In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Eternit. Tremila morti e nessun colpevole
2/12/2014EcoMagazine, Global Project
Tremila morti e nessun colpevole. La sentenza della Cassazione sul caso Eternit è una vigliaccata bella e buona. Né più né meno di quella d’appello su Stefano Cucchi. Tutti omicidi coperti dallo Stato. Ieri mattina, con sentenza definitiva, la Corte ha assolto l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, precedentemente condannato a 18 anni per disastro ambientale. Come conseguenza sono state annullate tutte le richieste di risarcimento dei familiari delle vittime che ammontavano a 90 milioni di euro. Tutto annullato perché il reato è caduto in prescrizione. E non perché il magnate svizzero non sia colpevole dei reati imputatigli. Lo ha confermato lo stesso Francesco Iacovelli, il procuratore della Corte Suprema che ha firmato la sentenza. “Stephan Schmidheiny è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte - ha sottolineato - ma tra diritto e giustizia il giudice deve sempre scegliere il diritto, anche quando vanno su strade opposte”. Una ulteriore conferma, proprio come nel caso Cucchi, che giustizia e tribunali non sono parenti neppure alla lontana.
E intanto, gli operai continuano a morire.
L’industria Eternit per la lavorazione dell’amianto, era arrivata in Italia nel 1906 con quattro stabilimenti, a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e, il più importante, a Casale Monferrato. Chi andò a lavorare in quei capannoni di morte, imparò ben presto a chiamare la merda che gli toccava respirare la “malapolvere”. La scienza ci mise qualche decennio in più per arrivare alla stessa conclusione. Già negli anni ’30 però, alcuni studi medici pioneristici dimostrarono che la lavorazione dell’amianto causava un fortissimo incremento di patologie tumorali.
La prima nazione a prevedere condotti di sfogo nei capannoni per facilitare l’areazione fu l’Inghilterra. Successivamente, negli anni ’40, la Germania per prima riconobbe che l’inalazione di particelle di asbesto causavano il cancro al polmone. Ma mentre studi scientifici sempre più accurati dimostravano una indiscutibile correlazione tra l’amianto e i tumori, la grande industria faceva pressione nelle redazioni dei giornali, comprava politici e sindacalisti, e diffondeva rassicuranti comunicati nei quali si negava tutto. Anche e soprattutto l’evidenza.
E intanto, gli operai continuavano a morire.
Negli anni ’50 però nessuno però poteva più sostenere che l’amianto non fosse pericoloso per la salute anche se, in Italia, bisognerà attendere il ’92 perché ne fosse vietato l’uso. Ci sono voluti quarant’anni di omicidi bianchi. Quarant’anni di bugie. Quelle degli industriale certo, ma anche quelle altrettanto sporche di quelle “coscienze in prestito” che altro non sono i loro avvocati. Quelle di tanti “scienziati” che si sono fatti pagare per confutare tesi abbondantemente dimostrate, e pure quelle di qualche sindacalista preoccupato di non far chiudere la fabbrica che, alla fin fine, “dà pane a tante famiglie”. Tutti quanti a sostenere in coro che l’amianto non causava danni alla salute. Tutti a mentire spudoratamente.
E intanto, gli operai continuavano a morire.
Alla fine degli anni ’50, per l’Eternit cominciò una inesorabile crisi che portò alla chiusura definitiva dell’ultimo stabilimento di Casale nell’86.
La causa penale però, era già cominciata 10 anni prima su iniziativa di circa 6mila parenti di operai morti d’amianto che accusavano Schmidheiny e il suo socio, un nobile belga ultranovantenne dal nome altisonante di Louis De Cartier De Marchienne che ha pensato bene di rendere l’anima al diavolo nel 2013, giusto per vedersi condannare dalla Corte d’Appello a 18 anni.
Poi, è tutta storia di ieri. La sentenza della Cassazione ha ribaltato il verdetto, assolvendo l’imputato rimasto per prescrizione del reato.
Come sia possibile che tremila morti ammazzati possano essere considerati un “reato soggetto a prescrizione” è una anomalia tutta italiana. Proprio così. Il fatto è che il disastro ambientale, in Italia e solo in Italia, non è considerato un reato grave, ma viene annoverato tra quelli di natura contravvenzionale. Un disegno di legge che integra i reati contro l’ambiente nel codice penale è stato recentemente votato dalla Camera ma si è perso da qualche parte negli scaffali della commissioni Ambiente e Giustizia del Senato. E intanto i reati cadono in prescrizione e chi avvelena e distrugge paga, se gli va male, una multa neppure salata. E spesso, come nel caso dell’Eternit, neppure quella.
Come è stata accolta la sentenza sull’Eternit? Come è prevedibile, con infinita rabbia dai parenti delle vittime di ieri e dei malati di oggi, perché a Casale l’amianto non ha ancora finito di uccidere. Le lacrime di dolore si sono mescolate alle lacrime di rabbia per l’ingiustizia sofferta.
Come un inno alla giustizia dai legali di Schmidheiny che, dalla sua villa di Zurigo, che non ha perso l’occasione di ribadire che “l’amianto è inoffensivo”.
E intanto, gli operai continuano a morire.
“El mostro”. Un progetto per raccontare la storia di Gabriele Bortolozzo
2/12/20142020VE, EcoMagazine, Global Project, In Comune
Non solo un film d’animazione. “El mostro” è molto di più. Un progetto dal basso innanzitutto. Un progetto che ha appena mosso i primi passi attivando un crowdfounding sulla piattaforma Eppela per raggiungere i primi 5 mila euro necessari a cominciare i lavori. L’obiettivo è quello di raccontare “a chi ne ha perso la memoria”, come si legge nel sottotitolo, la storia di Gabriele Bortolozzo. E raccontarla con un linguaggio nuovo come quello dell’animazione che ha il magico potere di “creare un immaginario e scavalcare le generazioni” come ha sottolineato Gianfranco Bettin, intervenuto ieri pomeriggio al municipio di Marghera all’incontro di presentazione dell’iniziativa. “Gabriele è stato il primo che dall’interno della fabbrica ha trovato il coraggio di denunciare la nocività della lavorazione e a superare il ricatto di chi offriva lavoro in cambio della salute. La sua è una vicenda esemplare che va tenuta viva e raccontata a tutti, e soprattutto ai giovani” ha sottolineato l’ambientalista. Con lui, Felice Casson, oggi senatore del Pd ma all’epoca il pubblico ministero che trascinò i vertici della Montedison al banco degli imputati. Casson ha rievocato il momento in cui Bortolozzo bussò alla sua porta di magistrato. “La storia di Gabriele, scomparso proprio vent’anni fa, mi ha accompagnato professionalmente e umanamente per tutta la vita. E’ merito suo se ho scoperto che oltre la mia vecchia aula al palazzo di Giustizia c’era un mondo reale”.
A presentare il progetto, sono intervenuti Flavio del Corso, presidente della municipalità di Marghera, Elisa Pajer, dello Studio Liz che lo produce, Cristiano Dorigo che ne ha scritto il soggetto assieme a Federico Fava, e Lucio Schiavon che lo ha disegnato. L’incontro si è svolto proprio nella sala che a Gabriele Bortolozzo è dedicata.
Non solo un film d’animazione, abbiamo scritto in apertura. “El Mostro è anche un percorso che abbiamo intrapreso con tanto entusiasmo e tanta convinzione - ha spiegato Elisa Pajer -. Un percorso che ci ha aiutato ad incontrare tanta gente. Giovani soprattutto, ma non solo. Siamo entrati nelle scuole, abbiamo tenuto incontri nelle librerie e nelle biblioteche con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sui temi del lavoro e della salute, Abbiamo raccontato a tutti la storia di Gabriele che è poi la storia di Porto Marghera come anche quella di tante realtà, penso all’Ilva di Taranto, che stano vivendo lo stesso dramma. Gabriele ha avuto il coraggio di andare oltre e questo fa della sua vicenda una storia epica”.
Una storia che è stata già raccontata in tanti modi, cito solo il libro a fumetti di Claudio Calia “Porto Marghera” edito da Becco Giallo, ma mai attraverso un cartone animato. “Per il tipo che era Gabriele - ha concluso Bettin - sono sicuro che ne sarebbe stato contento”.
Di seguito alcuni link sui quali si può seguire il progetto e partecipare alla raccolta fondi. Ricordiamo la cena di sostegno che si svolgerà giovedì 11 dicembre al Bagolaro di Forte Marghera.
Pagina Facebook https://www.facebook.com/events/1485840401681450/?fref=ts
http://www.eppela.com/ita/projects/992/gabriele-bortolozzo-el-mostro
http://producinuovevisioni.studioliz.org/2014/11/14/sostieni-el-mostro/
http://studioliz.org/2014/07/14/sostieni-gabriele-bortolozzo/
Una presenza spettrale in laboratorio
20/11/2014Cicap
Le "cose" che sussurrano nelle tenebre e che spiano maligne dagli angoli bui della casa, hanno riempito i libri di letteratura. E fin che si resta sulla letteratura, va tutto bene. Io stesso, ho uno scaffale pieno zeppo di Lovecraft, Bradbury, Matheson, Blackwood e via discorrendo, e sin da bambino sono sempre stato convinto che un enorme ragno, peloso e zannuto, si nascondesse sotto il mio lettino. Non lo potevo vedere ma ne “avvertivo” ugualmente la presenza. Sicuro, come ero sicuro dell’esistenza di Babbo Natale.
Il problema nasce dal fatto che queste, sino ad oggi, inspiegabili “presenze spettrali" sono pane e companatico di tante pseudoscienze legate all'occultismo e alla parapsicologia. Quante volte abbiamo sentito affermare dalla “sensitiva” di turno che nella stanza c’era una presenza che solo lei poteva captare? Quanti “ghostbuster”, più o meno in buona fede, ci hanno giurato che quella notte in quel castello hanno “sentito” la vicinanza del fantasma della Dama decapitata?
Ebbene, queste sensazioni oggi sono state ricreate in laboratorio. Precisamente nell'istituto Federale Svizzero di Tecnologia (EPFL). I risultati della ricerca condotta dall’equipe del neurologo Giulio Rognini, sono stati pubblicati nella rivista Current Biology, e potete trovare un sommario a questo link.
Secondo lo studioso elvetico, questa famosa sensazione sarebbe comune non solo alle persone che soffrono patologie neurologiche ma anche a quanti vivono esperienze estreme come alpinisti o subacquei.
Per scoprire cosa c'è di vero in queste sensazioni, lo scienziato ha esaminato 12 persone affette da disturbi neurologici che affermavano di avvertire presenze inesistenti, per scoprire che in comune avevano tutti subito lesioni tali da causare una perdita sensomotoria in tre specifiche regioni cerebrali: temporoparietale, insulare e la corteccia fronto-parietale.
Per verificare se è proprio da un cattivo funzionamento di queste aree cerebrali che si innescano le sensazioni di “presenze spettrali”, battezzate dall’equipe elvetica FoP (“feeling of a presence“. Ovvero, sensazione di una presenza), gli studiosi hanno realizzato un robot.
Robot che non ha nulla in comune con quelli di Asimov - tanto per ricadere nello scaffale proprio sotto quello già citato e dedicato a Lovecraft della mia libreria - ma che altro non è che una macchina in grado di generare conflitti sensomotori nelle tre regioni cerebrali individuate, intervenendo in contemporanea sulle sensazioni tattili, motorie e propriocettivi. Termine, quest’ultimo, che definisce gli stimoli con i quali un organismo riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio tramite lo stato di contrazione dei muscoli (come dire che anche ad occhi chiusi, noi possiamo capire se siamo seduti o in piedi).
A questo punto, sono entrati in scena 48 volontari. Tutti garantiti sani nelle suddetti regioni e che non avevano mai avuto esperienze FoP. I coraggiosi sono stati quindi bendati e collegati al robot. I risultati non si sono fatti attendere. Un terzo dei volontari ha affermato di “sentire” presenze estranee nel laboratorio. Una persona ne ha avvertite addirittura quattro contemporaneamente. Due hanno chiesto di fermare l’esperimento perché provavano una sensazione di estraneità che li disturbava.
La spiegazione avanzata dai ricercatori è che le interazioni col robot causavano una parziale distorsione dell’autoconsapevolezza che ognuno ha di sé, sino a sbalestrare la percezione della posizione del proprio corpo nello spazio così che questo viene percepito come appartenente a qualcun altro. Questo sarebbe alla base della FoP.
"Il nostro cervello possiede varie rappresentazioni del nostro corpo nello spazio - ha commentato Giulio Rognini -. In condizioni normali è in grado di assemblare una corretta ed unica percezione del sé. Ma quando siamo di fronte ad un malfunzionamente del sistema cerebrale, sia a causa di malattia, di situazione estrema o, come nel nostro esperimento, dell’interazione con un robot, questo a volte può creare una interferenza. Il proprio corpo quindi, non viene più percepito come ‘io’ come ma come ‘qualcun altro’. Da qui la sensazione di presenze spettrali”.
Chiaro? Adesso vedo di riuscire a convincere anche quel brutto ragnaccio, peloso e zannuto, che continua a zampettare sotto il mio letto. Fosse la volta buona che se ne torna a casa sua!
Spazio Loco: una pazza occasione per ripensare a come si combatte il degrado in città
18/11/20142020VE, In Comune
Proviamo a guardare lontano. Alziamo lo sguardo oltre la politica urlata dai sindaci dal pugno di ferro che invocano ronde ed inferriate. Oltre questo buoi mare di paure, sorge un’altra città. Quella città che sognano i ragazzi che hanno recuperato uno spazio di via Piave che versava da anni in stato di abbandono e degrado, con il solo obbiettivo di restituirlo alla città. Certo, non la città dei vigilantes ma la città dei cittadini capaci di interrogarsi, intervenire, riappropiarsi e gestire in democrazia il proprio territorio. Non c’è spazio per la paura in questa città. Perché, come sottolineano i ragazzi, è “la chiusura mentale che genera solamente proposte che non analizzano la complessità e le problematicità, che propongono vie risolutorie semplificatrici, banali, e non efficaci e che spesso degenerano in derive intolleranti e razziste”.
Una idea pazza? Sì, perché sono i pazzi quelli che gettano le fondamenta del futuro. Non a caso, il nome scelto dai ragazzi per questo nuovo spazio è Loco: acronimo di Laboratorio Occupato Contemporaneo.
“Viviamo le strade di Mestre - raccontano - e vediamo sempre più luoghi lasciati all'abbandono e al degrado che invece potrebbero essere o diventare spazi vivi, per aiutare a migliorare le situazioni complesse dei nostri quartieri e che potrebbero arginare quelli che tutti noi consideriamo problemi reali ai quali far fronte nella nostra città. Per questo e per molto altro abbiamo deciso di riprenderci uno di questi luoghi lasciati all'abbandono: per costruire assieme a tanti e tante, studenti, precari, giovani e meno giovani, un laboratorio sociale nuovo, in grado di ricercare e discutere collettivamente le contraddizioni che il nostro territorio sta vivendo e subendo negli ultimi anni”.
Riccardo Caldura, urbanista e sostenitore del Progetto 2020Ve, ha partecipato alla serata di inaugurazione del Loco. “Avevo ricevuto una cortese telefonata di uno dei promotori dell’iniziativa, al quale non potevo che estendere un mio ‘Bene, andate avanti’. Ieri sera ho rifatto un giro fra quelle sale, insieme ad uno degli artisti che vi avevano a suo tempo esposto, e che le conosce quanto me. La sensazione era stranissima, il luogo era rimasto così come lo avevamo lasciato, ancora con il muro dipinto di rosso dell’ultima installazione realizzata. Come se quattro anni non fossero trascorsi. All’ingresso, con il medesimo arredo di allora, si distribuivano spritz e birre e si organizzava una colletta di sostegno. Alle pareti manifesti, striscioni, e un pubblico di dreadlocks e jeans oversize. Ho letto un articolo di Tantucci sulla Nuova che riportava questa notizia: la prevista restituzione di 41 milioni di euro da parte del Comune a Est Capital, importo che era stato versato come anticipo sul valore realizzabile dei beni cartolarizzati. Oltre a quell’importo, per giunta, se non ho capito male, era prevista anche la restituzione all’ente pubblico dei beni rimasti inveduti, fra i quali appunto la ex-Galleria Contemporaneo. Luogo che avevamo dovuto lasciare in tutta fretta, quattro anni fa, per ritrovarla identica ieri sera, però in fase di utilizzo come Laboratorio Occupato Contemporaneo. Non so se sia questa una risposta al degrado, ma mi chiedo se in ogni caso non sia meglio aver provato a riaprire, magari non con tutti i crismi della legalità, piuttosto che chiudere e vendere (male) o non vendere proprio”.
Un discorso molto simile a quello portato avanti da Maria Chiara Tosi, docente allo Iuav e anch’essa aderente al progetto 2020Ve, che in una intervista al Corriere ha sottolineato come “Non c’è miglior risposta al degrado della riappropriazione sociale degli spazi. La militarizzazione non è la sola soluzione”. Anzi, a lungo termine, non è neppure una soluzione. I quartieri migliorano se si investe nel sociale, se si aiutano i cittadini a diventare protagonisti della loro città. Un quartiere non può essere rivitalizzato tralasciando il contributo di chi ci abita. “Servono luoghi dove i bambini possano giocare e i ragazzi incontrarsi - conclude la docente nella sua intervista che potete leggere integralmente a questo link. - Bisogna investire i pochi soldi che ancora ci sono nel sociale. Purtroppo a Venezia si sente il peso della mancanza di una amministrazione. I tagli del commissario al welfare hanno creato un terreno fertile al degrado e alla criminalità”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, il sociologo Gianfranco Bettin che da sempre sostiene la necessità di andare alle urne il prima possibile. “Un'osservazione contingente ma cruciale questa di Maria Grazia Tosi, che ha ben evidenziato i guasti creati dall’assenza di una gestione politica e dai pesanti tagli pesanti al welfare. Tanti, anche a sinistra, non hanno idea di quanto pesino queste cose. Dispiace che il Corriere, soprattutto nei titoli, enfatizzi una cosa che non mi pare ci sia nelle parole di Maria Chiara, e cioè la contrapposizione tra gli interventi che lei suggerisce come fondamentali e, appunto, strategici, e gli interventi tesi a ripristinare anche nell'immediato sicurezza e senso di tutela, di fiducia, nei cittadini, residenti o fruitori di alcune aree in particolare. Penso sia un errore molto grave, commesso frequentemente a sinistra, quello di contrapporre i diversi tipi di interventi. A Marghera, ad esempio, in una situazione molto critica abbiamo sostanzialmente ripreso il controllo del parco Emmer sia ripensandolo che riprogettandolo insieme ai residenti ed ai fruitori: spostando i giochi per bambini di fronte alle abitazioni, invece che lontano da esse dov'erano in origine, cosa che li aveva posti alla mercé degli spacciatori e dei vandali, animandolo con iniziative culturali, ricreative e non ultima, un orto sinergico. Abbiamo restituito al parco pulizia e decoro, ma abbiamo anche, ecco il punto, fronteggiato duramente, le bande di spacciatori e gli incivili che se ne erano impadroniti. I risultati sono stati eccellenti”.
Oggi che l’amministrazione non c’è, la situazione al parco è regredita, pur senza tornare al peggio perché la natura strutturale di alcuni interventi continua a funzionare positivamente, ma alcune insidie e ragioni di disagio si sono ripresentate.
“Si tratta - conclude il sociologo - si tratta di valutare caso per caso gli interventi da applicare, senza pregiudizi e senza ideologismi. Certo, tali interventi devono essere integrati in una visione che non può che essere quella cui allude Maria Chiara e non devono, mai, essere il centro, tanto meno propagandistico-ideologico e demagogico, dell'azione politica e amministrativa, ma non possono non esserne parte, pena l'abbandono di ampie parti della nostra popolazione ai discorsi e alle ‘ricette’ della destra e dei demagoghi di ogni tipo. Non, ripeto, per fare a costoro concorrenza ma perché la ragioni sulle quali a volte costruiscono le loro fortune sono fondate, si tratta di fondate paure e rabbie e frustrazioni dei cittadini che non possiamo dimenticare. A costo di esporsi a polemiche spesso velenose”.
Frattanto a chi, come Raffaele Speranzon di Fratelli d’Italia, chiede lo sgombero immediato dell’edificio, risponde Federico Camporese di Sel. “Commissario, questore e prefetto devono occuparsi della criminalità vera e non di chi vuole migliorare la città. In tante città d’Europa, iniziative come questa si sono rivelate fondamentali per risollevare le sorti economiche, sociali e culturali di aree della città che sembravano destinate all’oblio”.
Medjugorje tra miracoli e burroni
13/11/2014MenteCritica
Poi - questo autunno - mi sono recato a Medjugorje.
Adesso ho i dieci decimi da entrambi gli occhi e lo posso provare non solo con un certificato medico ma anche leggendo con la massima facilità le righe piccole di un qualsiasi contratto assicurativo, davanti al più incredulo degli scettici.
Se questo non è un miracolo, ditemi voi cosa è.
Certo, una settimana dopo Medjugorje mi sono anche sottoposto ad un intervento di chirurgia refrettiva col laser. E qualche incredulo potrebbe sostenere che ciò abbia velocizzato il compiersi del miracolo.
Ma quello che mi è toccato di vedere a Medjugorje val la pena di essere raccontato. Oggi, da vero miracolato, lo posso fare nell’articolo che trovate di seguito, senza tirare gli occhi sulla tastiera del computer.
Grazie alla madonna di Medjugorje.
E grazie anche al laser!
Il villaggio di Medjugorje dista appena un tiro di schioppo dalla città Mostar. Non è un caso. Così come non è un caso che le apparizioni della Madonna siano cominciate a ridosso dello scoppio del conflitto balcanico, il 24 giugno del 1981. Un tempismo che potremmo definire “cinematografico” e che ritroviamo tante altre volte nella storia. Ricordiamo solo le apparizioni mariane a Monte Berico, nel lontano 1426, avvenute proprio nel momento in cui la Repubblica Serenissima minacciava di espandersi verso la terraferma, sino ad inglobare la cattolica Vicenza.
Nell’81, un anno dopo la morte del maresciallo Tito, i Balcani cominciavano ad essere scossi da movimenti indipendentisti perlopiù di matrice fascista. La religione cominciò a giocare un ruolo importante per l’espandersi dei conflitti. I cattolici croati, gli ortodossi serbi, i musulmani bosgnacchi occupavano a macchia di leopardo il territorio che formava l’oramai ex Jugoslavia titiana. Nel piccolo villaggio di Medjugorje, attualmente all’interno della Bosnia Erzegovina, era arroccava una agguerrita ‘enclave’ croata a ridosso della contesa città del Ponte, la bella Mostar, che fu uno dei primo obiettivi dell’esercito croato allo scoppiare della guerra. L’apparizione della madonna giocò quindi un ruolo importante nelle rivendicazioni territoriali croate. E non è nemmeno un caso che, tra i primi messaggi della madonna ai sei pastorelli croati, figurino diversi attacchi al vescovo di Mostar che all’epoca si stava spendendo in favore dei principi della convivenza interetnica ed interreligiosa.
La storia poi, è, andata come è andata. Ma certo era una madonna assai poco sensibile ai temi della pace, quella di Medjugorje, che non nascondeva le sue spiccate simpatie per i paramilitari ùstascia che combattevano - ma potremmo anche scrivere “massacravano” - con gli adesivi ritraenti il suo volto angelico appiccicati sul calcio del mitragliatore.
Forse è proprio per questo che il Vaticano non si è mai ufficialmente espresso sui miracoli e sulle apparizioni che, a detta dei fedeli, continuano imperterrite a manifestarsi a Medjugorje, preferendo mantenere un distaccato riserbo. Non è lo stesso per i tanti religiosi e per i tantissimi cattolici, comprese personalità della tv come l’ex giornalista Paolo Brosio, che continuano a recarsi numerosissimi in quella che oggi è diventata una vera e propria Disneyland del sacro.
Io ci sono passato di ritorno dalla mio ultimo viaggio in Albania. Medjugorje dista pochi chilometri dalla costa croata ma per arrivarci bisogna attraversare il confine con la Bosnia in direzione Mostar. Una deviazione lungo una ripida stradina che corre a ridosso di un profondo burrone - e ricordatevi di questo burrone perché lo ritroveremo in fondo all’articolo - ti porta in una mezzoretta di auto nel cuori del paesino: una cinquantina di vecchie case, una trentina di alberghi di nuovissima costruzione, altrettanti ristoranti con nomi italiani come Il Sole, La Fede, Il ristoro del pellegrino. “Qua si parla italiano e veneto”, ho trovato scritto su una di queste entrate. E poi chilometri e chilometri di affollatissimi negozi di souvenir religiosi come madonnine, rosari, corone di spine, volti santi… Prezzi esclusivamente in euro. Bandiere esclusivamente croate e vaticane.
E poi ci sono le chiese. Una grande in centro città e una più piccola ai piedi della collina delle apparizioni. Chiese con annessi e connessi: confessionali in tutte le lingue, punti di riposo, vie crucis, vendite di oggettistica religiose, statue infiorate. E ancora, gruppi di pellegrini che cantano, pregano, piangono e si pentono dei loro peccati salendo scalzi e con i piedi insanguinati quella sorta di pietraia da capre che altro non è la collina delle apparizioni. Apparizioni che, secondo i fedeli, continuano ancora oggi. Sui siti dedicati al santuario o sui libri di Brosio potete trovare testimonianze a bizzeffe.
In cima alla collina, la cui salita mi è costata una scarpa rotta, una puntura di vespa, un’ora di sudore e un bel po’ di “smadonnamenti”, ho trovato alcuni religiosi incaricarti di “aiutare” i fedeli ad ottenere la grazia di una personale visione della madonna. Il metodo utilizzato è quello di far fissare a lungo, pregando, uno schematico disegno in bianco e nero ritraente il volto della madre di dio e poi di guardare verso il cielo contrastato di nubi. Per funzionare, funziona. L’ho sperimentato anche io e senza bisogno di pregarci su. Ma non serve avere la tessara del Cicap in tasca per capire che si otterrebbe lo stesso risultato con una immagine di Che Guevara o di Maradona!
Ma, apparizioni a parte, il miracolo che più attizza i fedeli di Medjugorje è quello del ginocchio di Gesù. Dietro la chiesa principale è stata alzata una grande e spettacolare statua del Cristo crocifisso alta una decina di metri. I fedeli sostengono che dal ginocchio destro di Gesù fuoriesca un liquido miracoloso. Per poter avere il privilegio di asciugare la gamba del Cristo, bisogna mettersi pazientemente in fila. C’era una coda lunga una trentina di fedeli, tutte donne. Per dirvela francamente, io ci ho rinunciato. Ho comunque osservato da vicino la “pulitura” e vi posso assicurare che l’unica “acqua santa” che ha inumidito le salviette era quella del sudore delle mani. Infatti, mi hanno spiegato, perché il miracolo avvenga deve fare molto caldo ed è necessatio strofinare forte per interi minuti.
Da sottolineare che, siccome pare brutto adoperare un normale fazzoletto da naso per un uso così santo, la chiesa vende delle speciali pezze da dieci o anche da venti euro, se optate per il modello “de luxe”.
A questo punto credo che possa essere utile riportare, senza spendere commenti ma anche senza cambiare una parola, alcuni discorsi dei pellegrini italiani che mi è toccato sentire. Bambina di 5 o 6 anni: “Mamma, quando vedrò la madonnina?” “Dopo, in cima alla collina. Ma solo se sei una brava bambina perché da quelle cattive la madonna non si fa vedere”; una ‘laureata in matematica’ con una maglietta con la scritta ‘Cattolica al 150%’ all’amica alle otto della sera sotto un pino “Si capisce che siamo in un luogo sacro! Senti che bel fresco! Mentre questo pomeriggio a Mostar faceva un’afa…”; bambino di 8 o 9 anni davanti alla statua del Cristo: “Mamma, ma l’acqua dal ginocchio non finisce mai?” “No” “Ma neanche dopo tanto tempo?” “Ti ho già detto che è infinita” “Sì… ma dopo tanto tanto tanto tempo?” “Non può finire mai” “Ma perché?” “Perché è santa!” “Ah….”; signora anzianotta dall’accento veneto: “E da quella volta che mio cognato ha detto che non crede nella madonna, gli si fulmina una lampadina al giorno in casa sua! Una al giorno tutti i santi giorni!”
E con questo, credo di avervi dato una idea dell’umanità che si reca in pellegrinaggio da queste parti e che ha decretato l’innegabile successo di questa sorta di Expo dei miracoli.
Mi perdonerete quindi se concludo l’articolo con un ‘copia e incolla’ da quell’impagabile e geniale sito satirico che è Lercio. “Medjugorje: appare la madonna e spinge Paolo Brosio giù per il burrone”.
Mose: è tempo di fare luce anche sui “collaudi tecnici” milionari
12/11/20142020VE, EcoMagazine
Ebbene, non pare a voi che sia arrivato il momento di fare luce anche su questi "collaudi"? Sapere chi sono i membri della commissione che li effettua, come sono stati selezionati, quali i loro corricula e, magari, anche quanto guadagnano per far da passerella?
Tutte domande alle quali il Cvn, sino a qualche giorno fa, non si sarebbe neppure degnato di prendere in considerazione. Ma adesso il vento è cambiato (o perlomeno così ci auguriamo). Il Consorzio del malaffare è stato commissariato e Gianfranco Bettin e Beppe Caccia – esponenti del progetto aperto 2020VE - si sono rivolti all'Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, per chiedere ufficialmente di fare luce anche su questo aspetto.
"Pubblicare integralmente tutti i dati riguardanti le commissioni di Collaudo è un atto di trasparenza, necessario e non più rinviabile - spiega Bettin - preliminare ad effettuare una reale due diligence tecnico-scientifica indipendente sui cantieri del Mose, in modo da verificare affidabilità e sicurezza, funzionalità e congruità economico-finanziaria delle opere fin qui realizzare e in corso di realizzazione”.
Già. Perché, come sottolinea l'ambientalista, la questione non è solo quella dei compensi milionari e di chi se li merita e di chi no. Diciamocela tutta, tangente più o tangente meno, i compensi ai collaudatori non cambieranno che di poche righe la storia che i posteri dovranno scrivere su questo disastro chiamato Mose.
Il vero problema è la sicurezza. Davvero vogliamo affidare il futuro di Venezia e di chi ci vive al giudizio di non si sa chi, non si sa come e neppure a quale titolo, se non che è nel libro paga della banda del Consorzio?
Per i collaudi del Mose infatti, sono stati spesi decine di milioni di euro in incarichi affidati ad alti burocrati dello Stato, figure con ruoli cruciali nei ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture ma con competenze tecniche e scientifiche tutte da verificare. "La vicenda - commenta Beppe Caccia che aveva già segnalato la questione in una inascoltata interrogazione datata maggio 2012 - pone non solo una macroscopica questione relativa ai molteplici conflitti d’interesse nell’indistricabile intreccio tra chi avrebbe dovuto essere controllato e chi avrebbe dovuto controllare, ma anche e soprattutto solleva dubbi enormi che riguardano l’affidabilità tecnologica, la funzionalità e la sicurezza di un’opera di tale importanza, il cui percorso autorizzativo, a quanto risulta dalle indagini finora condotte dalla Magistratura, risulta essere segnato e condizionato dal sistematico ricorso alla corruzione”.
Il malaffare legato al sistema Mose non può essere liquidato, come vorrebbe far credere il Consorzio, affibbiando la colpa alle solite "poche mele marce" che si trovano in qualunque famiglia. Il marcio è nell'opera stessa. E, se vogliamo, in tutta quella logica delle "Grandi Opere", inutili ai fini che si prefiggono, devastanti per l'ambiente, invise dalle comunità locali che altro scopo non hanno che dirottare denaro pubblico a privati malavitosi, condizionando politica e gestione del territorio.
Un sistema corrotto e corruttore che va colpito anche con l'arma della trasparenza. Questo è quanto Bettin e Caccia chiedono a Raffaele Cantone: affidare i collaudi a seri professionisti estranei al Cvn, e andare con tutti i mezzi a disposizione sino in fondo nel colpire il legame tra un sistema politico-affaristico, complesso e ramificato, e le scelte compiute nell’imporre un progetto che, oggi più di ieri, appare lontano dagli obiettivi dichiarati di salvaguardare la Città e la sua Laguna.
Italia e Grecia condannate per le espulsioni illegali. In memoria di Zaher…
1/11/2014Frontiere News
Zaher avrebbe dovuto uscire a testa alta dalla stiva della nave dove si era imbarcato di nascosto a Patrasso. Ad accoglierlo, avrebbero dovuto esserci operatori sociali e sanitari e non poliziotti pronti a rimandarlo indietro, affidandolo agli stessi aguzzini da cui cercava di scappare.
Era solo un bambino, Zaher. Dal suo paese nelle montagne d'Afghanistan aveva portato con sé solo il suo quaderno di poesie e tanta voglia di vivere.
L'11 dicembre del 2008, Zaher è stato ucciso da una frontiera che non doveva esistere e da pratiche di respingimento non soltanto inumane ma anche illegali, non soltanto tollerate ma anche incoraggiate dalle autorità ministeriali.
Questo è quanto accusavano gli attivisti veneziani che si erano mobilitati in una rete costituitasi attorno al Progetto Meltig Pot. E questo è anche quanto oggi ha stabilito la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Sei anni ci sono voluti - questi sono purtroppo i lunghi tempi della "giustizia" - ma alla fine il ricorso presentato dai legali come Fulvio Vassallo Paleologo, Alessandra Ballarini e Luca Mandro, è stato accolto. Con una sentenza datata 21 ottobre 2014, la Corte ha condannato la Grecia per violazione dell’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e l’Italia per violazione dell’articolo 4, protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive), nonché per violazione dell’articolo 3, “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese”. L’Italia è stata anche condannata per la violazione dell’articolo 13 per l’assenza di procedure d’asilo o di altre vie di ricorso nei porti dell’Adriatico.
Quanto denunciavano gli attivisti sulla sistematica e istituzionalizzata violazione dei diritti umani dei richiedenti asilo nei porti di Venezia, Ancona, Bari è ora sostenuto anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
"D'ora in poi questi respingimenti dovranno essere sospesi - spiega l'attivista Alessandra Sciurba che della rete veneziana è stata l'anima e la principale voce - perché, dopo anni di denunce inascoltate, adesso quanto abbiamo sempre condannato come violazioni dei diritti fondamentali ha avuto un riconoscimento ufficiale da cui nessuna autorità italiana potrà più prescindere".
Una lunga battaglia per il diritto d'asilo, questa condotta da Alessandra e da tanti altri attivisti veneziani, che ha avuto i contorni dell'avventura. Un ricorso alla Corte europea infatti funziona solo se è la vittima a fare appello attraverso una procura firmate.
Così, neppure un anno dopo la morte di Zaher, Alessadra guida una carovana della rete veneziana in Grecia in cerca di storie di migranti respinti dall'Italia disposti a sottoscrivere il ricorso.
"Siamo arrivati a Patrasso dopo 37 ore di viaggio in nave - racconterà -. Aiutati da Kinisi, un’associazione di attivisti del luogo, incontriamo subito migliaia di afghani relegati in un campo informale ai margini della città che sarà dato alle fiamme dalla polizia pochi mesi dopo. Ci sono anche dei sudanesi e degli eritrei che hanno scelto la strada dell’Est per sfuggire alle torture libiche e al cimitero del Mediterraneo. Ma muoversi a Patrasso è difficile, siamo seguiti a vista dalla polizia greca, fermati per ore con l’assurda accusa di traffico internazionale di stupefacenti solo perché parlavamo coi migranti".
La carovana della rete veneziana, raccoglie centinaia di denunce e di segnalazioni ma solo 35 sono complete della documentazione necessaria per il ricorso alla Corte di Strasburgo. Quattro di questi ricorsi sono stati accolti dal tribunale europeo e hanno avuto come conseguenza la pesante condanna di Italia e Grecia di cui abbiamo riferito in apertura.
Da sottolineare che la Corte ne ha accolto 4 su 35 non perché gli altri 31 non fossero considerati validi ma perché queste 31 persone in questi cinque anni sono stati espulsi dalla Grecia illegalmente - possiamo ben scriverlo ora - e rimandati nei Paesi d'origine in cui o non sono sopravvissuti o comunque se ne sono perse le tracce. Questo nonostante la stessa Corte avesse intimato alla Grecia di sospendere qualsiasi procedura di espulsione in attesa del verdetto definitivo.
Amarezza per le ingiustizie subite da profughi innocenti, buona parte di loro era minorenne al momento del ricorso, e gioia per una battaglia vinta si mescolano nel racconto di Alessandra. "Adesso che la Corte ci ha dato ragione assumono un senso tutte le lotte fatte: i lunghi viaggi, le minacce subite, le manifestazioni ai porti, le cariche ingiustificate della polizia, i dossier, le denunce. Non hanno avuto senso, quelle no, le tantissime morti di tutti quei migranti che stavano esercitando un diritto e sono stati uccisi, come Zaher, dalla frontiera italiana dell’Adriatico. Questa piccola enorme vittoria è per tutti loro".
Commissariato per tangenti il Consorzio Venezia Nuova. Adesso facciamo luce sulla validità del progetto Mose
30/10/2014EcoMagazine
Il punto infatti è proprio questo. Nella conferenza stampa organizzata subito dopo la retata che ha ingabbiato l'assessore regionale Renato Chisso e l'ex governatore Giancarlo Galan (cosa che peraltro non ha fatto dimettere la Giunta Regionale e ci chiediamo ancora il perché), il procuratore Carlo Nordio, raccontando il sistema di tangenti legato al sistema del concessionario unico, si è affrettato a sottolineare che tutto questo marciume non inficiava "l'eccellenza dell'opera", orgoglioso prodotto "della genialità italiana".
Da quando sappiamo, ma potremmo anche sbagliarci, Carlo Nordio ha una laurea in giurisprudenza. Sul campo dell'ingegneria idraulica non abbiamo idea di quando sia ferrato. Certamente, né lui né tantomeno tutti quei politici che dalla Regione al ministero hanno spinto per la Grande Opera hanno mai dato peso ai pareri di tutti i tecnici non legati alle bustarelle del Consorzio che spiegavano di come il Mose fosse inutile ai fini che si prefiggeva, causa esso stesso di alte maree in quanto per realizzarlo sono state ampliate le bocche di porto, devastante per la laguna che è stata trasformata in un braccio di mare aperto, calcolato per livelli di marea resi obsoleti dai Cambiamenti Climatici e potenzialmente pericoloso per Venezia in caso di inondazioni eccezionali.
Altro che "eccellenza all'opera!" L'unica cosa in cui il Mose ha eccelso è stato il dirottare soldi dal pubblico al privato malavitoso, riempiendo di passaggio le tasche dei politici corrotti.
La domanda che pone Cacciari, e che poi è quella che fanno gli ambientalisti, è quindi questa. Appurato che ci sono stati ladrocini, tangenti e gonfiature dei costi, siamo certi che la Grande Opera abbia un suo fondamento tecnico e non sia esclusivamente un escamotage volto a mungere denaro dalle casse statali a scapito dell'ambiente e della cittadinanza? Il fatto che il Consorzio non abbia mai accettato perizie terze e abbia accuratamente evitato di confrontarsi con tecnici estranei alla sua cerchia, come quelli della Facoltà di Idraulica di Padova fa pensare brutte cose.
Il Commissariamento quindi deve essere una occasione per far luce anche e soprattutto su questo aspetto tutt'altro che secondario. Cacciari confessa che non vede l'ora che l'opera sia terminata, per togliersi lo sfizio di vedere se funziona o no. Da persona onesta com'è, l'ex sindaco è convinto che, nel caso tutto andasse a cartoni, qualcuno si dovrà prendere le sue responsabilità. Buonanotte, signor filosofo! Voi ricordate qualcuno in Italia che si sia mai assunto le sue responsabilità?
Meglio saperle subito le cose. Ci sono modelli matematici e informatici che possono simulare con rigore scientifico il funzionamento delle paratoie mobili. Il commissario non guardi solo i libri contabili ma chieda anche pareri scientifici terzi sul progetto, prima che si proceda ulteriormente.
E, già che ci siamo, facciamo anche chiarezza su un altro punto controverso. Se mai entrasse in funzione, il Mose, oltre ai costi di gestione, costerebbe dai 40 ai 50 milioni di euro all'anno per le manutenzioni. Chi li tira fuori questi soldi? Il Governo o la Regione sono pronti a far cassa? Non fateli pagare a noi veneziani, eh?! A parte il fatto che il Comune non ha un euro neanche a piangere, sarebbe la beffa dopo il danno. Devastarci la laguna e farci pagare le spese della devastazione! E avete mai conosciuto voi, un veneziano "nato sui masegni" che abbia mai voluto questa porcheria chiamata Mose?
Soldi al posto delle aiuole. Così il commissario Zappalorto vuol far cassa con l'urbanistica
25/10/20142020VE
Fatto sta, che questa delibera, dall'esplicativo titolo "disciplina della realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte di soggetti privati e della monetizzazione degli standard urbanistici", punta a "monetizzare", per l'appunto, il consumo del suolo pubblico.
In parole più semplici, i privati che vorranno costruire potranno, invece di realizzare aree verdi o spazi alberati a complemento della lottizzazione (come è sempre stato fatto finora), potranno optare per la comoda scorciatoia di versare qualche euro nelle asfittiche casse comunali.
Non è cosa da poco. Per l'urbanistica veneziana, questa delibera rappresenta un radicale cambio di rotta. D'ora in avanti chi costruisce potrà farlo come gli piace, senza curarsi del verde, col solo pagamento di una quota neppure tanto salata.
Va bene. Siamo in tempi di crisi. Ma siamo sicuri che se ne esce solo col cemento? "I proventi dell'urbanizzazione vanno vincolati a scopi ambientali, a fare Mestre più bella - commenta Ferrazzi -. Posso capire se si volesse monetizzare sui parcheggi, ma anche in questo caso, il ricavato va investito su progetti 'smart' come la mobilità collettiva o le piste ciclabili".
Sulla stessa lunghezza d'onda, Gianfranco Bettin, che spiega: "Con l'azione del commissario salta un principio sacrosanto che per tanti anni ha governato la nostra urbanistica. Il principio secondo il quale chi consuma suolo pubblico deve anche garantire miglioramenti ambientali per tutta la città. Far cassa usando l'urbanistica invece, rischia di innescare un meccanismo che può avere conseguenze devastanti".
Il verde insomma, serve a tutti ed è una misura della vivibilità di una città.
"Per qualcuno le aiuole sono inutili - conclude l'ambientalista - ma negli ultimi vent'anni, grazie a questa politica, abbiamo consentito a Mestre di arrivare ai primi posti per verde pubblico in Italia. Per questo, considero la posizione del commissario non solo pericolosa ma anche culturalmente arretrata".
Venezia si è ripresa la sua laguna
21/09/2014EcoMagazine
Eccolo qua il “popolo delle calli”, oramai messo in minoranza da inarrestabili ondate turistiche ma che continua ad amare e a difendere la sua città proprio come facevano i suoi antenati: salendo in barca e sventolando il Gonfalone di San Marco.
Gonfaloni ce n’erano tanti, questo pomeriggio. Ruggenti Leoni di San Marco che battevano il vento a fianco delle bandiere No Grandi Navi. Perché Venezia è la laguna e la laguna è Venezia. Non si può pensare di difendere l’una a spese dell’altra.
E difendere Venezia significa oggi difendere il canal Contorta, l’ultima trincea di una laguna che assomiglia sempre di più ad un braccio di mare aperto, sul quale pesa un devastante progetto di scavo proposto da Polo Costa per difendere gli interessi delle compagnie di Crociera.
Un progetto per il quale il Governo Renzi è pronto a fare carte false, bypassando con l’inserimento in Legge Obiettivo non solo qualsiasi consultazione con i veneziani e il Comune di Venezia (che comunque ora come ora non c’è), ma anche qualsiasi valutazione ambientale od economica.
Su questi argomenti non ci dilunghiamo perché abbiamo già scritto e invito i lettori, per approfondirli, a far scorrere le video interviste pubblicate su Global.
Oggi vogliamo solo raccontare una giornata di mare e di festa. Più di cento imbarcazioni con a bordo perlomeno un migliaio di cittadini. Tanti comitati, tante associazioni ma soprattutto tanta, tanta gente che ha ribadito a gran voce come Venezia non voglia altri scavi in laguna. In un pomeriggio miracolato anche dal tempo atmosferico, sono scese in acqua tante, tante barche. A remi, a vela e a motore. Tradizionali caorline in legno come moderni barchini col fuoribordo.
Barche “vere”. Barche di gente che sa andare per mare. Tutta un’altra cosa da quelle speculazioni edilizie galleggianti che altro non sono le Grandi Navi. Un corteo festoso che dalla Punta della Dogana si è disteso sino all’isola di Sant’Angelo delle Polveri. Un corteo forte e colorato come quelle migliaia di palloncini con i quali gli ambientalisti hanno ornato le “bricole”.
Per la nostra città è stata una giornata storica. Venezia si è ripresa la sua antica laguna.
Non abbandoniamola più in mano agli speculatori.