L'ultimo emiliano
06-09-2009, 21:27feste dell'unità, Pd, primarie 2009PermalinkProvare Bersani
Chi è cresciuto in Emilia, parzialmente assuefatto al mito del buongoverno locale, si è proposto almeno una volta nella vita il quesito: se siamo così bravi (e gli altri così scarsi), perché a Roma non ci andiamo mai? Forse allora non è vero che siamo così bravi? Forse siamo bravi come “amministratori” ma non come “politici”? Ma che differenza c'è, ce la spiegate? Perché se “amministrare” significa governare bene, e “politica” lotte per il potere, forse a Roma sarebbe meglio che ci andassero i bravi amministratori... o forse il problema è l'opposto: i nostri amministratori sono talmente bravi a lottare per le loro poltroncine locali da annullarsi a vicenda, perdendo il meglio della loro vita in congiure municipali e spianando la strada per Roma a latifondisti sardi, intellettuali della Magna Grecia, deputati di Gallipoli. Sia come sia, fino ai primi '90 i politici emiliani di caratura nazionale sono stati curiosamente rari. Se in seguito l'Emilia si è rifatta in modo clamoroso, è stato in massima parte con personaggi che alla lotta per le poltroncine non avevano potuto partecipare (e forse proprio per questo motivo erano 'costretti' a proiettarsi sulla scena nazionale): un'orda di cattolici (Casini, Giovanardi, Prodi, Franceschini) e persino un missino. Insomma non sarà quel paradiso del Buon Governo che molti credono, l'Emilia, ma è senza dubbio una delle migliori palestre per i politici; che pare aver giovato più al centrodestra che al centrosx.
Bersani è l'eccezione. Dovesse vincere le primarie (e dovrebbe), Bersani sarà il primo leader di centrosinistra a poter vantare il classico cursus honorum degli amministratori comunisti emiliani (proprio mentre nel frattempo l'Emilia rossa stinge): giovanissimo vicepresidente di comunità montana, consigliere e poi assessore a Piacenza, presidente di Regione, Ministro. Mentre lui saliva paziente tutti i gradini, sulla poltrona di segretario o di leader del suo schieramento si ritrovavano personaggi con minori esperienze e con storie del tutto diverse: penso a Prodi o Franceschini, ma anche a Rutelli. Questo per dire quanto sia radicata, anche se poco esplicitata, la dicotomia amministrazione-politica: a Roma ci vadano persone con belle facce (Rutelli), o belle idee (Veltroni), e se belle non si trovano che siano almeno facce e idee rassicuranti (Prodi); gli amministratori al massimo potranno ambire al ruolo di eminenze grigie; di estensori di decreti magari rivoluzionari sulla carta, che poi l'arietta romana si incaricherà di addolcire. Il vero salto della sua carriera è stato da burocrate locale a personaggio televisivo, ospite ideale di Ballarò più che di Vespa: il signore che a un certo punto della serata si mette a snocciolare i dati sull'economia e intorno si fa silenzio. Un anti-Tremonti, in fondo speculare al modello.
Ma Bersani, come Tremonti, sembrava l'eterno cardinale rassegnato a veder nominare i pontefici. Il gran rifiuto di partecipare alle primarie del 2007 ci impedì di assistere al vero scontro tra la politica romana dei grandi ideali (Veltroni) e l'amministrazione del potere (Bersani, con cricche dalemiane annesse e connesse). Sarebbe stato davvero un bel duello, ma Bersani lo avrebbe comunque perso, e allora a che pro? Con machiavellica rassegnazione i grandi burocrati Ds hanno lasciato che Veltroni bollisse nel suo brodo aromatico, e adesso si rifanno sotto. Con Bersani, grande amministratore con aura di tecnico e (not least) ultima faccia televisiva spendibile. Potrà anche sembrare una restaurazione, il ritorno del dalemismo, e in parte lo è, però... c'è qualcosa di più che non so spiegare in altri modi, insomma... Bersani è emiliano. Sarà anche un'astrazione geografica, ma ha un senso storico: mentre gli altri studiavano, lui amministrava. Quando si parla di grande scuola del PCI, si pensa sempre a quel certo plesso alle Frattocchie: c'è un equivoco. La vera scuola erano le sezioni locali, le circoscrizioni, i consigli e poi le giunte, con tutto il folklore annesso. Bersani non ha bisogno di improvvisarsi oggi cameriere alla festa dell'unità, perché gli spiedi li metteva su trent'anni fa: qualche giorno fa è stato a una festa padana e si è permesso di dire “Guardate che questa roba qui (mulinando l'indice) l'abbiamo inventata noi; e se chiedete al leader vostro alleato a che prezzo bisogna mettere uno spiedo per non rimetterci, lui non lo sa; io sì”. Un tipico sprazzo di orgoglio emiliano, versione passivo-aggressiva dell'arroganza lombarda (e meno male che avevo scritto che le regioni non esistono): “quello là” sarà anche bravo a metter su palazzine e televisioni, ma se gli chiedete quanto deve venire uno spiedo per non rimetterci, non lo sa.
“Mentre gli altri studiavano, lui amministrava”: ma sarà vero? Mentre lo intervistano scopro che Bersani è laureato (Veltroni e D'Alema no, per esempio), in filosofia, con una tesi, udite udite, di storia del Cristianesimo. Sarà anche solo un episodio nella vita di uno che poi ha fatto tutt'altro, ma me lo rende subito più simpatico. In un periodo in cui il cristianesimo è diventato un blocco compatto che si deve accettare o rifiutare in toto (magari sputandoci anche un po' sopra), mi trovo sempre più vicino a quelle poche persone che tra credere e non credere si sono accorti che c'era una terza dignitosissima scelta: studiare. Una settimana fa il candidato cosiddetto laico, Marino ha spiazzato qualcuno autodefinendosi cattolico. Bersani spiazza ulteriormente, rifiutando di rispondere alla domanda. Come? Un candidato che non vuole dirci se crede in Dio o no?
Me lo potevo immaginare ragioniere, Bersani, specializzato in qualche ramo di economia e commercio, o perché no, perito agrario; al limite ingegnere; invece salta fuori che l'unico candidato in grado di calcolare l'entità della manovra necessaria a muoverci dalle secche della crisi (19mila milioni, ma potrei sbagliarmi) si è laureato su Gregorio Magno. Quindi non vuole rispondere alla domanda su Dio: giusto, è come quando mi chiedono se il futurismo mi piace o no, che senso ha? Quando studi una cosa per anni ti rendi conto che è complicata, e che certe domande sono superficiali... (mr. Einstein, ma a lei questa relatività piace?) Invece di rispondere imbastisce un discorso che tramortisce una buona parte del pubblico: sono venuti apposta per applaudirlo (in più che per Franceschini) e alla fine risulteranno più freddi. La nostra concezione dell'umanità, spiega Bersani (a gente come me, che si aspettava dati sulla crisi e qualche battutina sul puttaniere), la nostra stessa idea di dignità umana, quel sentimento che ci fa provare un istintivo sdegno per le foto dei migranti respinti in mare, è il risultato di una civiltà che nasce col cristianesimo, e poi si biforca in varie direzioni, tra cui quella illuministica settecentesca. Ci sono altre culture, “più filosofiche”, come quella buddista, che dell'uomo hanno una concezione diversa. Diciamo che credono meno nell'individuo: e fa l'esempio della Politica del Figlio Unico. Pensavate che fosse un esempio limite di pianificazione comunista? No, spiega Bersani, “io ci sono stato, sapete: quando ne discutevano, una delle obiezioni principali era: ma un figlio solo verrà su viziato. Ora, una cosa del genere da noi sarebbe impensabile”. Laici o cattolici, noi abbiamo un'idea di individuo, che loro non hanno “e a quelli che insistono a dirci che certe cose non sono negoziabili [aborto, eutanasia, fecondazione], dico: continuate, continuate pure a non negoziare. Alla fine vi toccherà di prendervi ricette di gente che ha un'idea molto più diversa dalla vostra”.
Bersani continuerà a parlare per più di un'ora, e sarà bravo davvero: oltre a i contenuti, dimostrerà capacità retoriche non comuni, schiacciando a rete domande incerte palesemente improvvisate dall'intervistatrice. Ma sarà tutta discesa, almeno per me. Dopo aver parlato, con parole semplici, di dignità dell'uomo e di culture più o meno filosofiche, Bersani mi ha dimostrato alcune cose. Prima, di essere qualcosa di molto più del grigio burocrate che tiene la contabilità in seconda serata a Rai3: Bersani è un pensatore. Quello che pensa potrà essere discutibile – in fondo non siamo lontani dallo Scontro di civiltà huntingtoniano – ma visto da qui sembra davvero un pensiero: non un collages di aforismi celebri o un album di figurine; su certi problemi B. ha effettivamente meditato; le sintesi che proporrà saranno qualcosa di più di meri compromessi tra chi crede o no in un tale Dio. Seconda: è uno che questi pensieri non li tiene per sé, ma li offre a una platea che sì, è amica, ma forse si aspettava qualche lisciata al pelo in più. Il suo comizio mi ricorda quella scena del Gladiatore (film orribile) in cui Maximus scende nell'arena e decapita un paio di mirmidoni in pochi secondi: la gente non ha nemmeno il tempo per applaudire. È andata così: non si sono certo spelati le mani. Voteranno comunque per lui, sono modenesi diamine, ma hanno fatto un po' fatica a seguirlo. Che sia troppo bravo? La maledizione dei comunisti emiliani: si preparano, si preparano, per approdare preparatissimi in panchina. Bersani dovrebbe vincere le primarie con relativa facilità. Convincere gli italiani che dopo Berlusconi tocca a lui, e che bisogna tirarsi su le maniche e racimolare 19mila milioni o più, sembra ancora un altro paio di maniche.
Chi è cresciuto in Emilia, parzialmente assuefatto al mito del buongoverno locale, si è proposto almeno una volta nella vita il quesito: se siamo così bravi (e gli altri così scarsi), perché a Roma non ci andiamo mai? Forse allora non è vero che siamo così bravi? Forse siamo bravi come “amministratori” ma non come “politici”? Ma che differenza c'è, ce la spiegate? Perché se “amministrare” significa governare bene, e “politica” lotte per il potere, forse a Roma sarebbe meglio che ci andassero i bravi amministratori... o forse il problema è l'opposto: i nostri amministratori sono talmente bravi a lottare per le loro poltroncine locali da annullarsi a vicenda, perdendo il meglio della loro vita in congiure municipali e spianando la strada per Roma a latifondisti sardi, intellettuali della Magna Grecia, deputati di Gallipoli. Sia come sia, fino ai primi '90 i politici emiliani di caratura nazionale sono stati curiosamente rari. Se in seguito l'Emilia si è rifatta in modo clamoroso, è stato in massima parte con personaggi che alla lotta per le poltroncine non avevano potuto partecipare (e forse proprio per questo motivo erano 'costretti' a proiettarsi sulla scena nazionale): un'orda di cattolici (Casini, Giovanardi, Prodi, Franceschini) e persino un missino. Insomma non sarà quel paradiso del Buon Governo che molti credono, l'Emilia, ma è senza dubbio una delle migliori palestre per i politici; che pare aver giovato più al centrodestra che al centrosx.
Bersani è l'eccezione. Dovesse vincere le primarie (e dovrebbe), Bersani sarà il primo leader di centrosinistra a poter vantare il classico cursus honorum degli amministratori comunisti emiliani (proprio mentre nel frattempo l'Emilia rossa stinge): giovanissimo vicepresidente di comunità montana, consigliere e poi assessore a Piacenza, presidente di Regione, Ministro. Mentre lui saliva paziente tutti i gradini, sulla poltrona di segretario o di leader del suo schieramento si ritrovavano personaggi con minori esperienze e con storie del tutto diverse: penso a Prodi o Franceschini, ma anche a Rutelli. Questo per dire quanto sia radicata, anche se poco esplicitata, la dicotomia amministrazione-politica: a Roma ci vadano persone con belle facce (Rutelli), o belle idee (Veltroni), e se belle non si trovano che siano almeno facce e idee rassicuranti (Prodi); gli amministratori al massimo potranno ambire al ruolo di eminenze grigie; di estensori di decreti magari rivoluzionari sulla carta, che poi l'arietta romana si incaricherà di addolcire. Il vero salto della sua carriera è stato da burocrate locale a personaggio televisivo, ospite ideale di Ballarò più che di Vespa: il signore che a un certo punto della serata si mette a snocciolare i dati sull'economia e intorno si fa silenzio. Un anti-Tremonti, in fondo speculare al modello.
Ma Bersani, come Tremonti, sembrava l'eterno cardinale rassegnato a veder nominare i pontefici. Il gran rifiuto di partecipare alle primarie del 2007 ci impedì di assistere al vero scontro tra la politica romana dei grandi ideali (Veltroni) e l'amministrazione del potere (Bersani, con cricche dalemiane annesse e connesse). Sarebbe stato davvero un bel duello, ma Bersani lo avrebbe comunque perso, e allora a che pro? Con machiavellica rassegnazione i grandi burocrati Ds hanno lasciato che Veltroni bollisse nel suo brodo aromatico, e adesso si rifanno sotto. Con Bersani, grande amministratore con aura di tecnico e (not least) ultima faccia televisiva spendibile. Potrà anche sembrare una restaurazione, il ritorno del dalemismo, e in parte lo è, però... c'è qualcosa di più che non so spiegare in altri modi, insomma... Bersani è emiliano. Sarà anche un'astrazione geografica, ma ha un senso storico: mentre gli altri studiavano, lui amministrava. Quando si parla di grande scuola del PCI, si pensa sempre a quel certo plesso alle Frattocchie: c'è un equivoco. La vera scuola erano le sezioni locali, le circoscrizioni, i consigli e poi le giunte, con tutto il folklore annesso. Bersani non ha bisogno di improvvisarsi oggi cameriere alla festa dell'unità, perché gli spiedi li metteva su trent'anni fa: qualche giorno fa è stato a una festa padana e si è permesso di dire “Guardate che questa roba qui (mulinando l'indice) l'abbiamo inventata noi; e se chiedete al leader vostro alleato a che prezzo bisogna mettere uno spiedo per non rimetterci, lui non lo sa; io sì”. Un tipico sprazzo di orgoglio emiliano, versione passivo-aggressiva dell'arroganza lombarda (e meno male che avevo scritto che le regioni non esistono): “quello là” sarà anche bravo a metter su palazzine e televisioni, ma se gli chiedete quanto deve venire uno spiedo per non rimetterci, non lo sa.
“Mentre gli altri studiavano, lui amministrava”: ma sarà vero? Mentre lo intervistano scopro che Bersani è laureato (Veltroni e D'Alema no, per esempio), in filosofia, con una tesi, udite udite, di storia del Cristianesimo. Sarà anche solo un episodio nella vita di uno che poi ha fatto tutt'altro, ma me lo rende subito più simpatico. In un periodo in cui il cristianesimo è diventato un blocco compatto che si deve accettare o rifiutare in toto (magari sputandoci anche un po' sopra), mi trovo sempre più vicino a quelle poche persone che tra credere e non credere si sono accorti che c'era una terza dignitosissima scelta: studiare. Una settimana fa il candidato cosiddetto laico, Marino ha spiazzato qualcuno autodefinendosi cattolico. Bersani spiazza ulteriormente, rifiutando di rispondere alla domanda. Come? Un candidato che non vuole dirci se crede in Dio o no?
Me lo potevo immaginare ragioniere, Bersani, specializzato in qualche ramo di economia e commercio, o perché no, perito agrario; al limite ingegnere; invece salta fuori che l'unico candidato in grado di calcolare l'entità della manovra necessaria a muoverci dalle secche della crisi (19mila milioni, ma potrei sbagliarmi) si è laureato su Gregorio Magno. Quindi non vuole rispondere alla domanda su Dio: giusto, è come quando mi chiedono se il futurismo mi piace o no, che senso ha? Quando studi una cosa per anni ti rendi conto che è complicata, e che certe domande sono superficiali... (mr. Einstein, ma a lei questa relatività piace?) Invece di rispondere imbastisce un discorso che tramortisce una buona parte del pubblico: sono venuti apposta per applaudirlo (in più che per Franceschini) e alla fine risulteranno più freddi. La nostra concezione dell'umanità, spiega Bersani (a gente come me, che si aspettava dati sulla crisi e qualche battutina sul puttaniere), la nostra stessa idea di dignità umana, quel sentimento che ci fa provare un istintivo sdegno per le foto dei migranti respinti in mare, è il risultato di una civiltà che nasce col cristianesimo, e poi si biforca in varie direzioni, tra cui quella illuministica settecentesca. Ci sono altre culture, “più filosofiche”, come quella buddista, che dell'uomo hanno una concezione diversa. Diciamo che credono meno nell'individuo: e fa l'esempio della Politica del Figlio Unico. Pensavate che fosse un esempio limite di pianificazione comunista? No, spiega Bersani, “io ci sono stato, sapete: quando ne discutevano, una delle obiezioni principali era: ma un figlio solo verrà su viziato. Ora, una cosa del genere da noi sarebbe impensabile”. Laici o cattolici, noi abbiamo un'idea di individuo, che loro non hanno “e a quelli che insistono a dirci che certe cose non sono negoziabili [aborto, eutanasia, fecondazione], dico: continuate, continuate pure a non negoziare. Alla fine vi toccherà di prendervi ricette di gente che ha un'idea molto più diversa dalla vostra”.
Bersani continuerà a parlare per più di un'ora, e sarà bravo davvero: oltre a i contenuti, dimostrerà capacità retoriche non comuni, schiacciando a rete domande incerte palesemente improvvisate dall'intervistatrice. Ma sarà tutta discesa, almeno per me. Dopo aver parlato, con parole semplici, di dignità dell'uomo e di culture più o meno filosofiche, Bersani mi ha dimostrato alcune cose. Prima, di essere qualcosa di molto più del grigio burocrate che tiene la contabilità in seconda serata a Rai3: Bersani è un pensatore. Quello che pensa potrà essere discutibile – in fondo non siamo lontani dallo Scontro di civiltà huntingtoniano – ma visto da qui sembra davvero un pensiero: non un collages di aforismi celebri o un album di figurine; su certi problemi B. ha effettivamente meditato; le sintesi che proporrà saranno qualcosa di più di meri compromessi tra chi crede o no in un tale Dio. Seconda: è uno che questi pensieri non li tiene per sé, ma li offre a una platea che sì, è amica, ma forse si aspettava qualche lisciata al pelo in più. Il suo comizio mi ricorda quella scena del Gladiatore (film orribile) in cui Maximus scende nell'arena e decapita un paio di mirmidoni in pochi secondi: la gente non ha nemmeno il tempo per applaudire. È andata così: non si sono certo spelati le mani. Voteranno comunque per lui, sono modenesi diamine, ma hanno fatto un po' fatica a seguirlo. Che sia troppo bravo? La maledizione dei comunisti emiliani: si preparano, si preparano, per approdare preparatissimi in panchina. Bersani dovrebbe vincere le primarie con relativa facilità. Convincere gli italiani che dopo Berlusconi tocca a lui, e che bisogna tirarsi su le maniche e racimolare 19mila milioni o più, sembra ancora un altro paio di maniche.
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Cronache dalla campagna
02-09-2009, 23:14feste dell'unità, Pd, primarie 2009PermalinkTempo di feste democratiche. Domenica Franceschini era a Modena; lunedì è arrivato Marino. Io sono andato a vedere entrambi e adesso vi racconto. Per chi non ha tempo: Marino 4 – Franceschini 1. Sabato la finale con Bersani.
Lunedì non sapevo ancora per chi avrei votato. Chiedendo in giro mi sono accorto di condividere con molti l'impressione che tutti e tre i candidati non siano poi male, “molto meglio di quelli di prima” (quelli di prima li avevamo votati perché erano meglio dei precedenti, ecc.).
Franceschini e Bersani sono comunemente ritenuti dei gentiluomini, un po' rovinati dalle pessime frequentazioni: Binetti il primo, D'Alema il secondo. Marino è generalmente simpatico a tutti, ma rischia di essere l'ennesimo scalfarotto (con tanto affetto allo Scalfarotto originale). Per cui si rimanda la decisione, si prende del tempo, addirittura si vanno a vedere i comizi. In una situazione del genere un oratore un po' trascinante potrebbe anche fare la differenza. Nessuno dei due lo è (nemmeno Bersani, che io sappia). Marino non ci prova nemmeno: ha trovato uno slogan da appioppare agli avversari, “siete leader del secolo scorso”, e lo ripete due o tre volte senza vergogna; ha così poca retorica che quel poco la sfoggia come una spilletta. Franceschini invece si capisce che è del mestiere. Ha un tono concitato immediatamente riconoscibile (è già un personaggio mediatico, lui: Marino forse non lo diventerà mai), un timbro lievemente stridulo, che ricorda la falsa intransigenza fassiniana, mitigata però dalla dolcezza del ferrarese. È la voce giusta per dettare un programma, imporre la linea: fermezza senza arroganza. Tra sei mesi potrebbe essere scomparso nel nulla, eppure la stoffa per diventare il nuovo Berlinguer catto-laico c'è.
Il campo di gioco
Entrambi giocano in trasferta: Modena, già feudo dalemiano dovrebbe incoronare Bersani – siamo molto prevedibili. Siamo però anche molto aperti al confronto, e domenica sera riempiamo l'arena concerti: molti restano in piedi, e i posti a sedere sono qualche migliaio. Successone, soprattutto se tieni conto che è l'arena dell'ex festival dell'Unità, e che quello che parla fino all'anno scorso era un post-democristiano. Se invece consideri che Franceschini è ancora il Segretario, e che questa è la sua festa, il paragone col passato è impietoso: dieci anni fa quando veniva D'Alema si bloccava la tangenziale. Caldi applausi, ressa finale per gli autografi. Bersaniani con molto fair play.
A Marino ci si credeva meno: niente Arena, il Palaconad era ritenuto più che sufficiente. Forse è Marino a non credere molto all'Emilia, al punto di ficcare nel primo lunedì di settembre (la data peggiore dell'anno, a pensarci bene), non uno ma due comizi: Piacenza alle 18 e Modena alle 21. Ora si può anche capire che siano collegi sacrificabili; nessuna pretesa di essere l'Ohio elettorale di Ignazio Marino, e tuttavia gli interrogativi sorgono spontanei: ma chi è che viene a vederti un lunedì alle sei a Piacenza? E se a Piacenza arrivi alle sei, e come minimo parli un'oretta, come accidenti puoi credere di essere a Modena alle nove? è evidente che quello che ti organizza la campagna non è lo stesso che ti organizzava le operazioni. Insomma, noi arriviamo con una mezz'ora di anticipo e troviamo il palaconad deserto. Mi viene in mente una trista serata di qualche anno fa, Cofferati in versione sceriffo davanti a una platea di vecchietti canuti. Andiamo a fare un giro in libreria.
Torniamo dopo venti minuti e il palaconad è esaurito. La gente sta già cominciando a sottrarre panchine dagli stand circostanti. Barattiamo un paio di sedie con due firme su una legge d'iniziativa popolare e ci sistemiamo sul fondo: la gente comincia ad appoggiarsi sulle pareti in compensato. Dopo mezz'ora il giornalista spiega che Marino sta arrivando da Piacenza: il pubblico mormora, qualcuno si indigna (Pc e Mo nello stesso giorno? Ma che roba è?), senza però schiodare dalle panchine. Il giornalista rassicura: l'intervista sarà trasmessa anche nella sala di fianco. Alla fine Marino riempirà tutte e due. Il primo lunedì di settembre, alle dieci di sera, il dott. Ignazio “Chi?” Marino sbarca alla Festa del Lavoro di Modena e fa il pienone. Tanti applausi, anche se c'è gente che rimane a braccia conserte tutto il tempo. Un signore di fianco a me applaude raramente, e spesso scuote la testa sconsolato: atteggiamento tipico del bersaniano disilluso (“ma queste cose ce le deve venire a dire un chirurgo?”) Se posso interpretare: molti modenesi voteranno Bersani sperando che realizzi il programma di Marino. Sì, lo so, è strano, siamo persone strane.
L'interlocutore
Entrambi si affidano alla forma intervista, una chiacchierata con un giornalista che non ha nessun interesse a metterli in difficoltà. Particolarmente sdraiato il direttore tg3 che intrattiene Fassino: a distanza di una mezz'oretta risulta difficile ricordarsi cosa abbia chiesto; l'unica domanda vagamente difficile riguardava il rapporto tra cattolici e laici, senza fare nomi. F. rassicura: nel partito ci sarà spazio per entrambi. Meno male. (Ah, e un paio di frecciate alla situazione del tg3, ma in prima persona, alla Santoro: chissà se ci sarò ancora, speriamo che non mi montino un caso-Boffo, sono andato in soffitta a guardare se ho qualcosa da vergognarmi nel passato, dichiarazioni dei redditi, vecchie fiamme, ecc. ecc. Probabilmente a Roma questo tipo di aneddotica funziona: gli ascoltatori pensano “Però, questo un pezzo grosso che rischia di perdere il posto e ha la forza di scherzarci anche su, fico”. Su da noi è un po' diverso: l'ironia è troppo sottile, non si percepisce. Si sente invece una forte tendenza a personalizzare i problemi, a gridare allo scandalo solo quando ti toccano il posto fisso ecc. ecc. ecc.).
Una scelta migliore è l'intervistatore di Marino, Formigli. Finge addirittura di volerlo mettere in difficoltà, ricordandogli l'unico incidente della sua campagna (l'infelice uscita sulla “moralità” del partito all'indomani dell'arresto del segretario di sezione stupratore). Le domande sono un po' più pepate, come le vuole il pubblico, con nomi e cognomi: insomma, Binetti sì o Binetti no? La gente applaude la domanda ancora prima della risposta.
I contenuti
Ecco, è un po' imbarazzante. Forse avrei dovuto prendere appunti. Ma insomma, io sono stato giù nell'arena in piedi, a sentire Franceschini per 40 minuti, applaudendolo persino... e non mi ricordo niente. Non dico che mi abbia annoiato. Non mi ha nemmeno acceso nessuna spia. Nessun passo falso, ma come dire... niente in tutto. No, esagero, ma davvero: niente che non si potesse riassumere in venti minuti da Vespa o a Ballarò. Aspetta, mi è venuta in mente la cosa delle due rose. Sì, è andato a portare una rosa bianca sulla tomba di Zaccagnini e una rossa su quella del partigiano comandante Bulow. Le due rose, uhm. Insomma, abbiamo un grande passato, anzi due grandi passati, in cui a volte ce le siamo date ma abbiamo anche fatto cose fantastiche assieme, come resistere ai nazisti. E il futuro? Beh, la prima uscita un po' infiammata (forse l'unica) è sulla fuga dei cervelli: stiamo mortificando i nostri giovani, dice. Io applaudo, ma il giorno dopo Marino tornerà sul problema citando esempi concreti.
Se di Marino ricordo molte più cose è perché Marino, senza essere un grande oratore, è un vivace affabulatore. Si sta viaggiando l'Italia e si capisce che ha voglia di raccontartela: la gente si aspetta tirate laiciste e invece lui comincia parlando di operai che fanno lo sciopero della fame (è andato a trovarli) del comune di Riace che è diventato una comunità multietnica, eccetera eccetera, e passa una mezz'ora abbondante senza tirare fuori la parola “laico”. È il giornalista che lo deve aizzare: la gente qui è venuta a sentirti fare il laico, su, facci un po' il laico esasperato. Ma anche parlando di contraccezione ha più voglia di raccontare episodi che di spiegare le sue idee: durante una tavola rotonda ha sentito un parlamentare (di destra) ammettere che i ferri sono meglio della pillola perché “fanno paura”. “Ma siamo impazziti?” Ovazione. E la Binetti? “Se mi dimostrano che il 70% del partito è con la Binetti, io ne prenderò atto. Ma se invece il 70% del partito la pensa come me, anche la Binetti dovrebbe prenderne atto...” ovazione, e il giornalista incalza: la vorresti fuori dal partito? Sornione, Marino indica il pubblico. Il pubblico fischia e urla improperi alla parlamentare inciliciata. Alcuni devono essere per forza gli stessi che ieri hanno applaudito il suo candidato.
Bilancio
Franceschini non è male, no: come si dice in questi casi: “è una risorsa” (di solito dopo averlo detto si preme il pulsante della botola). Ma insomma, ha un modo di tenere insieme tutto e niente che mi è troppo familiare.
Lampadina: Franceschini è un Veltroni Senza. Senza Kennedy, senza metri quadri a Manhattan, senza cinema, senza romanzi, senza Africa, senza figurine, senza tutte quelle cose che dovevano alleggerire la figura del leader e invece l'hanno impiombata. Franceschini è molto più leggero, ai limiti della non consistenza: si vede quello che c'è dietro e dietro ci sono molte buone intenzioni e alcune brutte facce.
Marino non vincerà mai. In tv non lo conosce nessuno, molti andranno alle primarie senza nemmeno sapere chi sia. Allo stesso tempo uno che ti realizza una serata così, il primo lunedì di settembre a Modena, ha già vinto. Ha fatto uscire la gente e gli ha raccontato cose che già sanno: crisi economica, emergenza immigrazione, conflitto d'interessi, cosa manca? Ah sì, la questione laicità. È come se avesse preso in mano l'agenda: Franceschini, o Bersani, dopo aver vinto, avranno di fronte i problemi che sta ponendo lui. (Si chiama egemonia).
Verso la fine mando un sms al mio amico ex assessore che non è venuto perché ultimamente tutta la baracca non la regge più. “Qui c'è Marino che si sta mangiando Franceschini”. La risposta arriva in pochi secondi: “Io voto per lui. Appena posso mi faccio anche operare".
Lunedì non sapevo ancora per chi avrei votato. Chiedendo in giro mi sono accorto di condividere con molti l'impressione che tutti e tre i candidati non siano poi male, “molto meglio di quelli di prima” (quelli di prima li avevamo votati perché erano meglio dei precedenti, ecc.).
Franceschini e Bersani sono comunemente ritenuti dei gentiluomini, un po' rovinati dalle pessime frequentazioni: Binetti il primo, D'Alema il secondo. Marino è generalmente simpatico a tutti, ma rischia di essere l'ennesimo scalfarotto (con tanto affetto allo Scalfarotto originale). Per cui si rimanda la decisione, si prende del tempo, addirittura si vanno a vedere i comizi. In una situazione del genere un oratore un po' trascinante potrebbe anche fare la differenza. Nessuno dei due lo è (nemmeno Bersani, che io sappia). Marino non ci prova nemmeno: ha trovato uno slogan da appioppare agli avversari, “siete leader del secolo scorso”, e lo ripete due o tre volte senza vergogna; ha così poca retorica che quel poco la sfoggia come una spilletta. Franceschini invece si capisce che è del mestiere. Ha un tono concitato immediatamente riconoscibile (è già un personaggio mediatico, lui: Marino forse non lo diventerà mai), un timbro lievemente stridulo, che ricorda la falsa intransigenza fassiniana, mitigata però dalla dolcezza del ferrarese. È la voce giusta per dettare un programma, imporre la linea: fermezza senza arroganza. Tra sei mesi potrebbe essere scomparso nel nulla, eppure la stoffa per diventare il nuovo Berlinguer catto-laico c'è.
Il campo di gioco
Entrambi giocano in trasferta: Modena, già feudo dalemiano dovrebbe incoronare Bersani – siamo molto prevedibili. Siamo però anche molto aperti al confronto, e domenica sera riempiamo l'arena concerti: molti restano in piedi, e i posti a sedere sono qualche migliaio. Successone, soprattutto se tieni conto che è l'arena dell'ex festival dell'Unità, e che quello che parla fino all'anno scorso era un post-democristiano. Se invece consideri che Franceschini è ancora il Segretario, e che questa è la sua festa, il paragone col passato è impietoso: dieci anni fa quando veniva D'Alema si bloccava la tangenziale. Caldi applausi, ressa finale per gli autografi. Bersaniani con molto fair play.
A Marino ci si credeva meno: niente Arena, il Palaconad era ritenuto più che sufficiente. Forse è Marino a non credere molto all'Emilia, al punto di ficcare nel primo lunedì di settembre (la data peggiore dell'anno, a pensarci bene), non uno ma due comizi: Piacenza alle 18 e Modena alle 21. Ora si può anche capire che siano collegi sacrificabili; nessuna pretesa di essere l'Ohio elettorale di Ignazio Marino, e tuttavia gli interrogativi sorgono spontanei: ma chi è che viene a vederti un lunedì alle sei a Piacenza? E se a Piacenza arrivi alle sei, e come minimo parli un'oretta, come accidenti puoi credere di essere a Modena alle nove? è evidente che quello che ti organizza la campagna non è lo stesso che ti organizzava le operazioni. Insomma, noi arriviamo con una mezz'ora di anticipo e troviamo il palaconad deserto. Mi viene in mente una trista serata di qualche anno fa, Cofferati in versione sceriffo davanti a una platea di vecchietti canuti. Andiamo a fare un giro in libreria.
Torniamo dopo venti minuti e il palaconad è esaurito. La gente sta già cominciando a sottrarre panchine dagli stand circostanti. Barattiamo un paio di sedie con due firme su una legge d'iniziativa popolare e ci sistemiamo sul fondo: la gente comincia ad appoggiarsi sulle pareti in compensato. Dopo mezz'ora il giornalista spiega che Marino sta arrivando da Piacenza: il pubblico mormora, qualcuno si indigna (Pc e Mo nello stesso giorno? Ma che roba è?), senza però schiodare dalle panchine. Il giornalista rassicura: l'intervista sarà trasmessa anche nella sala di fianco. Alla fine Marino riempirà tutte e due. Il primo lunedì di settembre, alle dieci di sera, il dott. Ignazio “Chi?” Marino sbarca alla Festa del Lavoro di Modena e fa il pienone. Tanti applausi, anche se c'è gente che rimane a braccia conserte tutto il tempo. Un signore di fianco a me applaude raramente, e spesso scuote la testa sconsolato: atteggiamento tipico del bersaniano disilluso (“ma queste cose ce le deve venire a dire un chirurgo?”) Se posso interpretare: molti modenesi voteranno Bersani sperando che realizzi il programma di Marino. Sì, lo so, è strano, siamo persone strane.
L'interlocutore
Entrambi si affidano alla forma intervista, una chiacchierata con un giornalista che non ha nessun interesse a metterli in difficoltà. Particolarmente sdraiato il direttore tg3 che intrattiene Fassino: a distanza di una mezz'oretta risulta difficile ricordarsi cosa abbia chiesto; l'unica domanda vagamente difficile riguardava il rapporto tra cattolici e laici, senza fare nomi. F. rassicura: nel partito ci sarà spazio per entrambi. Meno male. (Ah, e un paio di frecciate alla situazione del tg3, ma in prima persona, alla Santoro: chissà se ci sarò ancora, speriamo che non mi montino un caso-Boffo, sono andato in soffitta a guardare se ho qualcosa da vergognarmi nel passato, dichiarazioni dei redditi, vecchie fiamme, ecc. ecc. Probabilmente a Roma questo tipo di aneddotica funziona: gli ascoltatori pensano “Però, questo un pezzo grosso che rischia di perdere il posto e ha la forza di scherzarci anche su, fico”. Su da noi è un po' diverso: l'ironia è troppo sottile, non si percepisce. Si sente invece una forte tendenza a personalizzare i problemi, a gridare allo scandalo solo quando ti toccano il posto fisso ecc. ecc. ecc.).
Una scelta migliore è l'intervistatore di Marino, Formigli. Finge addirittura di volerlo mettere in difficoltà, ricordandogli l'unico incidente della sua campagna (l'infelice uscita sulla “moralità” del partito all'indomani dell'arresto del segretario di sezione stupratore). Le domande sono un po' più pepate, come le vuole il pubblico, con nomi e cognomi: insomma, Binetti sì o Binetti no? La gente applaude la domanda ancora prima della risposta.
I contenuti
Ecco, è un po' imbarazzante. Forse avrei dovuto prendere appunti. Ma insomma, io sono stato giù nell'arena in piedi, a sentire Franceschini per 40 minuti, applaudendolo persino... e non mi ricordo niente. Non dico che mi abbia annoiato. Non mi ha nemmeno acceso nessuna spia. Nessun passo falso, ma come dire... niente in tutto. No, esagero, ma davvero: niente che non si potesse riassumere in venti minuti da Vespa o a Ballarò. Aspetta, mi è venuta in mente la cosa delle due rose. Sì, è andato a portare una rosa bianca sulla tomba di Zaccagnini e una rossa su quella del partigiano comandante Bulow. Le due rose, uhm. Insomma, abbiamo un grande passato, anzi due grandi passati, in cui a volte ce le siamo date ma abbiamo anche fatto cose fantastiche assieme, come resistere ai nazisti. E il futuro? Beh, la prima uscita un po' infiammata (forse l'unica) è sulla fuga dei cervelli: stiamo mortificando i nostri giovani, dice. Io applaudo, ma il giorno dopo Marino tornerà sul problema citando esempi concreti.
Se di Marino ricordo molte più cose è perché Marino, senza essere un grande oratore, è un vivace affabulatore. Si sta viaggiando l'Italia e si capisce che ha voglia di raccontartela: la gente si aspetta tirate laiciste e invece lui comincia parlando di operai che fanno lo sciopero della fame (è andato a trovarli) del comune di Riace che è diventato una comunità multietnica, eccetera eccetera, e passa una mezz'ora abbondante senza tirare fuori la parola “laico”. È il giornalista che lo deve aizzare: la gente qui è venuta a sentirti fare il laico, su, facci un po' il laico esasperato. Ma anche parlando di contraccezione ha più voglia di raccontare episodi che di spiegare le sue idee: durante una tavola rotonda ha sentito un parlamentare (di destra) ammettere che i ferri sono meglio della pillola perché “fanno paura”. “Ma siamo impazziti?” Ovazione. E la Binetti? “Se mi dimostrano che il 70% del partito è con la Binetti, io ne prenderò atto. Ma se invece il 70% del partito la pensa come me, anche la Binetti dovrebbe prenderne atto...” ovazione, e il giornalista incalza: la vorresti fuori dal partito? Sornione, Marino indica il pubblico. Il pubblico fischia e urla improperi alla parlamentare inciliciata. Alcuni devono essere per forza gli stessi che ieri hanno applaudito il suo candidato.
Bilancio
Franceschini non è male, no: come si dice in questi casi: “è una risorsa” (di solito dopo averlo detto si preme il pulsante della botola). Ma insomma, ha un modo di tenere insieme tutto e niente che mi è troppo familiare.
Lampadina: Franceschini è un Veltroni Senza. Senza Kennedy, senza metri quadri a Manhattan, senza cinema, senza romanzi, senza Africa, senza figurine, senza tutte quelle cose che dovevano alleggerire la figura del leader e invece l'hanno impiombata. Franceschini è molto più leggero, ai limiti della non consistenza: si vede quello che c'è dietro e dietro ci sono molte buone intenzioni e alcune brutte facce.
Marino non vincerà mai. In tv non lo conosce nessuno, molti andranno alle primarie senza nemmeno sapere chi sia. Allo stesso tempo uno che ti realizza una serata così, il primo lunedì di settembre a Modena, ha già vinto. Ha fatto uscire la gente e gli ha raccontato cose che già sanno: crisi economica, emergenza immigrazione, conflitto d'interessi, cosa manca? Ah sì, la questione laicità. È come se avesse preso in mano l'agenda: Franceschini, o Bersani, dopo aver vinto, avranno di fronte i problemi che sta ponendo lui. (Si chiama egemonia).
Verso la fine mando un sms al mio amico ex assessore che non è venuto perché ultimamente tutta la baracca non la regge più. “Qui c'è Marino che si sta mangiando Franceschini”. La risposta arriva in pochi secondi: “Io voto per lui. Appena posso mi faccio anche operare".
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Narcisi autolesionisti
31-08-2009, 12:59contare i morti, ragazziniPermalinkPrendere posizione, finalmente
Fare i moralisti è difficile. Scagliare la prima pietra è sempre rischioso. Non siamo stati giovani anche noi? Sì, lo siamo stati. Non abbiamo giocato anche noi a spingerci al limite delle nostre possibilità? Sì, è successo. Quante volte, col senno del poi, ci siamo resi conto di averla fatta grossa, di averla fatta franca per una semplice botta di fortuna? Diverse volte. Eppure eccoci qui, adulti e responsabili: ma con che faccia oseremmo negare ai più giovani di noi il piacere di flirtare con la morte ancora un po'?
E poi, anche se quella faccia l'avessimo, cosa potremmo proporre di concreto? Il proibizionismo, lo sappiamo, non ha mai risolto nulla. Bisognerebbe lavorare sui concetti, sulla cosiddetta 'cultura' che c'è dietro i comportamenti aberranti che anno dopo anno facciamo sempre più fatica a capire. Educare i giovani a un modo più responsabile di stare assieme, di darsi dei traguardi non sempre fini a sé stessi, smontare quel narcisismo autolesionista che è un risultato diretto del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti ogni giorno. Ma è una battaglia di retroguardia: e intanto ogni giorno, puntuale, ci arriva un bollettino di guerra.
Forse a questo punto un po' di proibizionismo non guasterebbe. Giusto qualche mese di moratoria, il tempo necessario perché la gente si ricordi di un'emergenza che fa più morti del terrorismo, o dell'influenza. Insomma, io la butto lì: chiudiamo i sentieri di montagna, proibiamo l'alpinismo.
Come? Eh, sì, la foto non c'entra nulla. Ma negli ultimi due mesi sono morti quaranta alpinisti, e due frequentatori di rave. Pensateci bene.
Scusate se interrompo l'ironia, ma credo siano maturi i tempi per un bilancio serio. Non solo dell'estate che sta finendo: anche se il numero di decessi stagionali dovrebbe parlare da solo. Che senso ha poi preoccuparsi della nuova terribile influenza, quando lasciamo liberi i nostri giovani di ammazzarsi così?
Fare i moralisti è difficile. Scagliare la prima pietra è sempre rischioso. Non siamo stati giovani anche noi? Sì, lo siamo stati. Non abbiamo giocato anche noi a spingerci al limite delle nostre possibilità? Sì, è successo. Quante volte, col senno del poi, ci siamo resi conto di averla fatta grossa, di averla fatta franca per una semplice botta di fortuna? Diverse volte. Eppure eccoci qui, adulti e responsabili: ma con che faccia oseremmo negare ai più giovani di noi il piacere di flirtare con la morte ancora un po'?
E poi, anche se quella faccia l'avessimo, cosa potremmo proporre di concreto? Il proibizionismo, lo sappiamo, non ha mai risolto nulla. Bisognerebbe lavorare sui concetti, sulla cosiddetta 'cultura' che c'è dietro i comportamenti aberranti che anno dopo anno facciamo sempre più fatica a capire. Educare i giovani a un modo più responsabile di stare assieme, di darsi dei traguardi non sempre fini a sé stessi, smontare quel narcisismo autolesionista che è un risultato diretto del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti ogni giorno. Ma è una battaglia di retroguardia: e intanto ogni giorno, puntuale, ci arriva un bollettino di guerra.
Forse a questo punto un po' di proibizionismo non guasterebbe. Giusto qualche mese di moratoria, il tempo necessario perché la gente si ricordi di un'emergenza che fa più morti del terrorismo, o dell'influenza. Insomma, io la butto lì: chiudiamo i sentieri di montagna, proibiamo l'alpinismo.
Come? Eh, sì, la foto non c'entra nulla. Ma negli ultimi due mesi sono morti quaranta alpinisti, e due frequentatori di rave. Pensateci bene.
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Ti ha scritto Antonio
28-08-2009, 10:46blog, feste, segnalazioniPermalinkVasto programma
Va bene, mi arrendo, sono uno di quelli a cui ha scritto Di Pietro. C'è qualcun altro? Dai, usciamo allo scoperto.
Forse è meglio che mi spiego. In data 14 agosto ho ricevuto una mail da Antonio Di Pietro. Siccome la mail recava come titolo "Invito blogger al 4° Incontro Nazionale IdV", ed esordiva con "Caro blogger", non ho pensato per nemmeno un secondo che non fosse una lettera circolare inviata a decine se non centinaia di peoni come me.
Il contenuto tuttavia presentava alcuni spunti d'interesse, e spero di non venire meno a nessuna deontologia se lo riporto qui in forma parziale:
Va bene, mi arrendo, sono uno di quelli a cui ha scritto Di Pietro. C'è qualcun altro? Dai, usciamo allo scoperto.
Forse è meglio che mi spiego. In data 14 agosto ho ricevuto una mail da Antonio Di Pietro. Siccome la mail recava come titolo "Invito blogger al 4° Incontro Nazionale IdV", ed esordiva con "Caro blogger", non ho pensato per nemmeno un secondo che non fosse una lettera circolare inviata a decine se non centinaia di peoni come me.
Il contenuto tuttavia presentava alcuni spunti d'interesse, e spero di non venire meno a nessuna deontologia se lo riporto qui in forma parziale:
anche quest'anno Italia dei Valori organizza a Vasto, nei giorni 18/19/20 settembre 2009, l'Incontro Nazionale giunto alla sua quarta edizione.Voi direte vabbè, dove sta la novità? Di Pietro nei blog un po' ci crede, non da ieri (memorabili i suoi flame con Clementemastella.blogspot); forse ci crede un po' troppo, rispetto a quel poco che hanno dimostrato di saper fare quelli italiani: ma è comprensibile, il suo partito è un prodotto di nicchia ed è normale che si attacchi alla coda lunga, anche solo in mancanza di altri appigli. In effetti la cosa più interessante arriva nella frase successiva:
Visto l'importante ruolo svolto da quei blogger che, con il loro lavoro quotidiano, informano, documentano e sopperiscono alla mancanza di un'informazione obiettiva, di fatto asservita ad interessi economici e politici, Italia dei Valori ha deciso di coinvolgerli per questo importante evento.
Ho dunque il piacere di invitarti a partecipare all'evento di Vasto;
Italia dei Valori provvederà a fornirti collegamento internet, accesso all'area stampa e alloggio gratuito per consentirti di documentare i dibattiti e le interviste di questi tre giorni.
Notate l'eleganza del grassetto. Però, insomma, questo sì che è crederci. Altro che chiacchiere: tre giorni, due pernottamenti, mi pare un bel salto in avanti rispetto alla società dei tramezzini. "E chissà a quanti l'avrà mandato, questo invito", pensavo, mentre mi spalmavo sulla spiaggia.
Col passare dei giorni il pensiero ha cominciato a fare il bozzolo: a quanti lo avrà mandato? I primi cento della classifica? No, troppi. I primi cinquanta? Venticinque? Inutile porsi il problema, basta aspettare. E' una società di bocche larghe, non c'è proprio il rischio che si tengano un segreto. Prima o poi qualcuno su friendfeed o twitter o checcazz si tradirà: "Ehi, Tonino mi ha invitato alla festa, e voi?" (Variante: "Tonino mi ha invitato e voi no, pappappero").
Passano i giorni. Le settimane. Va bene che siete tutti in ferie, ma ci siete con i laptop e gli iphone, quindi se tacete è perché avete deciso di farlo, è così? E' una congiura del silenzio? Forse una specie di gara. Su venti o trenta, vediamo chi è che ha il fegato di andarci, a Vasto; e poi quando comincia a postare i suoi imparziali reportages lo sputtaniamo: "C'è andato a spese del partito! Ho qui la mail! Scoop!" Ah, è una società di serpi.
(Oppure forse Tonino ha scritto solo a me! No, difficile. Forse però ha invitato solo una manciata di persone, gente che apprezza davvero. Magari mi apprezza davvero e io reagisco sputtanandolo così. Che verme, in una società di carne guasta).
Insomma, ora basta. Se era un gioco a chi cedeva per primo ho perso, ok? A me Di Pietro ha scritto, confesso. E confesso pure che un po' di voglia di andare a Vasto a fare il gonzo-blog della festa dell'IdV ce l'ho. Anche se probabilmente sarei un pessimo gonzo però... ehi, voglio dire, alloggio gratuito. Quella è gente che nei blog ci crede davvero.
Però da solo ho un po' paura. Viene qualcun altro?
Col passare dei giorni il pensiero ha cominciato a fare il bozzolo: a quanti lo avrà mandato? I primi cento della classifica? No, troppi. I primi cinquanta? Venticinque? Inutile porsi il problema, basta aspettare. E' una società di bocche larghe, non c'è proprio il rischio che si tengano un segreto. Prima o poi qualcuno su friendfeed o twitter o checcazz si tradirà: "Ehi, Tonino mi ha invitato alla festa, e voi?" (Variante: "Tonino mi ha invitato e voi no, pappappero").
Passano i giorni. Le settimane. Va bene che siete tutti in ferie, ma ci siete con i laptop e gli iphone, quindi se tacete è perché avete deciso di farlo, è così? E' una congiura del silenzio? Forse una specie di gara. Su venti o trenta, vediamo chi è che ha il fegato di andarci, a Vasto; e poi quando comincia a postare i suoi imparziali reportages lo sputtaniamo: "C'è andato a spese del partito! Ho qui la mail! Scoop!" Ah, è una società di serpi.
(Oppure forse Tonino ha scritto solo a me! No, difficile. Forse però ha invitato solo una manciata di persone, gente che apprezza davvero. Magari mi apprezza davvero e io reagisco sputtanandolo così. Che verme, in una società di carne guasta).
Insomma, ora basta. Se era un gioco a chi cedeva per primo ho perso, ok? A me Di Pietro ha scritto, confesso. E confesso pure che un po' di voglia di andare a Vasto a fare il gonzo-blog della festa dell'IdV ce l'ho. Anche se probabilmente sarei un pessimo gonzo però... ehi, voglio dire, alloggio gratuito. Quella è gente che nei blog ci crede davvero.
Però da solo ho un po' paura. Viene qualcun altro?
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Io sono Artigiano
27-08-2009, 18:16italianistica, leggerePermalinkNon avrai altro Autore al di fuori di me
A parte che vorrei esserci – non dico sia uno dei motivi che mi tiene in vita, ma vorrei esserci – il giorno in cui finalmente uno scrittore famoso, accusato di avere dei negri, o degli editor un po' intrusivi, farà il primo vero coming out: ebbene sì, il mio romanzo non l'ho scritto da solo, eravamo in cinque: uno ha lavorato ai dialoghi, uno ai monologhi, uno si è girato l'Oklahoma per sei mesi per fare le ricerche, uno rileggeva e l'ultimo passava col carrello del caffè, e allora? V'è piaciuto? Quello è l'importante, no? Mica ve l'abbiamo fatto pagare cinque volte tanto. Oh, che ci posso fare se sono scarso coi dialoghi? Mi pago uno che me li scrive e uno che se li rilegge, e se il risultato è buono dovreste ringraziarmi, altro che far le pulci.
Perché è ben strana in fondo questa cosa: quando andate al cinema non vi preoccupate che lo sceneggiatore e il regista siano persone diverse. Mai sentito qualcuno lamentarsi che Kubrick usasse soggetti non originali, che i vostri film preferiti siano li risultato dello sforzo di migliaia di persone.Vi siete bevuti decenni di serie televisive – orologio alla mano, è senz'altro la forma d'arte che vi ha 'intrattenuto' di più – e non vi siete mai posti il problema di chi le abbia scritte: coglioni qualsiasi intorno a un lungo tavolo in qualche grattacielo condizionato, ma chi se frega? tanto è un prodotto industriale. Al diavolo la nozione ottocentesca di “Autore”.
Finché non arrivate in libreria, e la musica cambia di colpo. Lì è puro Ottocento, si direbbe che fuori vi stia aspettando il maggiordomo in livrea con la carrozza: tutti Autori con la A maiuscola, e anche tutte le lettere del nome e del cognome, tutte in maiuscolo, sbalzate in oro e in lapislazzuli, più evidenti del titolo; uno non compra Io sono Dio di Faletti, uno compra GIORGIO FALETTI Io sono Dio: e guai, maledizioni, anatemi, a chi solo insinua che dietro GIORGIO FALETTI possa esserci un po' di lavoro di gruppo. È vietato anche solo pensarlo: GIORGIO FALETTI deve essere un artigiano che si scrive tutto da solo, dal titolo fino al più umile apostrofo. Esatto, sì, li mette tutti a mano, gli apostrofi, uno a uno. Altrimenti, boh, non c'è più gusto a leggerlo. Così a conti fatti GIORGIO FALETTI è l'artigiano più pagato d'Italia. Fattura milioni ed evidentemente non ha nemmeno un ufficio stampa, un pr, un amico che gli dica ehi, Giorgio, va bene fare il duro, ma non si trattano così le signore. Puoi avere tutti i buoni motivi del mondo, ma la sindrome premestruale no, non si tira fuori in una polemica la sindrome premestruale. Voglio dire, i duri non lo fanno. Rileggiti i classici: te l'immagini Marlowe, te lo immagini Mike Hammer coinvolti in una polemica letteraria con una biondona fatale? Uno schiaffone può anche scapparci, se la fata fa l'isterica, ma un accenno al mestruo no, è un tabù, una cosa definitivamente non anglosassone, di una mediterraneità inemendabile, come faccio a spiegartelo meglio... è una cosa che... non ti aggiunge centimetri al pisello, capisci?
Quello che mi ha spinto a farlo, come ho detto all'inizio, è che da questa risibile querelle estiva e premestruale si sia arrivati come sempre a ipotizzare un fantomatico scrittore fantasma che è il vero autore dei libri che pubblico a mio nome. (Giorgio Faletti)
A parte che vorrei esserci – non dico sia uno dei motivi che mi tiene in vita, ma vorrei esserci – il giorno in cui finalmente uno scrittore famoso, accusato di avere dei negri, o degli editor un po' intrusivi, farà il primo vero coming out: ebbene sì, il mio romanzo non l'ho scritto da solo, eravamo in cinque: uno ha lavorato ai dialoghi, uno ai monologhi, uno si è girato l'Oklahoma per sei mesi per fare le ricerche, uno rileggeva e l'ultimo passava col carrello del caffè, e allora? V'è piaciuto? Quello è l'importante, no? Mica ve l'abbiamo fatto pagare cinque volte tanto. Oh, che ci posso fare se sono scarso coi dialoghi? Mi pago uno che me li scrive e uno che se li rilegge, e se il risultato è buono dovreste ringraziarmi, altro che far le pulci.
Perché è ben strana in fondo questa cosa: quando andate al cinema non vi preoccupate che lo sceneggiatore e il regista siano persone diverse. Mai sentito qualcuno lamentarsi che Kubrick usasse soggetti non originali, che i vostri film preferiti siano li risultato dello sforzo di migliaia di persone.Vi siete bevuti decenni di serie televisive – orologio alla mano, è senz'altro la forma d'arte che vi ha 'intrattenuto' di più – e non vi siete mai posti il problema di chi le abbia scritte: coglioni qualsiasi intorno a un lungo tavolo in qualche grattacielo condizionato, ma chi se frega? tanto è un prodotto industriale. Al diavolo la nozione ottocentesca di “Autore”.
Finché non arrivate in libreria, e la musica cambia di colpo. Lì è puro Ottocento, si direbbe che fuori vi stia aspettando il maggiordomo in livrea con la carrozza: tutti Autori con la A maiuscola, e anche tutte le lettere del nome e del cognome, tutte in maiuscolo, sbalzate in oro e in lapislazzuli, più evidenti del titolo; uno non compra Io sono Dio di Faletti, uno compra GIORGIO FALETTI Io sono Dio: e guai, maledizioni, anatemi, a chi solo insinua che dietro GIORGIO FALETTI possa esserci un po' di lavoro di gruppo. È vietato anche solo pensarlo: GIORGIO FALETTI deve essere un artigiano che si scrive tutto da solo, dal titolo fino al più umile apostrofo. Esatto, sì, li mette tutti a mano, gli apostrofi, uno a uno. Altrimenti, boh, non c'è più gusto a leggerlo. Così a conti fatti GIORGIO FALETTI è l'artigiano più pagato d'Italia. Fattura milioni ed evidentemente non ha nemmeno un ufficio stampa, un pr, un amico che gli dica ehi, Giorgio, va bene fare il duro, ma non si trattano così le signore. Puoi avere tutti i buoni motivi del mondo, ma la sindrome premestruale no, non si tira fuori in una polemica la sindrome premestruale. Voglio dire, i duri non lo fanno. Rileggiti i classici: te l'immagini Marlowe, te lo immagini Mike Hammer coinvolti in una polemica letteraria con una biondona fatale? Uno schiaffone può anche scapparci, se la fata fa l'isterica, ma un accenno al mestruo no, è un tabù, una cosa definitivamente non anglosassone, di una mediterraneità inemendabile, come faccio a spiegartelo meglio... è una cosa che... non ti aggiunge centimetri al pisello, capisci?
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Amico Abbecedario
25-08-2009, 00:02internet, repliche, scuolaPermalink(L'ho trovato. Il primo titolo stagionale sul caroscuola. E dal momento che gli editori scolastici non hanno difficoltà a rivendervi gli stessi libri dell'anno scorso, giusto con qualche errorino in più o in meno per far vedere che sono "aggiornati"; e che i giornalisti non hanno problemi a riscrivervi più o meno lo stesso pezzo di dodici mesi fa... beh, anch'io posso benissimo copiare di pacca il post dell'anno scorso. Per quel che mi pagano).
Settembre ha il profumo dei quaderni nuovi
Io non pretendo certo che abbiate letto gli articoli di quest'anno sul caroscuola, identici in tutto e per tutto a quelli dell'anno scorso. Del resto, cosa c'è da dire? Purtroppo i prezzi aumentano, e aumenterebbero anche se l'editoria scolastica non fosse quella turpe banda di parassiti e grassatori che è sempre stata e sempre sarà almeno finché non riuscirò a lavorare per loro e smetterò di dirlo ad alta voce.
Nel frattempo vorrei soltanto lanciare un appello a chi si trova nella spiacevole situazione di aver figliato qualche anno fa: sembrava che il bambolotto vi sarebbe rimasto appeso al collo per sempre e invece eccolo qua! cammina parla e ora pretende di andare a scuola e bisogna anche svenarsi per corredarlo di libri e quaderni. Così siete appena tornati dalle vacanze, neanche il tempo per leggere il tradizionale articolo sul caroscuola, e via! In fretta, prima che arrivi l'estratto conto con tutti i vostri bagordi agostani dettagliati voce per voce, via, all'ipermercato più vicino! Perché ho sentito dire che c'è lo sconto sui quaderni.
Ecco, per l'amor di Dio e vostro, non fatelo. Non comprate quaderni al buio. È carta sprecata, fidatevi.
Perché vedrete che poi si arriva al 15 settembre, e si scopre che il/la maestro/a o professore/ssa è uno di quei biechi individui a cui non va bene niente, mai! Il quadernino piccolo è troppo piccolo, quello A4 è troppo grande! La spirale no, le anelle solo a distanza continentale (gli anglosassoni usano un formato diverso), i quadretti di 0,5 cm. mentre voi avete fatto una scorta da 0,4 da qui all'università – sul serio, non buttate via i vostri soldi, aspettate.
Se poi vi considerate tipi sensibili, potete anche esercitarvi a comprendere l'insegnante. Magari è uno/a che ha la pretesa antistorica di controllare i compiti a casa, e come fa? Ritira i quaderni. A cinque o sei persone alla volta? Andrà a finire che quei cinque o sei no lavoreranno più per un mese, tanto la prof mi ha già beccato. Eh, no, meglio controllarli tutti e 25. Certo, e andare in giro per i corridoi con 25 quaderni sottobraccio, è in questo modo che il docente difende la sua dignità. Oppure presentarsi in classe col carrello. O ancora introdurre il concetto di quaderno ad anelli con fogli staccabili, ma è già settembre inoltrato, e la famiglia previdente aveva riempito la cantina di quadernoni e quadernini a fogli non staccabili che nessuno correggerà mai.
Generalizzo, certo. Ma ho ancora nel cuore il mio primo giorno di scuola alle elementari, i miei bellissimi quaderni di Superman e di Batman (eroi in calzamaglia che andavano molto in voga a quei tempi), e la maestra che mi raggela dicendomi: questi non si possono usare. Insomma, è una storia antica. La grande distribuzione lo sa, e ne approfitta. Vi vende la sensazione di essere genitori previdenti scaricandovi pacchi di carta che v'ingombreranno la mensola alta del garage fino alla consumazione dei giorni. Non cascateci. Il vero risparmio è comprare all'ultimo momento solo quello che l'insegnante vuole. Si salva pure un po' di foresta.
Detto questo, i prezzi aumentano. Aumenta tutto, a partire dalle materie prime: aumenterebbe anche se possedessimo la bacchetta magica per eliminare quelle tenie didattiche degli editori scolastici, con le loro pregiate ristampe patinate e colorate, in cui si cambia tutto purché restino gli errori di stampa dell'anno prima. In effetti la bacchetta magica ce l'avremmo: coi soldi che una famiglia spende in libri ci si potrebbe comprare un laptop, installare il wifi a scuola e lavorare direttamente su wiki. In qualche scuola già succede, e forse, chissà, un giorno anche in quella dei vostri figli (dipende anche da voi! Andate alle riunioni!) Certo, i laptop dopo un po' si scassano, ma se per questo anche i libri: già da oggi, se un ragazzino riuscisse a conservare un laptop per almeno tre anni, la convenienza ci sarebbe eccome. Anche la diffidenza di una classe insegnante un po' attempata è destinata a squagliarsi al sole di fronte alla possibilità di somministrare verifiche on line che si correggono da sole (tutta roba che esiste già, eh? Non sto inventando niente).
Settembre ha il profumo dei quaderni nuovi
Io non pretendo certo che abbiate letto gli articoli di quest'anno sul caroscuola, identici in tutto e per tutto a quelli dell'anno scorso. Del resto, cosa c'è da dire? Purtroppo i prezzi aumentano, e aumenterebbero anche se l'editoria scolastica non fosse quella turpe banda di parassiti e grassatori che è sempre stata e sempre sarà almeno finché non riuscirò a lavorare per loro e smetterò di dirlo ad alta voce.
Nel frattempo vorrei soltanto lanciare un appello a chi si trova nella spiacevole situazione di aver figliato qualche anno fa: sembrava che il bambolotto vi sarebbe rimasto appeso al collo per sempre e invece eccolo qua! cammina parla e ora pretende di andare a scuola e bisogna anche svenarsi per corredarlo di libri e quaderni. Così siete appena tornati dalle vacanze, neanche il tempo per leggere il tradizionale articolo sul caroscuola, e via! In fretta, prima che arrivi l'estratto conto con tutti i vostri bagordi agostani dettagliati voce per voce, via, all'ipermercato più vicino! Perché ho sentito dire che c'è lo sconto sui quaderni.
Ecco, per l'amor di Dio e vostro, non fatelo. Non comprate quaderni al buio. È carta sprecata, fidatevi.
Perché vedrete che poi si arriva al 15 settembre, e si scopre che il/la maestro/a o professore/ssa è uno di quei biechi individui a cui non va bene niente, mai! Il quadernino piccolo è troppo piccolo, quello A4 è troppo grande! La spirale no, le anelle solo a distanza continentale (gli anglosassoni usano un formato diverso), i quadretti di 0,5 cm. mentre voi avete fatto una scorta da 0,4 da qui all'università – sul serio, non buttate via i vostri soldi, aspettate.
Se poi vi considerate tipi sensibili, potete anche esercitarvi a comprendere l'insegnante. Magari è uno/a che ha la pretesa antistorica di controllare i compiti a casa, e come fa? Ritira i quaderni. A cinque o sei persone alla volta? Andrà a finire che quei cinque o sei no lavoreranno più per un mese, tanto la prof mi ha già beccato. Eh, no, meglio controllarli tutti e 25. Certo, e andare in giro per i corridoi con 25 quaderni sottobraccio, è in questo modo che il docente difende la sua dignità. Oppure presentarsi in classe col carrello. O ancora introdurre il concetto di quaderno ad anelli con fogli staccabili, ma è già settembre inoltrato, e la famiglia previdente aveva riempito la cantina di quadernoni e quadernini a fogli non staccabili che nessuno correggerà mai.
Generalizzo, certo. Ma ho ancora nel cuore il mio primo giorno di scuola alle elementari, i miei bellissimi quaderni di Superman e di Batman (eroi in calzamaglia che andavano molto in voga a quei tempi), e la maestra che mi raggela dicendomi: questi non si possono usare. Insomma, è una storia antica. La grande distribuzione lo sa, e ne approfitta. Vi vende la sensazione di essere genitori previdenti scaricandovi pacchi di carta che v'ingombreranno la mensola alta del garage fino alla consumazione dei giorni. Non cascateci. Il vero risparmio è comprare all'ultimo momento solo quello che l'insegnante vuole. Si salva pure un po' di foresta.
Detto questo, i prezzi aumentano. Aumenta tutto, a partire dalle materie prime: aumenterebbe anche se possedessimo la bacchetta magica per eliminare quelle tenie didattiche degli editori scolastici, con le loro pregiate ristampe patinate e colorate, in cui si cambia tutto purché restino gli errori di stampa dell'anno prima. In effetti la bacchetta magica ce l'avremmo: coi soldi che una famiglia spende in libri ci si potrebbe comprare un laptop, installare il wifi a scuola e lavorare direttamente su wiki. In qualche scuola già succede, e forse, chissà, un giorno anche in quella dei vostri figli (dipende anche da voi! Andate alle riunioni!) Certo, i laptop dopo un po' si scassano, ma se per questo anche i libri: già da oggi, se un ragazzino riuscisse a conservare un laptop per almeno tre anni, la convenienza ci sarebbe eccome. Anche la diffidenza di una classe insegnante un po' attempata è destinata a squagliarsi al sole di fronte alla possibilità di somministrare verifiche on line che si correggono da sole (tutta roba che esiste già, eh? Non sto inventando niente).
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Il Merlo maschio
23-08-2009, 23:15giornalisti, Islam, migranti, razzismiPermalinkMa voi sapreste dire esattamente cosa c'è di sbagliato in un burkini? Ovvero, cosa c'è di sbagliato nel recarsi in una piscina insossando un indumento che copre quasi del tutto le forme femminili?
È una questione di praticità, di igiene, di sicurezza? No, l'indumento è fatto apposta per essere adoperato in piscina.
Non si può identificare il volto di chi lo indossa? E perché mai, se l'unica cosa scoperta è il volto? (peraltro, finché lo usano tre in tutta Italia, l'identificazione ha l'aria di un falso problema).
“Spaventa i bambini”? Ecco, questo invece sì che è un vero problema. Bambini italiani che si spaventano davanti a figure femminili completamente coperte... E poni che un giorno per sbaglio passino davanti a una statua della Madonna (in Veneto se ne trovano alcune), ti immagini lo choc?
Più probabilmente è una questione religiosa, e cioè: il burkini non va bene perché è roba islamica. Infatti, se se lo infila una ragazza italiana allergica al cloro, nessuno si preoccupa: il burkini ridiventa una comunissima “muta”, i bambini non si spaventano più, il bagnino non si attiva, i giornalisti non ne scrivono niente. È come ritrovarsi e inginocchiarsi in piazza: tutti lo possono fare, è garantito dalla Costituzione... ma se si scopre che stanno pregando in arabo non va più bene, scandalo (“Ma avevamo chiesto il permesso” “Non importa, è uno scandalo” “Ma c'è libertà di culto...” “Sì, ma mica in piazza”).
Se tutto questo ancora non vi basta per trovare esecrabile il burkini, se insomma siete alla ricerca di una ragione in più per odiarlo senza passare per bambini frignoni o comunissimi islamofobi, Repubblica di giovedì scorso vi dava un ulteriore motivo, forse determinante. O no? Insomma, valutate voi. Il burkini è sbagliato perché eccita Francesco Merlo.
Esatto, proprio così. L'indumento riprodotto nella foto sopra ha il potere di risvegliare gli appetiti sessuali del siculo editorialista.
Ma tergiverso. Torniamo a Merlo, e al suo esperimento mentale: cosa succede se tuffiamo una suora in piscina? Beh, secondo il principio di Archimede, dovrebbe riaffiorare. Certo, con quei vestiti... ecco, in questo caso un burkini le farebbe persino comodo, tuttavia...
No, scusate, sono sulla cattiva strada. A Merlo non interessa la suora in quanto corpo grave immerso in un fluido, bensì come fonte di interesse lascivo. Come, pure la suora? Ebbene sì, essa pure.
Beh, ma fosse anche?
L'idea che nell'era di youporn qualcuno riesca ancora a eccitarsi con una muta da sub, se non facesse sorridere, sarebbe commovente: non tutto è perduto, ci sono ancora margini di erotismo inesplorati. Ditelo ai cameramen di Sarabanda che per mesi hanno seguito il fondoschiena di Belem Rodriguez che andava a tuffarsi: basta così, tornate indietro (anche perché il passo successivo sarebbe la colonscopia), l'anno prossimo fasciatela di cotone dalla testa ai piedi, garantisco che a molti basterà – perlomeno ai compagni di nuoto di Merlo.
Ma fosse anche. Siamo laici, che senso ha fare del moralismo? L'islamica ha diritto di fasciarsi, il maschio siculo di eccitarsi: chi ci rimette? Mi sembra un raro e commendevole esempio di situazione win/win. E allora?
E allora forse senza volere Merlo ha centrato il problema. Quello che ci disgusta di più, dell'Islam, non è il maschilismo. Non sono le bombe (che per ora da noi non si son viste). Quello che ci rende l'Islam più indigesto di altre religioni, è che ci assomiglia da vicino. È la nostra foto in bianco e nero, di quando eravamo più giovani e passavamo pomeriggi in piscina nel tentativo d'intravedere un'ascella: e tra gomitate e risatine si passava il sabato. Il ritratto di noi stessi da poveri, questo è l'Islam. L'Internazionale Terrona(*) che ci torna in casa – speravamo di averla fatta fuori, sommersa di rifiuti postmoderni, niente da fare: eccola puntuale col suo fardello di donne fasciate e maschi perennemente allupati. I nordici queste cose non le possono capire: noi gli arabi li odiamo come si odiano i parenti poveri. Che ci piovono in casa. E il prete dice pure che non possiamo tenerli fuori, ah, sciagura.
* (c) Lia, mi pare.
È una questione di praticità, di igiene, di sicurezza? No, l'indumento è fatto apposta per essere adoperato in piscina.
Non si può identificare il volto di chi lo indossa? E perché mai, se l'unica cosa scoperta è il volto? (peraltro, finché lo usano tre in tutta Italia, l'identificazione ha l'aria di un falso problema).
“Spaventa i bambini”? Ecco, questo invece sì che è un vero problema. Bambini italiani che si spaventano davanti a figure femminili completamente coperte... E poni che un giorno per sbaglio passino davanti a una statua della Madonna (in Veneto se ne trovano alcune), ti immagini lo choc?
Più probabilmente è una questione religiosa, e cioè: il burkini non va bene perché è roba islamica. Infatti, se se lo infila una ragazza italiana allergica al cloro, nessuno si preoccupa: il burkini ridiventa una comunissima “muta”, i bambini non si spaventano più, il bagnino non si attiva, i giornalisti non ne scrivono niente. È come ritrovarsi e inginocchiarsi in piazza: tutti lo possono fare, è garantito dalla Costituzione... ma se si scopre che stanno pregando in arabo non va più bene, scandalo (“Ma avevamo chiesto il permesso” “Non importa, è uno scandalo” “Ma c'è libertà di culto...” “Sì, ma mica in piazza”).
Se tutto questo ancora non vi basta per trovare esecrabile il burkini, se insomma siete alla ricerca di una ragione in più per odiarlo senza passare per bambini frignoni o comunissimi islamofobi, Repubblica di giovedì scorso vi dava un ulteriore motivo, forse determinante. O no? Insomma, valutate voi. Il burkini è sbagliato perché eccita Francesco Merlo.
Esatto, proprio così. L'indumento riprodotto nella foto sopra ha il potere di risvegliare gli appetiti sessuali del siculo editorialista.
Il bikini, che passa inosservato, è più casto del burkini che morbosamente, almeno nelle nostre piscine, spinge a indagare e a spiare le forme dei corpi femminili. E di sicuro il Corano invita al pudore ma non al martirio come espediente erotico. Fermo restando che in Europa ciascuno ha il diritto di coprirsi come vuole, anche quando fa il bagno in piscina o al mare, non ci pare soltanto ridicolo che una signora si immerga con una specie di aderente cappotto. Fosse un abito da sera ne subiremmo il fascino, e potremmo anche regalarlo alle nostre donne che, in certi momenti, giocano a lasciare indovinare cosa c' è sotto un vestito castigato tra luci, calici e sorrisi di sana seduzione [Non male. Se il burkini fosse un abito da sera, sarebbe un regalo da maschio latino. E se avesse le rotelle sarebbe un carrello della spesa, aggiungerei]. Al contrario, in piscina, una donna in abito da sera viene subito spogliata dagli sguardi maschili.A questo punto sorge spontanea una domanda: Merlo, che piscine frequenti? Donne in abito da sera, sguardi maschili che spogliano... no, così, per curiosità, che orari fanno? Ci sono sconti per i dipendenti pubblici? Eh, no, niente, mi ero distratto. Torniamo al pezzo.
Mettete, per dire, una suora in una piscinaChe idea. Sul serio: perché non mettiamo una suora in piscina? Ma se la suora preferisce di no (non possiamo mica obbligarla, noi), perché non la mettiamo almeno ogni tanto in prima pagina? Insomma, la storia ci sarebbe: decine di migliaia di donne nella sola Italia che in qualsiasi stagione, in barba ai costumi correnti, vanno in giro coperte dai capelli in giù: sostengono di farlo per libera scelta, ma sarà vero? Anche le mogli islamiche dicono così, mica la beviamo. E sapete una cosa? Molte di queste signorine lavorano nelle scuole! Nelle stesse scuole dove una musulmana non può coprirsi i capelli perché... “spaventa i bambini”.
Ma tergiverso. Torniamo a Merlo, e al suo esperimento mentale: cosa succede se tuffiamo una suora in piscina? Beh, secondo il principio di Archimede, dovrebbe riaffiorare. Certo, con quei vestiti... ecco, in questo caso un burkini le farebbe persino comodo, tuttavia...
No, scusate, sono sulla cattiva strada. A Merlo non interessa la suora in quanto corpo grave immerso in un fluido, bensì come fonte di interesse lascivo. Come, pure la suora? Ebbene sì, essa pure.
Mettete, per dire, una suora in una piscina e vedrete come accenderà i più lascivi: gomitate, risatine...Ora io non so che suore ci siano dalle vostre parti, ma l'immagine di una di quelle che ho frequentato io, siano clarisse o delll'ordine del SS. Cuore di Gesù, immersa in una piscina, non mi accende proprio. Oserei dire che mi spegne anche un po'. C'è qualcosa che non va nella mia virilità? Ma insomma in che razza di piscine vai, Merlo? Che gente frequenti? Si danno le gomitate quando si tuffano le suore? Diciamola tutta, è quel tipo di gente che va tenuta lontana dai termosifoni tubolari, è così? Gente a cui il pastore non affiderebbe il gregge nemmeno per il tempo di una pisciatina, così hanno molto tempo libero e vanno in piscina con Merlo a guardare le suore. E non ce l'hanno una doccia fredda, in quella piscina lì? Perché, insomma, potrebbe aiutare.
Insomma queste donne in burkini rimettono in vita tutto l' eros represso dei maschi caproni, li risvegliano, li provocano al gioco dell' indovina cosa c' è sotto, se mutande e reggiseno, se tanga «e chissà com' è fatta..., e chissà quanto è rotonda». È l' eros dei nostri preti con la tonaca, quello che piaceva alla frigida Lulù di Jean Paul Sartre: il burkini, quando non è ridicolo, è un vizio.Va bene, abbiamo capito (il pezzo continua per altre tremila battute, ma abbiamo capito). Sintetizzando ulteriormente: Il burkini cosa religiosa sembra, ma in realtà esca sessuale è.
Beh, ma fosse anche?
L'idea che nell'era di youporn qualcuno riesca ancora a eccitarsi con una muta da sub, se non facesse sorridere, sarebbe commovente: non tutto è perduto, ci sono ancora margini di erotismo inesplorati. Ditelo ai cameramen di Sarabanda che per mesi hanno seguito il fondoschiena di Belem Rodriguez che andava a tuffarsi: basta così, tornate indietro (anche perché il passo successivo sarebbe la colonscopia), l'anno prossimo fasciatela di cotone dalla testa ai piedi, garantisco che a molti basterà – perlomeno ai compagni di nuoto di Merlo.
Ma fosse anche. Siamo laici, che senso ha fare del moralismo? L'islamica ha diritto di fasciarsi, il maschio siculo di eccitarsi: chi ci rimette? Mi sembra un raro e commendevole esempio di situazione win/win. E allora?
E allora forse senza volere Merlo ha centrato il problema. Quello che ci disgusta di più, dell'Islam, non è il maschilismo. Non sono le bombe (che per ora da noi non si son viste). Quello che ci rende l'Islam più indigesto di altre religioni, è che ci assomiglia da vicino. È la nostra foto in bianco e nero, di quando eravamo più giovani e passavamo pomeriggi in piscina nel tentativo d'intravedere un'ascella: e tra gomitate e risatine si passava il sabato. Il ritratto di noi stessi da poveri, questo è l'Islam. L'Internazionale Terrona(*) che ci torna in casa – speravamo di averla fatta fuori, sommersa di rifiuti postmoderni, niente da fare: eccola puntuale col suo fardello di donne fasciate e maschi perennemente allupati. I nordici queste cose non le possono capire: noi gli arabi li odiamo come si odiano i parenti poveri. Che ci piovono in casa. E il prete dice pure che non possiamo tenerli fuori, ah, sciagura.
* (c) Lia, mi pare.
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Graven by a fool!
21-08-2009, 03:20anglistica, autoreferenziali, coccodrilli, cultura, leggerePermalinkNow that I am dead I must submit to an epitaph
Un buon motivo per morire in agosto è che non succede molto altro e c'è più spazio sui giornali per celebrarti – non importa che i giornalisti siano in ferie, basta recuperare i coccodrilli, aggiornare le date... detto questo, forse sulla prima pagina di Repubblica di mercoledì 19 agosto Fernanda Pivano si sarebbe meritata un titolo più in alto: d'accordo, non sopra le elezioni afgane, e forse nemmeno al livello degli shorts di Mrs Obama. Sicuramente più in alto del burkini di Verona, ma cosi è la vita. No, la morte.
Quello che però trovo davvero discutibile – nel senso di meritevole di una discussione, non necessariamente polemica – è il titolo: È morta la Pivano ci regalò Spoon River. Più in piccolo: La scrittrice aveva 92 anni scoprì la beat-generation. Le epigrafi sono sempre insoddisfacenti, si sa; ma questa mi ha sinceramente incuriosito al punto che aprirei un dibattito. Ovvero: dovendo riassumere in una misera frasetta la carriera di un'intellettuale che ha scoperto e tradotto la fetta più consistente di letteratura americana del '900, da Hemingway a Scott Fitzgerald a Pound su fino a Kerouac e Dylan, e ancora su, su, su fino a Bukowski o McInerney, voi scegliereste proprio quel vecchio tetro libro di versi sciolti, Spoon River? Non Addio alle armi? Nemmeno Tenera è la notte? No, ma neanche Sulla strada? Ah, ipocriti lettori.
Miei simili, fratelli. Giù la maschera: voi non avete veramente letto Allen Ginsberg, e neanch'io. Nessuno che io sappia ha mai seriamente affrontato Corso e Ferlinghetti, sempre citati uno dopo l'altro col rischio di confonderli prima o poi con quei due anarchici finiti sulla sedia. I veri poeti beat sono sempre stati più tradotti che letti, come tutti i poeti del resto. Persino Dylan: non ne trovi poi così tanti che si pongano il problema (cruciale) di cosa stia cantando Dylan. Ma Hemingway o Kerouac li abbiamo letti tutti. Anche troppo. E troppo presto, sicuramente. Ora mi chiedo: Spoon River regge il confronto? Non dico in termini di valore, per carità, ma di ricezione del pubblico. Hemingway lo riconoscono tutti: quanti di voi hanno riconosciuto Edgard Lee Masters nella fotina qua sopra? E il suo libro, tradotto di nascosto da una liceale nel '43, scoperto in un cassetto dal suo insegnante, il prof. Pavese, e prontamente spedito alla Giulio Einaudi Editore: il suo libro, quanti lo avranno in casa? E di questi, quanti avranno provato a leggerlo?
Io in questo caso non faccio testo. Il mio Spoon River è qui, davanti a me. È sopravvissuto a tre traslochi, ma non è invecchiato nella maniera dignitosa dei libri degli adulti. Per fare un esempio, lungo il taglio delle pagine c'è una macchia... arancione. Un pennarello carioca. La dedica a pagina 3 mi conferma quello a cui fatico a credere: è un regalo della mamma, per il mio dodicesimo compleanno. Edizione col testo a fronte, così avrei migliorato il mio inglese. Mamma, e poi lamentati. Hai rischiarato la mia preadolescenza coi fuochi fatui del libro più sepolcrale mai scritto – 244 poesie, 248 morti, ogni volta che giri una pagina crepa almeno un personaggio, mi chiesi spesso perché non ne avessero tratto un film. Già, perché? Una trama così irresistibile. Frank Drummer vuole imparare l'Enciclopedia a memoria, ma muore. Washington McNeely siede sotto il cedro finché muore. Cassius Hueffer muore e gli sbagliano l'epitaffio – beh, forse un film no, ma una miniserie...
Si veniva su così, in provincia, appoggiandosi a quello che si trovava in giro, senza preoccuparsi più di tanto se era o no adatto a noi – l'importante era che fosse cultura, roba seria: e poi col tempo saremmo diventati seri anche noi. Quando, mesi dopo, fondai con mio cugino la mia prima band, l'idea di scrivere testi in inglese era parzialmente minata dalla quasi totale incapacità di formulare concetti più complessi di La Penna È Sulla Tavola. Ricordo quindi intense sessioni creative davanti al Garzanti tascabile e all'Antologia di Spoon River. I morti di Spoon mi insegnarono come si coniugano i tempi al passato e al futuro. E mentre cercavo “la poesia di quello che dice Una serpe ha fatto il nido nel mio cuore” per copiare di pacca il sintagma, mi rileggevo i duecento destini tristi di questi americani qualunque che nemmeno sapevo di che secolo fossero, senz'altro un secolo in bianco e nero, ma a parte questo non era difficile immaginarli sotto le pagliette e nei fustagni dei miei nonni, gente qualunque che si lascia morire in un paesino di provincia. La macchia di pennarello data senz'altro da quel periodo.
Oggi non saprei se consigliare a qualcuno l'antologia di Spoon River. A qualcuno, intendo, che non sia un dodicenne un po' fuori dal mondo disposto a mandar giù un volume di duecento pagine e duecento e più morti, dando per scontato che ne capirà il venti per cento, e quel venti per cento non se lo scorderà per tutto il resto della vita. Ci si formava con quel che si trovava in giro, la roba dimenticata sulle mensole dei genitori, centinaia di pagine buttate giù di nascosto sperando in qualche scena di sesso ogni tanto.
Quante volte poi mi sono detto: Hai tessuto il tuo sudario! Io sedevo sotto il cedro! E perché mi torturi coi fogli e coi piccoli appunti? Vidi che anch'io ero una buona macchina che la vita non aveva adoperato. Tutto questo, ci tengo a dirlo, non è merito mio. Io cos'ero a dodici anni, se non una macchinetta, non molto più complessa del mio registratorino panasonic col tasto rec arancione. Pronto a ingozzarmi di qualsiasi cosa mi spacciassero per Cultura e Poesia, per Vita e per Morte – potenzialmente, un bimbominchia. Nel senso che se dall'altra parte del meccanismo ci fossero stati i manga, o Harry Potter, o Twilight, avrei buttato giù quintalate di manga, HP, Twilight.
Ma dall'altra parte del meccanismo c'era ancora gente come Fernanda Pivano. In senso lato, c'era l'Einaudi. Una specie di grande famiglia di gente coltissima, ma a portata di edicola, che si interessava di te da quando nascevi. Cominciavano con Gianni Rodari, proseguivano con le antologie scolastiche curate da Calvino. Tu a nove anni chiedevi alla nonna per regalo Huckleberry Finn, perché avevi visto il cartone in tv, e lei ubbidiente sotto l'albero di Natale ti faceva trovare uno Struzzo Einaudi con una prefazione tostissima in cui si parlava di Bildungsroman e si seminavano interrogativi velenosi (se lo schiavo Jim vuole la libertà, perché non attraversa semplicemente il Mississippi, invece di andare sempre più a sud?) Qualche anno dopo un prof di musica ti prestava dischi di Dylan e per capirci qualcosa, a chi dovevi riferirti? Alla Pivano: come ritrovare in un negozio di dischi una vecchia zia che fino a quel momento avevi incrociato soltanto al cimitero. Di questo passo arrivavi alle superiori non dico con una cultura, ma con un'idea di cosa la cultura fosse: libri e autori che dialogano tra loro – il più delle volte è un dialogo tra sordi, come i morti di Spoon River, ma in mezzo ci siamo noi, siamo noi che portiamo i messaggi tra un sordo e l'altro, noi che vorremmo urlare al reverendo Wiley che si è sbagliato, che non doveva affatto “salvare i Bliss dal divorzio”. Preachers and judges! Non sanno niente della vita, a dodici anni era già chiaro. Perché un preadolescente non dovrebbe capirlo? E' la vita, è la morte: non sono mica concetti complessi.
Più tardi ci sarebbe stata l'età della ribellione, e il suo Kerouac; l'età di farsi una cultura sul serio coi suoi Hemingway e i suoi Scott Fitzgerald; e così via. Ma quella è adolescenza, faccio fatica a riconoscerla e persino a ricordarla. Forse davvero gli unici libri sono quelli che mandiamo giù fino a tredici anni, senza capirli. Uomini e donne di domani, vi porterete con voi Harry Potter per tutta la vita. Speriamo che vi faccia bene.
Io rimpiango la Pivano, non da ieri: non per nostalgia; oppure sì, per nostalgia, ma certo non di Ginsberg e dei suoi mantra. Nostalgia di un progetto culturale che oggi, a riassumerlo, suona pura eresia: siccome gli italiani leggono poco, facciamogli leggere soltanto cose di assoluta qualità. A tutte le età. E vediamo cosa succede. Ok, non è successo un granché. Ma io ho letto Spoon River, tradotto da Fernanda Pivano. Non è escluso che abbia fatto di me una persona migliore.
Un buon motivo per morire in agosto è che non succede molto altro e c'è più spazio sui giornali per celebrarti – non importa che i giornalisti siano in ferie, basta recuperare i coccodrilli, aggiornare le date... detto questo, forse sulla prima pagina di Repubblica di mercoledì 19 agosto Fernanda Pivano si sarebbe meritata un titolo più in alto: d'accordo, non sopra le elezioni afgane, e forse nemmeno al livello degli shorts di Mrs Obama. Sicuramente più in alto del burkini di Verona, ma cosi è la vita. No, la morte.
Quello che però trovo davvero discutibile – nel senso di meritevole di una discussione, non necessariamente polemica – è il titolo: È morta la Pivano ci regalò Spoon River. Più in piccolo: La scrittrice aveva 92 anni scoprì la beat-generation. Le epigrafi sono sempre insoddisfacenti, si sa; ma questa mi ha sinceramente incuriosito al punto che aprirei un dibattito. Ovvero: dovendo riassumere in una misera frasetta la carriera di un'intellettuale che ha scoperto e tradotto la fetta più consistente di letteratura americana del '900, da Hemingway a Scott Fitzgerald a Pound su fino a Kerouac e Dylan, e ancora su, su, su fino a Bukowski o McInerney, voi scegliereste proprio quel vecchio tetro libro di versi sciolti, Spoon River? Non Addio alle armi? Nemmeno Tenera è la notte? No, ma neanche Sulla strada? Ah, ipocriti lettori.
Miei simili, fratelli. Giù la maschera: voi non avete veramente letto Allen Ginsberg, e neanch'io. Nessuno che io sappia ha mai seriamente affrontato Corso e Ferlinghetti, sempre citati uno dopo l'altro col rischio di confonderli prima o poi con quei due anarchici finiti sulla sedia. I veri poeti beat sono sempre stati più tradotti che letti, come tutti i poeti del resto. Persino Dylan: non ne trovi poi così tanti che si pongano il problema (cruciale) di cosa stia cantando Dylan. Ma Hemingway o Kerouac li abbiamo letti tutti. Anche troppo. E troppo presto, sicuramente. Ora mi chiedo: Spoon River regge il confronto? Non dico in termini di valore, per carità, ma di ricezione del pubblico. Hemingway lo riconoscono tutti: quanti di voi hanno riconosciuto Edgard Lee Masters nella fotina qua sopra? E il suo libro, tradotto di nascosto da una liceale nel '43, scoperto in un cassetto dal suo insegnante, il prof. Pavese, e prontamente spedito alla Giulio Einaudi Editore: il suo libro, quanti lo avranno in casa? E di questi, quanti avranno provato a leggerlo?
Io in questo caso non faccio testo. Il mio Spoon River è qui, davanti a me. È sopravvissuto a tre traslochi, ma non è invecchiato nella maniera dignitosa dei libri degli adulti. Per fare un esempio, lungo il taglio delle pagine c'è una macchia... arancione. Un pennarello carioca. La dedica a pagina 3 mi conferma quello a cui fatico a credere: è un regalo della mamma, per il mio dodicesimo compleanno. Edizione col testo a fronte, così avrei migliorato il mio inglese. Mamma, e poi lamentati. Hai rischiarato la mia preadolescenza coi fuochi fatui del libro più sepolcrale mai scritto – 244 poesie, 248 morti, ogni volta che giri una pagina crepa almeno un personaggio, mi chiesi spesso perché non ne avessero tratto un film. Già, perché? Una trama così irresistibile. Frank Drummer vuole imparare l'Enciclopedia a memoria, ma muore. Washington McNeely siede sotto il cedro finché muore. Cassius Hueffer muore e gli sbagliano l'epitaffio – beh, forse un film no, ma una miniserie...
Si veniva su così, in provincia, appoggiandosi a quello che si trovava in giro, senza preoccuparsi più di tanto se era o no adatto a noi – l'importante era che fosse cultura, roba seria: e poi col tempo saremmo diventati seri anche noi. Quando, mesi dopo, fondai con mio cugino la mia prima band, l'idea di scrivere testi in inglese era parzialmente minata dalla quasi totale incapacità di formulare concetti più complessi di La Penna È Sulla Tavola. Ricordo quindi intense sessioni creative davanti al Garzanti tascabile e all'Antologia di Spoon River. I morti di Spoon mi insegnarono come si coniugano i tempi al passato e al futuro. E mentre cercavo “la poesia di quello che dice Una serpe ha fatto il nido nel mio cuore” per copiare di pacca il sintagma, mi rileggevo i duecento destini tristi di questi americani qualunque che nemmeno sapevo di che secolo fossero, senz'altro un secolo in bianco e nero, ma a parte questo non era difficile immaginarli sotto le pagliette e nei fustagni dei miei nonni, gente qualunque che si lascia morire in un paesino di provincia. La macchia di pennarello data senz'altro da quel periodo.
Oggi non saprei se consigliare a qualcuno l'antologia di Spoon River. A qualcuno, intendo, che non sia un dodicenne un po' fuori dal mondo disposto a mandar giù un volume di duecento pagine e duecento e più morti, dando per scontato che ne capirà il venti per cento, e quel venti per cento non se lo scorderà per tutto il resto della vita. Ci si formava con quel che si trovava in giro, la roba dimenticata sulle mensole dei genitori, centinaia di pagine buttate giù di nascosto sperando in qualche scena di sesso ogni tanto.
Quante volte poi mi sono detto: Hai tessuto il tuo sudario! Io sedevo sotto il cedro! E perché mi torturi coi fogli e coi piccoli appunti? Vidi che anch'io ero una buona macchina che la vita non aveva adoperato. Tutto questo, ci tengo a dirlo, non è merito mio. Io cos'ero a dodici anni, se non una macchinetta, non molto più complessa del mio registratorino panasonic col tasto rec arancione. Pronto a ingozzarmi di qualsiasi cosa mi spacciassero per Cultura e Poesia, per Vita e per Morte – potenzialmente, un bimbominchia. Nel senso che se dall'altra parte del meccanismo ci fossero stati i manga, o Harry Potter, o Twilight, avrei buttato giù quintalate di manga, HP, Twilight.
Ma dall'altra parte del meccanismo c'era ancora gente come Fernanda Pivano. In senso lato, c'era l'Einaudi. Una specie di grande famiglia di gente coltissima, ma a portata di edicola, che si interessava di te da quando nascevi. Cominciavano con Gianni Rodari, proseguivano con le antologie scolastiche curate da Calvino. Tu a nove anni chiedevi alla nonna per regalo Huckleberry Finn, perché avevi visto il cartone in tv, e lei ubbidiente sotto l'albero di Natale ti faceva trovare uno Struzzo Einaudi con una prefazione tostissima in cui si parlava di Bildungsroman e si seminavano interrogativi velenosi (se lo schiavo Jim vuole la libertà, perché non attraversa semplicemente il Mississippi, invece di andare sempre più a sud?) Qualche anno dopo un prof di musica ti prestava dischi di Dylan e per capirci qualcosa, a chi dovevi riferirti? Alla Pivano: come ritrovare in un negozio di dischi una vecchia zia che fino a quel momento avevi incrociato soltanto al cimitero. Di questo passo arrivavi alle superiori non dico con una cultura, ma con un'idea di cosa la cultura fosse: libri e autori che dialogano tra loro – il più delle volte è un dialogo tra sordi, come i morti di Spoon River, ma in mezzo ci siamo noi, siamo noi che portiamo i messaggi tra un sordo e l'altro, noi che vorremmo urlare al reverendo Wiley che si è sbagliato, che non doveva affatto “salvare i Bliss dal divorzio”. Preachers and judges! Non sanno niente della vita, a dodici anni era già chiaro. Perché un preadolescente non dovrebbe capirlo? E' la vita, è la morte: non sono mica concetti complessi.
Più tardi ci sarebbe stata l'età della ribellione, e il suo Kerouac; l'età di farsi una cultura sul serio coi suoi Hemingway e i suoi Scott Fitzgerald; e così via. Ma quella è adolescenza, faccio fatica a riconoscerla e persino a ricordarla. Forse davvero gli unici libri sono quelli che mandiamo giù fino a tredici anni, senza capirli. Uomini e donne di domani, vi porterete con voi Harry Potter per tutta la vita. Speriamo che vi faccia bene.
Io rimpiango la Pivano, non da ieri: non per nostalgia; oppure sì, per nostalgia, ma certo non di Ginsberg e dei suoi mantra. Nostalgia di un progetto culturale che oggi, a riassumerlo, suona pura eresia: siccome gli italiani leggono poco, facciamogli leggere soltanto cose di assoluta qualità. A tutte le età. E vediamo cosa succede. Ok, non è successo un granché. Ma io ho letto Spoon River, tradotto da Fernanda Pivano. Non è escluso che abbia fatto di me una persona migliore.
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Una bandiera, una speme
18-08-2009, 01:29fratelli d'I., musicaPermalinkNoi siamo da secoli calpesti, derisi
Col tempo uno finisce col rendersi conto che la polemica sull'Inno nazionale è molto più stucchevole dell'inno stesso. Perché insomma, cosa pretendete da una canzone patriottica? È una simpatica marcetta, niente più e niente di meno; è ottocentesca, siccome la patria è nata nell'Ottocento; probabilmente non commuove nessuno ma per le parate e le pose pre-partita va benissimo. Può darsi che sia più bello il Va' pensiero – anzi, lo è senza dubbio – ma poi la gente dovrebbe alzarsi a teatro in mezzo al Nabucco, ne vale la pena?
L'unico vero rilievo è al testo – in effetti lo chiamano tutti Inno di Mameli, ma l'unica cosa che funziona bene è la musichetta di Novaro, con quell'irresistibile po-ro-po po-roppo-pò che toglie agli ascoltatori qualsiasi dubbio sulla serietà della nazione a cui si sta inneggiando. Il testo, sì, è quel disastro che sappiamo: soprattutto la prima strofa, con quello Scipio e quella Vittoria che nessuno sa bene chi siano e perché la seconda debba porgere la chioma al primo, l'annoso equivoco sul numero di “o” di “coorte” (cambia tutto se invece di stringerci in un plotone compatto preferiamo semplicemente paracularci intorno a un re o a un principe; ma in fondo già allora i garibaldini da Marsala a Teano avevano la “o” variabile a seconda della necessità del momento), e soprattutto la sinistra promessa di martirio, “siam pronti alla morte”, roba da hezbollah, poco consona alle occasioni sportive.
Si potrebbe ovviare con una situazione semplice, alla tedesca: loro alla caduta del nazismo hanno semplicemente cassato la prima strofa, Deutschland Deutschland über alles, eccetera. Noi potremmo fare lo stesso – in effetti la seconda strofa è quella che mi piace di più:
Purtroppo mi sembra incantabile. Ma con un po' di pratica.
In alternativa propongo il Rugido do Leão di Piccioni. Ideale per la parata del due giugno, e i calciatori non dovrebbero nemmeno imparare le parole.
Col tempo uno finisce col rendersi conto che la polemica sull'Inno nazionale è molto più stucchevole dell'inno stesso. Perché insomma, cosa pretendete da una canzone patriottica? È una simpatica marcetta, niente più e niente di meno; è ottocentesca, siccome la patria è nata nell'Ottocento; probabilmente non commuove nessuno ma per le parate e le pose pre-partita va benissimo. Può darsi che sia più bello il Va' pensiero – anzi, lo è senza dubbio – ma poi la gente dovrebbe alzarsi a teatro in mezzo al Nabucco, ne vale la pena?
L'unico vero rilievo è al testo – in effetti lo chiamano tutti Inno di Mameli, ma l'unica cosa che funziona bene è la musichetta di Novaro, con quell'irresistibile po-ro-po po-roppo-pò che toglie agli ascoltatori qualsiasi dubbio sulla serietà della nazione a cui si sta inneggiando. Il testo, sì, è quel disastro che sappiamo: soprattutto la prima strofa, con quello Scipio e quella Vittoria che nessuno sa bene chi siano e perché la seconda debba porgere la chioma al primo, l'annoso equivoco sul numero di “o” di “coorte” (cambia tutto se invece di stringerci in un plotone compatto preferiamo semplicemente paracularci intorno a un re o a un principe; ma in fondo già allora i garibaldini da Marsala a Teano avevano la “o” variabile a seconda della necessità del momento), e soprattutto la sinistra promessa di martirio, “siam pronti alla morte”, roba da hezbollah, poco consona alle occasioni sportive.
Si potrebbe ovviare con una situazione semplice, alla tedesca: loro alla caduta del nazismo hanno semplicemente cassato la prima strofa, Deutschland Deutschland über alles, eccetera. Noi potremmo fare lo stesso – in effetti la seconda strofa è quella che mi piace di più:
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un'Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò
Purtroppo mi sembra incantabile. Ma con un po' di pratica.
In alternativa propongo il Rugido do Leão di Piccioni. Ideale per la parata del due giugno, e i calciatori non dovrebbero nemmeno imparare le parole.
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Estrazioni del Presidente
16-08-2009, 02:01futurismi, referendum, StoriaPermalink La democrazia a premi
ROMA – dal nostro inviato
Confesso, la prima riga di questo pezzo l'avevo in mente quando ero ancora in fila per il check-in, diceva: ROMA – file interminabili davanti alle ricevitorie, una cosa cosi'. Poi arrivo a Roma, mi infilo in un taxi, « Mi porti davanti a una ricevitoria affollata » dico al tassista, lui mi scorrazza per tutta la città eterna senza trovare una sola coda. Insomma, la maledizione dei luoghi comuni ha colpito ancora. La gente gioca, non dico di no, ma ho visto molta più furia davanti a certe slot di Las Vegas.
«La storia degli assalti alle ricevitorie è in gran parte un mito», ammette Giacinto Mariotti, dirigente del movimento Lottomatica Per La Democrazia davanti a un caffè con la schiuma. «Era un sistema per reclamizzare il gioco, nell'epoca pre-istituzionale, quando i cittadini avevano la facoltà di giocare tutte le schedine che volevano. Già allora il Superenalotto era un affare d'oro per le casse dello Stato, e quindi la tv di Stato faceva tutto il possibile per pompare il fenomeno: si inventava le code, intervistava i turisti che giocavano e titolava Vengono in Italia apposta per giocare, roba del genere... che c'è, il suo caffè è troppo caldo? »
«No, mi è andato di traverso»
« Si', ma perché, forse ho detto qualcosa che non... ah, già, dimenticavo. Lo choc culturale».
Sfido io a non farsi andare di traverso anche il migliore espresso di Via Veneto, mentre vi fate raccontare la storia di uno Stato che incita i suoi cittadini al gioco d'azzardo, attraverso la televisione pagata dai cittadini stessi. «L'Italia è cosi'», si stringe le spalle Mariotti, «Io sono tra quelli che credono che si possa migliorare, ma solo a patto di ammettere che è cosi', che il punto di partenza è questo... dopo la fine del Berlusconismo si trattava di trovare una via alla democrazia, alla partecipazione, senza pero' fingere che non fosse successo niente. Non si poteva tornare alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista, semplicemente perché i militanti di quei grandi partiti erano ormai tutti morti o quasi. Bisognava ripartire dalla tabula rasa... che poi cosi' rasa non era: la strutture, a cercarle, c'erano...»
«Il Superenalotto, per esempio».
«Puo' suonare eretico, ma è proprio cosi'. Lo si poteva vedere come un sistema per fare cassa, lucrando sulle illusioni della gente... ma anche come un grande momento di comunione popolare, gente di ogni ceto e razza unite dall'abitudine di giocarsi dei numeri. Per molti anni noi abbiamo cercato un minimo comune denominatore per tutti gli italiani, e non riuscivamo a trovarlo, finché...»
«...non siete entrati in ricevitoria».
«Già. E pensare che era appena dall'altra parte della strada».
Prima di fondare LottomaticaXLD, Giacinto militava in un piccolo partito di cui si vergogna persino a fare il nome. «Eravamo quattro gatti », scherza, «senza grosse possibilità di entrare in parlamento. Ma credevamo di possedere l'Arma segreta». L'arma segreta era il Referendum abrogativo, uno strumento previsto dalla Costituzione italiana, che teoricamente consentiva anche ai piccoli partiti di influire sulla vita politica. Bastava (si fa per dire) raccogliere 150mila firme per indire un referendum che permettesse di cambiare un testo di legge. Il primo storico referendum abrogativo fu indetto nel 1974, promosso dai cattolici che volevano revocare la legge sul divorzio appena emanata: la maggioranza degli italiani, contro ogni pronostico, voto' per mantenere il divorzio. Da allora il referendum divenne una delle forme di partecipazione democratica più apprezzate dagli italiani, che nei vent'anni successivi votarono per decine di quesiti referendari: in quegli anni i raccoglitori di firme esercitavano un vero e proprio contropotere rispetto al Parlamento. Ancora a metà degli anni Novanta un referendum poteva troncare la carriera di un politico, o viceversa farla decollare. Col tempo, tuttavia, subentro' una certa stanchezza, aggravata dal fatto che i referendum abrogativi italiani (a differenza di quelli svizzeri) per essere validi dovevano portare almeno la maggioranza degli italiani nelle urne. Un risultato sempre più difficile da ottenere, nei lunghi anni dell'ipnosi berlusconiana (non è un caso che uno degli ultimi referndum validi fosse quello che consentiva ai canali di Berlusconi di interrompere i programmi con gli spot).
Nel frattempo, « dall'altra parte della strada », il Superenalotto diventava un fenomeno di costume. Un concorso a premi gestito dallo Stato, basato sui concorsi locali pre-esistenti (le ruote del Lotto), a cui si aggiungeva un'intuizione venuta da lontano: il jackpot. Nel giro di un decennio il superenalotto era diventato il concorso più lucroso del mondo. Oppure, per dirla con Mariotti, un grande momento di comunione popolare. «Senza dubbio il fatto che il concorso fosse gestito dallo Stato fu determinante, quando nel 2014 avanzammo la prima proposta di abbinare un quesito referendario alla schedina. Ci prendevano per matti, ma nessuno riusciva a spiegare esattamente cosa ci fosse di sbagliato nell'idea».
Già, cosa c'è di male? La Costituzione certo non proibisce espressamente di abbinare la scheda elettorale alla schedina del superenalotto. Chi non avrebbe voluto spendere una manciata di euro per esercitare un sacrosanto diritto avrebbe potuto giocare, pardon, usare la scheda semplice, non abbinata al concorso: ma sin dall'inizio fu chiaro che sarebbero stati una minoranza. La prima Estrazione Referendaria ebbe luogo nel 2017: l'argomento era il Nucleare (un vecchio cavallo di battaglia dei referendari). Fu un successo clamoroso. L'argomento non era molto popolare, e il dibattito era stato snobbato dai media: eppure il quorum (che in quegli anni oscillava intorno al 20%) schizzo' all'80. «Molta gente scopri' che c'era un referendum direttamente in ricevitoria: mentre giocava voltava la scheda e trovava il quesito: volete i reattori nucleari nelle zone a rischio sismico si' o no? Naturalmente fummo sommersi dalle critiche, si diceva che in questo modo banalizzavamo l'istituto referendario, lo trasformavamo in una specie di sondaggio... in parte avevano ragione. Pero' banalizzando lo avevamo rimesso in funzione: la gente si poneva i problemi, anche solo per qualche secondo in tabaccheria, pero' se li poneva... imparava a valutare i pro e i contro delle sue scelte, ne discuteva...»
«E qualcuno ci vinceva anche qualcosa».
«Non c'è niente di male in questo».
«Ma è sicuro che l'abbinamento al referendum non abbia in qualche modo incentivato il gioco d'azzardo?»
«Credo il contrario».
«Addirittura».
«Il gioco d'azzardo esisteva già, non lo abbiamo certo inventato noi. Prima dell'abbinamento referendario esisteva la possibilità per il singolo di giocare più schede. Capitava ogni tanto che un vecchietto si giocasse la pensione. Questa possibilità è teoricamente svanita da quando il superenalotto è diventato un voto (prima solo referendario, poi anche legislativo e amministrativo). Oggi per giocare occorre fornire il proprio codice fiscale, e nessuno puo' giocare più di una schedina. Certo, ci si puo' ancora indebitare coi 'sistemoni' [schedine speciali che consentono di giocare piu' combinazioni], ma è una possibilità che esisteva già prima».
«E il traffico di voti? C'è chi dice...»
L'ennesima scrollata di spalle. «Certo, c'è gente che vende i propri dati, il proprio codice fiscale. Gli stessi che prima vendevano il loro voto. Questi sono difetti della democrazia in generale, non dell'Estrazione democratica in particolare. Esisteranno sempre, forse. O forse troveremo un modo per risolverli, un giorno. Nel frattempo abbiamo risolto altri problemi: abbiamo riportato un popolo nelle urne, non mi sembra un risultato da poco».
La Democrazia a Premi. Un'idea cosi' semplice: eppure non era venuta in mente a nessuno, da Solone in poi. Forse ci potevano arrivare solo gli italiani, e solo dopo vent'anni di mediacrazia berlusconiana.
A Roma sono le sei del pomeriggio: l'estrazione è precvista tra un'ora. Giacinto mi saluta, si scusa ma deve tornare alla sede del suo partito, dove fervono i preparativi per i festeggiamenti. Oggi si vota per legalizzare l'etaunasia, sancire il diritto all'autodeterminazione dei feti e l'impiccagione per i clandestini in possesso di schedine del superenalotto. «Ho votato rispettivamente si', no e no», confessa Giacinto, «seguiro' l'Estrazione sul maxischermo coi miei compagni di partito».
«Ma... siete sicuri che festeggerete?»
«Festeggeremo comunque. Per un sincero democratico ogni voto è una festa».
«Ma mettiamo che vincesse».
«Be', meglio ancora».
«No, intendo dire: mettiamo che vincesse il Jackpot, col Premio speciale: la Presidenza...»
«...della Repubblica. Mah, so che le leggi della probabilità non sono dalla mia parte. Pero' non è elettrizzante sapere che stanotte uno qualsiasi di noi, uno su sessanta milioni, potrebbe diventare Presidente? Potrebbe essere una donna di mezz'età, uno spazzino di vent' anni, una colf regolarizzata...»
«Ma statisticamente sarà un pensionato bianco».
«La statistica non è che ci azzecchi sempre. E comunque, se i pensionati gioc... votano di piu', è giusto che abbiano piu' possibilità».
«E pensa che sarà un bravo presidente?»
«Non sarà difficile comportarsi meglio di altri che non sono stati estratti a sorte».
«Ehm, era una frecciata?»
«Ma no, è che non è cosi' difficile fare il Presidente della nostra Repubblica, dopotutto. Si tratta di farsi bendare, pescare cinque palline, aprirle... un bambino sarebbe capace».
«In effetti, perché non fate giocare anche i bambini?»
«E' un'ingiustizia, lo so. Ci stiamo lavorando».
ROMA – dal nostro inviato
Confesso, la prima riga di questo pezzo l'avevo in mente quando ero ancora in fila per il check-in, diceva: ROMA – file interminabili davanti alle ricevitorie, una cosa cosi'. Poi arrivo a Roma, mi infilo in un taxi, « Mi porti davanti a una ricevitoria affollata » dico al tassista, lui mi scorrazza per tutta la città eterna senza trovare una sola coda. Insomma, la maledizione dei luoghi comuni ha colpito ancora. La gente gioca, non dico di no, ma ho visto molta più furia davanti a certe slot di Las Vegas.
«La storia degli assalti alle ricevitorie è in gran parte un mito», ammette Giacinto Mariotti, dirigente del movimento Lottomatica Per La Democrazia davanti a un caffè con la schiuma. «Era un sistema per reclamizzare il gioco, nell'epoca pre-istituzionale, quando i cittadini avevano la facoltà di giocare tutte le schedine che volevano. Già allora il Superenalotto era un affare d'oro per le casse dello Stato, e quindi la tv di Stato faceva tutto il possibile per pompare il fenomeno: si inventava le code, intervistava i turisti che giocavano e titolava Vengono in Italia apposta per giocare, roba del genere... che c'è, il suo caffè è troppo caldo? »
«No, mi è andato di traverso»
« Si', ma perché, forse ho detto qualcosa che non... ah, già, dimenticavo. Lo choc culturale».
Sfido io a non farsi andare di traverso anche il migliore espresso di Via Veneto, mentre vi fate raccontare la storia di uno Stato che incita i suoi cittadini al gioco d'azzardo, attraverso la televisione pagata dai cittadini stessi. «L'Italia è cosi'», si stringe le spalle Mariotti, «Io sono tra quelli che credono che si possa migliorare, ma solo a patto di ammettere che è cosi', che il punto di partenza è questo... dopo la fine del Berlusconismo si trattava di trovare una via alla democrazia, alla partecipazione, senza pero' fingere che non fosse successo niente. Non si poteva tornare alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista, semplicemente perché i militanti di quei grandi partiti erano ormai tutti morti o quasi. Bisognava ripartire dalla tabula rasa... che poi cosi' rasa non era: la strutture, a cercarle, c'erano...»
«Il Superenalotto, per esempio».
«Puo' suonare eretico, ma è proprio cosi'. Lo si poteva vedere come un sistema per fare cassa, lucrando sulle illusioni della gente... ma anche come un grande momento di comunione popolare, gente di ogni ceto e razza unite dall'abitudine di giocarsi dei numeri. Per molti anni noi abbiamo cercato un minimo comune denominatore per tutti gli italiani, e non riuscivamo a trovarlo, finché...»
«...non siete entrati in ricevitoria».
«Già. E pensare che era appena dall'altra parte della strada».
Prima di fondare LottomaticaXLD, Giacinto militava in un piccolo partito di cui si vergogna persino a fare il nome. «Eravamo quattro gatti », scherza, «senza grosse possibilità di entrare in parlamento. Ma credevamo di possedere l'Arma segreta». L'arma segreta era il Referendum abrogativo, uno strumento previsto dalla Costituzione italiana, che teoricamente consentiva anche ai piccoli partiti di influire sulla vita politica. Bastava (si fa per dire) raccogliere 150mila firme per indire un referendum che permettesse di cambiare un testo di legge. Il primo storico referendum abrogativo fu indetto nel 1974, promosso dai cattolici che volevano revocare la legge sul divorzio appena emanata: la maggioranza degli italiani, contro ogni pronostico, voto' per mantenere il divorzio. Da allora il referendum divenne una delle forme di partecipazione democratica più apprezzate dagli italiani, che nei vent'anni successivi votarono per decine di quesiti referendari: in quegli anni i raccoglitori di firme esercitavano un vero e proprio contropotere rispetto al Parlamento. Ancora a metà degli anni Novanta un referendum poteva troncare la carriera di un politico, o viceversa farla decollare. Col tempo, tuttavia, subentro' una certa stanchezza, aggravata dal fatto che i referendum abrogativi italiani (a differenza di quelli svizzeri) per essere validi dovevano portare almeno la maggioranza degli italiani nelle urne. Un risultato sempre più difficile da ottenere, nei lunghi anni dell'ipnosi berlusconiana (non è un caso che uno degli ultimi referndum validi fosse quello che consentiva ai canali di Berlusconi di interrompere i programmi con gli spot).
Nel frattempo, « dall'altra parte della strada », il Superenalotto diventava un fenomeno di costume. Un concorso a premi gestito dallo Stato, basato sui concorsi locali pre-esistenti (le ruote del Lotto), a cui si aggiungeva un'intuizione venuta da lontano: il jackpot. Nel giro di un decennio il superenalotto era diventato il concorso più lucroso del mondo. Oppure, per dirla con Mariotti, un grande momento di comunione popolare. «Senza dubbio il fatto che il concorso fosse gestito dallo Stato fu determinante, quando nel 2014 avanzammo la prima proposta di abbinare un quesito referendario alla schedina. Ci prendevano per matti, ma nessuno riusciva a spiegare esattamente cosa ci fosse di sbagliato nell'idea».
Già, cosa c'è di male? La Costituzione certo non proibisce espressamente di abbinare la scheda elettorale alla schedina del superenalotto. Chi non avrebbe voluto spendere una manciata di euro per esercitare un sacrosanto diritto avrebbe potuto giocare, pardon, usare la scheda semplice, non abbinata al concorso: ma sin dall'inizio fu chiaro che sarebbero stati una minoranza. La prima Estrazione Referendaria ebbe luogo nel 2017: l'argomento era il Nucleare (un vecchio cavallo di battaglia dei referendari). Fu un successo clamoroso. L'argomento non era molto popolare, e il dibattito era stato snobbato dai media: eppure il quorum (che in quegli anni oscillava intorno al 20%) schizzo' all'80. «Molta gente scopri' che c'era un referendum direttamente in ricevitoria: mentre giocava voltava la scheda e trovava il quesito: volete i reattori nucleari nelle zone a rischio sismico si' o no? Naturalmente fummo sommersi dalle critiche, si diceva che in questo modo banalizzavamo l'istituto referendario, lo trasformavamo in una specie di sondaggio... in parte avevano ragione. Pero' banalizzando lo avevamo rimesso in funzione: la gente si poneva i problemi, anche solo per qualche secondo in tabaccheria, pero' se li poneva... imparava a valutare i pro e i contro delle sue scelte, ne discuteva...»
«E qualcuno ci vinceva anche qualcosa».
«Non c'è niente di male in questo».
«Ma è sicuro che l'abbinamento al referendum non abbia in qualche modo incentivato il gioco d'azzardo?»
«Credo il contrario».
«Addirittura».
«Il gioco d'azzardo esisteva già, non lo abbiamo certo inventato noi. Prima dell'abbinamento referendario esisteva la possibilità per il singolo di giocare più schede. Capitava ogni tanto che un vecchietto si giocasse la pensione. Questa possibilità è teoricamente svanita da quando il superenalotto è diventato un voto (prima solo referendario, poi anche legislativo e amministrativo). Oggi per giocare occorre fornire il proprio codice fiscale, e nessuno puo' giocare più di una schedina. Certo, ci si puo' ancora indebitare coi 'sistemoni' [schedine speciali che consentono di giocare piu' combinazioni], ma è una possibilità che esisteva già prima».
«E il traffico di voti? C'è chi dice...»
L'ennesima scrollata di spalle. «Certo, c'è gente che vende i propri dati, il proprio codice fiscale. Gli stessi che prima vendevano il loro voto. Questi sono difetti della democrazia in generale, non dell'Estrazione democratica in particolare. Esisteranno sempre, forse. O forse troveremo un modo per risolverli, un giorno. Nel frattempo abbiamo risolto altri problemi: abbiamo riportato un popolo nelle urne, non mi sembra un risultato da poco».
La Democrazia a Premi. Un'idea cosi' semplice: eppure non era venuta in mente a nessuno, da Solone in poi. Forse ci potevano arrivare solo gli italiani, e solo dopo vent'anni di mediacrazia berlusconiana.
A Roma sono le sei del pomeriggio: l'estrazione è precvista tra un'ora. Giacinto mi saluta, si scusa ma deve tornare alla sede del suo partito, dove fervono i preparativi per i festeggiamenti. Oggi si vota per legalizzare l'etaunasia, sancire il diritto all'autodeterminazione dei feti e l'impiccagione per i clandestini in possesso di schedine del superenalotto. «Ho votato rispettivamente si', no e no», confessa Giacinto, «seguiro' l'Estrazione sul maxischermo coi miei compagni di partito».
«Ma... siete sicuri che festeggerete?»
«Festeggeremo comunque. Per un sincero democratico ogni voto è una festa».
«Ma mettiamo che vincesse».
«Be', meglio ancora».
«No, intendo dire: mettiamo che vincesse il Jackpot, col Premio speciale: la Presidenza...»
«...della Repubblica. Mah, so che le leggi della probabilità non sono dalla mia parte. Pero' non è elettrizzante sapere che stanotte uno qualsiasi di noi, uno su sessanta milioni, potrebbe diventare Presidente? Potrebbe essere una donna di mezz'età, uno spazzino di vent' anni, una colf regolarizzata...»
«Ma statisticamente sarà un pensionato bianco».
«La statistica non è che ci azzecchi sempre. E comunque, se i pensionati gioc... votano di piu', è giusto che abbiano piu' possibilità».
«E pensa che sarà un bravo presidente?»
«Non sarà difficile comportarsi meglio di altri che non sono stati estratti a sorte».
«Ehm, era una frecciata?»
«Ma no, è che non è cosi' difficile fare il Presidente della nostra Repubblica, dopotutto. Si tratta di farsi bendare, pescare cinque palline, aprirle... un bambino sarebbe capace».
«In effetti, perché non fate giocare anche i bambini?»
«E' un'ingiustizia, lo so. Ci stiamo lavorando».
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