dal sud del Paranà ed erano abituati ad altri tipi di coltivazioni - ci spiega Francisco -. Ma il terreno argilloso che non è particolarmente fertile non si è rivelato adatto. All’inizio è stata dura ma poi abbiamo provato con la canna da zucchero e si è rivelata una scelta vincente perché il prodotto finale è ottimo e lo si commercia bene”.
Oltre allo zucchero e alla cachaca, la Copavi ha un allevamento di mucche da latte e produce una serie di dolci come biscotti e torte del tipo “quelle che faceva mia nonna” che sono una cosa da leccarsi i baffi. La Cuca, sorta di pan di Spagna dolce, viene usato come merenda da una sessantina di scuole del Comune di Paranacity. E’ un vero peccato che questi prodotti non si possano esportare in Italia.
Gironzolando per gli impianti di lavorazione conosciamo anche la presidente della cooperativa. Si chiama Solange, è stata una delle prime occupanti e la troviamo intabarrata con grembiulone e mascherina da lavoro mentre mescola dei pentoloni fumanti . Come si lavora alla Copavi? “Lavoriamo per noi, per la nostra terra e senza padroni. Che vi devo dire? Se pensate che nei latifondi vicini esiste ancora la schiavitù, questo per noi è un sogno realizzato”.
Continuiamo la visita con altri accompagnatori che ci illustrano i metodi di coltivazione biologica e sostenibili della cooperativa. Chiediamo anche come funziona la partecipazione alle scelte collettive. Le cariche, ci spiegano, sono a rotazione. Prima o poi tocca a tutti fare il presidente. E comunque il presidente lavora come gli altri. Le famiglie sono divise in “nuclei”. Durante le assemblee di nucleo possono parlare anche i bambini e gli adolescenti. Ogni nucleo vota un coordinatore che si accorda con i coordinatori degli altri nuclei. Più che le votazioni per alzata di mano, conta la discussione e il confronto. Si preferisce parlare sino a mettersi d’accordo più che andare a scontri o dividersi a fazioni. Alla fine ogni decisione viene ratificata da un assemblea collettiva. Poi ci sono le commissioni ciascuna delle quali si occupa di un particolare aspetto della conduzione della cooperativa. Un sistema molto simile a quello che ho incontrato nei Caracoles del Chiapas.
A mezzogiorno pranziamo nel refettorio con i lavoratori. Con nostra sorpresa, alla fine ognuno lava il suo piatto e anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Non ci fanno pagare niente. Non ci sono incontri o visite programmate. Siamo ospiti e liberi di fare quello che vogliamo, andare dove ci pare e parlare con chi ci capita.
E, in quanto ospiti, ciascuno di noi è invitato a cena nella casa di una famiglia per poi andare in un’altra casa per dormire.
Sarà una bella esperienza.


Terra libertada

Paranacity
- Alla Cooperativa de Produção Agropecuária Vitória si va a letto presto e ci si alza ancora più presto. Quando mi tiro giù dalla branda io, verso le sette di mattina, il mio ospite è già sui campi da un pezzo. Si chiama Donizetti (“Papà era appassionato di musica”) fa il contadino e l’attivista dell’Mst. Due cose che per lui sono consequenziali. Mi ha lasciato l’unica camera da letto e si è accomodato per la notte sul letto del figlio che fa la scuola in un’altra città. Vive in una casetta che si è costruito assieme ai compagni della Copavi, uguale nella metratura a quelle di tutti gli altri. Tre o quattro stanzini al pianterreno tenuti in ordine e puliti. Ha anche una discreta libreria. I primi due titoli su cui mi casca l’occhio sono libri che ho anche io: “Il piccolo principe” e “Senza perdere la tenerezza”, la biografia del Che scritta da Paco Ignacio Taibo II. Questa mattina, Donizetti si è alzato piano, badando bene di non far rumore per non svegliarmi. Mi ha lasciato sul tavolo caffè e biscotti rigorosamente autoprodotti. Uscendo, chiudo l’uscio e, come mi ha chiesto, gli lascio la chiave infilandola dentro uno stivalone in gomma da lavoro sul pianerottolo. Gli lascio anche un biglietto con scritto “Obrigado” proprio sotto la bandiera dei Sem Terra che Donizetti ha appeso a fianco della sua porta.
Al refettorio trovo il resto della carovana che va di torte e caffelatte. Ciascuno racconta la sua serata trascorsa in un diversa famiglia.
Prima di andare a dormire da Donizetti, sono andato a cenare da una famiglia di mezza età che mi ha preparato tanto di quel cibo che non lo saltava un cavallo. Parlavano solo portoghese ma siamo riusciti a capirci lo stesso. La figlia grande è laureata in economia ed è anche lei una attivista dell’Mst. Il figlio più piccolo gioca a calcio ed è stato appena messo a contratto dalla giovanile di un’importante squadra di Porto Alegre. Sugli altri figli ho perso il conto.
Sono molto contenti quando hanno ospiti stranieri perché, mi hanno spiegato, un ospite straniero porta storie, idee e comportamenti nuovi da cui hanno tutto da imparare. Quando alla Copavi arriva qualche visitatore, si innesca una lotta per contenderselo. Solo gli argentini, mi spiegano, nessuno li vuole. Gli stanno tutti sulle scatole, e in particolare quelli di Buenos Aires, perché “è gente che se gli racconti una barzelletta poi gliela devi spiegare e non ridono lo stesso”. Molto meglio i paraguaiani e gli uruguaiani. Quelli basta mettergli un mate in mano e diventano simpatici.
Il programma di oggi prevede una visita alle piantagioni di canna da zucchero. Mezz’ora di cammino e raggiungiamo il campo dove quattro o cinque contadini tagliano le canne a colpi decisi di machete. Il nostro accompagnatore ci racconta come avviene la produzione dello zucchero di grande qualità che Ya Basta mette in vendita negli spazi sociali. Una produzione rigorosamente biologica che tiene anche conto dei diritti dei lavoratori. Diritti che vengono completamente ignorati nei campi dei latifondisti dove viene praticata una forma di indebitamento del lavoratore riconducibile ad un vero e proprio schiavismo rurale.
Prima di ripartire per San Paolo, facciamo visita all’“acampamento” dei Sem Terra di Puricatù, ad un’ora e mezzo di auto dalla Copavi. L’”acampamento” è la seconda fase dell’occupazione. Prima c’è l’invasione del latifondo con tutte le pratiche di resistenza e di contrattazione con il ministero per la riforma agraria e il latifondista. Se non si arriva allo sgombero da parte della polizia o, peggio ancora, dei paramilitari, i Sem Terra cominciano a costruire case e scuole, ed a lavorare la terra. Questa è la fase dell’”acampamento”. La terza è la strutturazione di un’azienda agricola vera e propria come, per l’appunto, la Copavi.
Quando raggiungiamo l’”acampamento” di Puricatù veniamo subito colpiti da una dozzina di casette colorate sistemate, con tanto di aiuole fiorite e murales, nel punto più bello della zona. Ci spiegano che è la nuova scuola, inaugurata proprio qualche giorno fa. Vien da riflettere che a casa nostra le scuole sono tutte mal tenute, non di rado in edifici fatiscenti, con pochi fondi a disposizione, e uno dei primi capitoli di taglio per gli assestamenti delle varie manovre finanziarie. Qui invece sulle scuole vengono investite le migliori energie della comunità. Parliamo con i professori, che ci spiegano come lavorano sotto il controllo di un pedagogo. Sgranano gli occhi quando gli diciamo che una classe da noi è composta anche da trenta alunni. Quindici è il numero massimo per l’insegnamento nelle scuole dei Sem Terra.
Il grado scolastico della “scuola in movimento” di Puricatù è equivalente delle nostre elementari e, tra qualche mese, anche delle medie. Ci sono aule da ginnastica e da disegno. Una biblioteca, una segreteria e una sala professori. Si svolgono anche corsi di recupero per gli adulti lavoratori che dopo un mese di lavoro hanno diritto ad una settimana di scuola. La conoscenza è libertà, si legge nei muri.
Sotto la scuola, i Sem Terra hanno costruito o sono in costruzione case per 210 famiglie per un totale tra le 8 o 9 cento persone. L’”acampamento” è grande 42 mila ettari solo in parte frutto dell’occupazione. Altri sono stati assegnati ai contadini tramite il ministero per la riforma agraria o confiscati al latifondista che ha subito una condanna per traffico di droga e schiavismo. Ogni famiglia ha il suo campo da coltivare. Altri campi sono collettivi e il ricavato destinato agli spazi comuni.
Sotto le bandiere rosse dell’Mst, grandi murales raffigurano contadini in lotta con il machete alzato. ”Terra libertada, sonho costruido”. Terra liberata, sogno costruito, si legge.


Abbecedario brasileiro

A come Açaì; non vi saprei dire a cosa somiglia questo frutto, Se ne ricavano succhi e gelati da arricchire con musli, fette di banane e fragole. Non lasciate il Brasile senza averlo assaggiato.
B come Birra; Original o Antarctica. Tenuta in frigo che la mantengono solo a un paio di grado sopra la temperatura in cui ghiaccia e servita in bicchieri freddi. Va giù che non te ne accorgi.
C come Copavi; la cooperativa di Sem Terra che ci ha accolto come fratelli. Occupano le terre dei latifondisti/schiavisti e le coltivano in comune. La Copavi fornisce lo zucchero che vendiamo nei nostri spazi sociali e che d’ora in poi userò sempre ed in esclusiva per addolcire il mio caffè. Fatelo anche voi!
D come Democrazia; partecipata e dal basso. Non te la regala nessuno. Tanto meno i partiti politici o qualsiasi governo, destra o sinistra che sia. Pare sia stata sequestrata da un sistema economico che sta macinando diritti e ambiente per farne merce. I brasiliani sono incazzati e per questo, e non per altro, scendono in piazza.
E come Educazione; da questo lato dell’Equatore non è un optional. Nella metro e nei bus, solitamente affollati come la linea 2 a Rialto, ci si spintona come in una partita di rugby ma tutti sorridono, chiedono scusa e si sorreggono a vicenda. Se chiedi una indicazione si fanno in quattro per aiutarti. Che bella gente!
F come Farfalle; da non credere quando son grosse quelle che abbiamo visto nel Paranà. I colombi gli fanno una pippa.
G come Guaranì; una delle nazioni indigene più agguerrite e determinate nel voler far riconoscere i loro diritti. Li trovi anche a due passi dal Maracanà, in una palazzina che è loro ma che per il governo è occupata abusivamente. Dopo 513 anni di massacri e di ingiustizie dicono anche loro Ya Basta!
H come Hostel; il posto migliore per dormire in Brasile. Colorati e arzigogolati, pieni di musica e di gente simpatica. Ci sono sempre libri, riviste, pappagallini che ti saltano in mano, ti danno i bacini e poi ti scagazzano sulla spalla. Non mancano mai spazi e terrazze per la socialità, la caipirinha e la cachaca.
I come Infradido; le chiamano “hawaiane” ed a Rio le calzano tutti. Ma a Rio puoi uscire di casa in mutande da bagno e in pareo. A San Paolo lo stesso, solo che trovi anche quelli che si mettono il cappotto. E stai là a domandarti se fa freddo o se fa caldo...
L come Lingua; se ci si vuole capire ci si capisce. Noi italiani partiamo l’itañol, loro il portuñol. Non ho mai fatto delle chiacchierate così lunghe con persone di cui non parlo la lingua!
M come Mercatão; mi verrebbe da scrivere alla Renzo Arbore “mercatao meravigliao”. Quello di San Paolo che abbiamo visitato questa mattina è una sinfonia di colori, sapori e odori. Il Brasile è il Paese della frutta ma ricordiamoci che non tutti ne hanno accesso. Chi vive nelle favele mangia - quando va bene - solo riso e fagioli che riempie di più e costa di meno.
N come Não carne; non è un Paese per vegetariani. La carne entra dappertutto. Persino nei croissant della mattina al posto della marmellata. Inutile spiegare che non vuoi carne nel tuo piatto. In un modo o nell’altro ci entra sempre.
O come Obrigado; che sta a significare “grazie”. L’unica parola che davvero serve per viaggiare in Brasile. E’ un popolo gentile e disponibile. Il loro “grazie” è davvero un “grazie”.
P come Preti; impossibile non provare simpatia per quelli della teologia della liberazione che si sbattono nelle favele o nelle occupazioni. Come in tutto il Sudamerica, anche in Brasile convivono due chiese separate: quella che benedice i dittatori e quella che sta dalla parte delle vittime e ne finisce vittima
Q come Quasi religioni; in Brasile prolifera un fottio di sette e confessioni religiose rare o più spesso uniche. Dalla chiesa universale dei santi di Cristo ai testimoni dell’apocalisse del settimo giorno. Il tutto mescolato con santerie e riti magici scaricati da internet. Ogni strada ha il suo tempio, spesso ricavato in uno scantinato. Un vero melting pot di credenze che ha tratto vigore dalla crisi che in questo Paese sta attraversano la chiesa. Anche Francesco non è molto amato. Non dimentichiamoci che prima di essere papa è argentino.
R come Riso; inevitabile trovarvelo sulla tavola quando ordinate una qualsiasi piatto. Va mangiato assieme agli altrettanto inevitabili fagioli neri. All’inizio l’accostamento fa schifo ma ci si abitua presto.
S come Samba; la suonano tutti. Nei locali eleganti dei quartieri alti come nei cortei dei movimenti. Per i brasiliani è come respirare e vivere. La scuola di Samba del tuo “barrio” più che uno spazio sociale è una fede.
T come Taxi; i tassisti brasiliani sono come tutti gli altri tassisti del mondo. Solo che questi usano sempre il tassametro e immancabilmente ti raccontano subito che suo nonno era italiano. Solitamente sono pure simpatici così che non gli rispondi mai: “E a me che me ne frega?”
U come Università; per la maggior parte sono private e la laurea è compresa con il costo di iscrizione. Quelle pubbliche invece sono di buon livello ma accedervi è difficile. Speriamo che non sia il futuro del nostro Paese.
V come Veloso; il grande cantautore ieri ha fatto una improvvisata alla sede dei Media Ninja per solidarizzare con i movimenti. Come già Chico Buarque che donò parte del ricavato delle sue canzoni ai Sem Terra, anche Caetano Veloso ha voluto ricordare a tutti che in Brasile non si può fare vera musica senza essere veri attivisti.
Z come Z; ultima lettera dell’alfabeto anche in Brasile.

Come avrete intuito dall’Abbecedario che mi sono inventato, in questi due ultimi due giorni di carovana non è successo granché. Dal Paranà abbiamo fatto ritorno a San Paolo. Dodici ore filate di viaggio cominciate su un pullman puzzolente con la frizione bruciata che non riusciva a tirare nelle salite. In attesa della manifestazione di domani, ne abbiamo approfittato per conoscere un po’ di più questa immensa città visitando il memoriale dell’America latina di Oscar Niemeyer, il museo do futbol, il mercato della frutta. A differenza di Rio che ti viene incontro con le sue strade, San Paolo è una città che la devi cercare sotto i grattacieli.


Derive destre

San Paolo
- “Dovete tener conto che noi siamo appena usciti da una feroce dittatura militare e il rischio di tornare indietro non è affatto così remoto come voi europei potreste pensare” mi racconta un signore che parla un buon inglese e regge un cartello con il logo del sindacato degli insegnanti e la scritta “Democrazia nella scuola”.
Il colpo di Stato che instarò la dittatura detta dei “gorilas” fu effettuato il 31 marzo 1964. Furono le grandi manifestazioni che si svolsero in particolare proprio a San Paolo esattamente vent’anni dopo, nell’84, a costringere i militari ad indire le prime elezioni democratiche. “Forse è per questo che i protagonisti di questa nuova stagione di rivolte sono, in particolare, i giovani e i giovanissimi - continua il sindacalista -. Loro non hanno ricordi di quel terribile periodo e quindi hanno meno paura di noi, over 40, di ricaderci dentro. Ma, le ripeto, dobbiamo sempre mettere in conto che esiste il rischio che a tirare le somme delle nostre rivendicazioni sia la destra. Il che ovviamente, non significa che non sia giusto mobilitarci. Solo che facciamo bene a stare attenti a non spianare la strada a latifondisti e industriali. Non sarebbe la prima volta nella nostra storia”.
Sulle strade di una San Paolo in mobilitazione in occasione della giornata di festa nazionale per ricordare dell’indipendenza dal Portogallo, il fiato della destra si sente sul collo. Al concentramento pomeridiano, destra e sinistra si trovano fianco a fianco, salvo poi partire in direzioni diverse e per diverse conclusioni: una sfilata tranquilla senza quasi cordoni di sicurezza per i primi; lacrimogeni, spari e botte dalla polizia per i secondi.
E va subito sottolineato come il concentramento comune, destra e sinistra insieme, inimmaginabile in Europa, sia un segno evidente di come la mobilitazione politica in Brasile corra ancora su binari confusi, se non addirittura equivoci. Lo dimostra l’ingenuità di molti attivisti che si coprono il volto richiamandosi ad una esotica suggestione di “Black Block” che non ha nulla a che vedere con quanto abbiamo conosciuto a Genova, salvo poi scoprirsi per farsi intervistare dai giornalisti. Lo dimostra anche le dinamiche delle forze dell’ordine che, come potete constatare nei filmati che abbiamo girato, non hanno la minima idea di come si tenga una piazza e anche le cariche, più che finalizzate ad uno sgombero o a un alleggerimento, si risolvono sempre in una serie di pestaggi improvvisi, violenti, gratuiti e pure inutili. Neppure gli obiettivi della polizia civile e di quella militare sono sempre gli stessi. Spesso, gli uni vengono sorpresi dai comportamenti degli altri, e capita di vedere i manipoli presi in contropiede o affumicati dai loro stessi lacrimogeni.
Per dirla proprio tutta, in Brasile gli stessi poliziotti non sanno bene da che parte stare. Su un muro di Rio, adiacente ad una caserma, un grande murale recitava: “La polizia civile appoggia le rivendicazioni dei manifestanti per un Paese più civile”. Anche questo è un segnale di come il Brasile sia diverso dall’Italia. Ed è anche il segnale inequivocabile che la destra si è aggrappata al movimento per cercare di cavalcarlo in chiave anti Lula e anti Dilma.
“E’ una operazione che hanno tentato utilizzando soprattutto la televisione Globo - mi spiega un ragazzo vestito di nero e con la maschera di Anonymus sollevata sopra la testa -. All’inizio siamo stati additati dai media come semplici teppisti. Ma poco dopo le cose sono cambiate. I giornali e le tv parlavano di noi come della migliore gioventù del Brasile giustamente indignata contro il Governo. Solo, inquadravano esclusivamente i cartelli che attaccavano la presidente Dilma o che ingiuriavano Lula. Allora abbiamo capito tutti che il pericolo di una deriva verso destra era reale. Ma non è certamente questo che il movimento, pur tra mille contraddizioni e confusioni, voleva quando è sceso in piazza contro l’aumento del prezzo del biglietto e per dire no agli stadi costruiti a spese dello stato sociale”.
Nello spezzone di destra del corteo, quello che verrà pacificamente scortato dalla polizia, non c’erano più di un centinaio di persone. Grandi bandiere contro la corruzione del Governo, cartelloni che chiedono la pena di morte e poteri speciali per l’esercito contro il narcotraffico, immagini di Lula con la scritta “ladrão”.
Un signore mi spiega in spagnolo che loro non si sentono né di destra né di sinistra ma che vogliono un cambiamento di Governo. “Siamo gente normale” mi assicura lui con un sorriso e io penso che non c’è da sbagliare a definirli di destra. Intanto, dall’altra parte della piazza si scatenano le cariche e volano i lacrimogeni. La polizia spara proiettili di gomma anche contro i giornalisti.
Per tutta le sera, le sirene continuano ad ululare nelle strade di San Paolo mentre gli elicotteri si abbassano sino a sfiorare i tetti dei grattacieli. Per noi è l’ultima notte brasiliana. Domani torniamo in Italia. E lo faremo con più domande di quando siamo partiti. Ma in fondo è proprio per questo che siamo partiti.


Potete scaricare il libro completo della carovana Brasil Em Movimento da questa pagina

Brasil Em Movimento

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Venezia - Nel giugno di quest’anno è accaduto qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato. Migliaia e migliaia di brasiliani occupavano le strade di Rio, di San Paolo e di altre città per dire no al calcio. I riflettori delle televisioni di tutto il mondo venute a seguire le partite della Confederation Cup, non potevano ignorare quel mare di gente che alzava al cielo cartelli scritti per lo più in inglese per farsi leggere da tutti, con scritte come “We don’t need the world cup” e “We need money for hospitals”.
Il Brasile, il Brasile di Pelè, di Zico, di Ronaldo e di tantissimi altri campioni del calcio, si ribellava al calcio!
Come Gezy Park per la Turchia, il mondiale di calcio è stato per i movimenti brasiliani solo un pretesto mediatico per dare voce ad una protesta che ha radici assai più profonde. Radici che non sono poi così diverse da quelle che hanno alimentato le primavere arabe e i movimenti contro la crisi economica in Europa. Qualsiasi tentativo compiuto dai media brasiliano di circoscrivere le mobilitazioni come una semplice protesta contro l’aumento del prezzo del trasporto pubblico per finanziare il Mondiale o conseguente allo sgombero delle case popolari per far posto all’ampliamento dello stadio Maracanà, si è rivelato quantomeno riduttivo se non radicalmente sbagliato. Così come ha sbagliato chi ha frettolosamente etichettato i movimenti con la sigla di questo e di quel partito, cercando di ricondurli ad una crociata contro la presidente del Brasile, Dilma Vana Rousseff, esponente del partito dei lavoratori.


Lo si legge a chiare lettere in una “lettera aperta” indirizzata proprio al Dilma, e firmata dai principali sindacati, associazioni, comitati e quant’altro sono stati tra i protagonisti delle rivolte di giugno. “I mezzi di comunicazione cercano di caratterizzare il movimento come anti Dilma, contro la corruzione dei politici, contro lo sperpero del denaro pubblico ed altre rivendicazioni che impongono il ritorno del neoliberismo - si legge nella lettera-. Crediamo invece che gli obiettivi sono molti, come pure le opinioni e le visioni del mondo presenti nella società. Si tratta di un grido di indignazione di un popolo storicamente escluso dalla vita politica nazionale e abituato a vedere la politica come qualcosa di dannoso per la società”.
Un “popolo storicamente escluso”, quindi, quello brasiliano. Proprio come esclusi dalla storia sono stati i popoli turchi e i popoli arabi. Un popolo che sta cercando la sua strada verso una democrazia dal basso. Una strada alternativa che va necessariamente a scontrarsi con quella imposta dal neo liberalismo.
Tanto in Brasile, dove a capo del Governo c’è il partito dei lavoratori che un tempo avremmo definito “sinistra”, quanto in Turchia dove comanda un dittatore feroce e sanguinario del calibro di Erdogan, la situazione è stata la stessa: il governo in carica, sotto la pressione di una crisi economica che oramai suona come l’orco cattivo delle favole, ha venduto alla rendita parassitaria capitalista welfare e beni comuni, demandando alla brutalità poliziesca e alle autoblindo militari il compito di spiegare alla gente scesa in piazza per protestare cosa intende il nuovo ordine mondiale col termine “democrazia”.
E così come ha fatto per la Turchia, per la Tunisia e altri popoli in lotta, sin da quando si è costituita, dieci anni fa per appoggiare la
rebeldia zapatista in Chiapas, l’associazione Ya Basta ha promosso una carovana che porterà un decina tra giornalisti e attivisti italiani in Brasile, ad incontrare i movimenti che hanno dato vita alle rivolte di giugno, così come cooperative, comunità e associazioni che stanno mettendo in pratica esperienze di autogestione. La carovana partirà ufficialmente il 26 agosto e si concluderà verso metà settembre. Nel Paese del Calcio per antonomasia, non poteva mancare in carovana una rappresentanza dell’associazione Sport Alla Rovescia.
Il calcio, in Brasile soprattutto, è stato sì un dispositivo di controllo sociale ma anche un fenomeno sociale, capace di aggregare, creare immaginari e contribuire a superare barriere razziali e economiche. I tagli alla spesa sociale imposti proprio per finanziare il prossimo mondiale, i prezzi esorbitanti dei biglietti, gli sgomberi delle comunità povere adiacenti agli stadi, lo hanno slegato dalla sua funzione di sport popolare per ridurlo alla sua dimensione più degradante, quella di uno spettacolo televisivo di massa. E’ anche per questo che i brasiliani sono scesi in piazza. Per il calcio, contro un certo calcio.

Per seguire la Carovana di Ya Basta in Brasile, cliccate sul “mi piace” della pagina Facebook BrasilEmMovimento

Inutili primavere

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Tunisi - “Lo vedi questo grande spiazzo? Adesso è vuoto ma in quei giorni di inverno era pieno di gente che chiedeva a gran voce ‘lavoro, libertà e dignità’. Avevamo appena saputo Mohamed Bouazizi si era immolato. Lui era un ambulante, un poveraccio, uno di noi. Non voleva fare l’eroe. Non poteva neppure sapere che dal suo gesto sarebbe scaturito quella rivoluzione che qualcuno ha chiamato la “primavera araba”. Mohamed si è ucciso soltanto perché non ce la faceva più a sostenere la vergogna e il peso della corruzione del regime di Ben Alì”.
Siamo a Menzel Bouzaiene, un paesotto nel cuore della Tunisia a 70 chilometri da Sidi Bouzid, la città dove il 4 gennaio del 2011 il giovane ambulante passato alla storia si è dato fuoco. Menzel Bouzaiene, poche case attraversate da una rotaia dove lunghi e sconquassati treni merci portano i fosfati dalla miniere ai porti mediterranei, è famoso più che per altro per essere stata la prima cittadina a ribellarsi. Una ribellione pagata col sangue. “Prima hanno picchiato con i bastoni - continua l’amico Mohamed, attivista dell’associazione tunisina Accum -, poi hanno sparato e hanno ammazzato due dei nostri. Noi gli abbiamo tirato contro le pietre della ferrovia fino a che sono scappati e siamo riusciti a liberare la città. Ma è stata dura. All’inizio erano riusciti a censurare i social network e la nostra paura era quella di non poter far sapere al mondo che ci stavano massacrando. Per fortuna mio fratello ha un internet point e sa smanettare con il computer. Lui ci ha spiegato come eludere la censura. E’ anche grazie ai filmati diffusi da noi che altre città si sono ribellate”.


“Quando c’è stata la rivolta della casbah - conclude Mohamed - siamo partiti a piedi per Tunisi perché non c’erano mezzi. Uno di noi non ha più fatto ritorno. Menzel Bouzaiene l’ha pagata cara la sua primavera”.
Con Accun e altre associazioni locali e italiane come Un Ponte Per, Ya Basta! sta portando avanti una serie di progetti volti a realizzare dei centri multimediali nelle zone più calde della Tunisia meridionale. “Sappiamo bene quando sia importante disporre di un collegamento in rete, noi di Menzel Bouzaiene! Il nostro centro poi sarà un punto di riferimento politico, gratuito e aperto a tutti, giovani, disoccupati e donne”.
Il Social Forum di Tunisi, il primo a svolgersi in un Paese arabo, ha dato l’occasione agli attivisti di Ya Basta! di organizzare una “carovana” verso il sud del Paese e rinsaldare i rapporti con gli amici tunisini impegnati nei vari progetti. “Siamo venuti soprattutto per vedere con i nostri occhi come si vive in Tunisia e cercare di capire in un’ottica di collaborazione euromediterranea cosa sta succedendo nel mondo arabo - spiega Vilma Mazza, portavoce dell’associazione -. Soprattutto abbiamo cercato di uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi con i quali gran parte dei nostri media descrivono i paesi islamici. Cosa abbiamo trovato? Tante persone con le quali è possibile costruire un percorso condiviso e un mondo complesso, tanto ricco di potenzialità quanto di rischi”.
Le stesse potenzialità e gli stessi rischi che hanno caratterizzato il forum tunisino. Una settimana, l’ultima di marzo, ricchissima di incontri, discussioni, proposte su temi che spaziavano dai cambiamenti climatici ai diritti dei migranti, dalle donne allo sport popolare. Chi si aspettava che dal Forum nascesse una proposta forte, sintetica e condivisibile di lotta alla globalizzazione è stato deluso. Ma bisogna considerare che, dopo Porto Alegre, mai nessun social forum ha mai più avuto tale capacità. Piuttosto, l’appuntamento tunisino è stata una grande vetrina dei movimenti che hanno potuto conoscersi, confrontarsi e, in molti casi, mettere in cantiere future battaglie da combattere assieme.
La stessa, complessa, situazione politica che la Tunisia sta attraversando ha in qualche modo favorito la pluralità delle associazioni presenti e la loro libertà di esprimersi. Anche quando i risultati sono stati a dir poco discutibili. Mi riferisco ad esempio, allo stand dedicato al dittatore Saddam Hussein. Non sono mancate di conseguenza, tante contraddizioni. Su tutte, citiamo la presenza tanto di attivisti pro Assad quanto del fronte di liberazione siriano. Oppure lo stand che denunciava l’occupazione del popolo Sarawi a pochi metri dal capannone dedicato al “grande Marocco unito”.
Ma in fondo, queste che si sono specchiate nel Social Forum sono le stesse contraddizioni che il mondo arabo sta attraversando nel difficile tentativo di fondare un democrazia capace di tutelare i diritti fondamentali e costruire una forma di partecipazione dal basso che non è detto che debba rispecchiare necessariamente quella che noi auspichiamo per l’occidente. Un percorso senz’altro lungo e difficile.
“Mi chiedi cosa sia cambiato dopo la Primavera? - mi confessa Mohamed - Ben Alì non c’è più, non c’è più la sua cricca ma altri hanno preso il loro posto e l’economia è sempre nella mani degli stessi. ‘Lavoro, libertà e dignità’, lo slogan che urlavamo in quei giorni, è lo stesso slogan che urliamo adesso”.
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