Freedom Party People

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Milioni di Milioni

“Ciao! Hai sentito cos'è successo a Roma?”
“Oh, ehi, ciao, sei già qui?”
“Beh, veramente son le otto”.
“Le otto? Scherzi?”
“E cinque minuti”.
“Oddio, ma pensa che... ero qui che erano... stavo cercando una cosa e poi...”
“Ha fatto partire la lavastoviglie?”
“Che? La lavast... io?”
“Lo sai... che di sera poi la signora al piano di sopra si lamenta e al mattino costa di più”.
“Ma sì, il fatto è che mi ero messo qui a fare una cosa ma poi...”
“Vabbè, capito. Il pane?”
“Il pane?”
“Sono io che chiedo a te: il pane?”
“Nel frigo”.
“Il pane?”
“No, scusa ero sovrappensiero... intendo nel congelatore, ce l'ho messo io...”
“Ce l'hai messo sabato”.
“...sì”.
“Domenica lo abbiamo scongelato”.
“...già”.
“E oggi è martedì”.
“Dici che è finito?”
“È da ieri che andiamo a grissini. Ma hai sentito cos'è successo a Roma?”
“Oddiohairagionescusa. Il pane. Ma forse...”
“Dicono che il Pidielle non si può candidare”.
“C'è quel despar che tiene aperto fino alle dieci di sera, se adesso io...”
“Ha chiuso un anno fa. E pare sia stato per colpa di un tale che non ha portato in tempo le firme”.
“Le firme? Per tenere aperto un despar?”
“No, dico, per le liste del Pidielle. Alle elezioni regionali. Bisogna raccogliere le firme, hai presente?”
“Certo che ho presente... quella volta che le raccogliemmo noi... e poi per anni ne avevo i cassetti pieni perché non avevamo fatto in tempo ad autenticarle tutte e inoltre...”
“Allora queste firme le aveva tutte in mano un tale, un funzionario di partito, non so neanch'io bene... le doveva portare tutte sabato entro mezzogiorno, una cosa così...”
“Non le potevo neanche mandare al macero perché contenevano dati sensibili e così... poi non so esattamente dove le ho messe”.
“In garage”.
“Sì?”
“Ma insomma, a parte i grissini cosa mangiamo? Hai pulito dell'insalata?”
“No scusa, hai ragione, è che mi ero messo a fare una cosa che... stavo mettendo giù i verbali dei consigli di dicembre, quando...”
“Ma è marzo”
“Appunto, era una cosa che andava fatta”.
“Ma non potevi farla prima?”
“Prima dovevo finire quelli di novembre”.
“Sei un po' indietro, insomma”.
“Nooo, adesso non va neanche male, c'è stata effettivamente una fase in cui ero un po' indietro col lavoro, ma adesso sto recuperando, senonché a un certo punto mi ha suonato la tipa del piano di sotto che raccoglieva i soldi dell'ascensore”.
“Glieli avevo già dati io”.
“Allora erano quelli della pulizia della scala”.
“Non li raccoglie lei”.
“Allora erano per qualche altra cosa che non ricordo, in ogni caso non erano neanche tanti, non è questo il punto, il punto è che mi ha fatto improvvisamente venire in mente che scadeva il canone”.
“È scaduto la settimana scorsa”.
“Sì, ma si fa ancora in tempo a pagare poco di mora, tu fidati, io sono professionista della mora”.
“Un pirata ed un signore”.
“Eh? Ah. Ha ha. Allora mi precipito in posta”.
“Ma si può pagare in tabaccheria”.
“Se per questo anche col bancomat”.
“E allora perché non hai provato al bancomat qua dietro”.
“Perché ero di corsa e non avevo il bancomat con me”.
“Potevi salire a riprenderlo”.
“Ma no, perché... la signora che mi vede scendere... poi mi vede risalire e... pensa male di me e...”
“Non avrebbe tutti i torti”.
“Appunto, allora mi precipito in posta”.
“Ma perché non in tabaccheria?”
“Perché non ci ho pensato. E poi ti ricordi quella cartolina con sopra scritto Atti Giudiziari che è arrivata tipo tre mesi fa? Ho pensato che già che c'ero magari andavo a darci un'occhiata, e quindi mi metto in fila col numeretto”.
“No, il numeretto no”.
“Appunto, sono lì che faccio la fila quando non t'immagini chi incontro. La padrona di casa di dove stavamo prima. Mi ha detto che cercava proprio me”.
“Ti cercava in coda alla posta, ha un senso”.
“No, no, era lì per altri motivi, è stata una coincidenza. Dunque mi spiega che ci stanno ancora arrivando un sacco di bollette nella vecchia cassetta della posta”.
“Stai dicendo che sono tipo sei mesi che arrivano bollette e non le paghiamo?”
“Ma tanto le avevo tutte domiciliate”.
“Le avevi domiciliate sul tuo conto”.
“Sì”.
“Quel conto che hai chiuso perché una volta hai confuso i blocchetti degli assegni, e hai fatto uno scoperto di trecento euro, e loro non ti hanno avvertito, e adesso sei nell'albo internazionale dei Cattivi Pagatori”.
“Adesso non rivanghiamo”.
“E quindi spiegami, se continuano a mandare bollette al vecchio indirizzo e sono domiciliate a un conto che hai chiuso, chi mai le pagherà?”
“Ma infatti mi sono posto il problema, e quindi mi precipito subito a casa”.
“Hai pagato il canone almeno?”
“No, non... non era più la priorità”.
“E allora perché non sei andato dalla vecchia a farti dare le bollette da pagare?”
“Non poteva darmele. Serve la chiave della cassetta”.
“E lei non ce l'ha”.
“No, perché...”
“Tu non gliel'hai mai resa, vero?”
“Può darsi che io abbia scordato... magari volevo prima assicurarmi che non arrivasse più posta, e allora...”
“Dove l'hai messa?”
“Ecco, appunto. Sono tornato a casa a cercarla e...”
“E sono venute le Otto”.
“Già”.
“E io ti ho sposato”.
“Senti, non è nulla che non si possa risolvere, davvero. Domani sul presto vado dalla signora con un cacciavite e...”
“Va bene, va bene, adesso parliamo d'altro, eh?”
“Sì”.
“...”
“Stavi dicendo una cosa di Roma, mi sembra”.
“Sì, beh, c'è un tale che... doveva portare le firme per le liste del Pidielle entro il mezzogiorno di sabato e sul più bello... se n'è andato”.
“In che senso andato”.
“Lui dice a prendere un panino”.
“Vabbè, è una scusa”.
“È pessima anche come scusa. C'è chi dice una telefonata dall'alto. Voleva cambiare un candidato all'ultimo momento. Certo che son cialtroni, proprio”.
“Eh già”.
“Cioè, uno se li immagina pieni di difetti... avidi, cafoni, maiali... però ti aspetti che almeno il loro lavoro lo sappiano fare, e invece no...”
“E invece no...”
“Che tanto poi la gente li vota lo stesso, anzi. Ma uno pensa: come si fa a votare della gente del genere? Cioè, anche se alla fine li riammetteranno, uno pensa, ma chi è che può sentirsi di votare per dei cialtroni così? Chi è che ha il coraggio di mettere una croce sul...”
“Sul Piddì”.
“Sul Piddì. Ma no, scusa, che Piddì. Sul Piddielle!”
“Ah, già, sì, Piddielle. È che sono tanto simili, sai, a volte...”
“Non dirmi che li confondi”.
“No, no. Anche se...”
“Anche se?”
“Certe volte, quando sono un po' sovrappensiero, io...”
“Ma tu sei sempre sovrappensiero”.
“Eh”.
“Senti, mi stai dicendo che potresti aver messo una crocetta sul Piddielle per sbaglio?”
“...”
“C'era anche scritto “Berlusconi Presidente”. Non puoi aver messo una crocetta su Berlusconi Presidente”.
“Beh, ma sai, questa cosa della crocetta, io... Magari stavo pensando ai fatti miei, un po' di incazzatura per come vanno le cose... entro nella cabina, vedo Berlusconi Presidente e penso: Te lo do io Presidente! Zac, zac, tipo Zorro, no? Ma con la matita”.
“Ma non fai la Zeta”.
“No, credo di no”.
“Hai fatto una X”.
“Amore senti non so cosa m'ha preso io...”
“Hai votato Berlusconi”.
“Non ero neanche esattamente io, una voce nel mio cervello, mi hanno fatto il lavaggio... non so come sia potuto succedere, è solo che...”
“No, ma guarda hai fatto bene”.
“Perché dici così?”
“Perché ti rappresenta, in un certo senso”.
“Ma non te la prendere, non è nulla di irreparabile, io... io domani vado col cacciavite dalla vecchietta, spacco tutto, tiro fuori le bollette, vado in posta... prendo anche il canone...”
“Puoi pagare tutto in tabaccheria”.
“Ecco, sì, in tabaccheria”.
“E poi finirai i verbali di dicembre”.
“Ah già, giusto, i verbali... mi stavo dimenticando...”
“E io ti ho sposato”.
“Vedrai, vedrai, si sistema tutto. Con calma. Domani”.
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Rondini e altre questioni

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Mi è cosa gradita segnalarvi, all'indomani dello sciopero dei migranti, questo bel libretto pubblicato da Mangrovie edizioni, che prende spunto dal ddl 773b (il reato di clandestinità) per raccogliere un po' di testimonianze di scrittori migranti in Italia, sull'Italia di oggi. Quasi tutti sono di origine straniera; tutti (mi pare) scrivono in italiano. Basterebbe questo a farne un documento interessante su una letteratura italiana che sopravvive quasi a malincuore (e poi sì, ci sono anch'io, con un pezzo preso dal blog). I diritti d'autore saranno devoluti a progetti per l'integrazione (si può ordinare qui).

Visto che è il giorno delle segnalazioni, ve ne faccio una che aspettava da un po': ho scritto un film. E' stato semplicissimo. In effetti non ho dovuto fare assolutamente niente. Un regista, Maurizio Failla, ha ripescato un mio vecchio pezzo, a dire il vero uno dei più controversi, e ne ha tratto un cortometraggio. Tutto questo è successo qualche mese fa, ma io esitavo a dirlo, perché... in effetti non sono ancora riuscito a vederlo (ho anche un po' paura, in effetti). Comunque brutto brutto non dev'essere, dai. E' tra i candidati al premio David di Donatello per il miglior cortometraggio. Forza Failla.

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Sesso Droga e Mussolini

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Luddisti di tutta Italia, unitevi!
(Non avete da perdere che i vostri internets).
(Il Partito Luddista Italiano, sull'Unità.it).
(ftg. Ned Ludd, Benito Mussolini, Barbara Palombelli, gli mp3 dopanti, i bulli di Torino, i decreti Romani-Alfano-Pisanu, e tante altre cose che vi risolleveranno il lunedì).
(Provate a commentare di là, talvolta funziona).

C'era una volta Ned Ludd. Un oscuro tessitore delle Midlands, che verso la fine del '700 distrusse il suo telaio meccanico. Nel suo improvviso accesso d'ira molti vollero vedere una presa di coscienza: le macchine avevano reso la nostra vita miserabile. Il cielo si era tinto del grigio delle ciminiere; la giornata non cominciava più al canto del gallo, ma sulla nota sgraziata della sirena che chiamava gli operai a interminabili turni sempre uguali, per una paga da fame. Nessuna sorpresa che negli anni successivi l'esempio del leggendario “Capitano Ludd” ispirasse centinaia di seguaci in tutta l'Inghilterra industriale. Li chiamarono luddisti, e ne impiccarono un bel po'. Ma il loro esempio vive. Ovunque la tecnologia minacci il nostro benessere, il fantasma di Re Ludd chiama ancora a raccolta i suoi seguaci.

Anche in Italia, dove il luddismo non è mai stato così forte come negli ultimi anni. È una corrente trasversale ai partiti, a cui aderiscono giornalisti, magistrati, politici. Chiamarli luddisti può apparire improprio: non li vedrete mai intenti a distruggere un'automobile, un televisore o un telefono... Tutti questi strumenti sono ormai parte della nostra natura, neanche loro saprebbero farne a meno. Tuttavia c'è una tecnologia che oggi più che mai ci minaccia: Internet. I luddisti italiani lo hanno capito: la rete non tinge di grigio il cielo: ma intorbida le nostre coscienze con prostituzione, droga, fascismo, video scioccanti e opinioni anonime. Esagero? Giudicate voi

Qualche mese fa la procura di Trieste ha ottenuto l'oscuramento della sezione incontri di un popolare sito italiano di annunci gratuiti (Bakeca), adoperato da molte prostitute per pubblicizzare i loro servizi. Il che è evidentemente illegale (non prostituirsi, ma farsi pubblicità gratuitamente su internet. Dopo chi li compra più gli spazi sui giornali nella sezione “Massaggi” o “Incontri”?)

Qualche settimana fa gli utenti dell'I-Phone scoprirono sgomenti che l'applicazione più scaricata in Italia era quella che consentiva di ascoltare o assistere ai discorsi di Benito Mussolini. Il che è evidentemente intollerabile. Non i discorsi di Mussolini: il fatto che si possano scaricare da Internet. Se Mussolini diventa accessibile on line, chi comprerà più le dispense appollaiate in cima al chiosco di giornali, con allegato il vhs o il dvd? Alla fine la Apple ha recepito il messaggio e ha rimosso l'applicazione. Se vuoi ascoltare Mussolini, almeno alza il sedere e va' in edicola.

C'è poi la piaga della droga. Certo, può darsi che qualcuno si drogasse anche prima di Internet, ma era molto meno semplice. Nell'ultima puntata di Annozero Barbara Palombelli ha rivelato agli spettatori sgomenti che bastano pochi clic per rifornirsi di pasticche dall'Olanda. L'idea che la rete stia semplificando la vita ai tossici è allarmante – perfino gli spacciatori ai giardinetti dovrebbero cominciare a preoccuparsi. Tanto più che basta aver guardato Porta a Porta di recente per sapere che addirittura c'è un modo di drogarsi da casa, scaricando dei file e ascoltandoli in cuffia; l'avevamo sentito dire qualche anno fa e pensavamo fosse una bufala, ma se persino Vespa l'ha ritirata fuori qualcosa di vero ci dev'essere; ed è qualcosa di potenzialmente devastante per chiunque si guadagni da vivere spacciando ancora droga alla vecchia maniera. Non resta che iscriversi al partito luddista italiano.

Vogliamo parlare dei video amatoriali, pieni di cose brutte che non si dovrebbero mostrare? Negli ultimi giorni un giudice italiano ha attirato l'attenzione di tutto il mondo, condannando a sei mesi di reclusione i gestori di YouTube che lasciarono per qualche giorno on line un video-choc in cui alcuni studenti maltrattavano un loro compagno disabile. Il che è davvero intollerabile – non molestare i disabili: quello succedeva anche prima (anzi, quel video ha permesso l'identificazione dei colpevoli, che sono stati puniti). Nemmeno mostrare i loro maltrattamenti: un video del genere si può ancora tranquillamente diffondere, via cellulare (chiedete ai vostri figli). No, quello che è semplicemente inammissibile è che un video del genere resti qualche ora su YouTube, dove può creare un caso nazionale: i disabili vanno maltrattati con discrezione.

Ho una teoria
: anche il luddismo non è più quello di una volta. I neoluddisti italiani sanno benissimo che non è stata internet a portarci la prostituzione, la droga e il bullismo. Quello che non sopportano è il fatto che grazie a internet ci si possa prostituire, drogare o bullare gratis (e che persino i discorsi di Mussolini circolino a un prezzo irrisorio). Non resta che organizzarsi, lobbizzarsi, ispirare sentenze e disegni di legge. Così, mentre i finanziamenti statali per la banda larga vengono bloccati, in Parlamento si discute un testo di legge che equipara le piattaforme internet alle emittenti tv, impedendo di pubblicare video senza un'autorizzazione preventiva. Il decreto Alfano minaccia di fatto la libera circolazione delle opinioni su internet, imponendo a tutti i siti (blog amatoriali inclusi) l'obbligo alla rettifica. Nel frattempo viene prorogato il decreto Pisanu, che impone norme restrittive a tutti i gestori di reti wireless (siamo probabilmente gli unici in Europa a dover presentare i documenti per navigare in un luogo pubblico).

Il risultato è sotto i nostri occhi. L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per numero di accessi pubblici WiFi. La nostra connessione internet – domestica o mobile – è più cara di quella dei nostri colleghi europei; in compenso è più lenta. Stiamo accumulando un ritardo che peserà sulle nostre imprese anche quando la crisi sarà finita. I nostri blog sono più cauti: troppa franchezza nell'esprimere le proprie opinioni può metterci nei guai. Ma in compenso l'edicolante continuerà a fare qualche soldo con le dispense di Mussolini e Hitler. I giornali potranno sempre contare sulle inserzioni delle massaggiatrici. E i video diseducativi li potremo sempre guardare in televisione. Indovinate sui canali di chi.
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Addio agli antichi

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Avrete forse sentito dire che scomparirà la geografia dalle scuole – beh, anche quello è un mezzo bluff. Rassicuratevi, la geo non scomparirà, nella maggior parte dei licei; per il semplice motivo che non vi è comparsa mai. Non solo, ma in un certo senso non abbiamo mai fatto tanta geo come negli ultimi anni. Io però preferirei parlarvi della Storia, l'unica materia che scrivo con la S maiuscola (“storia” con la minuscola può essere sinonimo di menzogna, o di fiction, o semplicemente di fatti tuoi).

La caduta dell'Impero Romano (2010 dC)

In questi giorni le sale insegnanti sono infestate dai rappresentanti delle case editrici. Io cerco quanto possibile di evitarli; sono pessimo nell'arte di giudicare un libro dalla copertina, e poi preferisco sempre un vecchio catorcio che conosco bene al modello fiammante di cui scoprirò le magagne tra sei mesi – in ogni caso ho dato un'occhiata ai corsi di Storia. Ormai si sono tutti allineati alla direttiva di non-so-più-quale riforma (Berlinguer?) che fa partire la terza media dal Novecento. Questa, mi rendo conto, è una delle principali differenze tra la scuola nostra e quella dei ragazzi di adesso. Noi non solo non abbiamo fatto in tempo a studiare la caduta del Muro di Berlino, per intuibili motivi; ma il più delle volte nemmeno la sua erezione. I prof col pallino (di solito ideologico) per il '900 arrivavano sì e no alla guerra antifascista, ma era normalissimo anche fermarsi agli anni Trenta o persino alla Grande Guerra. Era Storia, del resto, mica cronaca.

Ecco, questa prospettiva oggi suona quasi eretica. Sarà che nel frattempo il '900 è finito, e quindi è più facile considerarlo Storia con la maiuscola. Sarà che sulla maiuscolità del '900 si insiste di più, c'è la Giornata della Memoria della Shoah e il quella del Ricordo delle Foibe e tutto il resto. Fatto sta che oggi l'idea di uscire dalle scuole senza aver studiato ben bene almeno la prima metà del '900 ha l'aria di un crimine contro l'umanità. Qual è l'insegnante mostro che lascerebbe andare i suoi studenti senza aver loro spiegato cosa sono i nazisti? Se Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, privarti della lezione sull'incendio al Reichstag è rubarti il futuro: inammissibile. Vi si sfaccia la casa. La malattia vi impedisca. Eccetera.

Naturalmente, per poter arrivare così a fondo nel '900, bisogna togliere qualcosa da qualche altra parte – il programma di Storia è la classica coperta troppo corta. Si è deciso perciò di coprire il capo novecentesco scoprendo i piedi: via la Storia antica, fino alla caduta dell'Impero e oltre. I riformatori berlingueriani che praticarono questo taglio avevano probabilmente in mente quella chiacchiera da bar (anche da bar degli insegnanti) per cui non aveva senso ripetere sempre la stessa Storia in tre scuole diverse. È un ritornello che sento da quando ero bambino: perché bisogna ogni volta partire da capo? Alle elementari la preistoria, poi l'Egitto, i Greci, i Romani... ricominci alle medie ed ecco di nuovo la preistoria, l'Egitto... arrivi alle superiori e tac! Di nuovo preistoria, Egitto... che solfa. Quelli che si inventarono questo sistema dovevano essere proprio dei noiosi barbogi. Perché non razionalizziamo, non sfoltiamo, non facciamo economia? Per esempio, potremmo confinare la Storia antica alle elementari. Alle medie poi si ripartirebbe dal medioevo, ed ecco che si libera un sacco di spazio per arrivare all'esame con la caduta del Muro di Berlino (e l'11/9, in ogni libro di terza media che si rispetti non può mancare una fotina delle Twin Towers: bisogna tenersi aggiornati).

Con questo sistema, che è andato a rodaggio negli ultimi 3-4 anni (e in qualche scuola non si è ancora imposto, perché i prof, specie quelli navigati, conoscono l'arte di aggirare le direttive ministeriali più o meno dai tempi di Giovanni Gentile) abbiamo un enorme ciclo di sei anni che parte in terza elementare e finisce in terza media. Cosa ci abbiamo guadagnato? A tredici anni i ragazzini sanno cos'è il Muro di Berlino e chi sono i nazisti. Cosa ci abbiamo perso? Spero di sbagliarmi, ma credo di avere assistito alla caduta dell'Impero Romano. No, non quello d'Occidente (476dC). Neanche quello d'Oriente (mille anni più tardi, l'impero più sottovalutato della S). Sto parlando dell'Impero nella fantasia dei ragazzini. Al punto che mi sono ridotto a rivalutare un peplum osceno come il Gladiatore: trama insensata, ma almeno ci sono le bighe e le carrozze, i Barbari e i mirmidoni. Tutte cose i ragazzi si bevono come astronavi, anzi, con gli occhi ancora più sgranati, perché un po' di astronavi nei film le hanno già viste, ma una biga romana, quando mai? L'Impero Romano è kaputt (per tacere delle polis Greche, o delle piramidi – ma per quelle ci pensa Voyager, no? Grazie, servizio pubblico). Insomma, questi arrivano alle superiori e non hanno la minima idea di chi sia Giulio Cesare, Orazio Flacco, Nerone, com'è possibile? Non glielo hanno spiegato a... otto anni?

Ecco qui il problema. No. La maestra di terza elementare probabilmente non ha spiegato chi fosse Giulio o Tizio o Caio. Neanche doveva. Non avrebbe avuto senso. A otto anni non studi le vite dei Romani illustri, i processi sociali o economici; a 8 anni se va bene fai un cartellone in cui si disegnano gli uomini con le toghe e i sandali, le domus, i gladi, le arene: ed è già grasso che cola. Questo i barbogi gentiliani lo sapevano. Non è che ci volesse molto: prima di crescere lunghe barbe bianche avevano tutti avuto esperienza diretta come giovani maestrini nelle scuole del Regno, e lo sapevano. Sapevano pure che imparare consiste, per lo più, nel ripetere, ripetere, ripetere, fino allo sfinimento: ogni volta integrando un 2% di contenuti in più. Per cui non ci vedevano nulla di male a rifare i Romani a otto, undici e 14 anni: la prima volta mostri un uomo in toga, insegni la filastrocca dei sette Re; la seconda sviluppi la differenza tra Regno e Repubblica, spieghi chi è Cesare e perché l'han pugnalato (si raccomanda l'insistenza sul sangue, i ragazzini van matti). La terza puoi già tirare fuori le classi sociali, la lotta tra patrizi e plebei e poi tra questi e gli equites; però difficilmente riuscirai a fare bene il terzo passo se ti è mancato il primo. O il secondo. E così l'Impero è caduto, come è poi destino di ogni Impero.

E uno potrebbe anche far spallucce. Non è stata una perdita secca: ci abbiamo guadagnato... il muro di Berlino, i Lager e i Gulag (si raccomanda d'insistere sul fatto che ci sono stati anche i Gulag). Non è che un ragazzo cresce più cretino se invece di introiettare la storia di Giulio Cesare si nutre di Lager e Gulag. Tanto più che l'incubo su cui siamo sospesi non è quello di venire pugnalati dai senatori alle calende di marzo, ma di ritrovarci di nuovo in un lager / in un gulag. Quindi cosa sto difendendo, esattamente? Cos'è Giulio Cesare per me, cosa ci trovo di così essenziale? Non è ora che diventi una curiosità antica, un signore che viene studiato soltanto da specialisti adulti? Non è ora che lasci il suo posto nella cultura generale a nozioni più attuali?

Probabilmente sì, sto difendendo la mia infanzia, perché ovviamente è stata La Più Bella Del Mondo. E la Storia era la mia materia preferita. I Romani soprattutto. Non vedevo l'ora di arrivare in terza elementare per snocciolare Romolo-Numapompilio-Tullostilio, e quando finalmente ci fui e mi fecero fare il cartellone con le toghe e le altre palle (pallae) ci rimasi male: le maestre ci prendono per deficienti? Io voglio ragguagli sulla battaglia di Zama. Tutto questo sapete perché? Mi piacevano i fumetti. E tra quelli che avevo in casa, il più bello di tutti si chiamava Asterix e Cleopatra. Aveva colori fantastici, scene faraoniche sul serio, e tutto l'insieme tradiva un'ironia e una sapienza narrativa che non si poteva confrontare col Topolino settimanale.

Si capisce che per me bambino che imparava a leggere nelle nuvolette Asterix non fosse che un omino buffo col nasone; e tuttavia in un qualche modo dovevo imparare chi fosse il suo antagonista, Giulio Cesare; e perché il loro mondo fosse così diverso dal mio. A furia di chiedere e cercare scoprii che erano effettivamente esistiti gli antichi Galli, gli Egizi, e i Romani; che per quanto fossero i cattivi, questi ultimi avevano pure mandato avanti un impero millenario; e così via; e nel giro di pochi anni era cresciuto un piccolo appassionato di Storia. Ma perché proprio di Storia e non di chimica, o fisica o biologia? Perché la Storia è la materia più vicina alle storie con la s minuscola, che erano poi quelle che interessavano a me. Ed è ancora così. La Storia è un serbatoio inesauribile per la fiction. Persino quando fa finta di guardare in avanti: l'80% della fantascienza è rielaborazione del passato. Avrei mille esempi per specialisti, ma in fondo basta Avatar, no? Siccome Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, per immaginare come ci comporteremo quando conosceremo gli extraterrestri non abbiamo che da consultare i vecchi libri, ad es. Pocahontas.

“Va bene, d'accordo, sei diventato un appassionato di Storia perché ti piacevano le storie: ma ammesso che il tuo percorso sia in un qualche modo rappresentativo o consigliabile alle nuove generazioni, comunque, che problema c'è? Se i ragazzini devono crescere facendosi delle storie, se ne faranno meno sui proconsoli togati e più sul Terzo Reich. Non c'è niente di male in questo, anzi magari è meglio, visto che il Terzo Reich è comunque un problema più attuale. O no?”

Ecco, siamo arrivati al punto. Però siamo anche in fondo a due cartelle, per cui per stavolta la smetto qui (ultimamente mi vengono pezzi lunghissimi, perdonatemi. Questi poi sono appunti per una conferenza).
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Ho una teoria #11

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"Hai letto? Dicono che sull'Unità sei moscio".
"Moscio? A me sembra di essere un po' rigido".
"Insomma, non sei a tuo agio".
"Ci sto lavorando. Vedrai che lunedì li stendo. Sto lavorando a un pezzo che... ti leggo l'incipit?"
"Se insisti".
"Accadde qualche anno fa: stavamo scegliendo l'aspirapolvere. Bello eh?"
"Senz'altro ti crea una certa suspense".
"Vero? Vuoi sapere come va a finire?"
"No, no, non ti preoccupare, me lo leggo poi con calma".
"Stavolta li stendo, me lo sento".
"Stavolta li stendi proprio".

(C'è qualcuno su internet che parla male di te!, sull'Unità online. UPDATE: C'era un bug che non permetteva la pubblicazione di commenti. Adesso funziona, quindi se vi va, commentate di là).

(La vignetta è ovviamente rubata a XKCD).

Accadde qualche anno fa: stavamo scegliendo l'aspirapolvere. C'era una marca che conoscevamo sin da bambini: tutti ce ne avevano sempre parlato come il non plus ultra; sapevamo che costava un po' di più ma che probabilmente ne sarebbe valsa la pena. Insomma, ormai ci eravamo decisi.

Poi però siamo andati su Internet. Abbiamo visitato un sito di recensioni, non ricordo quale – ce n'è più d'uno, e non danno alcuna garanzia d'affidabilità. Ci scrive gente normale, che decide di pubblicare on line il proprio punto di vista su un aspirapolvere, o una lavatrice, o un automobile, facendo spesso scempio di sintassi e ortografia. Però sono persone vere, che nessuno paga per parlare bene di un prodotto; se condividono il loro parere è per il solo gusto di farlo. Bene, queste persone normali distrussero la fama del prestigioso elettrodomestico nel giro di cinque minuti. Leggemmo che era un affare ingombrante e inutilmente costoso, che l'assistenza era un calvario, ecc. Così non lo comprammo. Magari ci siamo sbagliati, le recensioni on line non sono più attendibili dei pareri di amici e conoscenti. Ma riflettono le opinioni di un insieme più vasto di persone. In fondo non abbiamo fatto altro che sostituire a un sentito dire (“l'aspirapolvere X è buono perché me l'ha detto un cugino, o un collega, o un vicino di casa”) un altro sentito dire (“X è scarso perché ne parlano male 9 recensioni su 10”), che ci sembrava più affidabile perché più condiviso.

Ah, dimenticavo: le recensioni erano tutte rigorosamente anonime. Non è difficile capire il perché. Tutti abbiamo il diritto di parlare bene o male di un prodotto, ma scrivere dello stesso prodotto comporta un rischio che in Italia non sono disposti a correre nemmeno i quotidiani. Anche le testate più critiche nei confronti dei politici più potenti si guardano bene dall'attaccare esplicitamente aziende che possono ritirare la pubblicità o mettere in mezzo gli avvocati. Capita così che sulla carta stampata sia più facile criticare il Presidente del Consiglio che parlare male di un aspirapolvere. Certo, Internet ha un poco cambiato le cose. Ha dato a tutti uno spazio per esprimerci; e, cosa non meno importante, ci ha dato la possibilità di farlo in modo anonimo. Ha regalato a tutti una maschera, un avatar, un profilo vuoto da riempire. Per un po' è stato fantastico.

Ma probabilmente era illegale. Questa maschera, come molti giornalisti esperti non cessano di farci notare, internet l'ha regalata anche a mitomani e diffamatori. A nessuno piace trovare su una pagina web falsità o cattiverie sul proprio conto: tanto più a chi gestisce un'azienda, e che spesso non sa ancora come reagire ad attacchi che in Italia fino a poco fa erano una novità. Per esempio: una settimana fa la blogger Sybelle ha avuto un'esperienza che chiunque scriva su un blog considera tra i suoi incubi peggiori: perdere l'accesso al suo sito personale. Cos'era successo? Qualche mese prima un anonimo aveva lasciato un commento lesivo della reputazione di un marchio d'abbigliamento. L'azienda titolare del marchio, invece di chiederne la rimozione a Sybelle, coinvolge Wordpress, il servizio di hosting (in pratica i proprietari dello spazio web concesso a Sybelle). Così, per impedire la lettura di un commento anonimo, Wordpress oscura l'intero blog. Apparentemente le norme d'utilizzo glielo consentono.

A questo punto entra un gioco un fattore che l'azienda e il servizio di hosting non avevano calcolato: la solidarietà di decine di utenti che si sono immediatamente messi nei panni di Sybelle. Il caso è approdato su blog e social network, creando un fiume di interventi che ha preso diverse direzioni. Da una parte la polemica con Wordpress (che dopo qualche giorno ha rimesso on line il blog, eliminando soltanto il pezzo in cui era apparso il commento incriminato). Dall'altro, il marchio di abbigliamento. Il famigerato commento, ripescato su google, è statoripubblicato sul popolare blog del giornalista dell'Espresso Alessandro Gilioli. A quel punto i responsabili dell'azienda si sono resi conto di avere amplificato a dismisura la visibilità di un oscuro commento dimenticato da mesi su un blog personale, e hanno addirittura chiesto scusa. Purtroppo per loro la credibilità di un marchio non si ripristina così facilmente come l'accesso a un blog. (Per un resoconto più dettagliato sulla vicenda vedi MyWeb 2.0); per una riflessione più articolata vedi Punto Informatico).

L'anonimato di internet è un problema. Inutile negarlo. Ma sbaglia chi crede di poterlo risolvere in maniera repressiva, con l'abolizione dell'anonimato o altre misure impraticabili. Internet è un universo fluido (la metafora della navigazione è ancora la più azzeccata): invece di piantare paletti e alzare steccati, a volte basta seguire la corrente. Se uno sconosciuto parla male di te, ignorarlo è sempre l'opzione migliore. E bisognerebbe comunque evitare di farsi troppi nemici... in pratica, le regole che abbiamo imparato nel cortile della scuola sono ancora le migliori per farsi rispettare sul web. Almeno, questa è una mia teoria. Non è detto che sarà così per sempre. Forse un giorno le aziende riusciranno a imporre quel rispetto un po' omertoso che già vige nel nostro giornalismo. Perdonatemi se quel giorno non canterò vittoria. Certo, nessun anonimo potrà più permettersi di offendere me e il mio lavoro. Ma probabilmente possiederò un aspirapolvere ingombrante e inutilmente costoso.
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L'hai provato il crack?

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Essendo Bernabei

Invece di parlare di Morgan – che poi sembra di essere gli stronzi – perché non parliamo di Alessia Marcuzzi?
Una simpatica signora che presenta uno dei programmi di maggior successo televisivo in Italia, e tutto il resto del tempo fa la pubblicità a uno yogurt dalle proprietà lassative.
Che se uno ci pensa, è quel classico prodotto che potrebbe fiaccarti un po’ l’immagine – insomma, se dopo anni non rinuncia, è evidente che la pagano bene. Molto bene. Ecco, secondo voi perché? Può darsi che sia semplicemente un capriccio: i direttori del marketing del noto yogurt hanno deciso che continueranno a rovesciare soldi sulla signora Marcuzzi così, pel puro piacere di farlo. Una sorta di mecenatismo: questa è un’ipotesi. Però io continuo a trovarne più plausibile un’altra, ovvero: la signora Marcuzzi continua fare il testimonial dello yogurt perché funziona. Da quando c’è lei, lo yogurt vende un po’ di più. Con un’altra (meno bella, o meno alta, o meno bionda, che ne so) non avrebbe venduto altrettanto.
Voi ci credete a questa cosa? Secondo me sì. Secondo me la date per scontata, voglio dire, i testimonial esistono più o meno da quando pubblicità si chiamava ancora réclame. I professionisti del settore magari storcono il naso, loro preferirebbero poter contare solo sulle loro forze e sulla loro sempre sconfinata creatività… ma alla fine un buon testimonial è una sicurezza. Anche quando non sfrutta il meccanismo dell’immedesimazione perché, suvvia, nessuno ci crede veramente che la Marcuzzi abbia tutti questi problemi intestinali o addominali. Ella fa parte dell’empireo tv, non soffre delle malattie di noi comuni mortali; eppure noi comuni mortali andiamo a fare la spesa e carichiamo nel carrello lo yogurt lassativo. Perché c’è rimasto in mente lo spot della Marcuzzi – ci credete a questa cosa? Cioè, magari a voi non è successa (nemmeno a me), ma ci credete che molta gente è in grado di comprare un certo caffè perché lo ha visto bere da Clooney o Bonolis? Perché altrimenti nessuno pagherebbe né Clooney né Bonolis. Può sembrarvi sciocco, ma il meccanismo dei testimonial evidentemente funziona. Altrimenti non li userebbero più.

Ecco. Adesso spiegatemi perché lo stesso meccanismo, applicato agli stupefacenti, non dovrebbe funzionare. Insomma, ipotizziamo che un personaggio famoso, un habitué delle prime serate, dica in un intervista che lui fa un uso consapevole di qualche droga pesante, che ci si trova bene, che la considera migliore di molti antidepressivi. Ipotizziamo che questa intervista – magari carpita in malafede – abbia una certa copertura mediatica. Tanto che nei giorni successivi lo stesso personaggio famoso non riesca a scrollarsela di dosso, al punto che appena lo vedi dici toh, il Cattivo Cantante (allo stesso modo in cui quando vedi la Marcuzzi pensi, toh, la madre di tutti i bifidus). Ecco. Si può dire che quel personaggio famoso può aver convinto qualche telespettatore a farsi di crack? No. Non si può dire. Se lo dici sei un moralista (dove per ‘morale’ s’intende qualche orribile parassita che ti porti dentro). Uno che non si fida della maturità del pubblico, che è sempre maturo per definizione: anche quelli che guardano Naruto; se cambiano canale e trovano un video del crackdipendente diventano subito adulti e consapevoli. Nota che questa consapevolezza li protegge soltanto dal consumo di stupefacenti: appena passa lo spot della Marcuzzi, tornano il pubblico bue che si beve qualsiasi panzana a qualsiasi età. Ma l’idea che uno stupefacente possa essere veicolato dalla testimonianza di un personaggio famoso – né più né meno che uno yogurt – eh no, è un’idea da matusa. Da Rai-di-Bernabei. Senonché, anche Sanremo è roba da Bernabei. È chiaro che lì decidono i benpensanti. Insomma, il posto sbagliato per fare i maudit. E spero che si capisca che stasera non ce l’ho né con Sanremo né coi maudit, ma con chi vorrebbe tenere insieme le due cose.

Io mi rendo conto che le persone che scrivono sui blog, o sui social network, appartengono forse al segmento sociale e culturale meno adatto a porsi il problema. Sono individualisti, quindi è difficile coglierli in castagna – con qualche yogurt nel carrello, intendo. Anche se torturati, negheranno categoricamente di aver mai preso o fatto qualcosa per imitare quale si voglia personaggio famoso. Va bene. Cosa vi posso dire – siete fichissimi. Ma accettate di vivere in un mondo pieno di persone meno equipaggiate di voi in fatto di autostima. Accettate il fatto che il circo dei Personaggi Famosi funzioni anche grazie ai prodotti che fanno girare e che li fanno girare. E che pubblicizzare un derivato della cocaina come antidepressivo non è un’azione priva di conseguenze. Certo, è difficile immaginare l’adolescente che sfogliando Max si convince all’istante delle proprietà antidepressive del crack e corra al parchetto più vicino per guarire un improvviso male di vivere. Non è così che funziona. Ma se avete un po’ il polso della situazione, sapete più o meno quante persone si muovano oggi sulla linea di confine tra il consumo e il non consumo: in una situazione di offerta crescente e di perenne sottovalutazione del rischio a volte basta un nulla per portare un adolescente (e non solo un adolescente!) a decidere se provare o no, se continuare o no. Le confessioni di un cantante da prima serata sono un po’ più di nulla.

Voi siete abituati a risolvere i problemi con una battuta. Quindi: se qualcuno è così fesso da fumare crack perché ha letto un’intervista di Morgan, peggio per lui. Ok, buona. Ma provate per un attimo a mettervi nei panni di uno Stato. Sì, lo so che sono panni larghi che vi mettono a disagio. Però provateci. Siete uno Stato. Vedete un aumento delle tossicodipendenze. E' un male? Sì, è un male. Gli esperti vi dicono che è a causa di una sottovalutazione del rischio, non solo tra i più giovani. Ah, dimenticavo: disintossicare tutta questa gente vi costerà parecchio. Cosa fate? Ve ne fregate? Scrivete due battutine fulminanti sul blog della Gazzetta Ufficiale? Non lo so, chiedo. Gliela date, la prima serata, al primo tossico che sostiene di sapersi gestire una dipendenza da crack meglio di un ciclo di antidepressivi? Io forse no, non gliela darei; s’io fossi la Rai, la Rai di Bernabei.

Fine del trip, nessuno è la Rai. La Rai è quel che resta di un organismo che ha smesso di pensare in modo organico decenni fa (e anche quando pensava organico non è che formulasse tutti ‘sti pensieri intelligenti). Restano tra le macerie molti residui di benpensantismo e qualche disperato tentativo di mettere insieme un nuovo senso morale. Ma è dura, perché appena cominci a dire che, mah, forse i morti ammazzati alle nove di sera non danno proprio un buon esempio … o che le puntate fetish dei Griffin non sono il miglior dopopranzo per gli studenti delle elementari… ti danno subito del censore, e il bello è che han ragione. Non bisogna censurare niente mai, non è previsto dalla formula. La formula è: non importa quanti anni hai. Sei consapevole, sei adulto, sei fichissimo, puoi guardare e comprare qualsiasi cosa ti mostriamo. Insomma, il modello è mediaset. Da trent’anni, e finché regge l’economia (forse non regge, uh, allegria).
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I prigionieri

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Cosa c'è nella scatola

Ricapitolando: esistono miti e mitologie (e poi esistono studiosi che potrebbero giustamente fulminarmi per l’uso non accademico di questi due termini, ma è solo per intendersi in un discorso da blog, ok?) I miti vengono prima: sono racconti autoconclusivi che cercano di spiegare un enigma, non riuscendoci, e quindi restando profondamente pregni di mistero. Rimangono bagliori nell’oscurità, diventano archetipi, si assomigliano un po’ tutti. Le mitologie sono rielaborazioni di età già relativamente più rischiarate, dove non si tratta di spiegare il Mistero del Tuono, ma di mettere in ordine quanti figli e nipoti abbia avuto il signor Giove, da chi dove perché e con quali conseguenze.

Più che discendente del mito, la mitologia è il mito stesso, (mal)cresciuto. Quando il bambino apre lo Hobbit per la prima volta trova un ometto misterioso che vive in una caverna, contattato da un mago e da altre creature strane che gli propongono un viaggio in un mondo sconosciuto. Milleduecento pagine dopo, alla fine del Signore degli Anelli c’è una tabella cronologica con tutti gli avvenimenti degli ultimi cinquemila anni della terra di mezzo, il corso di elfico, eccetera eccetera. Quando chiude il libro il bambino è diventato un ragazzo brufoloso.

Può darsi che dia fastidio la volgarizzazione di tutti i miti in insipide soap (e in effetti l’estrema decadenza della mitologia è una soap di dei ed eroi che si sposano, fanno figli che muoiono in incidenti cruentissimi ma poi magari risorgono, senza che succeda mai nulla di irreparabile o realmente interessante), però esistono alternative? In fondo stiamo parlando di intrattenimento: romanzi, fumetti, serie tv, produzione di massa: la mitologizzazione è un processo obbligatorio quando devi spremere dallo stesso mito centinaia e centinaia di puntate. La serialità lunga non può che uccidere il mito. Almeno fino a Lost. Ah, già, dovevo svelare il mistero di Lost.

Beh, non è un gran mistero: Lost è il primo tentativo riuscito di far sopravvivere il mito in tv. Non le mitologie. Non le genealogie. Non i complessi rapporti tra personaggi e i calcoli sullo spazio-tempo e le realtà alternative. Tutte queste cose in Lost ci sono, ma è stato chiaro quasi subito che erano l’arredo (quando hanno rischiato di prendere il sopravvento, ci siamo spazientiti). Quel che conta in Lost è il mistero. C’è un’isola. Non si sa dove sia. Dopo cinque stagioni, ancora nessuno si è preso la briga di dircelo. In un certo senso è come se la storia non avesse mai fatto passi avanti dalla prima puntata. Riuscire a mandare avanti baracca e burattini senza avere svelato nemmeno il primo mistero ha qualcosa di miracoloso.

I personaggi di Lost, lo intuiamo, non sono del tutto vivi, ma come sospesi in un mondo di ombre. Prova ne è che non si spiegano, né tra loro né con noi. Da anni ci aspettiamo la classica scena in cui il cattivo trionfante, pistola in mano, fa la “spiega generale” di tutto il complotto (prima di essere miracolosamente sconfitto da un buono che arriva all’ultimo momento). Possiamo rassegnarci, un momento così non lo avremo mai. Per contro abbiamo misteri che si trascinano assurdamente, come la Dharma Initiative: possibile che dal 1977 in poi nessuno dei protagonisti abbia avuto un po’ di tempo per chiedere e capire cos’è questa benedetta Dharma, cosa cerca sull’isola, quali sono i suoi fini, eccetera? Ma i personaggi di Lost non sanno chiedere o spiegare il perché, non è tra le loro opzioni. Possono baciarsi, sparare, sperare di tornare a casa, detonare bombe atomiche e poco altro.

Quello che ha tenuto la maggior parte di noi davanti a Lost, anche quando la trama diventava impossibile da ricostruire e i personaggi cominciavano a dividersi in schieramenti incomprensibili, sono state le oscurità di cui la storia è cosparsa, illuminate da improvvisi bagliori che facevano rizzare i capelli. Gli scrittori di Lost non fanno che chiederci, da anni: cosa c’è nella scatola? Promettono di dircelo. Lasciano intendere che non potranno non farlo, che la storia non potrebbe proseguire senza sapere cosa c’è nella scatola. E invece prosegue, con un’altra scatola e un altro mistero. Tutto questo sin dal primo episodio: perché c’è un orso bianco su un’isola tropicale? La botola, che si illumina solo una volta in tutta la prima stagione. Sapevamo che era un indovinello sleale, ma non potevamo fare a meno di chiederci: cosa c’è dentro? Quando ce lo diranno? I numeri della fine del mondo. L’urlo di Jacob nel buio della capanna. La sfinge – che è un classico esempio del modo in cui gli scrittori di Lost ci fanno entrare nel mito: per illuminazioni improvvise, a cui segue il buio. In tutta la serie, la sfinge compare interamente per pochi fotogrammi. Il resto sono frammenti, oscurità, mistero. Non sono più limitazioni imposte da un budget, queste. Sono chiaroscuri consapevoli, ombre manovrate da scrittori che hanno capito come si riportano gli spettatori all’età primigenia del mito: quando i fulmini e i giganti fanno paura, e vorremmo sapere dai grandi il Perché delle cose.

È cominciata l’ultima stagione, e siamo un po’ tesi. A questo punto Lost può solo deluderci. Come possono cinque anni di misteri trovare una soluzione soddisfacente? Ma anche qualora succedesse, è davvero quello che vogliamo? Un’isola finalmente illuminata a giorno, senza più misteri? È probabile che gli autori abbiano optato per una via intermedia: qualche cosa ce la spiegheranno, il più lo lasceranno libero alle interpretazioni. Circoleranno ancora per molti anni mitologie fantasiose su forum all’uopo. E poi, tra trent’anni, a qualcun altro verrà in mente di raccontarci la storia misteriosa di qualcuno perso su un’isola, che per tornare a casa deve capire sé stesso. In fondo i miti si assomigliano un po' tutti.

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Gli uomini prima del diluvio

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Potete immaginare di vivere cinque anni senza di lui?
(Sì). (In effetti non sapete manco chi sia). (Ecco, appunto).
Altri dettagli in Ho una teoria #10, sull'Unita.it (dove temo che i commenti non funzionino).

"Qualche cosa può essere sfuggita", dice Bertolaso. Potremmo fare il piccolo sforzo di credergli, perché no? Dal 2008 in qui il capo della Protezione Civile è stato sottosegretario all’emergenza rifiuti in Campania; commissario dell’area archeologica romana; e ancora commissario straordinario per il terremoto dell’Abruzzo (con annesso vertice g8), per le eruzioni nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto della Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo e per qualcos'altro che mi sarà senza dubbio sfuggito... In mezzo a tanti impegni un cantiere alla Maddalena potrebbe effettivamente essere passato inosservato: ma anche sforzandoci di credere alla sua buona fede, come possiamo giudicare un sistema che considerava qualsiasi evento importante un’emergenza (i mondiali di ciclismo...) e ogni emergenza degna dell'intervento di un singolo uomo? Non c’era in Italia un’altra persona preparata in grado di gestire almeno un’emergenza su cinque, qualcuno che potesse gestire con più attenzione i cantieri della Maddalena mentre Bertolaso volava in Abruzzo a soccorrere i terremotati?

Ho una teoria: Bertolaso – che non nasce berlusconiano – è rimasto suo malgrado intrappolato nella categoria berlusconiana degli “uomini del fare”. Vere e proprie incarnazioni della Provvidenza, gli Uomini del Fare risolvono i problemi da soli, in poche mosse. Moderno Cesare, l'Uomo del Fare viene, vede, vince, e vola a farsi un massaggio antistress. Stress che si lascia facilmente spiegare: gli Uomini del Fare non lo dicono, ma devono essere circondati da incompetenti a cui non potrebbero cedere nemmeno un decimo delle loro responsabilità, senza correre il rischio che tutto il loro lavoro crolli come un castello di carte. Dopo gli Uomini del Fare c’è sempre il diluvio.

Prendiamo la Lombardia. La più popolosa regione d’Italia, saldamente in mano a una classe dirigente di centrodestra che negli ultimi quindici anni dovrebbe avere espresso e cresciuto numerosi validi amministratori… e invece no, pare che l’unico in grado di mandare avanti la regione, da quindici anni a questa parte, sia Roberto Formigoni. Dopo aver surclassato il record di Franklin Delano Roosvelt (appena dodici anni alla Casa Bianca), il governatore lombardo punta ora a completare il ventennio, un primato senza molti precedenti nelle democrazie moderne (persino in una democrazia sui generis come la Federazione Russa, dopo otto anni di presidenza Putin si è dovuto trovare un altro incarico). Certo, dietro Formigoni c’è un compatto blocco di potere.. Ma sarebbe nell’interesse di qualsiasi blocco di potere rinnovare i propri uomini ogni tanto: giusto per non dare l’impressione che dopo Formigoni ci sia il diluvio. Tanto più che una sua eventuale rielezione rischia di risultare illegale: la legge 165 del 2004 vieta esplicitamente la rielezione dei presidenti delle regioni dopo due mandati consecutivi (quello di Formigoni sarebbe il quarto). Ne ha scritto di recente, sulle colonne dell’Unità, il professore di diritto costituzionale Vittorio Angiolini. L’ineleggibilità di Formigoni, già lungamente dibattuta in rete (tra i primi a parlarne Luca Sofri e Giuseppe Civati nei rispettivi blog) non ha forse ancora avuto sui quotidiani la visibilità che meriterebbe. Gli stessi avversari di Formigoni esitano a sollevare la questione.

Non è difficile capire perché: basta attraversare il Po per trovare un’altra grande regione (l’Emilia-Romagna) governata da un Uomo del Fare (Vasco Errani, PD) che gareggia per il suo terzo mandato. Una sua vittoria (probabile) non sarebbe meno illegale di quella di Formigoni a Milano. Ma il caso di Errani è, se possibile, più preoccupante, perché dimostra che la categoria degli Uomini del Fare sta penetrando anche nelle regioni storicamente di sinistra (per carità non chiamiamole più “rosse”). Ma davvero l’elettore emiliano di sinistra è così incline al culto della personalità? In realtà finora ha dimostrato il contrario, confermando al governo della regione e di tante amministrazioni locali una classe di funzionari piuttosto efficiente, ma che non brilla certo per eccessi di protagonismo; tanto che a parte l’eccezione rilevante del piacentino Bersani, gli amministratori emiliani non hanno mai avuto brillanti carriere a livello nazionale (viceversa sono stati personaggi carismatici alla Cofferati ad avere i loro problemi con la base emiliana). Lo stesso plurigovernatore Errani non è mai stato una celebrità alla Formigoni, e difficilmente lo diventerà anche dopo una terza vittoria. Chi andrà a votarlo, più che l’Uomo, premierà la continuità, la tradizione, forse anche l’appartenenza… tutti valori che potevano essere espressi da qualsiasi altro amministratore emiliano capace, purché il PD lo candidasse. Riproporre invece per la terza volta lo stesso Uomo, per quanto validissimo (ma se è così bravo, possibile che non gli si possa trovare nessun altro incarico all’altezza?) lascia intendere che anche nella sinistra emiliana, dopo Errani, non ci sia che il diluvio. Una prospettiva, per chi ha meno di quarant'anni, abbastanza inquietante.
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I portali oscuri

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Il mistero di Lost - beh, ma è presto detto. No, non è senz'altro una botola o una sequenza di cifre. Il vero mistero di Lost, ma non si è ancora capito? siamo noi. La nostra resistenza pluriennale di spettatori, vincitrice su ogni logica e verosimiglianza. Abbiamo visto isole che scompaiono, morti che tornano in vita, un fumo che afferra le persone e le uccide sbattendole contro gli alberi, e non abbiamo cambiato canale: se non è un mistero questo. Speravamo che trovassero una via per uscire dall’isola, e quelli hanno trovato un sistema per tornarci. È da un bel pezzo che non sappiamo più chi siano i buoni o i cattivi, probabilmente la cosa nemmeno ci interessa. Cosa ci aspettiamo, ancora? Mistero. Anche se forse io ho capito... (Fffffffroscccccccccc)

Il redesign dei Klingon

Dicevamo che ogni storia nasce come un mito: un personaggio esce dall’oscurità, combina qualcosa e scompare al momento giusto. Tanto basterebbe, se restassimo bambini. Ma cresciamo, sviluppando curiosità morbose e inutili (almeno finché continuiamo a esercitarle sulle fiabe dei bambini). Avrei centinaia di esempi, ma prendiamo Star Trek. La serie storica, intendo. Ogni puntata è un mito. Un’astronave arriva su un pianeta diverso. Ma da dove arriva? non è chiaro, non si sa (da dove viene Zeus? E Cappuccetto Rosso?) Da qualche parte c’è una Federazione, sull’Enterprise in effetti c’è scritto U.S.S. che qualcosa vorrà dire – ma in realtà l’Enteprise proviene dalle tenebre: atterra su un pianeta e fa partire la storia. Quando la storia finisce l’astronave bianca ritorna alle tenebre. I miti (le storie primigenie, autoconclusive), funzionano così.

Trent’anni dopo intorno all’Enterprise non c’è più un solo centimetro di ombra, ma un garbuglio inestricabile di informazioni che farebbe impallidire la ruota di Tiberio. Sappiamo tutto sulla Federazione, sui suoi alleati e sui suoi nemici – l’Universo non è più una frontiera, è un suk di popoli che litigano o fanno affari, e se abbiamo pazienza possiamo guardare le puntate che ci spiegano il perché. Possiamo prendere appunti, perché in vent’anni la storia si è complicata parecchio. Oppure possiamo crescere ulteriormente e mandare a quel paese l’intera franchise (come molti fecero al penultimo episodio). Ma non è colpa degli autori se l’universo misterioso e pieno di promesse della prima serie era diventato una struttura iperdefinita dove tutto era intrecciato in complicati rapporti di causa ed effetto. Siamo noi che lo abbiamo voluto così, crescendo con la Saga. A un certo punto le favole dei bambini non ci sono bastate più, abbiamo voluto sapere chi fossero i romulani e perché, i vulcaniani e perché, perché, perché, maledetti perché puberali. Non potevamo più berci le favolette del capitano Kirk, ma avevamo ancora paura a spegnere la televisione e farci una vita complicata nel mondo vero. Pretendevamo che la vita complicata se la facessero i discendenti del capitano Kirk.

Prendi i Klingon. La prima volta che appaiono, nella serie classica, sono una manciata di alieni brutti, cattivi e di colore. Un cerone bronzeo, vestiti e costumi medievali, barbette e tratti somatici orientali, perché i giapponesi erano ancora il Pericolo Giallo dell’insonscio collettivo americano. Le loro astronavi erano invisibili più per limiti di budget che per altro. È chiaro che la storia, a raccontarla così, non può reggere i limiti dell’infanzia. E quindi lentamente i Klingon si evolvono. Gli sceneggiatori si improvvisano etnologi e cominciano a spiegarci che dietro la loro presunta cattiveria ci sono nobili tradizioni… insomma è vero che mangiano animali vivi, ma vanno capiti, è la loro cultura… tutto un corso di relativismo culturale applicato a un popolo inesistente. Quando crolla il muro di Berlino se ne accorgono anche i Klingon, che diventano alleati della Federazione più o meno quando i polacchi chiedono di entrare nella Nato. Nel frattempo sono diventati un fenomeno di costume, sugli scaffali delle librerie trovi i dizionari klingon, qualcuno traduce Shakespeare in klingon, qualcun altro apre la wikipedia in klingoniano, eccetera. Siamo in piena fase mitologica: al nerd non basta la storia, vuole un mondo organizzato e coerente. Fino al punto di litigare con gli autori della storia, perché c’è sempre qualcosa che non torna.

Qui arriviamo all'annoso problema della cresta dei Klingon. Nella serie storica non c’era. I Klingon hanno cominciato a portare la cresta solo vent’anni dopo. Questa cosa inquieta il nerd, che vuole sapere il perché (According to the official Star Trek web site, the Klingons' varying appearance is "probably the single most popular topic of conversation among Star Trek fans). Il perché sarebbe presto detto: negli anni Sessanta il Klingon era il cattivo asiatico in un telefilm a basso costo; trent’anni dopo è un fenomeno culturale in una franchise miliardaria, il minimo che si potesse fare era truccarlo meglio, farlo meno umano e più alieno… questa spiegazione non può soddisfare il nerd, perché esce dall’universo chiuso e mitologico di Star Trek e si ricollega al mondo reale, a problemi prosaici come il budget. No, il nerd vuole una spiegazione mitologica che risolva la contraddizione per cui i cattivi del capitano Picard hanno la cresta e i loro nonni no. Vengono quindi elaborate numerose teorie: clonazioni? Mutazioni genetiche causate da incidenti nucleari? E perché non chirurgia estetica? Finché finalmente gli autori non acconsentono a spendere un paio di puntate per fornire ai nerd una spiegazione canonica. Quella discrepanza, quel segno di discontinuità, minacciava l’autocoerenza della mitologia di Star Trek. Era una fessura verso il mondo reale e le sue brutte incoerenze. Doveva essere risolta, spiegata, illuminata. La mitologia uccide il mito inondandolo di luce, e chiudendo i portali oscuri che lo riconducevano alla realtà. Una mitologia perfetta si racconta da sola: intricata, ma ormai slegata dal mondo, può interessare ancora soltanto chi è cresciuto sentendola raccontare. Chi viene da fuori si tiene istintivamente a distanza. Le ragazze specialmente (invece voi maschietti non perdetevi la prossima puntata, in cui sarà finalmente rivelato il mistero di Lost!)
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La ruota di Rodi

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Il mistero di Lost

Non è più la botola, vero? da un pezzo. Non è più l’orso bianco. I numeri da digitare. Il mistero di Lost non è più la Dharma, non sono più gli Altri. Il mistero di Lost. Non è più la questione se Locke sia tetraplegico o no (a proposito, è vivo?) Il mistero di Lost. La sfinge? Il fumo nero? Il mistero. Forse ho capito.

(Immaginatevi un bel rumore di fondo mentre mi metto a parlare di tutt’altro).

Siamo su un’isola, ma questa almeno sta sulle cartine: Rodi. Sappiamo anche in che anno siamo (più o meno): il quattro prima o dopo Cristo. Da qualche tempo qui abita un personaggio d’eccezione, in una fase molto particolare della sua vita. È stato un Claudio Nerone, ora si chiama Giulio Cesare, ma è un po’ come se un nome valesse l’altro. Già grande condottiero, uomo di potere e assai influente, ma ora non comanda più nessuno: anzi, forse si nasconde alle cure di chi lo vuole morto. Un giorno quest’uomo tornerà ad essere qualcuno molto importante, e sarà ricordato col nome di Tiberio Augusto, secondo imperatore di Roma. Ma per adesso, in effetti, non è più un generale e non è ancora un Augusto: non è niente. E ha molto tempo a disposizione. Come lo impiega? Ci sono diverse teorie. Sappiamo che scriveva poesie – probabilmente niente di speciale. E che aveva una curiosità morbosa per i miti degli antichi. Secondo Robert Graves “aveva ideato e composto un’enorme carta genealogica, di forma circolare, in cui le ramificazioni raggiavano dal centro, occupato dal Caos, primissimo antenato della razza umana, padre del Padre Tempo, verso una confusa periferia fittamente cosparsa di ninfe, di re, di eroi”. Ecco dunque cosa faceva Tiberio in vacanza da sé stesso: il mitologo.

Una contraddizione in termini, dicono (Sì, Jesi non sarebbe stato d’accordo, ma non facciamola troppo complicata). Il mito è un racconto di misteri, il logos un discorso razionale. Cosa vogliono quindi questi mito-logi: portare logos dove non ce n’è? Svelare il nulla dietro le favole dei popoli bambini? Sicuri che non siano invece spie, emissari del mito, venuti a contrabbandare l’irrazionale nella cittadella del logos? Qual era il vero disegno dell’uomo di Rodi? Quando diventerà imperatore, amerà terrorizzare i suoi consulenti con domande velenose: chi era la madre di Ecuba? Che nome assunse Achille quando si travestì da fanciulla? Forse l’imperatore mito-logo voleva semplicemente mostrare che colossale perdita di tempo sia, la mitologia. Il passatempo degli uomini soli che non hanno più una posizione nella vita e nell’Impero. Che senso ha voler mettere ordine in un guazzabuglio di storie che si contraddicono? secondo alcuni Cerbero è figlio di Tifeo, secondo altri è suo nipote, chi ha ragione? Ma soprattutto, a chi importa? Certe cose semplicemente non le sappiamo, perché il Mito non dice tutto. Non sarebbe Mito altrimenti. È una parola misteriosa, che nasce dalle tenebre e ci torna immediatamente, lasciando solo un lampo di luce: un arcaico tentativo di spiegare questo o quel fenomeno naturale, magari ciò che resta di un antica risposta data a un bambino: Papà, cos’è quel fulmine? Sarà la rabbia di un uomo potente. Ha la barba? Boh, sì. Con chi se la sta prendendo? Coi bambini cattivi che fanno troppe domande. Probabilmente Zeus è nato così, ma è difficile pensare che un Tiberio del primo secolo avanti/dopo Cristo ci creda ancora. Se cerca di mettere nero su bianco la genealogia di Zeus e compagni, è (a) perché ha molto tempo da perdere; (b) vuole svelare le contraddizioni della cosiddetta sapienza tradizionale, magari (c) divertendosi alle spalle dei creduloni; ma non si può escludere che (d) tutte queste storie non più credibili lo affascinino ancora. Metterle in ordine forse è l’unico modo per potersele ancora raccontare. Non è più un bambino che può credere alle fate e ai fauni, ma non è ancora un adulto. È in una fase intermedia, in cui applica alle storie dell’infanzia gli schemi razionali della vita adulta: bilanciando col rigore scientifico la futilità della ricerca. Né bambino, né uomo: è un nerd.

Il bambino vuole sempre la stessa Storia: lo stesso buio, lo stesso lampo, lo stesso finale. Le tenebre tutto intorno non lo interessano, non ha la minima intenzione di rischiarare l’oscurità tra una storia e l’altra. Non c’è continuity tra Cappuccetto Rosso e Cenerentola; ognuna va per la sua strada, e quando arriva il Principe Azzurro la fiaba finisce senza discussioni. L’età mitica finisce quando nascono alcune domande: quanti figli avranno avuto? Saranno stati davvero felici? Ma parliamo dello stesso Principe di Biancaneve, aveva divorziato? E quale delle due ha incontrato per prima? Questo non è più mito, è mitologia. Roba da adolescenti. Vogliono sapere tutto, e con chi si è messo quello, e perché non è rimasto con quell’altro… fine dei lampi nella notte, ora viviamo alla luce diffusa e biancastra di una sala d’aspetto, tutt’intorno a noi un chiacchiericcio diffuso, un intreccio di relazioni complicato come la ruota di Tiberio, e più nessun autentico mistero. Zeus perde gli attributi terribili del Dio del tuono e si trasforma lentamente in un signorotto di campagna che si accoppia con chiunque gli capiti a tiro... (non perdetevi la prossima puntata, dove senz’altro sarà svelato il mistero di Lost).
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