Mi è tuttora oscuro il perché

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[Dieci anni fa Beppe Grillo andava in giro per i palazzetti a spaccare i computer col martello. La gente non voleva leggere sul video, stampava qualsiasi cazzata. Meno male che i blog ancora non esistevano, tranne questo. Per festeggiare dieci anni di obsolescenza, leonardo.blogspot.com pubblica dieci vecchi pezzi che parlano di passato e di futuro. Questo è del novembre 2003. Ci ho messo anni a ritrovare il volantino originale].

Trova l’errore

In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?

(Clicca qui per ingrandire).

È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.

Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?

No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?

E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.

Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.

E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.

Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.

O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.
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Tuo sinceramente

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"Caro papà.
Come va? Io sto bene, ma la tua lettera mi ha un po' preoccupato.
Soprattutto mi ha preoccupato che invece di scrivere al mio indirizzo tu l'abbia mandata a Repubblica. Perché, ecco, se hai qualche problema preferirei che restassero in famiglia.

Allora, io il tuo messaggio non l'ho tanto capito. Ricapitolando: tu sei un pezzo grosso. Io sono tuo figlio e mi sto per laureare. Ora, dovrei essere veramente l'ultima anima candida d'Italia per non aspettarmi da un genitore serio e rispettato come te, in un momento così delicato per la mia formazione, un solenne spintone.

E invece mi arriva 'sta letterina aperta, in cui mi chiedi neanche tanto velatamente di levare le tende... Come no, certo, mio papà dirige la Luiss e io devo andare a fare l'assistente sottopagato alla facoltà di Stocausen... Papà, senti, senza tanta sociologia, dimmi qual è il vero problema: hai promesso a qualcuno un posto che tenevi per me? Ti sei innamorato? Ti ricattano? C'è in giro un tuo video con due trans e la Mussolini? Papà, sul serio, se c'è un problema possiamo parlarne.
Basta che non attacchi la manfrina della povera Italia – sai papà, noi giovani abbiamo tanti difetti, però non è che ci beviamo qualsiasi fregnaccia.

Tuo sinceramente".
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è++++++++èèèèèèèèè+

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Sogni di 1961

Hai notato come la gente come me e te si ritrovi sempre più spesso nel 1960?
Dopo cena, s'intende.
Al mattino infatti la sveglia è fissa agli anni Zero. (Dai, che è l'ultimo). (Dai, che tra un po' arrivano i Dieci, e con loro il posto e il mutuo a tasso fisso). (Dai e dai, perché non dovremmo diventare adulti pure noi?)

La gente come noi peraltro ha problemi sin dalla sveglia, che ogni notte va puntata a un'ora diversa. Se ci pensi, è un pessimo modo per finire/cominciare la giornata. Ma si sa, a un certo punto qualcuno ci ha traviato, ci ha raccontato che la flessibilità era qualcosa di nuovo ed eccitante, per cui lunedì ti svegli alle sette, martedì alle undici, mercoledì non ti svegli proprio nel senso che sei rimasto dilà a lavorare a una traduzione e sei crollato alle cinque del mattino col naso sul laptop e quando ti sei svegliato avevi riempito duecento pagine di hjjhjhjhjjjhjhjhjhjhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjhhhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj
(per la verità a pag. 79 spostandoti nella fase rem e ti eri riposizionato su è+è+è+è+è+èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè+++++++++++++++++++++è+è+è+èèèèè++++++++++++ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùàè+èèèè++++++++++++++++++++++++++èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè)
e prima di svegliarti, in un soprassalto di sonnambulismo, contemplando il tuo capolavoro avevi selezionato “Stampa”.

(La gente come noi, quando le dicono “Lo so che hai un romanzo nel cassetto”, sorride.
“Hai ragione. Ma è un po' sperimentale. L'ho scritto a notte tarda”. “Come Kafka!”).

Ma tergiverso quando tu hai fretta, vuoi finire il post per rispondere alla mail che ti è appena arrivata da Tizio che ti chiede se hai finito il lavoro dello scorso mese per Caio così può farti pagare da Sempronio, e tu non hai la minima idea di chi siano tutti e tre, e la colpa di chi è? È anche un po' colpa di Leonardo che scrive pezzi lunghi. Hai ragione, scusa.

Ma hai notato questa cosa buffa? Com'è che ci ritroviamo sempre più spesso proprio nel 1960?
Alla fine di queste giornate che non iniziano e non finiscono precisamente mai, dopo una cena mangiata di fretta o saltata proprio, ci si tuffa in una puntata di Mad Men, fresco di download; oppure si va al cinema a vedere Revolutionary Road che è la stessa identica bazza: pendolari suburbani che sbarcano a Grand Central alle otto in punto, salgono un ascensore, si ficcano in un ufficio dove non c'è nemmeno la macchina da scrivere (per quello ci si serve di apposite schiave), e ding dong, è già mezzogiorno. Ristorante, bistecca ai ferri, sigaretta, si fa anche in tempo a ingroppare la segretaria e prendere il treno delle 5.

Tutto filologicamente documentato, accuratamente riprodotto, scrupolosamente standardizzato, per il nostro sofisticato intrattenimento. Da quand'è che un passato non ci prendeva così?
Escluderei il fattore nostalgia; non eravamo nemmeno nati. Del resto siamo nati anche un po' troppo tardi per Happy Days dopo la Tv dei Ragazzi. Dopodiché, certo, ci sono generazioni che hanno ereditato la nostalgia di quella dei padri, ma non pensavamo d'essere altrettanto deficienti.

E quindi? E quindi chissà? Forse in quel passato così accurato e sottilmente claustrofobico, in quel passato omologante cinico e disperato, c'è qualcosa di consolatorio. Noi che un treno da prendere tutte le mattine ormai ce lo sogniamo; noi schiavi di noi stessi e delle nostre fottute scadenze, noi che guadagniamo un mezzo eurocent per ogni tasto che spingiamo; noi guardiamo Don Draper o Frank Wheeler sconfitti e frustrati e un po' ce la godiamo.
Mentre voi che avete vissuto all'apice della civiltà del consumo, e oggi siete cenere indistinguibile da quella delle vostre sigarette che non vi siete mai goduti veramente, voi: cosa sognavate sui seggiolini del treno, mentre tornavate a casa dalla mogliettina bionda? Scene di caccia, barricate a Parigi, western in bianco e nero, vite fuori dagli schemi, selvagge, precarie. Come le nostre, già! Sognavate di essere noi, è così?



[No. Forse è meglio avvertirvi che scherzo, non è così. È ovviamente il contrario. È che a una certa ora dopocena, non c'è mansarda parigina che non venderemmo per un lotto suburbano e la casina bianca dei Wheeler, per i lenti treni che si tuffano nel bosco e riemergono a Park Ave., per un po' di vuoto patinato standardizzato e una sveglia, una sveglia cromata che suoni cinque e solo cinque mattine alla settimana, e alla stessa fottuta ora].
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ump ta ta, ump ta ta

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La strage alla sagra d'Autunno
("La voce di Rimini", estate 2000)

Brigadiere, Fischio non era un tipo cattivo. Lo lasci dire a me che lo conoscevo.
Faceva il deejay, sì, ma che vuol dire? È un mestiere come un altro, peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.
32, dice lei?
Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, Brigadiere, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?
Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, e la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, mammone. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.
E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Fiera d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina. Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.
Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.


(Ogni volta che a settembre provo ancora a uscire, e andare a un concerto, mi sembra che la balera diventi sempre più grande, e ripenso a questo raccontino. Ha già otto anni).
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Saldi

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Tesoro

Dici: "Sei troppo complicato":
tesoro, e ancora non m'hai visto il 740.

Dici: "Libertà, quanti crimini in tuo nome":
molti più in nome di un Mutuo, fidati.

Dici: "Il nostro mondo non è in vendita";
ma aspetta un attimo, no? Sentiamo che prezzo fanno.

Dici: "Sei uno stronzo!" Ma è una mimetica, Tesoro:
qui in mezzo non mi troveranno mai.
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è un Mercato Pazzerello

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Di notte, scalciando
Così l'intellettuale declassato, smanioso di una rivincita sulla borghesia che lo disprezza e sul proletariato che rifiuta di adottarlo e ne misconosce le qualità, completa la sua parabola esistenziale riciclandosi come manovale della reazione. (Th. Bruch, Didattica del Materialismo, XIV, 6).
“Non stai dormendo, vero?”
“Mmmno”.
“Che faccia che hai. Possibile che non te ne sia fatta ancora una ragione?”
“Me ne sono fatta una ragione”.
“Per niente. Ma lo sapevi che perdevamo, no?”
“Certo che lo sapevo. Stavo per giocarci dei soldi”.
“Ecco, appunto, perché non te li sei giocati?”
“…”
“Trecento euro e ti passava la tristezza”
“Sì, secondo te io sono uno che si gioca trecento…”
“Giusto la fattura del tizio che ci ha riparato il tetto, caccia via”.
“A proposito, e l’immobiliare?”
“Ci risentiamo domani. Comunque i prezzi sono quelli lì”.
“Ma sono matti. Sono tutti matti. Aspettiamo, vedrai che calano”.
“Come no”.
“Calano, calano”.
“Non dovevano calare l’anno scorso?”
“Tra un po’ va giù tutto, vedrai”.
“E se invece va su?”
“Non può andare ancora su”.
“Certo che uno come te, che capisce tante cose… è un peccato”
“Cos’è peccato?”
“No, dico, peccato che l’unica cosa che tu non riesca a capire siano i soldi”
“Guarda che li capisco benissimo”.
“Come no. Un rockfeller. Ti chiamerò Rockfeller, come il merlo”.
“Il corvo. Era un corvo”.
“Non aveva il becco giallo?”
“Ti confondi con Portobello. Buonanotte”.
“Buonanotteamore”.

Ha ragione.
Sto a preoccuparmi dei massimi sistemi e intanto ci piove in casa. Bisogna farsi furbi, monetizzare.
Intanto posso cominciare a dar lezioni. Pare che si arrotondi bene. Tutti i liceali col panico dell’esame a settembre… vedi che Fioroni una cosa giusta l’ha fatta.
Però alla fine è solo una pezza. A scuola quanto potrò andare avanti? Può solo peggiorare, e si fa già fatica adesso. Nelle classi a 29 non si respira, letteralmente, e poi basta che ce ne sia uno un po’ schizzato e tutti lo seguono a ruota.
E tutte queste storie sul bullismo, sugli insegnanti fumati o maniaci sessuali… lo sai dove vogliono arrivare, no? Vogliono convincere i genitori middle-class a staccare i buoni scuola e mandare i figli al SacroCuore. Così ci resteranno solo terroni, tunisini e albanesi. C’è da dire che a volte sono più educati. Soprattutto i cingalesi, che però hanno un odore che non sopporto. È la loro cucina maledetta. Che razza di spezie usano? Mi si fermenta il caffelatte nello stomaco – l’altro giorno stavo per vomitare davanti a una bambina. Tutta una vita così? Ma forse ci farò l’abitudine. Forse.
È chiaro che quando sei giovane, hai tanto entusiasmo, credi di poter risolvere tutto, ma siamo seri: quanto credi di poter durare? Io volevo insegnare la storia e la geografia, se devo mettermi lì a spiegare l’alfabeto ai cingalesi mi annoio. Cioè, dai, non è più il mio mestiere. Però è l’unico mestiere che so. Forse.

“Spengo la luce”.
“Ok, buonanotte”.

E intanto il conto cala. E se mi capita qualcosa? Imprevisti, probabilità – poi un giorno ti segnano la fiancata e finisci in rosso. Succederà. È già successo ad altri. E io non sono più furbo di loro. Diciamo la verità. Capisco tante cose, ma non sono più furbo di loro.
L’università è esclusa, c’è una fila di ex ricercatori questuanti che parte dagli anni Novanta, e sono tutti più giovani e svegli di me. E quindi? Questi son problemi, altro che Berlusconi. Certo, può sempre darsi che crolli il petrolio e il dollaro, si sciolgano i ghiacciai e collassi tutto l’occidente. Questo nel migliore dei casi. Ma metti che non succeda. Cosa faccio?
In politica non mi posso buttare, ho parlato male praticamente di tutti – e poi c’è la fila anche lì. Con Beppe Grillo? Per carità, inaffidabili. Andrà a finire come al g8, qualcuno si farà male e poi tutti a casa. Ma io comincio ad avere un'età. E se mi capita qualcosa? Del tipo, metti che mi debba far operare.

Già solo di denti mi stanno andando via stipendi interi, e fanno male lo stesso. E poi i dottori non me la contano giusta. L’altro giorno sono andato da un privato, cento euro per cinque minuti e un dito in culo! A proposito, cos’è questa nuova tendenza? Il proctologo lo posso capire. Il dermatologo m’insospettisce già un po’. Ma l’otorino? Possibile che non possa sfilarmi due biglietti da cinquanta senza appoggiarmelo lì? Ehi! Se proprio ho un bel culo dovreste pagarmi voi. E non è detto che non vada a finir così. Ma sto davvero pensando a questo?

E ‘sta pioggia maledetta, com’è che fa tanto rumore, stanotte? Di solito non picchia forte così. Del resto è aprile, ogni giorno un barile. Potrei mandare il curriculum in banca. Ma a chi la racconto? Io di soldi non capisco niente.
La verità è che in banca ci dovrei entrare con una pistola giocattolo. Una volta sola. In una banca sola. Funziona, una gran scarica di adrenalina e vai, la prima volta non ti beccano. Quelli che si fanno beccare, è sempre perché ci riprovano. Ma una rapina in banca non si nega a nessuno, è quasi un tuo diritto, del resto se le banche cominciano a fotterti a dodici anni…
Sì, ma un colpo solo mica basta. Nella cassaforte di una filiale, quanto ci sarà? Centomila? Va bene, si tira un po’ il fiato, e poi? Ci vuole un reddito. Potrei fare il corriere. In effetti sarei un buon corriere. Le autostrade le so tutte e mi piace girarle, fermarmi agli autogrill e non pensare a niente. Non mi hanno mai fermato a un blocco, mai, nemmeno con la barba sfatta. Ispiro confidenza. Potrei girare l’Europa in lungo e in largo trasportando chili di qualsiasi cosa. Tra l’altro non consumo, per cui come corriere sarei molto affidabile.

Mi terrei un mestiere di copertura – non so, potrei fare il rappresentante di enciclopedie. La faccia ce l’ho. E nella ruota di scorta potrei portare in giro di tutto. Ma che ruota di scorta, ormai ti fanno ingurgitare – se va bene. Sennò supposta. E torniamo sempre lì. Ma almeno si guadagna. Non posso credere che sto pensando a questo. Io corriere, sì, di cosa? E per chi? Non conosco nessuno. Cioè, nessuno, aspetta. Toni di IIIC.

Lui riga abbastanza dritto, ma suo zio venne qui in soggiorno coatto, due anni prima che cominciassero gli incendi dei capannoni. Quando viene al ricevimento generale gliela butto lì: “devo arrotondare, faccio già dei piccoli trasporti, lei non conosce mica qualcuno che ha bisogno di…”. Si capisce che non si fiderà subito. Magari mi chiederà di accendergli un capannone, prima. E vabbè, dopotutto a me che frega dei capannoni? Tutti di gente che vota lega, se ne vadano affanculo, ve li brucio con soddisfazione. Ha anche smesso di piovere.

Tre o quattro anni così, senza dare nell’occhio. E se mi mandano all’est, c’è anche la possibilità di arrotondare. Se vado via vuoto e imbarco un paio di badanti a viaggio metto insieme una somma discreta senza spesa aggiuntiva. Se guidassi un camioncino, ma in macchina chi vuoi che mi fermi? Ho la faccia da tratta delle bianche? Tutto tranquillo, basso profilo. E se il padre di Toni vuole farmi la cresta? Tra l’altro suo figlio sa benissimo dove parcheggio. Lo vedi che mi serve un garage?
E va bene, avrà la sua percentuale. Però bisogna starci attenti, perché è un mestiere in cui si brucia molta benzina, e la benzina sarà sempre più cara… potrei mettere la bombola a metano… ma c’è il metano in Ucraina? Devo guardare su internet. Anche se poi… con la bombola… nel traforo del Gottardo… ma è già esploso una volta, quel tunnel… quindi le probabilità che esploda ancora…

E poi non devo mica passare la vita così. Quattro-cinque anni e poi mi metto in proprio. Una cosa piccola e pulita, senza dare fastidio a nessuno. Un bar con due camere sopra. Ci metto due bielorusse regolarizzate, e gli chiedo il venti per cento. Mi sembra onesto. O non lo è? Devo guardare su internet, ma sono convinto che c’è gente che prende anche il quaranta. Naturalmente se viene il padre di Toni offre la casa. Ma se viene il resto della famiglia? È numerosa. Gente che non paga volentieri. Hanno buttato giù un ristorante nella bassa, una volta, per via di un conto. Bisognerà abbozzare. Che mi metto a litigare coi camorristi, coi tempi che corrono?
E se le bielorusse si rifiutano di lavorare gratis e amore dei? Che poi i bar mica te li regalano, ci sarà un mutuo da pagare. Va a finire che mi toccherà chiedere soldi. Alla famiglia di Toni, naturalmente. E poi mi strozzeranno, va da sé. Un bel giorno mi alzo e mi trovo il bar bruciato… ma chi me l’ha fatto fare…
“Abbia pazienza, prof, ordini superiori. Dovevamo verificare che non ci fossero perdite dal tetto, ci capisce…”.
“Ma stavo giusto arrivando con la rata…”
“Prof, lei è un bravo guaglione, ma con rispetto parlando, se avesse mai studiato economia. Gli interessi passivi, ha presente gli interessi passivi? Comunque un modo di recuperare c’è. Si ricorda il vecchio mestiere? Ci sarebbe una missione a Bucarest”
“Ma Toni…”
“Una cosa rapida e indolore. Sei capsule. Ai vecchi tempi ne teneva pure otto”.
“Ma sono vecchio, Toni. Va a finire che esplodo”.
“E c’è pure un pappagallo con il becco giallo”.
“Con la bombola. Di metano. Nel traforo. Lungo chilometri sei”.
“Un tantino picchiatello… non sa dire: portobello”.
“Ma stavo così bene da statale”.

***

“Ma stai bene?”
“Eeeeh?”
“Stai scalciando!”
“Macché”.
“Ti dico che scalciavi. Dormivi? Hai fatto un brutto sogno?”
“Ma no, ero qui che pensavo tra me e me”.
“Che pensavi?”
“Pensavo… pensavo che dovrei cominciare a dar lezioni… c’è molta richiesta”.
“Mi sembra una buona idea”.
“Sai, hanno tutti paura dell’esame di settembre, adesso”.
“Ottimo”.
“Ti voglio bene, sai”.
“Lo so, anch’io ti voglio bene. Buonanotte”.
Buonanotte.

E' un racconto, mamma, sta tranquilla, sto bene, non mi manca niente. Ogni riferimento a fatti persone o cose è puramente casuale, la cucina cingalese è saporita e inodore e la camorra non esiste, da noi. Ma neanche altrove, in generale.
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Piacere, precario

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La bimba seduta sul marciapiede, che prega il telefonino: “Dai, vibra!” Il Giovane Rappresentante senza cognome che sgomma in Peugeot Cabrio. La badante pancabbestia. Lavorare coi gorilla. Lavorare con le iene. Cominciare a truffare il prossimo per disperazione, continuare con ironia, provarci gusto, impazzire. La postina tettona non esclude di attivare un servizo webcam. Il Servizio SMS Aforismi per Manager. Ti amo più di ogni cosa, tranne un'offerta di lavoro in America, e dammi torto. Come sembrano stupidi i tuoi colleghi il primo giorno di lavoro; hai tre settimane per diventare come loro. Mentire sempre ai genitori, che senso avrebbe farli soffrire a questo punto? C'è un giorno in cui gli scaffali grigi in cucina perdono tutta la loro ironia e capisci che sei povero e basta. Piacere, io sono il precario di cui tutti parlano, piacere. Tutto questo, e molto di più, nell'ultimo film di Virzì, che dovete andare a vedere, e vi ricompenserà degli ultimi cento euro sbattuti via in film italiani bruttini. Oppure (se preferite il mezzo bicchiere vuoto) Tutta la vita davanti è il motivo per cui spenderete i prossimi cento euro in film italiani bruttini, nella speranza di trovarvi davanti a qualcosa che sia vivo e dolente almeno la metà di questo. Peraltro è un film pieno di difetti. Ma si perdonano da soli, perché la struttura tiene, e ritaglia un pezzo d'Italia così fresco che sanguina ancora.

Dunque la commedia all'italiana, quella amara senza remissione, si può ancora fare. Viene spontaneo chiedersi cosa ha capito Virzì che tutti gli altri no. Basti pensare che Tutta la vita davanti inizia esattamente come Giorni e nuvole di Soldini: si discute una tesi di laurea. Prego confrontare. È evidente che Soldini, alla cerimonia della Discussione della Tesi, ci crede davvero: lo spettatore è tenuto a emozionarsi con la Buy e coi parenti, a incuriosirsi per l'affresco perduto, a entrare nella famiglia, compresa la festa nel superattico con l'orchestrina che suona i successi dei New Trolls, Soldini, ma sei fuori? Ma secondo te uno spettatore sotto i 35 si può in qualche modo commuovere per dei radicalchic che si trovano all'improvviso con le pezze al culo? In realtà cominci a odiarla da subito, la Buy; non vedi l'ora che cominci a prostituirsi per l'affitto e resti deluso quando non ce la fa (nemmeno una piccola prestazione sotto forma di adulterio col capufficio) per pigrizia più che per nobiltà di cuore. Per contro la Discussione di Virzì è già, dopo pochi secondi, irrimediabilmente grottesca. E funziona. La grande commedia italiana era grottesca: Virzì l'ha capito, quasi tutti gli altri no. Sono sempre in cerca di scenette commoventi e personaggi da perdonare, ma chi l'ha detto che il cinema debba perdonare qualcuno? E qualcuno così simile a voi, poi? Avete sempre paura di calcare i toni. Ma date un'occhiata all'Italia vera, e vi accorgerete che è la realtà che calca i toni. Per quanto Virzì possa spingere il pedale del grottesco, non riuscirà a mostrarci un Paese meno verosimile di quello in cui viviamo. Non è tanto Virzì il bozzettista, siamo noi puri bozzetti. Telefoniste in crisi di nervi, elettrodomestici fasulli, giovani rappresentanti che ne appioppano dieci ai parenti per restare in quota e poi piangono come vitelli, caporedattori trucidi, mitomani in carriera, giovani cervelli rinchiusi per cinque anni a studiare filosofi inutili, che il primo giorno in cui mettono il naso davanti a Canale 5 vanno in estasi ermeneutica: tutto questo è grottesco, ma è la realtà in cui vivo io, e fidatevi che ci vivete anche voi. Quando la telefonista bionda cede al suo destino di puttana ci resto male più che per cento margherite buy che non conoscerò mai, mentre quell'anello mancante tra la scimpanzè e la sciampista mi basterebbe accostare un attimo per conoscerla.

Un film sulla periferia, un film sui ventenni, che, pensate, addirittura scopano: molto in fretta, in verità (non disponendo di seconde case al mare), e con un certo risentimento. Ventenni apolitici, che se se entreranno per caso a vedere Tutta la vita davanti sarà perché lo hanno confuso con l'ultimo Vaporidis, oppure venivano a vedere Verdone ma la sala di fianco è già piena, oppure gli è piaciuta veramente l'orrida clip televisiva con la Ferilli che distrugge un cazzetto di plastica con un raccoglitore (chi lo direbbe mai, che è il ruolo della sua vita). Questa è l'Italia a cui Virzì vorrebbe parlare, anche se sa di poterci entrare in contatto solo di sguincio. Anch'io avrei preferito qualche minuto in più di Mastrandrea nel superattico, a giustiziare i fighetti di papà: ma è giusto glissare, la polemica con le conventicole stavolta è sullo sfondo. A fuoco c'è il sogno berlusconiano, senza nessun antidoto progressista e democratico, in tutta la disperazione di chi ci crede davvero, o si arrangia a crederci perché nessuno veramente offre di meglio. Ed è vero: nessuno offre di meglio, l'Italia è un multilevel marketing nella fase terminale, quando il capo non sa più che storie raccontare in banca e la moglie previdente lo ha scacciato di casa. E gli ideali, la solidarietà, la politica e la stessa cultura, sono cose di cui si è sentito parlare solo da lontano, scene di una recita od ombre sull'unica parete che conosciamo.

È un film che fa male, ma credo che resterà. Tra vent'anni qualcuno resterà a casa un pomeriggio per guardarlo con la madre su un lettino d'ospedale. Invece non so se all'estero saranno in grado di capire. Per esempio, come si fa a tradurre “tapiro di coccio”? Come si fa a spiegare una battuta che non fa ridere, nemmeno la prima volta, e invece ti stringe il cuore? O è lo stomaco? Ma all'estero hanno altri cuori, altri stomaci.

"Ti conosco, tu sei quello che distribuisce i volantini, ma di politica. Io però non li ho mai letti".
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caccia la grana, nonno

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Da quando Padoa Schioppa li ha chiamati bamboccioni, i giovani d’oggi sono diventati popolarissimi. Soprattutto a centro-destra, dove tutti improvvisamente si accorgono che avere vent’anni è un problema. Gli affitti. Le caparre. Il precariato. Paolo Guzzanti è scatenato. "Se un ragazzo vuole prendere in affitto una topaia non gli bastano oggi tremila euro soltanto per firmare un contratto prima ancora di cominciare a pagare l’affitto". Qualcosa non mi torna. Tutta questa gente dov’era, cinquanta ore fa?
Non erano gli stessi pronti a denunciare per concorso in brigatismo chiunque parlasse male della Legge 30 detta Biagi? Non erano gli stessi che in cinque anni di governo hanno lasciato andare gli immobili alle stelle? La strategia di Tremonti per fare uscire di casa i giovani in cosa consisteva esattamente? Perdonatemi se a tutti questi avvocati della gioventù per il momento preferisco Padoa Schioppa, che borbotta, sì, ma scuce.

D’altro canto è pure vero: il suo paternalismo è vomitevole. Ma è un tic molto diffuso. Mi fa venire in mente una cosa che ho scritto sei mesi fa. La ripubblico qua sotto, non avrei molto da aggiungere.

Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti

Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.
Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.
Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).
Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…
arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.

Caro Augias, francamente non m'intendo molto dei prezzi di Genova. Ma i casi sono due: o è un’isola felice in tutta l’Italia settentrionale (nel qual caso mi ci trasferirò immediatamente con la mia compagna, abbattendo quasi del 50% le mie spese correnti), o c’è un refuso. Perché vede, d’accordo con la mentalità parassitaria e tutto il resto, ma nessuna coppia sana di mente, al giorno d’oggi, si cercherebbe una casa con mille euro al mese. Una casa? Un affitto? O magari un mutuo? E magari anche i mobili, la cucina, il posto
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?

Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.
Perché d'accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.
Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.
È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.
In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?
E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?
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nato ieri

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I misteri di Daniele C.
(Scusi, lei dov'era negli anni Novanta?)

Quest’uomo lo conoscete tutti, o meglio credete di conoscerlo.
Fa politica e fa tv, è stato opinionista nel partito di Chiambretti e segretario politico nel palinsesto di Pannella. Con quest’ultimo di recente ha litigato, ne avrete sentito parlare. Perciò ieri (4 luglio) ha fondato un nuovo partitino Network neoliberale, con poche idee ma molto chiare. È pragmatico, è giovane, sa comunicare, e si guarda in giro, senza preconcetti: centro-sinistra, centro-destra, centro-quel-che-c’è, centro-basta-che-respiri. Quest’uomo è Daniele Capezzone. Voi pensate di conoscerlo, e invece no.

Quest’uomo è un mistero.

Voi sapete quanto sia ricco d’informazioni d’ogni tipo il web 2.0. E forse sapete anche come in questa foresta d’informazioni e comunicazioni più o meno pervasive e spesso inutili, i radicali italiani costituiscano un cespuglietto non grande, ma inestricabile. Nelle italiche boscaglie essi sono riconoscibili da lontano per il fitto intrecciarsi di link e blogroll, per la tendenza a scriversi addosso all’infinito, quasi che temessero di perdersi o scomparire appena mettono punto. Un’ansia che capisco fin troppo bene, ma qui non si parla di me.

Si parla di Capezzone. Anche lui scrive e comunica molto. Ma quasi mai di sé stesso.
In questo non c'è nulla di male, anzi, il saper sfoggiare altri argomenti a parte sé stesso, in generale, è un bene: tuttavia è piuttosto singolare il caso di un uomo politico, pubblico, con un buco di almeno dieci anni nella propria biografia. La sua storia sembra veramente sintetizzabile in questa riga della sua scheda nel sito della Camera dei Deputati: “Liceo classico; segretario del partito radicali italiani”. Di lui si sa con certezza che ha fatto il Liceo – con le suore. Si tramanda anche una battuta ad effetto: “Il problema è che vi sono uscito con il massimo dei voti ed il minimo della fede”. (Sarà per questo che il suo nuovo Network propone di scaricare le rette delle scuole dei preti dalle tasse: non fa una grinza, se i preti insegnanti formano i migliori studenti laici, tanto vale pagare direttamente i preti e chiudere le scuole laiche).
E dopo il Liceo? Nulla: ha incontrato Pannella e tre anni dopo è stato nominato segretario dei Radicali italiani, il più giovane in Italia. Bravo, complimenti, eppure… tutto qui? Possibile che non si trovi nient’altro?

Se Capezzone è del ’72, deve essersi diplomato nel ’91, bombardieri su Bagdad. La sua nomina a segretario dei Radicali è del 2001. Nel mezzo c’è appunto un buco di dieci anni. Dove è stato Capezzone per tutti gli anni ’90? A Roma, probabilmente, ma a fare cosa? A parte presentarsi a Pannella nel 1998, episodio sicuramente importante e decisivo – ma che non deve avergli preso più di una mezza giornata. Ha frequentato Giurisprudenza alla Luiss – senza laurearsi, vabbè. Questo non significa nulla, nemmeno Veltroni è laureato. Nemmeno D’Alema (Berlusconi sì). Ma è possibile che un giovane così dinamico, così pieno di voglia di fare, sempre in giro a rilasciare dichiarazioni, abbia passato dieci anni ad ascoltare Radio Radicale e a studiacchiare legge?

Voglio essere più esplicito: prima di diventare attivista politico e – con uno sprint impressionante – segretario politico nazionale, Capezzone ha mai lavorato in vita sua? Come ha fatto a campare? Non era mica semplice. Non per tutti, almeno.

Il paragone mi viene facile, essendo quasi un suo coetaneo. Io in effetti in quegli anni non sono stato fermo un attimo. Mi sono laureato. Ho fatto il mediatore culturale in Francia col servizio volontario europeo. Poi sono tornato a casa e avevo bisogno di soldi. Ho fatto cose di cui mi vergogno, per esempio intervistavo la gente per strada sui romanzi di rosa (e non biasimo Capezzone se non mette miserie del genere nel suo curriculum). Ho fatto dei corsi, ho lavorato in una specie di dotCom, ho tradotto dei libri. Ho fatto un mega-Concorso statale al termine del quale sono stato assunto dallo Stato, con quasi una trentina di contratti precari in cinque anni. Ho incontrato una ragazza, che ha sciaguratamente accettato di venire a vivere con me, malgrado non avessimo nessuna agevolazione sull’affitto; anzi, lei licenziandosi dal suo lavoro a tempo indeterminato ha perso il suo diritto al sussidio di disoccupazione, in virtù della Legge 30. Anzi, della Legge Biagi. O della Legge-perla, per dirla con Capezzone. L’ha chiamata proprio così: l’unica perla del Governo Berlusconi. La legge 30.

Scusate se per un attimo mi sono paragonato a Capezzone. È chiaro che lui è più bravo di me. Ma quel che provo per lui è un po’ quello che provo per tutti i giovani in politica. Ho la sensazione che abbiano più nozioni di me, ma meno esperienze. Colti, ma nati ieri. Nessuna persona con un po’ di vita vissuta chiamerebbe la legge 30 una “perla”. Nessuno che abbia almeno un cugino, o un amico cocoprò, si permetterebbe. Dicci che è una legge severa, ammortizzabile, dicci quel che vuoi: sei un politico, hai studiato, le parole giuste dovresti conoscerle. Ma non scherzare sui nostri problemi. Non saranno i problemi dei rifugiati in Darfour, ma son problemi.

Lo so che non è giusto prendersela con Capezzone per questo. È vero che l’Italia è piena di politici dal curriculum esclusivamente politico. Rutelli che altro ha fatto in tutta la sua vita? E Fini, e Fassino?
Ma il caso di Capezzone è più curioso, essendo lui un convinto liberale. Non uno alle vongole; lui su questo è serio: vuole tagliare tasse subito, e dare agli imprenditori tutte le ricchezze che si meritano. E se questo significa chiudere il rubinetto al ceto politico, pazienza. In Italia è abbastanza raro vedere queste idee difese da un politico: in effetti di solito gli imprenditori preferiscono difenderle da soli, scendendo direttamente nell’agone politico, come Berlusconi o Montezemolo. Oppure mandare avanti fantocci illetterati, come Bossi o Maroni.

Negli USA è diverso. Laggiù c’è un rispetto tutto particolare per l’intellettuale, e persino gli ultraliberali non vedono nulla di male nel finanziare lobbies di uomini in occhiali e bretelle che passano le giornate a bere caffè in uffici climatizzati, mentre scrivono editoriali su quanto sia prioritario tagliare le tasse ai ricchi. Capezzone è precisamente questo; il problema è che non sta a New York o Washington, ma su un terrazzo di Roma bella. Somiglia a una piccola enclave statunitense in Italia, qualcosa di ancora poco comprensibile.

E allo stesso tempo terribilmente familiare. Capezzone è cresciuto a pane e politica; Pannella lo ha cacciato fuori, e lui che vuoi che faccia? Che altro saprebbe fare? Che altro potrebbe fare, che gli frutti almeno seimila euro al mese? Manco una laurea c’ha, manco il pezzo di carta. Farà un partitino, pardon, un Network. Andrà in tv, pagato da noi, a spiegare che i nostri canali tv vanno svenduti a qualche investitore straniero. Che continuerà a invitarlo in prima serata, si capisce. I miei migliori auguri. Nato appena ieri, e già così tanto più furbo di me.
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e comunque

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...io sono felice se con Veltroni la Precarietà diventa l'Emergenza.
Peccato che non sono più Precario.
Da oggi.
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il lavoro rende...

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Brave persone, gran lavoratori

In un mondo migliore non esisterebbe neanche il brigatismo.
Ma in un mondo dove si spara per controllare uno straccio di territorio, perché i colori della mia maglia sono più belli della tua, perché ahò, che cazzo guardi, insomma, nel mondo in cui viviamo: è così strano che ci siano 15 persone che per sparare preferiscono ancora vecchie giustificazioni ideologiche? No, dai, non è così strano. Direi che è quasi fisiologico.

E come tutte le cose fisiologiche, dobbiamo imparare a conviverci. Stando molto attenti ai dolorini. Magari sono malesseri di stagione, magari cose più serie. Prevenire è meglio che curare (e un Pietro Ichino vivo è cento volte meglio di un Pietro Ichino eroe).

Perciò attenti, attenti al virus del brigatismo! D’altro canto, come isolarlo? Come faccio a capire se il mio collega di lavoro, il fattorino, il vicepreside, il coniuge, invece di essere in riunione stanno seminando gli uomini digos nel traffico urbano? La redazione di Leonardo ha studiato per voi la casistica, giungendo a una conclusione sbalorditiva. Riconoscere i terroristi rossi, in famiglia o sul luogo di lavoro, oggi, è molto facile.

Sono quelli che non si lamentano mai.

Su questo, le testimonianze concordano. Sono quelli che lavorano a testa bassa e mai un problema. Sono quelli che vanno alle feste padronali e legano con tutti, anche coi crumiri. Sono quelli che se ti avvicini borbottando che 600 euro al mese è schiavitù organizzata, ti fanno un gran sorriso e ti dicono animo, animo! Le cose miglioreranno. Sono gli studenti nell’angolo in fondo, sempre a studiare, studiare, come se a vent’anni fosse la cosa più importante.

Sono infaticabili. Stacanovisti. Che poi nessuno sa più dirmi chi era, ‘sto Stacanovo. Frammenti di quel Novecento in cui era ancora il lavoro a renderti libero. Non il telefilm serale. Non la droga abituale. Non i colori della tua squadra. Neanche il blog. Il lavoro. E la p38, certo.

Questa cosa meriterebbe di essere studiata. Magari proprio da Ichino, rinomato esperto di assenteismo. Io ho ancora in mente questo pezzo di Brodo sulla fannullagine giovanile. Pare che non sappiano più cosa significhi, lavorare, i giovani: nessuna serietà, attese impossibili sulla retribuzione, eccetera eccetera. D’altro canto perché uno dovrebbe comportarsi seriamente, davanti a prospettive determinate a sei mesi? Se nessuno ti prende sul serio, perché dovresti prenderti sul serio proprio tu? Se non è un progetto di vita, il lavoro diventa solo il parcheggio tra una finestra di vita e l’altra. Inutile darsi troppa pena per farlo bene. Si tratta solo di far venire le sei.

Ma questi 15, un progetto di vita ancora ce l’avevano. Per una qualche dissociazione che ha dell’incredibile, credevano ancora nella lotta armata, quindi nell’insurrezione, quindi nella vittoria finale. La fede è una cosa che ti dà allegria. E tutta la forza che ti serve per andare avanti. Non hai più bisogno di droga, telefilm, tutto il calcio minuto per minuto.

È una cosa che fa pensare. Voglio dire, il brigatismo è una fede distorta come tante. Ma se è produttiva per le aziende, perché non coltivarla? Con molta cautela, certo. Si selezionano qua e là certi vecchi rottami della lotta armata. Li si rimette in un brodo di coltura – l’ufficio o il reparto o la biblioteca. E tac! La produttività aumenta. Poi, prima che riescano ad organizzarsi sul serio e a sparare, si arrestano i capi e qualche altro poveraccio. E si aspetta il prossimo giro.

Non è un’idea così malvagia.
Magari è già venuta a qualcuno.
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- bruciare la legge 30

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La repubblica fondata sul parcheggio

Se l'Italia fosse così fondata sul lavoro come pretende d'essere, detta Italia oggi traballerebbe su fondamenta sempre più precarie. Per fortuna (fortuna?) l'Italia è da un pezzo fondata su basi un po' più solide: mattoni e cemento, i risparmi di mamma e papà: una vita di fatiche e risparmi per una villetta, anche due, la seconda condonata, e speriamo che l'Italia non smotti nel frattempo. Speriamo anche che la bolla immobiliare sia un modo di dire, uno di quegli ossimori tipo parallele convergenti: avete mai visto due parallele convergere? E la bolla immobiliare, l'avete mai vista? Ecco, appunto.

E il lavoro? Massì, ragazzini, se insistete vi diamo anche il lavoro; ma sia chiara una cosa: voi non siete operai, avete studiato, siete la classe consumatrice, e quando i vostri genitori passeranno a miglior vita sarete la classe proprietaria: nel frattempo niente cantieri e fonderie, per quello ci sono i sommersi. Voi non avete bisogno di produrre: avete bisogno di un parcheggio. Voi cercate un lavoro creativo, stimolante, partime, la necessaria continuazione dei vostri cazzeggianti pomeriggi postscolastici: giocavate ai videogames? Arruolatevi nella new economy. Scrivevate poesie? Provate a fare i pubblicitari. Ascoltavate musica? Ci sarebbe un posto da diggei. Consumavate sostanze? Iniziate a rivenderle ai più giovani.

Tutto questo può sembrare un po' precario, ma non si tratta di una vera scelta di vita. Si tratta solo di non stare mani in mano in attesa dei 45-50 anni, quando finalmente entrerete in possesso del vostro ammortizzatore sociale, l'eredità di mamma e babbo. Se nel frattempo il babbo si è risposato con una tailandese – o la mamma è scappata con un nigeriano – o se entrambi, seriamente preoccupati per il vostro futuro si sono fatti convincere a comprare un bel pacco di bond argentini – sono un po' cazzi vostri, il vongole-welfare-state non può prevedere ogni cosa.

I giovani che si lamentano? I giovani che si lamentano sono quelli che non hanno capito il bello del sistema, che la vita comincia a 25 anni, quando hai ancora davanti a te 20 anni di allegra improvvisazione professionale. Ma pensa solo quanti uffici cambierai, quanti contratti, quanti TFR, quanti incontri con chissà quante commercialiste simpatiche e disponibili, e poi da cosa nasce cosa. Oppure sono i figli dei perdenti, quelli che non hanno nessuna villetta da parte: "i figli degli operai" che, come disse lucidamente il mai abbastanza compianto premier uscente, la sinistra vorrebbe mescolare ai "figli dei professionisti", probabilmente per creare un orrido ibrido antropomorfo trinariciuto.

I giovani che si lamentano di solito si scontrano con un muretto dialettico di di quaranta-cinquantenni opinionisti che li irride: ma come? Volete il posto fisso? La pappa pronta? Boulot-metro-dodo? Dove sono finiti gli ideali libertari della nostra generazione, l'immaginazione al potere vietato vietare e bla bla bla? Prego di notare un paio di dettagli:

(1) questi opinionisti sono, appunto, quaranta-cinquantenni: vale a dire che hanno appena ereditato. Se hanno mai nutrito serie preoccupazioni sul loro avvenire, le hanno appena dimenticate. Se è andata bene a loro, perché non dovrebbero svoltare pure i figli? Il pensiero che una certa fase di espansione economica (quella del trentennio che i francesi chiamano "les trois glorieuses": '50–'60–'70) sia definitivamente terminata – e che quindi i figli possano trovarsi in congiunture nettamente più sfavorevoli – non li attraversa nemmeno per sbaglio.
(2) questi opinionisti sono, di solito, giornalisti (= appartenenti a una casta professionale delle più protette al mondo) e spesso nemmeno freelance. Mi piacerebbe vederli, un bel giorno, ricevere la notizia che il giornale intende licenziarli il 30 luglio e riassumerli in settembre, senza pagare ferie, perché così si risparmiano un bel po' di soldi; e poi pensavamo di ri-licenziarti a Natale, e anche tra Pasqua e il primo maggio, ti fai un bel ponte, e puoi sempre chiedere un sussidio disoccupazione.
"Ma chi mi garantisce che mi riassumete?"
"Eh, che domande! Vuoi il posto fisso? Dove sono finiti gli ideali libertari della tua generazione?"

I giovani che si lamentano vorrebbero essere adulti, in un mondo che di adulti non ha molto bisogno.
– Ha bisogno di vecchi, che tengano al sicuro i beni-rifugio (case); vecchi impauriti che ogni cinque anni votino per la sicurezza e la legalità.
– Ha bisogno di stranieri, senza troppi diritti, che facciano il lavoro duro senza complimenti.
– Ha bisogno di giovinastri dediti al consumo di tutte le merci necessarie.

La legge 30, che qualcuno chiama Biagi, va più o meno in questo senso. La legge 30 non prevede una generazione di ventenni o trentenni già adulti. Li tratta alla stregua di ragazzini, desiderosi di rimanere il più possibile in casa dei genitori. Ognuno, naturalmente, può raccontare la storia che preferisce, sulla legge 30. Io racconto la mia.

Si dia una ragazza A, che abita diciamo a 150 km. da un ragazzo B.
Poniamo che A e B vivano in un mondo di comunicazioni istantanee, un mondo dove non è difficile anche a persone lontane incontrarsi e piacersi, e percorrere più volte in un mese il percorso da 150 km., finché detto percorso non viene a noia, il prezzo della benzina continua a salire (i treni locali sono improponibili) e alcuni orologi biologici stanno scampanando da un pezzo.

A questo punto, in un Paese qualsiasi, A e B dovrebbero mettersi d'accordo su un posto dove vivere. Non ha senso che entrambi abbandonino il posto di lavoro: dunque sarà uno solo a rinunciare. Mettiamo che sia la ragazza A.
A questo punto vi aspettereste che la legge 30, che qualcuno chiama Biagi, intervenga per aiutarla: abbandonare un posto fisso per amore, non è il massimo della flessibilità? E non ci piacciono tanto, i ragazzi flessibili?

Sbagliato. Alla legge 30, che qualcuno chiama Biagi, piacciono i ragazzi flessibili finché stanno a casa dei genitori. Se la ragazza A decide di abbandonare il suo lavoro, non ha diritto a nessun sussidio di disoccupazione, neanche per un mese, niente. Perché non è stata licenziata: se n'è andata lei volontariamente. Non per giusta causa, ma per amore – ergo, non ha diritto a un euro. L'aiuteranno i genitori, non hanno un tesoro da parte i genitori? Ah, non ce l'hanno? Si accomodi allora nell'ufficio interinale più vicino alla dimora del fidanzato, e si attacchi alla svelta al primo cocoprò. Svelta! Che il tempo è denaro.

Secondo voi lo farà? Rinuncerà a un posto fisso da millecinquecento euro più benefits per farsi un bel salto nel buio? Per amore? O se ne resterà a casa dai suoi, in attesa di un amore che richieda meno flessibilità?

Io lo so che tutto questo può sembrare buffo, a chi non c'è dentro. Se l'amore c'è, il lavoro, prima o poi si trova; pazienza se è interinale. Quel che vi posso dire è che una cosa è raccontarle, le storie. Siamo tutti Harrison Ford, quando le raccontiamo.
Un'altra cosa è viverle. Quel salto nel buio, è un salto vero. Magari non è così in alto, e il buio non è così buio: ma il salto c'è, e forse voi non lo fareste.

Oppure l'avete fatto, un salto simile, e vi stimo. Ma non ce l'ho con chi non ce l'ha fatta. Ce l'ho con chi non si è mai trovato davanti a una scelta così, e tuttavia ne parla, ne discute, pretende di giudicare una generazione di precari controvoglia. Ce l'ho con chi discute sui giornali perché, storia vecchia, in Italia scrivere sui giornali è roba da privilegiati – e ogni discorso da privilegiati suona falso: sia gli snob che scambiano il precariato per la bohème, sia i pauperisti di chi dice "non ce la fanno ad arrivare a fine mese". Io, per esempio, ce la faccio.
Fino a giugno. Poi da settembre. Nel mezzo m'inventerò qualcosa, finché c'è amore non mi manca il resto.
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- 2025

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Il mondo senza control-zeta - il corollario dei seminaristi

Caro Leonardo,
nulla da segnalare. Come previsto, la fase di smania bellica è finita. Finite le risse al supermercato, finite le ronde, finiti i discorsi alla "niente sarà come prima". Stavolta è durata una settimana: non male, non male.
Per il resto, sembrano anni che siamo in guerra con la Libia: e in effetti sono anni che siamo laggiù in missione di pace. La sostanziale differenza è che ora siamo 'sotto attacco' da parte di fantomatici terroristi, e così, per misura cautelare, siamo passati ai razionamenti. Il razionamento energetico, in particolare, è un colpo di genio: da quando ci staccano la corrente all'una del pomeriggio non abbiamo più avuto blecaut.
Senza corrente, d'altro canto, è molto difficile lavorare. Antonio-Abate ha recuperato non so dove un paio di Olivetti, e pretende di farci scrivere i testi su quella roba. Impossibile. E' come la bicicletta: o impari da bambino, o niente. Soprattutto, è impossibile imparare quando sai già guidare un'auto a motore. Si aggiunga che non si trova più un solo millilitro di bianchetto in tutto il Teopop...

"Ma insomma come cazzo si fa il control-zeta, porcaput…"
"Su queste macchine da scrivere non c'è il control-zeta, Loreto".
"Non ci posso credere. Come si può essere così cretini da progettare una macchina senza uno straccio di…"

Loreto è cresciuto in un mondo in cui il control-zeta non è un semplice comando: è un'istituzione, una metafora della società. Come per me il semaforo rosso, credo. Ogni volta che vedo qualcosa che non devo fare, dentro di me si accende un semaforo rosso. Potenza dei simboli.
Allo stesso modo, ogni volta che fa una cazzata Loreto pensa "control-zeta". Qualche volta gli funziona, altre volte no. Col tempo si accorgerà che funziona sempre meno, ma è inutile farglielo pesare adesso.
"Cos'è che stai battendo, fammi vedere".
"Fatti i cazzi tuoi".
Una risposta così netta, nel Teopop, significa "sto bislavorando", ovvero: Non sto facendo la cosa per cui mi pagano in questo ufficio, bensì una cosa per cui mi pagano in un altro ufficio, così riesco a farmi pagare due volte la stessa unità di tempo; per favore, non immischiarti.
Io adoro bislavorare e immischiarmi nel bislavoro degli altri. "Da' qua, vediamo".

Autore: Lorreto
Oggeto: Testo per strisia tg sul lotto, numeri ritradatari, 31/1/2025


"Un'altra cosa, Loreto. Queste macchine non hanno nemmeno il controllo ortografico".
"Il che?"
"Quel software che ti corregge gli errori mentre scrivi".
"Mai usato".
"Ah no?"
"Tanto io errori ne faccio così pochi".
"Lasciamo perdere. È bislavoro per la redazione del tg, immagino".
"Immagina quel che vuoi".

Da quando la Conferensa Episcoppale a reintrodoto il giuoco del Loto, questo giuoco ha subito ripreso riconcuistato l'entusiasmo la passione l'e mozioni i favori del grande publico, che subito si è meso con grande entusiasmo a giuocare al loto (qui io ci metterei una sciena di due veccqine in una riccevitoria), in questo modo contribbuendo al rifinaniznz finanziamento delle kasse del Teopop, a lode e gloria del Signore Ns ecc.

Sopratuto l'attenzione dei giocatori piu incaliti si e' concentrata sui numeri ritardati ritardatrari, cioe' quei numeri che e' da piu' tempo ke non vengono sortegiati. Nele ultime setimane, in partixcolare, molti anno giuocato il 52 sula ruota di Sanmarco (riprese di schedine del loto con bene in evidenza il 52 IMP0RTANTE SI DEVE VEDERE BENE IL NUMER0!!!).
A diferenza di quelli che giuocano i numeri che si sono sognati, o pagano i maghi, tutte ridicole superstitioni, chi giuoca il 52, e' convinto di applicare a suo favore una legge scientifica, e cioe' la legge dei grandi numeri, secondo la cui il 52 prima o poi deve uscire, anche se potrebero passare in realta molti anni prima, ma questo il 52 non lo sa. Insomma, giocare il 52, sembra essere diventata una mania, ma giocando il 52 molte persone anno perso i loro soldi, per cui chi gioca il 52 lo fa a suo riskio e pericolo: noi consigliamo tutti: non GIOCATE IL 52! Certo, chi giocherebbe il 52, se il 52 davvero esce, guadagnerebbe TANTISSIMI DENARI COL 52!, ma non e' così facile come sembra, VINCERE COL 52. Per quets


"Lasciami indovinare: le frasi sottolineate vanno lette…"
"Con una certa enfasi, sì".
"Ma fammi capire: ti paga il Reparto Cronaca o il progetto Giochi d'Azzardo?"
"Io, veramente…"
"…stai cercando di farti pagare da entrambi. Bravo bravo".
"Mi sono ispirato ai giornali che stiamo leggendo qui, quelli di vent'anni fa. Ho visto che facevano la stessa cosa con un altro numero. Ho solo adattato allo stile giornalistico di oggi, che è, come dire…"
"Più spigliato. Buono, Loreto. A tuo modo, stai applicando il corollario dei Seminaristi".
"Eh?"
"Niente, un corollario della Prima Legge dell'Attenzione che scoprì Arci da giovane, studiando in un collegio di salesiani. A un certo punto si rese conto che ogni qualvolta un sacerdote teneva un'omelia sulle insidie della carne, la probabilità di avere una polluzione notturna aumentava drasticam".
"Ma questo cosa…"
"Per osservare la cosa in modo scientifico, decise di monitorare le polluzioni di tutta la sua camerata, che volentieri si sottopose all'osservazione sperimentale. E così Arci riuscì a dimostrare il principio dell'attenzione selettiva: ognuno di noi trattiene, di un discorso, soltanto alcune cose. I suoi compagni, ad esempio, trattenevano il concetto "carne" ed eliminavano il concetto "insidie". Allo stesso modo, c'è chi trattiene i nomi ed elimina gli avverbi, chi trattiene il significante ed elimina il significato, chi trattiene quel che vuol sentire ed elimina il resto, eccetera. E c'è anche chi trattiene i numeri e non ascolta tutto il resto. Guardacaso, è proprio quel tipo di persone in grado di giocarsi l'affitto al lotto".
"Quindi secondo te può funzionare".
"Sì, sì, funziona sempre. Basta ripetere lo stesso numero ossessivamente, tirare in ballo qualche fumosa teoria scientifica… fossi in te, aggiungerei ancora un paio di giri di parole".
"Ma devo anche montarci delle immagini".
"Cerca di farci entrare più immagini di 52 possibile. Targhe, numeri civici, titoli di giornale, va tutto bene. E qualche spunto dalla smorfia. Cos'è il 52 nella smorfia, hai controllato?"
"Varie cose. La mamma, l'abbaino, la bicicletta…"
"Perfetto, inquadra una mamma… anzi, no, una bicicletta…, aggiungi ancora un paio di "non giocate il 52", e direi che siamo a posto. Però, fossi in te ribatterei tutto quanto".
"No, non ce la posso fare".
"Te la faccio io, da' qua".
"Sul serio?"
"Sul serio. Prendo il settanta per cento".
"Sei scemo ".
"Hai ragione: te la riscrivo e te la batto e ti regalo il trenta per cento. Sono uno scemo davvero".
"Cinquanta. Ma non ti vergogni a speculare sul fatto che non so usare queste macchine del…"
"Vergognati tu, a speculare sull'attenzione selettiva dei poveri cretini. Sessanta".
"Oh, fottiti, d'accordo".
"È un piacere lavorare per te, Loreto".
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- 2025

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Il muro di cristallo

Caro Leonardo,
in questi giorni non ti ho scritto molto. Casini. Superlavoro. Ecco, volevo parlarti un poco del lavoro che faccio.
Beh, è tanto e vario. La sera, se c’è luce, correggo le bozze per un paio di riviste Supernet. Al mattino sono titolare precario della cattedra di narrativa ucronica – un bel lavoro, non credo che me lo pagheranno. E al pomeriggio sono qui, al Progetto Duemila.
Il progetto è… mah, temevo peggio. Quando arrivai ero convinto che facesse parte della punizione. Ma adesso credo che abbiano davvero bisogno di me. Al campo di rieducazione hanno scoperto che ho memoria, e questa per loro è una risorsa importante. (Per la verità, a me non pare di avere tutta questa memoria, adesso. Più di chiunq altro in circolazione, questo sì. Ma non così tanta, in senso assoluto).
Il Progetto Duemila non è niente di che, in sostanza è la rielaborazione Supernet di un programma tv che è sempre esistito – ricordo di averne visto qualche puntata da ragazzino, al tempo si chiamava “20 anni dopo”. Segno che i Cicli Nostalgici esistevano, e venivano adoperati, anche prima che Arci li osservasse scientificamente e ci costruisse la famosa teoria dei cristalli.

La famosa teoria dei cristalli – un'altra volta mi piacerebbe discuterne con te in senso generale. Io non è che ci abbia capito mai molto, però ho collaborato con Arci in quel periodo, lui mi faceva molti test, mi metteva un casco in testa, cose così. Per cui mi sento in qualche modo responsabile.
Comunq l’essenziale, al fine del Progetto Duemila, è solo laparte di teoria in cui si studiano le cause e gli effetti della Nostalgia.
Arci scoprì che si trattava di un fenomeno molto simile al sonno, che come il sonno seguiva precisi cicli fisiologici. Lui partiva dall'assunto che il Passato è perso per sempre, e che ne conserviamo in memoria soltanto alcuni frammenti più o meno casuali, proprio come ci succede di ricordare solo una minima parte dei sogni che facciamo la mattina.
Successivam, noi trasformiamo questi frammenti in una narrazione: li montiamo, come in un film, gli diamo un senso. Tutto questo, nel caso dei sogni, accade nei primi minuti successivi al risveglio; invece i ricordi prendono molto più tempo: mesi, e a volte anche anni. Arci scoprì che c'era un limite massimo entro il quale un 'frammento di passato' poteva essere riutilizzato, montato all'interno di una narrazione e trasformato in un vero e proprio 'ricordo': e questo limite, guarda un po', erano proprio i 20 anni. (20 anni e 47 gg., vabbè). Questa soglia è stata poi chiamata "Muro di Cristallo": un'espressione impropria per dire che dopo i vent'anni i ricordi si cristallizzano, prendono la loro forma definitiva. I frammenti che non si cristallizzano entro i 20 anni si perdono, vengono definitivamente evacuati dalla memoria. E questo spiegava un sacco di cose.
Per esempio, spiegava perché negli anni Sessanta molte persone sognassero di vivere negli anni Quaranta, rifare le brigate partigiane eccetera, e perché negli anni Ottanta la gente non facesse che cantare canzoni degli anni Sessanta, disprezzando quelle che uscivano in quel momento, che naturalm furono rivalutate e tornarono di gran moda nelle discoteche vent’anni dopo. E così via. Arci aveva capito che le persone vivono due dimensioni temporali diverse: mentre agiscono nel presente, nel loro cervello stanno ricostruendo il Passato. C'è un intervallo di 20 anni e 47 gg. in cui il passato è ancora magmatico, informe, solo parzialmente cristallizzato, e ognuno può rimodellarlo un po' come vuole: dopodiché, fine: il Sogno è costruito, il Ricordo è completo, il Tempo Perduto è Ritrovato, e non c'è più niente da fare.
Grazie ad Arci, il Teopop aveva gli strumenti scientifici per interpretare il fenomeno. Rimaneva da capire come usarlo.

Su questo, ovviam, il Teopop si divise. Secondo Defarge la Nostalgia non era un bel lavoro, essa impediva ai cittadini di vivere con pienezza il presente. Ci scrisse anche un’enciclica, dal titolo “Compagni, la Nostalgia non è un bel lavoro!”
Secondo altri, la Nostalgia poteva sempre servire, ed era meglio che servisse al Teopop. Così fu delegata una commissione, che propose un programma, il quale prevedeva l’istituzione di un comitato che supervisionasse un progetto – il progetto Duemila. Si chiama così perché è stato fondato nel 2020, con lo scopo di "assistere i cittadini affinché la ricostruzione mentale dell'anno 2000 sia la più oggettiva e la meno turbativa dell'Ordine Pubblico possibile, a maggior lode e gloria di Nostro Signore Onnipotente, amen". Dopo il Duemila ci fu il Duemila E Uno, il Due, il Tre, il Quattro, e adesso stiamo iniziando il Cinque. In pratica ci muoviamo a ridosso del Muro di Cristallo: ogni settimana ripeschiamo avvenimenti, filmati, foto di vent'anni fa, ci costruiamo un programma e lo mandiamo in prima serata sulla terza rete Supernet. La gente lo guarda, e pensa: "Toh, vent'anni fa eravamo proprio così", e in un qualche modo riadatta i suoi ricordi a quelli che abbiamo proposto noi. Nel giro di poche settimane quel riadattamento si cristallizza definitivamente, e i frammenti indesiderati vengono evacuati. E anche il 2005 "è Passato". Fine.

Un lavoro molto creativo, a raccontartelo.
Un gran paio di palle, certi lunedì mattina.
Ma di questo ti parlo un'altra volta. Alla prossima. Mac.
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Tempo rubato

Caro Sindbad,

mi chiedi dove trovo il tempo, anzi, a chi lo rubo.

Io di solito preferisco calcolare quello che il blog mi ha dato, non quello che mi ha tolto. Ma non posso fingere che esistano voci in perdita: il tempo, prima di tutto. Un sacco di tempo perso, che avrei potuto usare per… per cosa? Vediamo.

– Guardare la tv: in effetti non ne guardo quasi più, da due anni in qua. E credo che sia un bene, visto che si tratta di tv italiana. Ho anche smesso di credere nel talkshow come forma di produzione di senso. (Ero scettico già da prima).
– Uscire di casa, andare a bere delle cose e vedere gente in posti pieni di fumo e casino. Una serie di attività sociali che i maschi tra venti e trentacinque anni compiono con scarsa convinzione, e inconfessata speranza che qualcuno finalmente se li fili. Problema risolto (grazie al blog…).
– Scrivere poesie, racconti, lunghe mail ad amici imbarazzati, e tutta quella letteratura personale che nessuno, comunque, si filava (mentre invece il blog un suo pubblico lo ha trovato).
– Suonare la chitarra. In effetti è da un sacco che non la tiro fuori. Addirittura il basso l’ho prestato e non mi ricordo più a chi. Da non credere.
– Dormire. Sì, forse dovrei dormire di più.

Come vedi, la maggior parte del tempo che il blog mi ha succhiato è tempo libero. E attenzione: non ha smesso di essere tempo libero. Prima mi divertivo (o cercavo di divertirmi) guardando la tv, uscendo di casa, etc. Oggi mi diverto (o cerco di divertirmi) gestendo un blog. Il blog è il mio gioco preferito. Ma secondo te io lo sto trasformando in un mestiere.

in fondo esiste in tutti i blogger un punto di non ritorno, un momento in cui il senso ludico del blog perde la sua forza e si trasforma in professione …lavoro…sudore

Non so se hai ragione, ma in questi anni ho fatto caso ad alcune cose:

– Io non voglio fare soldi con quello che scrivo. Non con quello che scrivo qui. Ma non ho niente contro chi ci riesce.
A volte ci ho anche provato anch’io, e mi è successo questo: i piedi cominciavano a ballare sotto il tavolo, la fronte avvampava, e la pelle mi si copriva di chiazze rosse. Giuro. Quindi ho pensato di trovarmi un altro mestiere. Forse devo ancora trovarlo, ma nel mio curriculum non metterò mai questo sito. Questo è un gioco, davvero. Nel puro senso del termine.

– Questo gioco ha avuto, sin dall’inizio, una componente maniacale. Questo non è affatto strano. È una cosa che succede a molti maschietti: se hanno a disposizione uno spazio libero, amano strutturarlo, darsi delle regole come sei si trattasse di un’attività professionale, o peggio (ho trovato anche qualche esempio: Clutcher, Gaspar). Perché facciamo così? Credo che si tratti di una specie di fobia del vuoto. A certe persone l’ozio dà l’angoscia: hanno bisogno di organizzarlo, trasformarlo in qualcosa di quantificabile e rassicurante. Io sono fatto così. Per esempio: per me è importante postare cinque volte alla settimana. È una specie di regola auto-imposta. Un’altra regola, è che dovrei sempre cercare di interessare lettori nuovi. Per questo motivo guardo spesso il contatore. Quando va bene, sono contento. Quando va male, mi chiedo perché. Ma me lo chiedevo già nell’autunno del 2001, quando gli accessi scesero da trenta a venti al giorno. Il contatore ha fatto subito parte del gioco. In realtà non so quanta gente mi legge: ma so che, grosso modo, ogni tanto il numero di lettori aumenta, e ogni tanto diminuisce. E in ogni caso, non è mai stato un numero particolarmente alto (il contatore mi serve anche per restare coi piedi per terra)

– C’è una componente esistenziale da non sottovalutare: io sono precario. Negli ultimi tre anni ho cambiato parecchie cose: mestiere (più volte), abitazione, eccetera. In mezzo a tanto caos, il blog è restato una delle cose più stabili. E allora forse io ho bisogno di un blog che somiglia a una “professione” perché le mie vere “professioni” assomigliano a tanti hobby: le faccio per un po’ di mesi, imparo quel che c’è da sapere, e poi passo ad altro. Alla lunga la cosa dà anche un vago senso d’angoscia. Ma so che la sera posso sempre scrivere qualcosa sul solito blog. È una delle poche certezze: cerco di coltivarla.

– Non è sempre divertente avere un blog, non sempre quello che scrivo mi piace (figurarsi se piace ad altri). Ma per me scrivere è importante. Non come professione: come libertà. Quando scrivo mi sento libero. Non so se sono libero davvero, ma sento la mia libertà. E ho questa idea (paranoide?) che sia una libertà da difendere coi denti. Se lunedì non scrivessi, non succederebbe niente di particolare. Ma martedì sarebbe più difficile rimettersi a scrivere. Il silenzio, la stanchezza, sono sempre in agguato. Ma se perdo la voglia di scrivere, per me è finita.

Devo lottare. Non solo per avere, tutti i giorni, un lavoro dignitoso: ma anche per avere, tutte le sere, uno spazio di libertà: senza il quale non avrebbe senso tirare a campare. Scrivere è il modo in cui mi respira il cervello. Ma è anche la mia stanza dei giochi privata. Ma è anche la mia libertà.

Naturalmente io so che non posso resistere più di tanto. Un giorno succederà: un giorno non avrò più niente da dire, oppure non avrò tempo per dirlo perché nella mia giornata non ci sarà più spazio per il gioco. Quel giorno comincerò ad arrendermi. Ma deve passare ancora un po’ di tempo, spero.
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Una buona giornata (fin qui)

(Fatti miei, ma più miei del solito)

Diciamo onestamente che oggi:
- Per essermi alzato di scatto alla prima sveglia, ore 6.00, e sì che non avevo dormito parecchio;
- per aver usato correttamente l'antigelo e preso le precauzioni atte a un lungo viaggio in macchina;
- per aver tenuto a bada 25 monelli con un paio di ore diciamo passabili sul feudalesimo (più altre cinque ragazzine di un'altra classe che passavano di lì perché adesso se manca un prof si usa così);
- perché dopo 40 km. di viaggio ho telefonato a un ufficio di Bologna e ho chiesto "Potrebbe per favore dare un'occhiata alla bacheca, che è importante?" e sentendomi rispondere: "no, non posso", e senza batter ciglio ne ho dovuti aggiungere altri 80, ma tranquillamente, rispettando dove possibile il codice della strada e tenendomi aggiornato coi notiziari;
- per aver parlato in maniera breve ed efficace con due docenti spiegando la mia complicata situazione con meno untuosità del solito, e per aver non dico risolto il problema, ma dato l'impressione di affrontarlo da persona adulta, responsabile, eccetera;
- per aver incontrato una vecchia amica di amici e non aver fatto brutta figura, addirittura mi sono ricordato che si era sposata, e questo non è da me;
- per essere arrivato a casa, dopo tutto questo, era solo l'una e mezza del pomeriggio;
- per essermi messo senza troppo indugio a lavorare, e per aver fatto dieci dignitose cartelle nel giro di mezzanotte, senza mancare di rispetto alle persone che vivono con me e che forse qualcosa più del rispetto meriterebbero;
- perché naturalmente mi hai telefonato e io ho trovato argomenti per mantenere la conversazione per 15 minuti, 15 minuti di dolcissima funzione fàtica;
- perché, senza dar troppo nell'occhio, sono riuscito anche a divertirmi un po', e con poco;

ecco, per tutta questa serie di motivi mi sembra di poter concludere che ho avuto una buona giornata, e che se riuscissi ad averne altre, la mia vita sarebbe non dico normale, ma dignitosa.

E allora perché sono qui come un pirla alle 2 e 41 del mattino con 5 finestre accese ( il Manifesto, la discografia dei Beatles, Informazionecorretta, un comunicato Attac su Parmalat, e altre cose che non so perché sono andato a cercare?).

Ah, ma è il blog, naturalmente. Alle tre meno un quarto non so ancora di cosa scrivere.
Domani arriverò al lavoro con un'incudine in testa, e una gran voglia di tirarla a qualcuno.

Beh, fa lo stesso, tanto ho solo un'ora, ne approfitto torno a casa e metto a posto la recensione, poi chiamo Bologna per sapere se la talcosa è compatibile con la talaltra, poi faccio altre dieci cartelle e rivedo quelle di ieri che devono fare schifo, poi mi accascio sul pavimento, poi...
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Lavoratori? Prrrrrrrrrrrrr!

Se penso a Sordi la prima cosa che mi viene in mente non sono i titoli dei suoi film, ma le qualifiche professionali. Sordi è stato vigile urbano, tassinaro, medico della mutua, primario, magistrato, presentatore, impiegato dell'ufficio pensioni, cabarettista, commesso viaggiatore, imprenditore televisivo, e l'elenco potreste continuarlo voi. Da un film all'altro la faccia e la voce (la voce di Oliver Hardy) non cambiavano: quello che cambiava era il mestiere.
Sordi ha indossato tutti gli abiti di lavoro della società del boom, e ha raccontato con partecipazione, e senza pietà, l'età magica in cui i mestieri si inventavano, le fabbriche si aprivano, i servizi arrivavano anche nei centri minori, e un'uniforme, una casacca, un camice bianco avevano il potere di trasformare un ragazzino in un uomo. E di prendergli la mano: è questa in fondo l'eterna trama di tanti "film di Alberto Sordi": un giovane ingenuo e un po' idealista trova un lavoro, crede di realizzarsi, ma progressivamente il lavoro prende il sopravvento su di lui, svuota i suoi ideali, lo spersonalizza. Il medico della mutua diventa una macchina di certificati, il magistrato inquisisce tutti fino a diventare inquisito, eccetera.

Per questo non posso dire che mi mancherà, Alberto Sordi, per il triste motivo che mi mancava (ci mancava) già da tanto: dopo essere stato il ritratto dell'italiano al lavoro, l'età gli imponeva ruoli da pensionato che facevano tristezza a noi e probabilmente anche a lui.
Nessuno ha veramente preso il suo posto: la "storia dell'italiano del Novecento attraverso i mestieri" sembra essere finita con lui. Che mestiere fanno i protagonisti dei film di oggi? E' difficile dirlo. Per esempio, avete capito che lavoro fa esattamente il protagonista dell'ultimo film di Muccino? Nell'ultimo di Bellocchio c'è un pittore, nell'ormai penultimo di Salvatores ("Denti") un professore (di che?). In quello di Calopresti un architetto: ma hanno l'aria di semplici pretesti, quello che conta è un metafisico male di vivere che ha poco a che vedere con l'orario di lavoro. Segno che il lavoro non è più il pretesto per vivere, per cercare di realizzarsi o di dannarsi. E' un semplice contorno, la vita è altrove.
E poi è sempre più difficile capire i lavori che facciamo: mentre in testa abbiamo ancora le categorie dei film di Alberto Sordi (vigile urbano, impiegato, muratore, ecc.), nella pratica nemmeno noi spesso conosciamo la nostra qualifica professionale; se qualcuno ce lo chiede abbiamo grosse difficoltà a trovare un nome al nostro mestiere. Siamo collaboratori, consulenti, bit-worker, operatori, cococò... "sarebbe a dì?", direbbe lui. Un volto che riesca a interpretare le nostre professioni non esiste ancora, e forse non esisterà mai. (E intanto, ai piani inferiori, c'è una folla di gente che continua a fare gli stessi lavori degli anni '50: fornai, camerieri, saldatori... ma non parla la nostra lingua, non ha la nostra pelle, e forse al cinema non ci va; certo non per vedere un film italiano).


Ma che, s'ammazza una persona così? Ahò! Ma che siete matti?

E' la famosa battuta della Grande Guerra, detta da Sordi al colmo della disperazione, quando gli fucilano il compare. E' una frase simbolica: sì, d'accordo, denuncia gli orrori della guerra, ma nel suo contesto è quasi surreale: e infatti il graduato che lo sta interrogando ribatte, con accento tedesco: "E allora?"
I tedeschi, gli austriaci (ma anche gli americani, gli inglesi, i cinesi, gli slovacchi) sanno bene che in guerra le persone s'ammazzano così. Alberto Sordi, no. Lui fa la faccia stupita. Lui fino a qualche minuto prima credeva di essere nella solita commedia all'italiana. E invece era alla prima Guerra Mondiale.

E anche questo è tipico, davvero tipico italiano. Viene da pensare al Ministro Martino, che crede (o vuol farci credere) che gli alpini vadano in Afganistan per aiutare le vecchine ad attraversare la strada (possibilmente senza burqa). Viene da pensare all'incredulità di tanti, che sono persino disposti a sdraiarsi sulle rotaie, ma in forma simbolica, perché per loro è impossibile, i m p o s s i b i l e che le armi passino proprio di lì. Perché non esistono le armi in Italia. Perché non si fanno le guerre in Italia. Perché in Italia siamo tutti brava gente, magari distruggiamo gli stadi, ma mai e poi mai potremmo bombardare o invadere un altro Paese, e magari torturare i prigionieri. Queste cose le fanno gli altri (anche i nostri alleati), ma noi no. Ahò! Ma che, siamo matti?

E allora rendiamo a Sordi quel che è di Sordi: tra i tanti mestieri, negli anni Settanta, aveva voluto essere anche un mercante d'armi, in un film dal titolo eloquente: Finché c'è guerra, c'è speranza. L'industria delle armi è una delle più importanti, in Italia, ma se ne parla poco. Al cinema, a parte Sordi, non se ne parla proprio. Armi noi? Aho! Ma che, siamo matti? Noi siamo brava gente.


Comandante, è successa una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani!

Il mio Sordi preferito è quello di Tutti a casa di Comencini, un sottotenente che l'otto settembre cerca di salvare la pelle e, potendo, anche un minimo di dignità. Tiene molto, come al solito, alla sua casacca: se incontra dei sottoposti non perde l'occasione per far notare la sua superiorità di sottotenente. Ed è convinto che la guerra sia finita, semplicemente perché non si fanno guerre in Italia, ahò. Non crede a quel che vede: si ostina a percorrere l'Italia a ritroso, a tornare alla casa, all'infanzia, alla famiglia. Ma la famiglia non c'è più, c'è solo suo padre (Edoardo De Filippo!), che per un pugno di lire lo consegna alla Milizia.
Eppure non è del tutto uno stupido: e quello stesso, maniacale attaccamento alla sua pelle alla fine lo salva. Certo, ne deve fare di strada, per ritrovarsi a Napoli nel bel mezzo dell'insurrezione. E i tedeschi gli devono uccidere anche l'ultimo compagno per fargli capire che c'è una guerra, e che il fronte passa proprio su di lui. Però alla fine capisce, e si mette al pezzo d'artiglieria, non solo perché è un italiano, ma perché quello è il suo mestiere.
Mi rendo conto che non è un esempio di coerenza, per un blog pacifista, ricordare con affetto una scena in cui Alberto Sordi (non Clint Eastwood, non Steve McQueen: Alberto Sordi) imbraccia una mitragliatrice e cerca di stendere più tedeschi che può, però le cose stanno così. C'è un momento per fuggire e un momento per combattere; e poi ci sono gli italiani, che arrivano sempre un po' in ritardo, ma quanto sono simpatici, ahò. Ciao.
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L'associazione Going to Europe di Modena ricerca no.1 "operatori europei", per impiego apparentemente part-time di tutor di volontari europei e progettista di progetti di volontariato europeo, a partire dal settembre 2001.

Requisiti richiesti:
– Buona conoscenza del programma SVE (Servizio Volontario Europeo).
– Spiccata predisposizione ai rapporti impersonali.
– Conoscenza di alcune Lingue europee (Inglese almeno scritto)
– Essere automuniti è praticamente necessario. Essere internetmuniti è fortemente consigliato.
– Esperienze in realtà di volontariato.

Going to Europe è l'associazione dei ex volontari europei di Modena. Dall'anno scorso cura i progetti SVE in città, sia per quanto riguarda l'invio (giovani modenesi che soggiornano 6-12 mesi in uno dei Paesi dell'Unione) che nel settore accoglienza (giovani provenienti da Paesi dell'Unione che soggiornano 6 mesi nella nostra ridente città).
L'operatore richiesto dovrebbe lavorare nel settore accoglienza. Le sue due principali aree d'intervento sono:
1. Creazione di progetti di accoglienza a Modena. (Prendere dunque contatti con associazioni o enti locali interessati al programma SVE, e assolvere per loro a tutti gli aspetti burocratici e organizzativi, compreso il 'reclutamento' del volontario.
2. Tutoraggio dei volontari europei accolti a Modena.

Lavoro, come si vede, ce n'è, forse anche da tempo pieno. Ma il compenso è piuttosto da part-time. Gli interessati mi contattino pure – l'indirizzo è sempre qui di fianco.
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clicca sul cliccatoreProfessione cliccatore

Da un po' di tempo, quando qualcuno mi chiede "Che cosa fai" (per vivere, sottointeso), posso rispondere: "lavoro in un sito web", e per quindici secondi sono contento. Penso a quant'era complicato una volta dare una risposta.

("Ma tu adesso cosa fai?"
"Ma… mi occupo di progetti, diciamo".
"Progetti?"
"Sì, un progetto europeo".
"Ma in cosa consiste il tuo progetto?"
"Ecco… il mio progetto consiste nel formare un'associazione che organizzi altri progetti, sempre europei".
"Sembra tutto un po' vago".
"Mi rendo conto. Poi sbobino le conferenze. E ho corretto dei volantini naturalistici in primavera. Devo anche finire una guida turistica").

Tutto questo non vale il poter dire "lavoro in un sito web". Con questa semplice frase è possibile trasformarsi, almeno per quei quindici secondi, in una persona molto più interessante. Sono sulla cresta dell'onda, in piena new economy. Senz'altro sono un asso dei computer. E magari guadagno anche un fracco di soldi.
La verità è molto più squallida. Il mio mestiere è quello del cliccatore. L'operaio, il fattorino, il manovale del web. Con tutto il rispetto per queste professioni, dove almeno si esercita la massa muscolare. Tutto quello che il qui presente esercita, per nove-dieci ore al giorno, sono due dita della mano destra. Se lavorassi con un Macintosh, potrei anche venire in ditta con un dito solo.
Che dire? Non ho molta paura degli infortuni sul lavoro. In compenso tra dieci anni probabilmente i miei occhi saranno da buttare.
Non so programmare. Neanche una riga. Da bambino me la cavavo bene col basic del commodore, poi mi sono messo a suonare la chitarra e il Vic20 ha fatto le ragnatele. Che coglione. Adesso sono in balia dei programmatori. Ogni loro negligenza può significare diecimila cliccate in più per me, e i programmatori sanno essere molto negligenti.
In più, si vive col timore che venga il giorno in cui i computer saranno molto più intelligenti e compatibili fra loro, riducendo sensibilmente i diaframmi umani come me.
Non so se nel futuro quello dei cliccatori diventerà un vero e proprio ceto. Negli USA ci sono già degli studi al riguardo, non ricordo dove. In ogni caso si tratterà di un ceto posizionato molto in basso. Possiamo tranquillamente considerarli gli impiegati frustrati del futuro, quotidianamente alle prese con linguaggi che non conoscono, e che maneggiano alla benemeglio. Come i bambini che non sanno leggere, ma guardano le figure, e in un qualche modo se la cavano. Ogni giorno alle prese col dilemma: è troppo tardi per imparare a programmare o è troppo presto per fuggire in campagna?
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Sempre sul problema che La nostra cultura è costituita per gran parte da cose che in realtà non sappiamo, ma che ci comportiamo come se le sapessimo:

Sappiamo scrivere italiano?
Perché a scuola non si insegna come si mettono gli accenti? D’accordo, è una cretinata, ma proprio perché è una cretinata andrebbe imparata molto presto, e poi non ci sarebbe da pensarci più. Come le tabelline.
Sono stufo di correggere gli accenti ai docenti universitari… e poi mi confondo anch’io… ma insomma.
Oppure diciamolo, che tanto vale lasciar perdere e imparare sul serio l'inglese (o lo spagnolo).

Sappiamo parlare italiano?
In questi giorni il mio birignao modenese sta diventando una delle voci ufficiali del portale della Logos. Potrete sentirmi leggere, secondo le circostanze, notizie, favole e poesie.
Sì, e non mi vergogno.
Mah, forse dovrei.
Forse perché i miei datori di lavoro sono ispanofoni, e non se ne rendono conto… un modenese al microfono è una sinfonia di sibili, sputacchiate, con un vago sapor di strafottenza provinciale.
E siamo da capo: perché a scuola non insegnano dizione? Nella vita potrebbe tornare più utile che, poniamo, il latino.
Me per me è troppo tardi, e poi al diavolo, per-quel-che-mi-pagano. Continuerò a declamare e sputacchiare finché la pronuncia modenese non diventerà l’accento standard su internet, come il romanesco è lo standard in tv e il milanese lo standard in radio.
A's'vdam
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Il futuro è fattorino
Di questi tempi, quando ho il frigo vuoto, difficilmente trovo il tempo per andarlo a riempire. Non credo che in futuro le cose andranno meglio, per quanto riguarda il tempo; in compenso credo che sarà la tecnologia ad aiutarmi.
Infatti tra un paio d’anni, recessione permettendo, stimo di poter iniziare a fare la spesa on line. Andrò sul sito della coop (o della conad, a seconda dei prezzi, della grafica, delle politiche ambientali) e selezionerò i prodotti, invierò una mail, e un fattorino verrà a recapitarmi le sporte a casa (non sarà più umiliante abitare al terzo piano senza ascensore). Avrò così più tempo da dedicare al mio lavoro.
Rimarrà la fatica di controllare cosa manca nel frigo.
Ma tra cinque-sei anni, penso che anche questa fatica mi sarà evitata da un frigorifero intelligente che mi avverta da solo sulle scadenze delle merci, sulle carenze (se manca il latte), sulle eccedenze (troppi pomodori, poi vanno a male), sui gusti dei famigliari (le sottilette non vanno mai via), ecc.. Il frigorifero mi manderà una mail e io farò l’ordine ai fattorini. Avrò così più tempo da dedicare al mio lavoro.
Infine, tra meno di dieci anni, se non si sovrappongono crisi, calamità, pestilenze, se insomma la civiltà occidentale resiste, la tecnologia mi doterà di un frigorifero non solo intelligente, ma anche affidabile, il quale manderà direttamente le mail ai fattorini, senza chiedermi il permesso. Al massimo sarò io a chiedergli di tanto in tanto più o meno gelati, a seconda di come me la passo. Ma col tempo il frigorifero imparerà a conoscere i miei cicli e stati d’animo, non dovrò più dirgli nulla, arriverò a casa la sera con la cena già bella e recapitata dai fattorini, e avrò più tempo da dedicare al mio lavoro.
Il quale lavoro consisterà, se le mie previsioni non sono errate, nel fare il fattorino, sgobbando dodici ore al giorno per strada e su per le scale, a portare la spesa a un sacco di persone come me che non hanno il tempo di farla, perché anche loro fanno i fattorini.

(Questa forse è una metafora della nostra società postmoderna).
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Due libri e tre gravidanze
La storia dei miei concorsi è una storia di infinite umiliazioni.
L'università ti vizia, ti ammansisce con basse dosi di burocrazia, e soprattutto, quando non è a numero chiuso, t'illude che la quantità non sia un problema, mai: anzi, più si è, più gli esaminatori vorranno sbrigarsela con noi.
Malgrado avessi avuto a disposizione tutti gli elementi necessari a capirlo per tempo, devo ammettere che il risveglio è stato brusco. Sul mercato del lavoro i laureati in lettere valgono molto poco, perché sono troppi. Se si fa un concorso (posto che ci sia un motivo per farlo, a parte la campagna elettorale), essi parteciperanno a migliaia. Così il concorso durerà più di un anno (12 mesi esatti tra lo scritto e l'orale).
"Abbia pazienza", dicevo ieri per telefono a una signorina della sovrintendenza, "ma quel che ho scritto sulla domanda del '99 proprio non me lo ricordo. Voglio dire, per me un anno, un anno e mezzo è praticamente una vita. Ho scritto anche (petulante) un paio di articoli, e..."
"Sì, lo so, che avete tutti scritto due libri, e tre gravidanze, ma il problema è che siete in troppi, per cui se vuole provare a darmi il suo nome e cognome, io andrò a cercare..."
(Contrito)"La ringrazio, la ringrazio tanto..."
Non so esattamente di quanto, ma direi che una gravidanza valga molto di più di una pubblicazione, in termini di punteggio.
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