Arriva Elmo
18-01-2010, 16:29come diventare leghisti, ho una teoria, migranti, razzismi, scuolaPermalink
Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].
Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media.
All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.
Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette.
“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri...
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.
Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer).
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”.
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.
Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega.
Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!
In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?
“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”
Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].
Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media.
All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.
Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette.
“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri...
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.
Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer).
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”.
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.
Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega.
Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!
In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?
“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”
Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
Comments
Magari è stato Marx
15-01-2010, 22:45catastrofiPermalinkChi è stato?
Di fronte alle catastrofi naturali gli esseri umani seguono una procedura standard. Dopo lo shock iniziale, si razionalizza. Anche quando di razionale magari non c’è nulla. Ma ci proviamo lo stesso, perché così funziona la nostra testa: causa, effetto. Siamo programmati per chiederci il perché, anche se la domanda non ha risposta e forse nemmeno senso. Questa millenaria interrogazione a vuoto, prima di impattare negli ultimi secoli con il pensiero scientifico, ha creato mostri molto interessanti.
Il concetto di colpa, per esempio: se questo ci succede è perché abbiamo fatto qualcosa di male. Il diluvio, il rogo di Sodoma, il crollo di Babele: tutta gente che se l’era andata a cercare, se leggi bene. Anche il fatto di vivere del frutto del nostro sudore, o di partorire con dolore, sarà colpa di qualche nostro progenitore poco serio. Ecco: abbiamo interiorizzato le categorie di causa ed effetto. Ora si chiamano Colpa e Castigo, e al prossimo terremoto sapremo almeno che le vittime non erano proprio santarelline. L’uomo antico ragionava così.
E non ha mai cambiato idea, perché non si è estinto, l’Uomo Antico: è ancora in mezzo a noi. Dentro di noi. La modernità è una crosta che gli è cresciuta sottopelle, ma il cuore continua ad aver paura del buio e del fulmine. Prontissimo a dare la colpa a qualcuno o qualcosa: anche a sé stesso, in mancanza di meglio. Perché deve essere colpa di qualcuno. L’alternativa sarebbe ammettere che siamo al mondo senza un motivo, alla deriva su continenti malfermi che non sono stati creati per noi e che un giorno ci lasceranno crepare, e questo è molto duro da mandare giù. Trovare quindi un colpevole. Non è difficile, perché ogni catastrofe naturale ha il suo contorno di errori umani. Sono stati rispettati i criteri antisismici? È stato divulgato per tempo l’allarme tsunami? Non è per caso che nei pressi c’era un geniale studioso che aveva anticipato il terremoto ma lo Stato Cattivo e i Media Ufficiali non l’hanno ascoltato? Dai e dai, alla fine si riesce sempre a trovare qualcuno un po’ colpevole. E intanto è un po' passata la paura.
L’altro giorno un telepastore evangelista ha ricordato che c’è un motivo per cui gli haitiani soffrono costantemente di uragani e terremoti: un vecchio patto col diavolo, stipulato due secoli fa durante la guerra coi francesi. Ma se la storia, in questi termini, offende ancora il vostro sottile strato razionale, potete tentare col Giornale di Vittorio Feltri. Ieri infatti Nicola Porro vi proponeva questa interessante teoria: quella di Haiti sarebbe la "Catastrofe dell’anticapitalismo". Porro non arriva ad affermare che il comunismo (o qualsiasi altra teoria anticapitalista) sia in grado di tirare scosse di 7 gradi magnitudo, però… però… probabilmente 7 gradi magnitudo non avrebbero fatto lo stesso effetto in un Paese capitalista:
Mai. Il popolo haitiano, uno dei più sfortunati al mondo e della Storia, non ha mai rinnegato il capitalismo. Potremmo spingerci più in là e affermare addirittura che Haiti nasce col capitalismo, proprio nella sua fase più ruggente e globalizzata: il Commercio Triangolare. Prima Haiti era una costa tropicale, popolata da indigeni che l’economia globale del Seicento estinse rapidamente. Gli haitiani di oggi non sono un popolo autoctono: arrivarono sull’isola come merce, o se preferite forza lavoro a prezzi supervantaggiosi (un terzo moriva nel giro di pochi anni). Nel Settecento Haiti diventa una delle piantagioni meglio organizzate del mondo: un modello per le emergenti potenze coloniali. Poi gli schiavi si ribellano, è vero (ed è una storia appassionante, per chi è curioso); ma non cessano per un istante di essere inseriti nel mercato mondiale, e di creare profitto per le multinazionali dello zucchero e del caffè.
Non è capitalismo questo? Certo che lo è. E non è una versione sciatta o inefficiente del nostro: il capitalismo haitiano è lo stesso nostro capitalismo globale, visto da un’angolazione magari meno favorevole. “Noi occidentali”, scrive Porro, “abbiamo anche la consapevolezza di aver migliorato la nostra condizione, di aver costruito il nostro destino, di aver fatto un passo avanti”. Questo non lo nega nessuno. Il problema è accettare il fatto che questo passo lo abbiamo fatto calpestando qualcuno. Che il nostro benessere è fondato sullo sfruttamento: non credo sia anticapitalista dirlo. Anzi, credo che i capitalisti maturi lo sappiano benissimo (mica perdono tempo col Giornale, loro) e stiano bene così.
Almeno fino alla prossima scossa, alla prossima crepa nella scorza moderna e razionale, al prossimo interrogatorio al cospetto della nostra coscienza di antichi. Coi quali non c'è sismologia né tettonica a placche che tenga: gli Antichi sanno di aver fatto qualcosa di male. E non è poi detto che sbaglino.
Di fronte alle catastrofi naturali gli esseri umani seguono una procedura standard. Dopo lo shock iniziale, si razionalizza. Anche quando di razionale magari non c’è nulla. Ma ci proviamo lo stesso, perché così funziona la nostra testa: causa, effetto. Siamo programmati per chiederci il perché, anche se la domanda non ha risposta e forse nemmeno senso. Questa millenaria interrogazione a vuoto, prima di impattare negli ultimi secoli con il pensiero scientifico, ha creato mostri molto interessanti.
Il concetto di colpa, per esempio: se questo ci succede è perché abbiamo fatto qualcosa di male. Il diluvio, il rogo di Sodoma, il crollo di Babele: tutta gente che se l’era andata a cercare, se leggi bene. Anche il fatto di vivere del frutto del nostro sudore, o di partorire con dolore, sarà colpa di qualche nostro progenitore poco serio. Ecco: abbiamo interiorizzato le categorie di causa ed effetto. Ora si chiamano Colpa e Castigo, e al prossimo terremoto sapremo almeno che le vittime non erano proprio santarelline. L’uomo antico ragionava così.
E non ha mai cambiato idea, perché non si è estinto, l’Uomo Antico: è ancora in mezzo a noi. Dentro di noi. La modernità è una crosta che gli è cresciuta sottopelle, ma il cuore continua ad aver paura del buio e del fulmine. Prontissimo a dare la colpa a qualcuno o qualcosa: anche a sé stesso, in mancanza di meglio. Perché deve essere colpa di qualcuno. L’alternativa sarebbe ammettere che siamo al mondo senza un motivo, alla deriva su continenti malfermi che non sono stati creati per noi e che un giorno ci lasceranno crepare, e questo è molto duro da mandare giù. Trovare quindi un colpevole. Non è difficile, perché ogni catastrofe naturale ha il suo contorno di errori umani. Sono stati rispettati i criteri antisismici? È stato divulgato per tempo l’allarme tsunami? Non è per caso che nei pressi c’era un geniale studioso che aveva anticipato il terremoto ma lo Stato Cattivo e i Media Ufficiali non l’hanno ascoltato? Dai e dai, alla fine si riesce sempre a trovare qualcuno un po’ colpevole. E intanto è un po' passata la paura.
L’altro giorno un telepastore evangelista ha ricordato che c’è un motivo per cui gli haitiani soffrono costantemente di uragani e terremoti: un vecchio patto col diavolo, stipulato due secoli fa durante la guerra coi francesi. Ma se la storia, in questi termini, offende ancora il vostro sottile strato razionale, potete tentare col Giornale di Vittorio Feltri. Ieri infatti Nicola Porro vi proponeva questa interessante teoria: quella di Haiti sarebbe la "Catastrofe dell’anticapitalismo". Porro non arriva ad affermare che il comunismo (o qualsiasi altra teoria anticapitalista) sia in grado di tirare scosse di 7 gradi magnitudo, però… però… probabilmente 7 gradi magnitudo non avrebbero fatto lo stesso effetto in un Paese capitalista:
Eppure quei numeri ci dicono anche che i diversi modelli di sviluppo sociale che gli uomini adottano hanno un peso nel contrastare la forza della natura. Il dramma di una regione in cui l’aspettativa di vita è di 50 anni contro i quasi 80 dei Paesi sviluppati si riflette nelle immagini tragiche del terremoto dell’altro giorno. Un bambino su due (la percentuale è ancora peggiore e si attesta al 57 per cento) muore in fasce; solo metà della popolazione sa scrivere o ha accesso all’acqua potabile: il Paese è tra i più poveri al mondo e tra i meno attrezzati a resistere a qualsiasi calamità. [Ancora una volta grazie a Mazzetta].Vedete? Tutto risolto, è Colpa degli uomini che hanno adottato il modello di sviluppo sociale sbagliato. Basta dirlo, e passa la paura. Poveri haitiani, sì, però… la prossima volta ci pensino bene, al modello sociale da adottare. Senza bisogno di scomodare patti con Satana, perché noi non siamo fanatici oscurantisti. Noi abbiamo studiato Storia ed economia, quindi si tratta di un più prosaico patto con… Lenin? Fidel Castro? Di che anticapitalismo stiamo parlando, esattamente? L’ultimo regime haitiano è stato sostenuto dagli USA. Anche il penultimo a dire il vero. Quand’è stato esattamente che gli haitiani hanno firmato il loro subdolo patto con Marx?
Mai. Il popolo haitiano, uno dei più sfortunati al mondo e della Storia, non ha mai rinnegato il capitalismo. Potremmo spingerci più in là e affermare addirittura che Haiti nasce col capitalismo, proprio nella sua fase più ruggente e globalizzata: il Commercio Triangolare. Prima Haiti era una costa tropicale, popolata da indigeni che l’economia globale del Seicento estinse rapidamente. Gli haitiani di oggi non sono un popolo autoctono: arrivarono sull’isola come merce, o se preferite forza lavoro a prezzi supervantaggiosi (un terzo moriva nel giro di pochi anni). Nel Settecento Haiti diventa una delle piantagioni meglio organizzate del mondo: un modello per le emergenti potenze coloniali. Poi gli schiavi si ribellano, è vero (ed è una storia appassionante, per chi è curioso); ma non cessano per un istante di essere inseriti nel mercato mondiale, e di creare profitto per le multinazionali dello zucchero e del caffè.
Non è capitalismo questo? Certo che lo è. E non è una versione sciatta o inefficiente del nostro: il capitalismo haitiano è lo stesso nostro capitalismo globale, visto da un’angolazione magari meno favorevole. “Noi occidentali”, scrive Porro, “abbiamo anche la consapevolezza di aver migliorato la nostra condizione, di aver costruito il nostro destino, di aver fatto un passo avanti”. Questo non lo nega nessuno. Il problema è accettare il fatto che questo passo lo abbiamo fatto calpestando qualcuno. Che il nostro benessere è fondato sullo sfruttamento: non credo sia anticapitalista dirlo. Anzi, credo che i capitalisti maturi lo sappiano benissimo (mica perdono tempo col Giornale, loro) e stiano bene così.
Almeno fino alla prossima scossa, alla prossima crepa nella scorza moderna e razionale, al prossimo interrogatorio al cospetto della nostra coscienza di antichi. Coi quali non c'è sismologia né tettonica a placche che tenga: gli Antichi sanno di aver fatto qualcosa di male. E non è poi detto che sbaglino.
Comments (34)
Il 30% di boh
13-01-2010, 21:49migranti, razzismi, scuolaPermalinkIntegratevi (è un ordine)
È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.
A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.
Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.
E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.
Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.
A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).
Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.
Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.
Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.
A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.
Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.
E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.
Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.
A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).
Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.
Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.
Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
Comments (31)
Ho una teoria #5
11-01-2010, 16:13contro l'identità, cultura, ho una teoria, migrantiPermalink
Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato? (Continua sull'Unità on line). (Potete commentarlo lì).
di Leonardo Tondelli - Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato?
Poche tradizioni natalizie ci sono care come il presepe. Forse perché ci fa tornare bambini, ai tempi meravigliosi in cui tutto era nuovo, e mamma e papà ci aiutavano a collocare Bue e Asinello accanto alla mangiatoia. Ora magari tocca a noi insegnarlo ai nostri figli, ed è una cosa che scalda il cuore. In più, è anche una delle poche tradizioni che possa vantare un pedigree 100% italiano. Non importa che la scena sia ambientata in Palestina e i protagonisti siano medio-orientali: qualcuno può avere inventato gli spaghetti prima di noi, e magari innalzato una torre più pendente della nostra, ma il presepe è sicuramente nato in Italia, nel secolo XIII. Lo dicono gli storici, e guai a chi ce lo tocca.
Negli ultimi anni però – anche a causa di questa origine doc – il presepe è diventato qualcosa di più di una bella tradizione: addirittura il simbolo di una civiltà che appare più in pericolo, assediata com'è da minacciosi stranieri. Fanno sempre più rumore gli istituti scolastici in cui qualche insegnante o preside decide di lasciar perdere Bue, Asinello e mangiatoia. Queste scuole non è che siano poi tante; e forse avrebbero altri problemi di cui varrebbe la pena di parlare (organici insufficienti, aule non a norma, le solite cose)... però è un presepe mancato che rischia di mandarle in prima pagina.
A lamentarsi per i presepi mancati non sono più quattro leghisti al bar, ma uomini di cultura: opinionisti prestigiosi, come Angelo Panebianco. Vale la pena di segnalare il suo coraggioso atto di accusa, comparso sul Corriere della Sera giovedì. A poche ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, con chi se la prendeva Panebianco? Con la malavita organizzata che sfrutta i braccianti? Con gli abitanti locali che tirano ai “negri” con fucili ad aria compressa? Col racket dell'immigrazione clandestina? No: con quegli educatori (“diseducatori” preferisce chiamarli) che non fanno più il presepe a scuola. Proprio così. I “futuri, probabilmente feroci scontri di civiltà” che ci attendono, non scoppieranno a causa dello sfruttamento della manodopera immigrata, vecchia causa demodé. Non perché, per tener bassi i prezzi di arance e pomodori, abbiamo fatto dormire i braccianti in baracche infestate dai topi, pagandoli venti euro per quattordici ore di lavoro quotidiano. No: gli scontri esploderanno perché siamo stati troppo tolleranti, come dice il ministro Maroni. Non abbiamo insegnato ai loro figli a mettere Bue e Asinello ai fianchi della mangiatoia. Naturale che poi crescano sprezzanti verso la nostra civiltà.
Colpa degli educatori, dunque? Sì, ma non soltanto. Panebianco non si tira indietro, e nel suo atto di accusa include anche quelli che il presepe lo hanno inventato: i religiosi. E che invece di difenderlo a spada tratta si sono dati all'accoglienza. Questi preti, lamenta Panebianco, “troppo accoglienti”, contagiati dal morbo del politicamente corretto... In effetti che razza di cristiani sono questi che invece di preoccuparsi di collocare correttamente il Bue e l'Asinello si sono messi in testa di sfamare gli affamati, soccorrere i bisognosi, alloggiare gli sfitti?
Cristiani che seguono il Vangelo, potremmo rispondergli. Un libro più citato che letto (come tutti i libri, del resto, in Italia). Anche per questo motivo, ottocento anni fa, un geniale religioso ebbe l'idea di trasformare una pagina di Vangelo in una rappresentazione vivente: affinché fosse comprensibile per quegli analfabeti che allora erano la stragrande maggioranza (e oggi dovrebbero essere un po' meno). Era una pagina che raccontava di una famiglia costretta a un viaggio difficile e a un alloggio di fortuna: ma proprio in quella famiglia, e in quelle condizioni così disagevoli, Dio sceglieva di farsi vivo. Di incarnarsi, in un bambino deposto in una mangiatoia, o praesepe. Da quella rappresentazione sacra, concepita nel 1223 da Francesco d'Assisi, deriva il nostro presepe: sì, proprio quello da cui, secondo Panebianco, dipende il futuro della nostra cultura. Prima di essere una tradizione, era una lezione sull'ospitalità: sulla possibilità di trovare Dio nelle persone più umili, nelle condizioni più difficili. Può darsi che l'ospitalità dei religiosi non sia la risposta più razionale al problema: del resto non è ai religiosi che si chiedono le risposte razionali. Da loro si pretende che mettano in pratica il Vangelo: proprio a partire da quella pagina famosa che ispirò il Presepe. O no?
Ho una teoria. A Panebianco il presepe non interessa in quanto pagina di Vangelo, lezione sull'ospitalità, eccetera. Quello che lui riesce a vedere del presepe è la stessa superficie che ci ammaliava da bambini: le statuette dipinte, il Bue, l'Asinello. Che dietro alle statuette ci fossero degli insegnamenti da mettere in pratica è cosa che probabilmente da bambino gli è sfuggita – e adesso è un po' tardi. Ottocento anni fa il presepe era un'innovazione, un modo di trasformare una pagina illeggibile in una scena reale, visibile, realizzabile. Ottocento anni dopo a Panebianco il Presepe interessa solo in quanto tradizione, statuetta dipinta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, perché rimanda solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo, però, se ci toccano le statuette dipinte.
di Leonardo Tondelli - Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato?
Poche tradizioni natalizie ci sono care come il presepe. Forse perché ci fa tornare bambini, ai tempi meravigliosi in cui tutto era nuovo, e mamma e papà ci aiutavano a collocare Bue e Asinello accanto alla mangiatoia. Ora magari tocca a noi insegnarlo ai nostri figli, ed è una cosa che scalda il cuore. In più, è anche una delle poche tradizioni che possa vantare un pedigree 100% italiano. Non importa che la scena sia ambientata in Palestina e i protagonisti siano medio-orientali: qualcuno può avere inventato gli spaghetti prima di noi, e magari innalzato una torre più pendente della nostra, ma il presepe è sicuramente nato in Italia, nel secolo XIII. Lo dicono gli storici, e guai a chi ce lo tocca.
Negli ultimi anni però – anche a causa di questa origine doc – il presepe è diventato qualcosa di più di una bella tradizione: addirittura il simbolo di una civiltà che appare più in pericolo, assediata com'è da minacciosi stranieri. Fanno sempre più rumore gli istituti scolastici in cui qualche insegnante o preside decide di lasciar perdere Bue, Asinello e mangiatoia. Queste scuole non è che siano poi tante; e forse avrebbero altri problemi di cui varrebbe la pena di parlare (organici insufficienti, aule non a norma, le solite cose)... però è un presepe mancato che rischia di mandarle in prima pagina.
A lamentarsi per i presepi mancati non sono più quattro leghisti al bar, ma uomini di cultura: opinionisti prestigiosi, come Angelo Panebianco. Vale la pena di segnalare il suo coraggioso atto di accusa, comparso sul Corriere della Sera giovedì. A poche ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, con chi se la prendeva Panebianco? Con la malavita organizzata che sfrutta i braccianti? Con gli abitanti locali che tirano ai “negri” con fucili ad aria compressa? Col racket dell'immigrazione clandestina? No: con quegli educatori (“diseducatori” preferisce chiamarli) che non fanno più il presepe a scuola. Proprio così. I “futuri, probabilmente feroci scontri di civiltà” che ci attendono, non scoppieranno a causa dello sfruttamento della manodopera immigrata, vecchia causa demodé. Non perché, per tener bassi i prezzi di arance e pomodori, abbiamo fatto dormire i braccianti in baracche infestate dai topi, pagandoli venti euro per quattordici ore di lavoro quotidiano. No: gli scontri esploderanno perché siamo stati troppo tolleranti, come dice il ministro Maroni. Non abbiamo insegnato ai loro figli a mettere Bue e Asinello ai fianchi della mangiatoia. Naturale che poi crescano sprezzanti verso la nostra civiltà.
Colpa degli educatori, dunque? Sì, ma non soltanto. Panebianco non si tira indietro, e nel suo atto di accusa include anche quelli che il presepe lo hanno inventato: i religiosi. E che invece di difenderlo a spada tratta si sono dati all'accoglienza. Questi preti, lamenta Panebianco, “troppo accoglienti”, contagiati dal morbo del politicamente corretto... In effetti che razza di cristiani sono questi che invece di preoccuparsi di collocare correttamente il Bue e l'Asinello si sono messi in testa di sfamare gli affamati, soccorrere i bisognosi, alloggiare gli sfitti?
Cristiani che seguono il Vangelo, potremmo rispondergli. Un libro più citato che letto (come tutti i libri, del resto, in Italia). Anche per questo motivo, ottocento anni fa, un geniale religioso ebbe l'idea di trasformare una pagina di Vangelo in una rappresentazione vivente: affinché fosse comprensibile per quegli analfabeti che allora erano la stragrande maggioranza (e oggi dovrebbero essere un po' meno). Era una pagina che raccontava di una famiglia costretta a un viaggio difficile e a un alloggio di fortuna: ma proprio in quella famiglia, e in quelle condizioni così disagevoli, Dio sceglieva di farsi vivo. Di incarnarsi, in un bambino deposto in una mangiatoia, o praesepe. Da quella rappresentazione sacra, concepita nel 1223 da Francesco d'Assisi, deriva il nostro presepe: sì, proprio quello da cui, secondo Panebianco, dipende il futuro della nostra cultura. Prima di essere una tradizione, era una lezione sull'ospitalità: sulla possibilità di trovare Dio nelle persone più umili, nelle condizioni più difficili. Può darsi che l'ospitalità dei religiosi non sia la risposta più razionale al problema: del resto non è ai religiosi che si chiedono le risposte razionali. Da loro si pretende che mettano in pratica il Vangelo: proprio a partire da quella pagina famosa che ispirò il Presepe. O no?
Ho una teoria. A Panebianco il presepe non interessa in quanto pagina di Vangelo, lezione sull'ospitalità, eccetera. Quello che lui riesce a vedere del presepe è la stessa superficie che ci ammaliava da bambini: le statuette dipinte, il Bue, l'Asinello. Che dietro alle statuette ci fossero degli insegnamenti da mettere in pratica è cosa che probabilmente da bambino gli è sfuggita – e adesso è un po' tardi. Ottocento anni fa il presepe era un'innovazione, un modo di trasformare una pagina illeggibile in una scena reale, visibile, realizzabile. Ottocento anni dopo a Panebianco il Presepe interessa solo in quanto tradizione, statuetta dipinta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, perché rimanda solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo, però, se ci toccano le statuette dipinte.
Identità è una statuetta pitturata
09-01-2010, 02:31contro l'identità, Cristo, migranti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, preti parlanti, razzismiPermalinkPresepi viventi, presepi morti
Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.
Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.
Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?
Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.
Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?
No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.
Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.
Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.
Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.
Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.
Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?
Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.
Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?
No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.
Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.
Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.
La prossima volta che vi friggono un discorso a base di paroloni come Identità o Tradizione, pensate, per favore, al presepe di Panebianco. Secondo lui i preti sono "troppo accoglienti": da un punto di vista razionale potrebbe avere anche ragione, qualsiasi spazio limitato non può accogliere tutti, e l'Italia non fa eccezione. Ma i preti non sono razionali: sono preti. Se accolgono tutti indiscriminatamente, è perché glielo ha detto Gesù, a chiare lettere, nel Vangelo. E quando a saper leggere il Vangelo erano ancora pochi, i preti hanno inventato strumenti come il Presepe, che servivano proprio a ricordare il principio: Giuseppe e Maria erano due viaggiatori senza un tetto, e Dio si è incarnato in mezzo a loro. Prima di essere una tradizione, il Presepe era una lezione sull'ospitalità. Ma Panebianco non lo sa, o se l'è dimenticato, o non gli interessa. A lui interessa il Presepe in quanto tradizione, ovvero statuetta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, rimandando solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo se ci toccano le statuette dipinte.
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Non ci incarteremo il pesce
07-01-2010, 02:03anglistica, chiudere i licei (con i prof dentro), coccodrilli, tvPermalinkBeniamino Placido nella sua vita ha scritto moltissimo, come tutti i giornalisti del resto. Però a differenza di tante firme prestigiose del giornalismo italiano (a fine ’80 Placido era un’istituzione), non ci lascia molti libri. Se poi per “libro” s’intende “mattone cartonato con firma prestigiosa, da presentare nei talk e farci soldi soldi soldi”, Beniamino Placido non ci lascia proprio niente, e sì che avrebbe potuto: con poco sforzo e ottima resa. Invece no. I pochi libri pubblicati sono divertimenti – uno si chiama proprio così, “Tre divertimenti”, e riprende una serie di parodie che aveva buttato giù per l’inserto culturale di Repubblica. Cosucce a margine, perché Placido non si considerava uno scrittore di libri. I libri a volte restano, e forse lui di restare non aveva tutta questa voglia (che è una delle molle che ti spinge a firmare cartonati, o la Divina Commedia). Preferiva stare sul giornale, che oggi c’è e domani è buono per incartare il pesce. Immagine sua. Non saprei dire da dove l’ho presa (non ho una sola pagina di Placido in casa), ma è sua. Probabilmente il quaranta per cento di quello che butto fuori è roba sua.
Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.
Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.
Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).
Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’"anarchinfantilista" Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?
Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: "Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna". Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova - c'è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.
Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.
Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.
Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).
Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’"anarchinfantilista" Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?
Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: "Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna". Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova - c'è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.
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Per le zanne del profeta
06-01-2010, 03:27giornalisti, Islam, religioni, scuolaPermalink
Se Maometto non va al Pantheon
Insomma io, alle Medie, quando affronto l’India, spiego che è un Paese di religione indù con una minoranza islamica. L’Islam più o meno sanno tutti cos’è, quindi mi soffermo una mezzoretta sull’induismo (le caste, la metempsicosi, il politeismo, fine). A questo punto di solito qualcuno chiede se c’entra Buddha e io scantono spiegando che il buddismo è sì nato in India, ma si è sviluppato prevalentemente in altri Paesi, per cui magari di Nirvana e ottuplice via se ne parla un’altra volta, eh? Piuttosto qualcosa sui Sikh, visto che da noi c’è anche una minoranza di studenti Sikh. Poi c’è da raccontare qualcosa su Gandhi (se c'è un po' di tempo vale la pena di mostrare il film, tagliato ovviamente), la lotta per l’indipendenza e contro le caste, il dramma della secessione India-Pakistan, eccetera eccetera. In capo a due settimane faccio una verifica, e se queste cose non le sanno, prendono 5. Fine.
Ora ditemi cosa dovrei dare a uno studente di terza media che mi scrivesse una cosa del genere:
Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue.
Ok, il primo errore te lo potrei anche passare: c’erano comunità musulmane in India sette secoli prima dei Moghul, ma questo forse sul libro di terza media non c’è… magari alle superiori te lo spiegano… pazienza. Ma indiani “indigeni” buddisti e quindi paciosi pacifici” che roba è? Che roba è? Hai di nuovo fatto le ricerche con Yahoo Answers? Ti avevo ben detto di stare lontano da quel sito demoniaco.
Ma anche quel Maometto in un pantheon di divinità indù è favoloso. Perché se ci rifletti bene, per il musulmano medio Maometto è un profeta, mica un dio, per cui se arriva l’indù e gli dice: “Ehi, adesso il tuo profeta è nel mio pantheon” lui come minimo s’incazza un po’. Anche perché li conosci gli indù, no? Loro gli dei li raffigurano volentieri. E quindi a quel punto l’Indù che deve decorare il suo Pantheon si porrà il fatale problema: questo dio Maometto, ma che faccia avrà? La barba, ok, ma di che colore? Aspetta aspetta che chiedo al mio vicino musulmano Omar.
“Ehi, Omar”
“…”
“Senti, non te la sarai mica presa perché ho messo il tuo Dio nel mio pantheon”.
“Non è un Dio, è un profeta”.
“Vabbè, stessa cosa”.
“Non è la stessa cosa”.
“Sì, ok, non è la stessa cosa, comunque senti, mi dici un po’ che faccia aveva? Perché devo fare il ritratto per il mio pantheon pacioso, capisci…”
“Il volto non si può raffigurare”.
“Ah no?”
“No”.
“Ma neanche se ci metto, che so, una testa di elefante, stile Ganesh...”
“MpfffffffffffffffffffFAAAAAAAAAATWA! MALEDETTI CANI IDOLATRI!”
“Uff, che carattere. Ma perché non sei pacioso come noi budd… ahem, come noialtri?”
“Paciosi? Dopo il massacro dei Sikh? E le stragi di Mumbai? Voi sareste quelli paciosi?”
“Ma certo, non hai letto Sartori?”
E poi gli inglesi che inventano il Pakistan. Certo, come no. E in questo modo risparmiano un mare di sangue. E in effetti, vuoi mettere quattro guerre indopakistane con un mare di sangue? Insomma, professor Sartori, quel che ha lasciato firmare col suo cognome è imbarazzante. Rientri dalle vacanze, licenzi quel ghostwriter, se ne trovi uno con una licenza media vera. Qualcuno che non scriva più cose come “l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)”. Certo, nessun'altra cultura: è per questo che per trovare un nome all’uomo-che-si-uccide-per-uccidere abbiamo dovuto prendere in prestito il noto termine arabo Kamikaze. Ed è noto che Pietro Micca era un attento lettore del Corano, libro nel quale si trova del resto la leggenda di Sansone, l'antesignano dei… basta. I lettori del Corriere si meritano di meglio, professor Sartori.
Anche perché il compito che si è preso, con Rutelli, è abbastanza complicato. Da una parte c’è Fini che si è messo in testa questa storia del voto agli immigrati, e le sinistre ovviamente gli vanno dietro per le solite risibili questioni di principio. Dall’altra ci sono quelli che l’Islam è il male, i minareti ci terrorizzano, le moschee ci inquinano con l’onda. In mezzo ci siete voi che provate la solita melina terzista, ma insomma, qui ci vorrebbero argomenti degni di questo nome, e per ora non ci sono. Come si fa a non voler dare dei diritti civili senza sembrare incivili, ahi, è dura... C’è Rutelli che dice che il multiculturalismo è sbagliato e tre righe dopo parla di “pluralismo culturale e integrazione” Sarebbe addi’? No, sul serio, in pratica, la differenza sarebbe? Dice che il diritto di voto deve arrivare alla fine e non all’inizio di un percorso di integrazione… come se dall’altra parte ci fosse Gianfranco Fini che regala passaporti sulla spiaggia di Lampedusa. Tranquillo che si parla di cinque anni minimo, non ti sembrano abbastanza per fare un percorso serio, France’? Tu quanti partiti sei riuscito a fondare in cinque anni? Dice che “occorre anche una “dichiarazione di laicità”. Che valga per tutti, e serva per separare esplicitamente il comando religioso dai doveri verso la Repubblica»”. E questo sarebbe un pensiero terzista? E Rutelli spera di intercettare i moderati con una “dichiarazione di laicità”? E sul serio, qualcuno a sinistra potrebbe dirsi contrario a una “dichiarazione di laicità che valga per tutti”? Sì, effettivamente qualcuno potrebbe. La Binetti.
(Quasi tutto via Gilioli).
Insomma io, alle Medie, quando affronto l’India, spiego che è un Paese di religione indù con una minoranza islamica. L’Islam più o meno sanno tutti cos’è, quindi mi soffermo una mezzoretta sull’induismo (le caste, la metempsicosi, il politeismo, fine). A questo punto di solito qualcuno chiede se c’entra Buddha e io scantono spiegando che il buddismo è sì nato in India, ma si è sviluppato prevalentemente in altri Paesi, per cui magari di Nirvana e ottuplice via se ne parla un’altra volta, eh? Piuttosto qualcosa sui Sikh, visto che da noi c’è anche una minoranza di studenti Sikh. Poi c’è da raccontare qualcosa su Gandhi (se c'è un po' di tempo vale la pena di mostrare il film, tagliato ovviamente), la lotta per l’indipendenza e contro le caste, il dramma della secessione India-Pakistan, eccetera eccetera. In capo a due settimane faccio una verifica, e se queste cose non le sanno, prendono 5. Fine.
Ora ditemi cosa dovrei dare a uno studente di terza media che mi scrivesse una cosa del genere:
Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue.
Ok, il primo errore te lo potrei anche passare: c’erano comunità musulmane in India sette secoli prima dei Moghul, ma questo forse sul libro di terza media non c’è… magari alle superiori te lo spiegano… pazienza. Ma indiani “indigeni” buddisti e quindi paciosi pacifici” che roba è? Che roba è? Hai di nuovo fatto le ricerche con Yahoo Answers? Ti avevo ben detto di stare lontano da quel sito demoniaco.
Ma anche quel Maometto in un pantheon di divinità indù è favoloso. Perché se ci rifletti bene, per il musulmano medio Maometto è un profeta, mica un dio, per cui se arriva l’indù e gli dice: “Ehi, adesso il tuo profeta è nel mio pantheon” lui come minimo s’incazza un po’. Anche perché li conosci gli indù, no? Loro gli dei li raffigurano volentieri. E quindi a quel punto l’Indù che deve decorare il suo Pantheon si porrà il fatale problema: questo dio Maometto, ma che faccia avrà? La barba, ok, ma di che colore? Aspetta aspetta che chiedo al mio vicino musulmano Omar.
“Ehi, Omar”
“…”
“Senti, non te la sarai mica presa perché ho messo il tuo Dio nel mio pantheon”.
“Non è un Dio, è un profeta”.
“Vabbè, stessa cosa”.
“Non è la stessa cosa”.
“Sì, ok, non è la stessa cosa, comunque senti, mi dici un po’ che faccia aveva? Perché devo fare il ritratto per il mio pantheon pacioso, capisci…”
“Il volto non si può raffigurare”.
“Ah no?”
“No”.
“Ma neanche se ci metto, che so, una testa di elefante, stile Ganesh...”
“MpfffffffffffffffffffFAAAAAAAAAATWA! MALEDETTI CANI IDOLATRI!”
“Uff, che carattere. Ma perché non sei pacioso come noi budd… ahem, come noialtri?”
“Paciosi? Dopo il massacro dei Sikh? E le stragi di Mumbai? Voi sareste quelli paciosi?”
“Ma certo, non hai letto Sartori?”
E poi gli inglesi che inventano il Pakistan. Certo, come no. E in questo modo risparmiano un mare di sangue. E in effetti, vuoi mettere quattro guerre indopakistane con un mare di sangue? Insomma, professor Sartori, quel che ha lasciato firmare col suo cognome è imbarazzante. Rientri dalle vacanze, licenzi quel ghostwriter, se ne trovi uno con una licenza media vera. Qualcuno che non scriva più cose come “l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)”. Certo, nessun'altra cultura: è per questo che per trovare un nome all’uomo-che-si-uccide-per-uccidere abbiamo dovuto prendere in prestito il noto termine arabo Kamikaze. Ed è noto che Pietro Micca era un attento lettore del Corano, libro nel quale si trova del resto la leggenda di Sansone, l'antesignano dei… basta. I lettori del Corriere si meritano di meglio, professor Sartori.
Anche perché il compito che si è preso, con Rutelli, è abbastanza complicato. Da una parte c’è Fini che si è messo in testa questa storia del voto agli immigrati, e le sinistre ovviamente gli vanno dietro per le solite risibili questioni di principio. Dall’altra ci sono quelli che l’Islam è il male, i minareti ci terrorizzano, le moschee ci inquinano con l’onda. In mezzo ci siete voi che provate la solita melina terzista, ma insomma, qui ci vorrebbero argomenti degni di questo nome, e per ora non ci sono. Come si fa a non voler dare dei diritti civili senza sembrare incivili, ahi, è dura... C’è Rutelli che dice che il multiculturalismo è sbagliato e tre righe dopo parla di “pluralismo culturale e integrazione” Sarebbe addi’? No, sul serio, in pratica, la differenza sarebbe? Dice che il diritto di voto deve arrivare alla fine e non all’inizio di un percorso di integrazione… come se dall’altra parte ci fosse Gianfranco Fini che regala passaporti sulla spiaggia di Lampedusa. Tranquillo che si parla di cinque anni minimo, non ti sembrano abbastanza per fare un percorso serio, France’? Tu quanti partiti sei riuscito a fondare in cinque anni? Dice che “occorre anche una “dichiarazione di laicità”. Che valga per tutti, e serva per separare esplicitamente il comando religioso dai doveri verso la Repubblica»”. E questo sarebbe un pensiero terzista? E Rutelli spera di intercettare i moderati con una “dichiarazione di laicità”? E sul serio, qualcuno a sinistra potrebbe dirsi contrario a una “dichiarazione di laicità che valga per tutti”? Sì, effettivamente qualcuno potrebbe. La Binetti.
(Quasi tutto via Gilioli).
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Ho una teoria #4
04-01-2010, 14:4521tw, cinema, fb2020, futurismi, ho una teoria, terrorismoPermalink
Abdulmutallab in the Matrix
Gli anni Zero cominciano e finiscono con la stessa storia. C'è un giovane che vive la sua vita in una città al centro del mondo civilizzato. Ha un buon posto, ma si annoia: prova la sensazione di vivere sulla superficie di un’illusione. È una cosa difficile da spiegare, i suoi amici non capiscono. L'unico che gli dà retta è un misterioso sconosciuto incontrato su Internet, che gli dà un appuntamento (continua sull'Unità online) (ho detto online, non cartacea).
È una sorta di profeta: nelle sue parole si sente un vago retroterra religioso, parole orecchiate nelle preghiere dell'infanzia. Al giovane spiega che il mondo in cui vive è pura apparenza, creazione di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. Per questo è indispensabile trascendere, chiudere gli occhi e ritrovare la realtà. La quale non è un nirvana, al contrario: la realtà è un mondo durissimo, dove gli Eletti combattono Satana e se necessario sacrificano la loro vita nel combattimento.
Ho una teoria: il film che ci ha portati negli anni Zero è The Matrix. Anche se è uscito nel ’99 – e non è certo il primo blockbuster in cui un novellino impara le arti marziali e sconfigge i cattivi – il film dei fratelli Wachowski aggiunge alla formula qualcosa di nuovo. Le scene d’azione sempre più coreografiche sono pervase da un senso di oppressione e mistero che marca la distanza dal fragore delle baracconate anni Novanta. Quello che ci tenne incollati allo schermo dieci anni fa – e che continua a sorprenderci ancora oggi, malgrado gli effetti speciali mostrino i segni del tempo – è il misticismo del film: i lunghi monologhi di Morpheus, che ipnotizzarono il pubblico scatenando sui forum on line una deriva di interpretazioni (Matrix e la gnosi, Matrix come la caverna di Platone, Matrix e le Upanishad…) Forse i Wachowski intuivano che sotto i deliri egotici dei giocatori compulsivi di consolle video si annidava un’inquietudine più profonda, metafisica addirittura. La sensazione di vivere immersi in una smagliante e perversa simulazione, che ci nasconde il mondo vero: la disponibilità a inghiottire qualsiasi pillola per ritrovarlo; un percorso di conversione e salvezza vissuto in una condizione di profonda solitudine (anche dopo la conversione l’eroe sarà sempre “the One”, l’Unico, il Solo).
L’ultimo antieroe degli anni Zero è Umar Farouk Abdulmutallab. Classe 1986, studente brillante, figlio di un ex direttore di banca, Abdulmutallab non si è mai veramente sentito a suo agio nel suo appartamento londinese da quattro milioni di sterline, nel suo quartiere, nel suo mondo. Probabilmente ha condiviso con milioni di coetanei la sensazione di vivere sulla superficie di un sogno non suo. Finché probabilmente qualcuno non ha risposto agli appelli lanciati su Internet, dove si lamentava per la sua solitudine di studente musulmano a Londra. In Yemen, dove si è recato con il pretesto di un corso di lingua araba, Abdulmutallab ha ricevuto la conferma a gran parte delle sue intuizioni: il mondo in cui ha vissuto tutta la sua esistenza è pura apparenza, creatura di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. La realtà, viceversa, è un mondo durissimo, dove gli Eletti ingaggiano con Satana una lotta senza quartiere. Una volta de-programmato e riconvertito, Abdulmutallab è stato rispedito nella realtà simulata del Grande Satana, con una fiala di esplosivo e una missione: provocare uno squarcio nella simulazione, fare irrompere la realtà rivelata su un volo per Detroit.
Spesso, quando parliamo di Al-Qaida, la consideriamo un movimento retrogrado, espressione del ritardo storico del Medio Oriente: come una 'sacca di medioevo' in un mondo che va avanti. Forse ci sbagliamo: Al-Qaida è moderna quanto noi. I suoi militanti più famosi sono uomini di origine islamica, ma di studi occidentali, come il plurilaureato Mohamed Atta (autore nel 1999 di una tesi in cui si lamentava l’impatto dei grattacieli moderni sulla skyline islamica di Aleppo). Se l’Islam è una via di fuga da una realtà in cui non si trovano a loro agio, l’immaginario da cui scaturiscono i loro piani sembra risentire più dei blockbuster globalizzati che delle sure del Corano. Atta e Abdulmutallab provengono dallo stesso nostro mondo civilizzato, e condividono le stesse ansietà, la stessa alienzione che dieci anni fa trovammo rispecchiate nel film dei Wachowski. Obama può bombardare lo Yemen, come Bush bombardò Afganistan e Iraq. Ma l’alienazione e la solitudine che hanno portato Abdulmutallab in Yemen sono in mezzo a noi, e presto o tardi porteranno un altro studente brillante e solitario a colloquio col Morpheus di turno.
Gli anni Zero cominciano e finiscono con la stessa storia. C'è un giovane che vive la sua vita in una città al centro del mondo civilizzato. Ha un buon posto, ma si annoia: prova la sensazione di vivere sulla superficie di un’illusione. È una cosa difficile da spiegare, i suoi amici non capiscono. L'unico che gli dà retta è un misterioso sconosciuto incontrato su Internet, che gli dà un appuntamento (continua sull'Unità online) (ho detto online, non cartacea).
È una sorta di profeta: nelle sue parole si sente un vago retroterra religioso, parole orecchiate nelle preghiere dell'infanzia. Al giovane spiega che il mondo in cui vive è pura apparenza, creazione di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. Per questo è indispensabile trascendere, chiudere gli occhi e ritrovare la realtà. La quale non è un nirvana, al contrario: la realtà è un mondo durissimo, dove gli Eletti combattono Satana e se necessario sacrificano la loro vita nel combattimento.
Ho una teoria: il film che ci ha portati negli anni Zero è The Matrix. Anche se è uscito nel ’99 – e non è certo il primo blockbuster in cui un novellino impara le arti marziali e sconfigge i cattivi – il film dei fratelli Wachowski aggiunge alla formula qualcosa di nuovo. Le scene d’azione sempre più coreografiche sono pervase da un senso di oppressione e mistero che marca la distanza dal fragore delle baracconate anni Novanta. Quello che ci tenne incollati allo schermo dieci anni fa – e che continua a sorprenderci ancora oggi, malgrado gli effetti speciali mostrino i segni del tempo – è il misticismo del film: i lunghi monologhi di Morpheus, che ipnotizzarono il pubblico scatenando sui forum on line una deriva di interpretazioni (Matrix e la gnosi, Matrix come la caverna di Platone, Matrix e le Upanishad…) Forse i Wachowski intuivano che sotto i deliri egotici dei giocatori compulsivi di consolle video si annidava un’inquietudine più profonda, metafisica addirittura. La sensazione di vivere immersi in una smagliante e perversa simulazione, che ci nasconde il mondo vero: la disponibilità a inghiottire qualsiasi pillola per ritrovarlo; un percorso di conversione e salvezza vissuto in una condizione di profonda solitudine (anche dopo la conversione l’eroe sarà sempre “the One”, l’Unico, il Solo).
L’ultimo antieroe degli anni Zero è Umar Farouk Abdulmutallab. Classe 1986, studente brillante, figlio di un ex direttore di banca, Abdulmutallab non si è mai veramente sentito a suo agio nel suo appartamento londinese da quattro milioni di sterline, nel suo quartiere, nel suo mondo. Probabilmente ha condiviso con milioni di coetanei la sensazione di vivere sulla superficie di un sogno non suo. Finché probabilmente qualcuno non ha risposto agli appelli lanciati su Internet, dove si lamentava per la sua solitudine di studente musulmano a Londra. In Yemen, dove si è recato con il pretesto di un corso di lingua araba, Abdulmutallab ha ricevuto la conferma a gran parte delle sue intuizioni: il mondo in cui ha vissuto tutta la sua esistenza è pura apparenza, creatura di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. La realtà, viceversa, è un mondo durissimo, dove gli Eletti ingaggiano con Satana una lotta senza quartiere. Una volta de-programmato e riconvertito, Abdulmutallab è stato rispedito nella realtà simulata del Grande Satana, con una fiala di esplosivo e una missione: provocare uno squarcio nella simulazione, fare irrompere la realtà rivelata su un volo per Detroit.
Spesso, quando parliamo di Al-Qaida, la consideriamo un movimento retrogrado, espressione del ritardo storico del Medio Oriente: come una 'sacca di medioevo' in un mondo che va avanti. Forse ci sbagliamo: Al-Qaida è moderna quanto noi. I suoi militanti più famosi sono uomini di origine islamica, ma di studi occidentali, come il plurilaureato Mohamed Atta (autore nel 1999 di una tesi in cui si lamentava l’impatto dei grattacieli moderni sulla skyline islamica di Aleppo). Se l’Islam è una via di fuga da una realtà in cui non si trovano a loro agio, l’immaginario da cui scaturiscono i loro piani sembra risentire più dei blockbuster globalizzati che delle sure del Corano. Atta e Abdulmutallab provengono dallo stesso nostro mondo civilizzato, e condividono le stesse ansietà, la stessa alienzione che dieci anni fa trovammo rispecchiate nel film dei Wachowski. Obama può bombardare lo Yemen, come Bush bombardò Afganistan e Iraq. Ma l’alienazione e la solitudine che hanno portato Abdulmutallab in Yemen sono in mezzo a noi, e presto o tardi porteranno un altro studente brillante e solitario a colloquio col Morpheus di turno.
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L'ultima metafora
31-12-2009, 03:23metafore, Mondo Carpi, ponteficiPermalinkLa proiezione del Castello
La maggior parte di questo decennio l'ho passata in una città minuscola con una piazza immensa. E il bilancio, devo dire, è positivo. I servizi sono abbastanza buoni, la gente non me l'aspettavo migliore né peggiore, e la piazza, cosa vuoi mai. I bambini dicono che è la più grande del mondo. Crescendo si correggono: è la più grande d'Italia. Gli adulti han l'aria di saperla lunga, è la seconda o terza piazza più lunga di una classifica che sta nelle loro teste, allestita da una giuria qualificata di Misuratori Di Piazze (me li immagino in giro per le periferie con chilometri di spago graduato). Ma insomma è il vanto della città, il suo biglietto da visita: ovunque nel mondo noi diremo di venire dalla città con la Piazza più Grande, perché tutti sanno che la nostra è la città con la Piazza Più Grande, no? Alle Maldive di sicuro lo sanno tutti (cameriere bagnini e personale di servizio), e il resto del mondo, beh, il resto del mondo s'arrangerà. Non sanno che si perdono.
È così grande che un giorno volle affacciarvisi anche Sua Santità, no, non il tizio di adesso, Sua Santità quello vero, Wojtyla: e pare che ai fedeli dicesse una cosa del tipo: “Ehi, certo che avete proprio una gran piazza”. Non so se mi sono spiegato, Karol Wojtyla: mica un pastore itinerante, stiamo parlando del più grande affacciatore di piazze della Storia – anche se ogni tanto il dubbio il dubbio viene che lo dicesse in tutte le piazze, come le rockstar che imparano a memoria Ciao Milano State Bene? Siete Caldi? Anchio.
Come si sta nei pressi della Piazza Più Grande del... boh, cosa volete che vi dica, di giorno è molto comoda in bicicletta. Non valgono più le regole stradali, gli angusti limiti imposti dalle piste ciclabili: quando sbuchi lì, sei come una vela nel mare aperto. Fiuti una direzione, tracci una rotta, e via. Se hai buona vista puoi scansare agevolmente le persone che vuoi evitare, il che mi sarebbe molto utile, se in questo decennio avessi già conosciuto qualcuno abbastanza bene da volerlo evitare. Ma sono così timido.
Questa piazza enorme ha i suoi lati oscuri, che nessuno ha il coraggio di mostrare, e allora sarò io, proprio io, a rompere l'omertà. La semplice verità è che non è nata piazza, ma fossato: lo spazio tra il castello dei signori e le case dei borghesi. Ci furono poi vicende alterne, signori nella polvere e borghesi sugli altari, e poi a colmare il vuoto guerre e monumenti e lapidi ai caduti... eppure lo spettro del Fossato è lì, e per sentirlo basta distrarsi un momento dalle luci e dal benessere – il che non è poi così difficile, quando scende la sera e la Piazza Più Grande si rivela Inilluminabile. L'amministrazione fa quel che può, ma lì dentro ci staranno quattro o cinque campi da calcio, e i riflettori costano. La cittadinanza allora s'arrangia e si assiepa lungo i bordi, tanto in mezzo in fin dei conti non c'è niente.
Il vero problema è tra Natale e Capodanno: quando tutto deve brillare, sbirluccicare, glitterare, ma come accidenti fai a illuminare sei campi da calcio con niente di niente in mezzo? No, ma mettetevi nei commercianti: come fai a raccontare di essere un'oasi del benessere, al sicuro dalla crisi, dal terrorismo, dalle polveri sottili, in questa prateria? che se poi magari nevica diventa la banchisa polare? Ci voleva un'idea, un'idea geniale.
Non è venuta a nessuno.
(Non è un paese di geni, bisogna dirlo).
Invece, da qualche anno a questa parte, qualcuno ha escogitato questa cosa che vado a spiegarvi. Non so chi sia stato, se un commerciante o un amministratore, e neanche voglio saperlo, a dir la verità. Questa... questa creatura, sì, anche lui è una creatura del buon Dio, ha pensato: ok, abbiamo una piazza enorme, vuota e oscura. Da una parte i negozi, dall'altra un Castello con il museo dei deportati della Shoah e altre amenità. È chiaro che più di tanto non lo puoi glitterare, il Castello. Nemmeno puoi appenderci quei Babbi Natale che vanno di moda, perché comunque la facciata è bella grande, ce ne vorrebbero centinaia, e sembrerebbero i Marines che espugnano Alcatraz. Però questo enorme spazio vuoto e piatto, questo... questo schermo, sì... potremmo usarlo per proiettarci qualcosa. Cosa? Beh, è Natale, no? La festa del... commercio, no? E quindi qual è l'anima del Natale? E dai, è facile, su, qual è? La pub-bli-ci-tà! Dei negozi del Centro! Proiettata sul mastio del Castello in formato gigante! Adesso sì che è Natale! (nel caso i razzetti cinesi dei tamarri, i razzetti tamarri dei cinesi, e la filodiffusione di Jingle Bells sotto i portici vi avesse lasciato margini di dubbio).
Però non bisogna essere ingiusti coi miei compaesani. Loro lo sanno che il Natale non è solo comprare Articoli Sportivi da Bargigli e Figli Srl. Lo sanno che la loro è anche una città di arte e di cultura. Così, ogni cinque o sei slide, ne proiettano una che mostra le bellezze della nostra città. Che di bellezze, ahem, non è che ne abbia molte. In verità ne ha una sola: la piazza, col Castello. E quindi proiettano quella: sulla facciata del Castello. Pensateci bene: il Castello è bello, ma dobbiamo usarlo per proiettarci un po' di pubblicità natalizia; però tra uno spot e l'altro, per ricordarci che il Castello è bello, proiettiamo la facciata del Castello... sulla facciata del Castello. Prevengo l'obiezione: non basterebbe spegnere il proiettore e guardare il Castello? No, perché se spegniamo non è più il bel Castello della pubblicità: è solo una quinta, un fondale, un muro che serve a proiettarci sopra belle cose. E questa è una metafora potente, secondo me è la metafora del Decennio – almeno, è l'ultima metafora che ho fatto in tempo a trovare.
Ora, non vi sembra un motivo necessario e sufficiente per venire a trascorrere almeno un pomeriggio qui da noi? Fa un freddo cane, e non si scia (è tutto piatto per chilometri e chilometri), però volete mettere l'emozione di recarvi in Piazza e vedere proiettato sul Castello l'immagine della Piazza col Castello, e diventare così le comparse di un'enorme installazione escheriana, perché probabilmente anche nella foto del castello proiettata sul castello c'è un immagine del castello proiettato; così come probabilmente noi stessi siamo le comparse di una foto tridimensionale del Castello proiettata intorno a noi, su di noi. Siamo oggetto e siamo fondale, siamo messaggio e siamo medium, siamo le parole per dire quanto siamo noi stessi, siamo i Più Grandi Del... perlomeno siamo in una lista delle persone Più Grandi Del... siamo noi stessi pensanti noi stessi, l'unica luce che glittera nel buio che incombe, nel profondo, nel Fossato che sempre pronto a spalancarsi (fai che non salti la luce).
La maggior parte di questo decennio l'ho passata in una città minuscola con una piazza immensa. E il bilancio, devo dire, è positivo. I servizi sono abbastanza buoni, la gente non me l'aspettavo migliore né peggiore, e la piazza, cosa vuoi mai. I bambini dicono che è la più grande del mondo. Crescendo si correggono: è la più grande d'Italia. Gli adulti han l'aria di saperla lunga, è la seconda o terza piazza più lunga di una classifica che sta nelle loro teste, allestita da una giuria qualificata di Misuratori Di Piazze (me li immagino in giro per le periferie con chilometri di spago graduato). Ma insomma è il vanto della città, il suo biglietto da visita: ovunque nel mondo noi diremo di venire dalla città con la Piazza più Grande, perché tutti sanno che la nostra è la città con la Piazza Più Grande, no? Alle Maldive di sicuro lo sanno tutti (cameriere bagnini e personale di servizio), e il resto del mondo, beh, il resto del mondo s'arrangerà. Non sanno che si perdono.
È così grande che un giorno volle affacciarvisi anche Sua Santità, no, non il tizio di adesso, Sua Santità quello vero, Wojtyla: e pare che ai fedeli dicesse una cosa del tipo: “Ehi, certo che avete proprio una gran piazza”. Non so se mi sono spiegato, Karol Wojtyla: mica un pastore itinerante, stiamo parlando del più grande affacciatore di piazze della Storia – anche se ogni tanto il dubbio il dubbio viene che lo dicesse in tutte le piazze, come le rockstar che imparano a memoria Ciao Milano State Bene? Siete Caldi? Anchio.
Come si sta nei pressi della Piazza Più Grande del... boh, cosa volete che vi dica, di giorno è molto comoda in bicicletta. Non valgono più le regole stradali, gli angusti limiti imposti dalle piste ciclabili: quando sbuchi lì, sei come una vela nel mare aperto. Fiuti una direzione, tracci una rotta, e via. Se hai buona vista puoi scansare agevolmente le persone che vuoi evitare, il che mi sarebbe molto utile, se in questo decennio avessi già conosciuto qualcuno abbastanza bene da volerlo evitare. Ma sono così timido.
Questa piazza enorme ha i suoi lati oscuri, che nessuno ha il coraggio di mostrare, e allora sarò io, proprio io, a rompere l'omertà. La semplice verità è che non è nata piazza, ma fossato: lo spazio tra il castello dei signori e le case dei borghesi. Ci furono poi vicende alterne, signori nella polvere e borghesi sugli altari, e poi a colmare il vuoto guerre e monumenti e lapidi ai caduti... eppure lo spettro del Fossato è lì, e per sentirlo basta distrarsi un momento dalle luci e dal benessere – il che non è poi così difficile, quando scende la sera e la Piazza Più Grande si rivela Inilluminabile. L'amministrazione fa quel che può, ma lì dentro ci staranno quattro o cinque campi da calcio, e i riflettori costano. La cittadinanza allora s'arrangia e si assiepa lungo i bordi, tanto in mezzo in fin dei conti non c'è niente.
Il vero problema è tra Natale e Capodanno: quando tutto deve brillare, sbirluccicare, glitterare, ma come accidenti fai a illuminare sei campi da calcio con niente di niente in mezzo? No, ma mettetevi nei commercianti: come fai a raccontare di essere un'oasi del benessere, al sicuro dalla crisi, dal terrorismo, dalle polveri sottili, in questa prateria? che se poi magari nevica diventa la banchisa polare? Ci voleva un'idea, un'idea geniale.
Non è venuta a nessuno.
(Non è un paese di geni, bisogna dirlo).
Invece, da qualche anno a questa parte, qualcuno ha escogitato questa cosa che vado a spiegarvi. Non so chi sia stato, se un commerciante o un amministratore, e neanche voglio saperlo, a dir la verità. Questa... questa creatura, sì, anche lui è una creatura del buon Dio, ha pensato: ok, abbiamo una piazza enorme, vuota e oscura. Da una parte i negozi, dall'altra un Castello con il museo dei deportati della Shoah e altre amenità. È chiaro che più di tanto non lo puoi glitterare, il Castello. Nemmeno puoi appenderci quei Babbi Natale che vanno di moda, perché comunque la facciata è bella grande, ce ne vorrebbero centinaia, e sembrerebbero i Marines che espugnano Alcatraz. Però questo enorme spazio vuoto e piatto, questo... questo schermo, sì... potremmo usarlo per proiettarci qualcosa. Cosa? Beh, è Natale, no? La festa del... commercio, no? E quindi qual è l'anima del Natale? E dai, è facile, su, qual è? La pub-bli-ci-tà! Dei negozi del Centro! Proiettata sul mastio del Castello in formato gigante! Adesso sì che è Natale! (nel caso i razzetti cinesi dei tamarri, i razzetti tamarri dei cinesi, e la filodiffusione di Jingle Bells sotto i portici vi avesse lasciato margini di dubbio).
Però non bisogna essere ingiusti coi miei compaesani. Loro lo sanno che il Natale non è solo comprare Articoli Sportivi da Bargigli e Figli Srl. Lo sanno che la loro è anche una città di arte e di cultura. Così, ogni cinque o sei slide, ne proiettano una che mostra le bellezze della nostra città. Che di bellezze, ahem, non è che ne abbia molte. In verità ne ha una sola: la piazza, col Castello. E quindi proiettano quella: sulla facciata del Castello. Pensateci bene: il Castello è bello, ma dobbiamo usarlo per proiettarci un po' di pubblicità natalizia; però tra uno spot e l'altro, per ricordarci che il Castello è bello, proiettiamo la facciata del Castello... sulla facciata del Castello. Prevengo l'obiezione: non basterebbe spegnere il proiettore e guardare il Castello? No, perché se spegniamo non è più il bel Castello della pubblicità: è solo una quinta, un fondale, un muro che serve a proiettarci sopra belle cose. E questa è una metafora potente, secondo me è la metafora del Decennio – almeno, è l'ultima metafora che ho fatto in tempo a trovare.
Ora, non vi sembra un motivo necessario e sufficiente per venire a trascorrere almeno un pomeriggio qui da noi? Fa un freddo cane, e non si scia (è tutto piatto per chilometri e chilometri), però volete mettere l'emozione di recarvi in Piazza e vedere proiettato sul Castello l'immagine della Piazza col Castello, e diventare così le comparse di un'enorme installazione escheriana, perché probabilmente anche nella foto del castello proiettata sul castello c'è un immagine del castello proiettato; così come probabilmente noi stessi siamo le comparse di una foto tridimensionale del Castello proiettata intorno a noi, su di noi. Siamo oggetto e siamo fondale, siamo messaggio e siamo medium, siamo le parole per dire quanto siamo noi stessi, siamo i Più Grandi Del... perlomeno siamo in una lista delle persone Più Grandi Del... siamo noi stessi pensanti noi stessi, l'unica luce che glittera nel buio che incombe, nel profondo, nel Fossato che sempre pronto a spalancarsi (fai che non salti la luce).
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Ho una teoria #3
28-12-2009, 14:49antisemitismo, ho una teoria, Israele-PalestinaPermalinkGli israeliani sono esseri umani come noi. Quando sono feriti, sanguinano. Quando li si diffama, si indignano. Come fa chiunque, come faremmo noi (continua sull'Unità.it) (non sul cartaceo).
Ho una teoria: gli israeliani sono esseri umani come noi. Quando sono feriti, sanguinano. Quando li si diffama, si indignano. Come fa chiunque, come faremmo noi.
Ai primi di settembre un'ondata di indignazione israeliana investì la Svezia. Il più diffuso tabloid svedese, l’Aftonbladet, aveva ripreso la vecchia storia di Bilal Ghanan, un guerrigliero palestinese diciannovenne a cui gli israeliani, col pretesto di un’autopsia, avrebbero asportato alcuni organi per effettuare trapianti. Il cronista Donald Boström, testimone oculare delle esequie, non poteva però fornire alcuna prova concreta: soltanto i dubbi dei famigliari (perché praticare un’autopsia sulla vittima di un conflitto a fuoco?) e le macabre dicerie che sono moneta corrente nei teatri di guerra civile. L’episodio, che risaliva al 1992, si trovava inserito con una certa forzatura in un articolo (qui nella versione inglese) che partiva da un recentissimo scandalo scoppiato nel New Jersey, dove un rabbino newyorkeseaveva confessato il suo coinvolgimento in un traffico internazionale di organi (ma nel suo caso si trattava di reni, ceduti a quanto pare da israeliani consenzienti).
L’Aftonbladet fu accusato di rimettere in circolo le leggende calunniose medievali sugli ebrei 'ladri di sangue'. A infiammare ulteriormente l’opinione pubblica israeliana (si parlò di boicottare i punti vendita Ikea) fu l'atteggiamento del governo svedese, che non ritenne necessario prendere le distanze dal quotidiano, come richiesto dal primo ministro israeliano Netanyahu: tutto questo proprio mentre la Svezia deteneva la Presidenza di turno dell’Unione Europea. Dalla parte di Netanyahu si schierava invece il governo italiano: col ministro Frattini, che a Stoccolma accusava l’Aftonbladet di promuovere indirettamente “sentimenti di antisemitismo”; con Fiamma Nirenstein, Vicepresidente Commisione Esteri della Camera, che si diceva “stupefatta” del fatto che il Ministro degli Esteri svedese “ignorasse l’occasione per una ferma condanna nei confronti dell’antisemitismo”.
Era la fine dell’estate, e sui quotidiani italiani andava forte il caso Boffo: la vicenda scivolò in secondo piano e ce ne scordammo presto. Anche per questo, forse, è passato quasi del tutto inosservato il colpo di scena delle ultime settimane. Cos’è successo? In breve: Israele ha ammesso di avere asportato organi post-mortem a cittadini israeliani e a palestinesi dei Territori Occupati, senza chiedere il permesso ai famigliari, durante tutti gli anni ‘90 (The Huffington Post). Quindi l’Aftonbladet aveva ragione? Solo in parte, dal momento che l’articolo incriminato arrivava a suggerire che Bilal Ghanan potesse essere stato ucciso da soldati israeliani col deliberato intento di asportarne gli organi. Questo Boström non può provarlo (né ha mai preteso di poterlo fare).
L’ammissione è venuta dall’anatomo-patologo Jehuda Hiss, direttore dell'Istituto di Medicina legale Abu Kabir, in un’intervista trasmessa la settimana scorsa dall’israeliano Channel 2 TV. Il servizio è del 2000, e non era mai stato divulgato: l’intervistatrice (la ricercatrice statunitense Nancy Sheppard-Hughes) ha deciso di renderlo noto anche per sgravare Hiss dall’accusa più infamante, quella di accanimento razziale nei confronti delle salme palestinesi. In realtà Hiss non applicava nessuna distinzione razziale o politica: gli abusi perpetrati nel suo istituto riguardano infatti 125 cadaveri di israeliani e (in minoranza) palestinesi, morti per cause naturali, per incidenti o per intifada, a cui furono asportate ossa, valvole cardiache, cornee e lembi di pelle senza il consenso dei famigliari (o in certi casi addirittura contro la volontà di questi ultimi). Le uniche preoccupazioni erano pratiche: Hiss ha ammesso, per esempio, che le cornee venivano asportate solo quando i dottori avevano la certezza che la famiglia non avrebbe riaperto gli occhi del defunto.
Dopo la messa in onda dell’intervista l’esercito israeliano ha ammesso che questi abusi sono stati effettivamente commessi fino a dieci anni fa, in un momento in cui le normative in materia, a detta del Ministro della Salute, “non erano chiare”. A tutt’oggi la storia degli organi rubati alla salma di Bilal Ghanan rimane una diceria senza prove, ma se l’Aftonbladet non l’avesse divulgata, forse le ammissioni di Hiss e dell’esercito israeliano non ci sarebbero mai state. (E i rappresentanti del governo italiano che accusarono neanche troppo indirettamente la Svezia di fomentare l’antisemitismo europeo? Non pervenuti).
…ho una teoria, dicevo. Gli israeliani sono esseri umani, esattamente come noi. Se li ferisci, sanguinano. Ma se li curi possono guarire. Non credo che sia necessario essere antisemita per considerare immorale il comportamento di Hiss (personaggio estremamente controverso, che lavora tuttora nell'Istituto Abu Kabir, anche se ha dovuto dimettersi dall'incarico direttivo). Eppure il fatto che oggi qualche cittadino israeliano viva portando in sé una libbra di carne palestinese è in qualche misura suggestivo. Siamo della stessa carne, e in fondo lo sappiamo: nessuna guerra, per quanto lunga e senza quartiere, può farcelo dimenticare.
(Un grazie a Mazzetta, senza il quale questo pezzo non sarebbe stato possibile. E buon anno a tutti).
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