La ruota di Rodi

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Il mistero di Lost

Non è più la botola, vero? da un pezzo. Non è più l’orso bianco. I numeri da digitare. Il mistero di Lost non è più la Dharma, non sono più gli Altri. Il mistero di Lost. Non è più la questione se Locke sia tetraplegico o no (a proposito, è vivo?) Il mistero di Lost. La sfinge? Il fumo nero? Il mistero. Forse ho capito.

(Immaginatevi un bel rumore di fondo mentre mi metto a parlare di tutt’altro).

Siamo su un’isola, ma questa almeno sta sulle cartine: Rodi. Sappiamo anche in che anno siamo (più o meno): il quattro prima o dopo Cristo. Da qualche tempo qui abita un personaggio d’eccezione, in una fase molto particolare della sua vita. È stato un Claudio Nerone, ora si chiama Giulio Cesare, ma è un po’ come se un nome valesse l’altro. Già grande condottiero, uomo di potere e assai influente, ma ora non comanda più nessuno: anzi, forse si nasconde alle cure di chi lo vuole morto. Un giorno quest’uomo tornerà ad essere qualcuno molto importante, e sarà ricordato col nome di Tiberio Augusto, secondo imperatore di Roma. Ma per adesso, in effetti, non è più un generale e non è ancora un Augusto: non è niente. E ha molto tempo a disposizione. Come lo impiega? Ci sono diverse teorie. Sappiamo che scriveva poesie – probabilmente niente di speciale. E che aveva una curiosità morbosa per i miti degli antichi. Secondo Robert Graves “aveva ideato e composto un’enorme carta genealogica, di forma circolare, in cui le ramificazioni raggiavano dal centro, occupato dal Caos, primissimo antenato della razza umana, padre del Padre Tempo, verso una confusa periferia fittamente cosparsa di ninfe, di re, di eroi”. Ecco dunque cosa faceva Tiberio in vacanza da sé stesso: il mitologo.

Una contraddizione in termini, dicono (Sì, Jesi non sarebbe stato d’accordo, ma non facciamola troppo complicata). Il mito è un racconto di misteri, il logos un discorso razionale. Cosa vogliono quindi questi mito-logi: portare logos dove non ce n’è? Svelare il nulla dietro le favole dei popoli bambini? Sicuri che non siano invece spie, emissari del mito, venuti a contrabbandare l’irrazionale nella cittadella del logos? Qual era il vero disegno dell’uomo di Rodi? Quando diventerà imperatore, amerà terrorizzare i suoi consulenti con domande velenose: chi era la madre di Ecuba? Che nome assunse Achille quando si travestì da fanciulla? Forse l’imperatore mito-logo voleva semplicemente mostrare che colossale perdita di tempo sia, la mitologia. Il passatempo degli uomini soli che non hanno più una posizione nella vita e nell’Impero. Che senso ha voler mettere ordine in un guazzabuglio di storie che si contraddicono? secondo alcuni Cerbero è figlio di Tifeo, secondo altri è suo nipote, chi ha ragione? Ma soprattutto, a chi importa? Certe cose semplicemente non le sappiamo, perché il Mito non dice tutto. Non sarebbe Mito altrimenti. È una parola misteriosa, che nasce dalle tenebre e ci torna immediatamente, lasciando solo un lampo di luce: un arcaico tentativo di spiegare questo o quel fenomeno naturale, magari ciò che resta di un antica risposta data a un bambino: Papà, cos’è quel fulmine? Sarà la rabbia di un uomo potente. Ha la barba? Boh, sì. Con chi se la sta prendendo? Coi bambini cattivi che fanno troppe domande. Probabilmente Zeus è nato così, ma è difficile pensare che un Tiberio del primo secolo avanti/dopo Cristo ci creda ancora. Se cerca di mettere nero su bianco la genealogia di Zeus e compagni, è (a) perché ha molto tempo da perdere; (b) vuole svelare le contraddizioni della cosiddetta sapienza tradizionale, magari (c) divertendosi alle spalle dei creduloni; ma non si può escludere che (d) tutte queste storie non più credibili lo affascinino ancora. Metterle in ordine forse è l’unico modo per potersele ancora raccontare. Non è più un bambino che può credere alle fate e ai fauni, ma non è ancora un adulto. È in una fase intermedia, in cui applica alle storie dell’infanzia gli schemi razionali della vita adulta: bilanciando col rigore scientifico la futilità della ricerca. Né bambino, né uomo: è un nerd.

Il bambino vuole sempre la stessa Storia: lo stesso buio, lo stesso lampo, lo stesso finale. Le tenebre tutto intorno non lo interessano, non ha la minima intenzione di rischiarare l’oscurità tra una storia e l’altra. Non c’è continuity tra Cappuccetto Rosso e Cenerentola; ognuna va per la sua strada, e quando arriva il Principe Azzurro la fiaba finisce senza discussioni. L’età mitica finisce quando nascono alcune domande: quanti figli avranno avuto? Saranno stati davvero felici? Ma parliamo dello stesso Principe di Biancaneve, aveva divorziato? E quale delle due ha incontrato per prima? Questo non è più mito, è mitologia. Roba da adolescenti. Vogliono sapere tutto, e con chi si è messo quello, e perché non è rimasto con quell’altro… fine dei lampi nella notte, ora viviamo alla luce diffusa e biancastra di una sala d’aspetto, tutt’intorno a noi un chiacchiericcio diffuso, un intreccio di relazioni complicato come la ruota di Tiberio, e più nessun autentico mistero. Zeus perde gli attributi terribili del Dio del tuono e si trasforma lentamente in un signorotto di campagna che si accoppia con chiunque gli capiti a tiro... (non perdetevi la prossima puntata, dove senz’altro sarà svelato il mistero di Lost).
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I tre futuri di Avatar

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Non importa avere l’esercito più potente della galassia, con le armi più distruttive dell’universo, se nella cabina di comando c’è ancora un uomo. Al culmine della tua potenza di fuoco, sarà proprio l’uomo a tradirti. Non importa avere l’industria dei sogni più ricca e pervasiva del mondo: alla fine tutta la tua potenza di fuoco ti si rivolgerà contro, se in cabina di regia avrai commesso l’imprudenza di lasciare un canadese affezionato ai sensi di colpa dei conquistatori del Nuovo Mondo. Così avrai speso miliardi di dollari per produrre un film che predica alle masse la bellezza di un impossibile ritorno alla natura e alla comunione con tutti gli esseri viventi. Avatar è una contraddizione in termini, lo hanno già scritto in tanti: un blockbuster industriale che sogna la fine (violenta) dell’industria, perfettamente incarnato nel marine Jack Sully che tradisce il suo colonnello. Qualcuno l’ha anche accusato di essere una mera rivisitazione digitale di storie già raccontate: la vicenda di Pocahontas, e in generale un ripasso delle pagine più buie della Storia americana, dallo sterminio dei nativi americani alla guerra del Vietnam. Ma faremmo un torto a Cameron se non gli volessimo riconoscere un talento visionario che non si è limitato a ricombinare frammenti di passato. In Avatar il futuro c’è, anzi (secondo una mia teoria) ce ne sono almeno tre.

Il primo futuro è quello prospettato all’inizio del film: una razza umana in fuga infinita dalla terra esaurita e intossicata. L’umanità è un parassita tecnologico che brucia e avvelena tutti i mondi su cui mette piede. Questo i Na’vi, le creature blu di Pandora, lo intuiscono: ma forse non ne trarrebbero le dovute conseguenze se non arrivasse tra loro il marine Jack, un vero e proprio anticorpo dell’umanità inoculato nel corpo di un indigeno: è proprio la sua irruenza, sconosciuta ai nativi, a guidare il popolo blu verso la lotta contro l’invasore. E c’è comunque qualcosa di potente in un film che ti spinge a stare dalla parte degli alieni contro gli umani. In un mondo sempre più ossessionato dall’identità, dalla cultura, dalle radici, un film popolare che ti propone di cambiare corpo e di passare dalla parte dell’altro-da-te è qualcosa da salvare.

Il secondo futuro è molto più vicino a noi. Che probabilmente non fuggiremo mai tra le stelle: resteremo su questo pianeta sempre più sporco, cercando di venire a patti coi suoi limiti e coi nostri. Saremo sempre di più e dovremo razionare le risorse. Di fronte a questa deprimente prospettiva, il film di Cameron ci suggerisce una valvola di sfogo: avremo sempre la possibilità di fuggire nei paradisi artificiali della fantasia digitalizzata. È stata sufficiente la riscoperta di una tecnologia tutto sommato ‘vecchia’ come il 3d, per trasformare un’antica abitudine come il cinema in un viaggio psichedelico: non c’è motivo di dubitare che i divertimentifici del futuro insisteranno sempre di più su questa immersione dello spettatore in un mondo nuovo. Dopo gli occhialini verranno i caschi, le tute, le capsule di sospensione. Saremo tutti, nel futuro, condannati come Jack Sully a una vita frustrante e immobile (la sedia a rotelle è una metafora tanto sfacciata quanto azzeccata): ma avremo tutti la possibilità di immergerci, di tanto in tanto, in un universo variopinto e tridimensionale, dove un popolo immaginario ci acclamerà come eroi. Pandora non è un pianeta lontano, Pandora è il futuro della settima arte. A Cameron è mancata l’onestà per girare il ‘vero finale’ del film: Jack Sully riapre gli occhi e si ritrova di nuovo in una capsula umana. Qualcuno apre il portello: è il bigliettaio che lo informa che il film è finito.

Il terzo futuro è una variante estrema del secondo. L’industria dei sogni non è che l’avanguardia dell’industria vera: se Cameron ha potuto immaginare Pandora, qualcuno prima o poi riuscirà a realizzarla. Perché no? Il pianeta pensante che trattiene i pensieri delle creature in fondo cos’è, se non una enorme rete di condivisione delle informazioni? Gli esseri viventi che lo popolano, umanoidi, equini, grifoni, non sono che pezzi di hardware, con tanto di presa di connessione universale. Pandora insomma ha tutta l’aria di essere l’internet 9.0. In fondo, prima o poi anche l’esperienza degli utenti diventerà tridimensionale. A quel punto il mondo virtuale che condividiamo con gli altri utenti prenderà una forma che sarà modellata sui nostri ricordi e sui nostri sogni. Conterrà i nostri sensi di colpa di ex conquistatori pentiti, ma anche il vago misticismo di cui non abbiamo saputo liberarci, la nostalgia per l’equilibrio della natura, e così via. Il risultato non dovrebbe essere molto diverso da Pandora. I Na’vi non vivono su un pianeta lontano, ma sono i nostri avatar del futuro. Un futuro in cui spenderemo qualsiasi cifra per proiettarci in un mondo variopinto e incontaminato (e se per realizzarlo occorrono risorse difficili da reperire, localizzate nei luoghi sacri di un popolo antico e sottosviluppato, chissà se ci faremo qualche scrupolo a mettere in atto le solite pratiche di sterminio. Si fa qualsiasi cosa per i sogni).

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Nella polvere ci ritroveremo

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In questo pezzo vorrei approfittare della presentazione dell'ultima Cosa Meravigliosa di Steve Jobs per spiegare perché non sono un Mac.

Cos'è questo boato?

Ma sì, è chiaro che non sono un mac, lo si vede da lontano. Puoi dirlo da come mi vesto, da come cammino - a certe persone l'eleganza semplicemente non calza, puoi vestirli di tutto punto e sembreranno dei pinguini. Io per esempio sono una persona maldestra e apprensiva. Rompo molti oggetti, perché li maneggio male. Ho le dita tozze, riflessi scarsi, e malgrado questo mantengo una certa manualità spavalda, che mi spinge a sperimentare, a spingere le cose al limite, a sfidare quotidianamente il dio dei piccoli incidenti domestici. Poi le cose si rompono, e io ne soffro. Ne soffro molto, con un'intensità che alla mia età è imbarazzante, voglio dire, sono solo... cose. Ma costano, e mi fanno sentire piccoloborghesemente colpevole in misura proporzionale al prezzo. Questo mi tiene istintivamente lontano dai prodotti di gamma medio-alta: io non sono Mac perché se fossi Mac, e mi facessi male, ne soffrirei troppo. Lo so qual è la vostra obiezione.
I Mac non si rompono.
Le batterie non si surriscaldano. I ventilatori non si impregnano di polvere – la polvere nei Mac non ci entra proprio, c'è una specie di karma elettrostatico che glielo proibisce. I Mac non cadono dal tavolino, ma se dovesse succedere probabilmente cadono in piedi, da bravi felini. Il software dei Mac è il migliore dell'universo e non grippa mai.

E questo ci porta al secondo problema. Io non sono un Mac, ma coi Mac ci ho lavorato. E so che non è vero quel che dite, insomma, è un'impostura. I Mac si guastano. Si surriscaldano. Cadono, come tutti i gravi di questo mondo, e spesso dal lato imburrato. Il software si pianta. Per esempio c'è stato un periodo nel 2004 in cui questo blog piantava i Mac, di sasso. Neanche una schermata blu, niente: il vecchio orologino cominciava a girare e continuava in eterno, bisognava staccare la spina (ok, succedeva solo con explorer, e Bill Gates ne era senz'altro più colpevole di Jobs, ma succedeva. I Mac si piantano, è nel novero delle cose possibili). La Apple ha dei centri di assistenza come tutte le aziende di questo mondo, e fanno incazzare i loro utenti come tutte le aziende di questo mondo. Può darsi che si rompano di meno: è il minimo, coi prezzi che fanno. Ma questa storia dell'immortalità dei Mac è pura superstizione. E non mi piace.

Non è che siano tutti così, gli utenti Mac. Ne conosco tanti che sono normalissime persone, magari un po' più eleganti della media, che comprano prodotti di gamma medio-alta per lo stesso motivo per cui io li scanso, e che quando si guastano se ne lamentano. Però ci sono anche quelli che a un certo punto della conversazione tirano fuori l'argomento: “non dà mai problemi”. Dimmi che sono meno vulnerabili. Dimmi che hanno un customer care migliore (sarebbe una bugia, ma accettabile). Ma non dirmi che i software e gli hardware di Jobs non hanno mai mai mai mai problemi, perché io davanti a dei mac impallati ci ho passato delle ore di vita, e di lavoro, e mi pagavano pure a progetto, maledizione.

Cosa porta gli utenti Mac (non tutti, ma comunque troppi) a santificare i prodotti che comprano, arrivando a negare che possano avere difetti o problemi?
a) Alcuni sono i ricchi. I ricchi certe volte semplicemente non fanno in tempo a rendersi conto. Cambiano laptop ogni diciotto mesi, e quindi non sanno cos'è l'usura. Hanno sempre gadget belli puliti e veloci e credono sia merito della tecnologia di Jobs, e non dei loro fottuti soldi. Però li posso capire, hanno un'esperienza limitata delle cose.
b) Alcuni sono in cattiva fede. Di notte, quando nessuno li vede, bestemmiano i numeri verdi come gli altri poveri mortali. Però ormai al bar si sono fatti conoscere come quelli che Pensano L'Impossibile e altre menate di marketing, e devono reggere il personaggio. Quindi vanno in giro a parlare di quanto siano indistruttibili i mac e di come tutti ce l'abbiano con loro perché sono invidiosi eccetera eccetera. Li posso capire, hanno un personaggio da reggere.
c) Poi ci sono quelli che ci credono davvero. Ecco. Questi sono quelli che mi spaventano sul serio. Io lo so che ogni fideizzazione è un atto di Fede: lo dice la parola. Ma i clienti fideizzati, poniamo, della Mercedes, non arrivano a negare che la loro macchina possa avere avuto anche problemi, per esempio al radiatore. O lo fanno? In tal caso mi spaventa anche la Mercedes.

Io non sono (a), ma mi piacerebbe ogni tanto esserlo. Non sono (b), ma in tante cose ci somiglio. Quello che veramente non voglio essere, quello che non sarò mai, è Mr (c). Io non voglio essere Mac perché la Apple mi spaventa come concetto. Io non sopporto i clienti Mac perché fanno propri gli slogan pubblicitari della loro ditta preferita, una cosa che mi sgomenta: credono alla pubblicità. Io non credo alla pubblicità, da quando avevo cinque anni e mi spiegarono che non è vero che chi non mangia la Golia o è un ladro o una spia. È un punto fermo della mia educazione: gli slogan mentono. Se uno mi dice “Less Is More” non penso “wow, che profonda verità metafisica”, penso “cosa vorrà fottermi questo coniatore di slogan? Uhm, diffidiamo”. Io ho paura quando sento o vedo o leggo tutti i clienti Mac che parlano bene del loro prodotto. È una cosa che mi terrorizza, come l'invasione degli ultracorpi. Tra l'altro è una cosa per niente italiana.

Io sono un italiano maldestro e apprensivo, che trova consolazione nel poter maledire, a qualsiasi ora, tutti i grandi marchi dai quali dipende la sua vita: telecom, vodafone, enel, autostrade, trenitalia, eni, microsoft, samsung, nokia, acer, HP, ministero della pubblica istruzione: non posso vivere senza di loro, ma mi consolo odiandoli con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima. Come un abitante dell'inferno di Dante (altro luogo assai italiano), consolo le mie sofferenze prospettando pene ancora più atroci per gli amministratori delegati che per avermi succhiato sangue lacrime ed ore di callcenter mi raggiungeranno presto, precipitando verso luoghi più profondi. Questa è l'unica consolazione del consumatore moderno, secondo me. Invece il cliente Apple è un tale che sembra appena sceso malvolentieri dal Nirvana, dove ha fatto quattro chiacchiere con Shiva, Maometto e la new entry Steve Jobs, per informarci del nuovo celestiale gadget. Il gadget sarà celestiale quanto vuoi, ma fratello, ripigliati. Nessuno s'innamora del suo spacciatore, non è sano. Quelli che ti vendono i prodotti sono i tuoi nemici. Tu hai bisogno di loro, non puoi più vivere senza di loro, ma non importa: sono tuoi nemici lo stesso. Li devi maledire, li devi odiare, devi andare alle presentazioni e urlare maledizione, Steve, è tutto qua? Un tablet senza presa usb, per chi cazzo ci hai preso? Per dei bambini di cinque anni che hanno bisogno della versione Elettronica del Gioco dell'Oca così la tata filippina non accuserà più il colpo della strega cercando i dadi sotto il divano stile impero? Puoi fare meglio di così! Devi fare di meglio! Altrimenti passo a... boh, all'Asus.

Questa è la mentalità PC. Nessuno è PC perché ama Bill Gates o l'orda dei suoi leccaculo. Più di ogni Mac, il PC odia il PC, e se ha deciso di restare PC è proprio per potersi odiare tutti i giorni. Si decide di essere PC perché l'odio per il proprio fornitore di hardware/software è una cosa sostanzialmente sana, una valvola di sfogo, e forse anche un modo per spingere il mercato a fare di meglio. E a volte ha funzionato, perfino con la Microsoft. Di sicuro ha funzionato con la Apple. Voglio dire che il vero patrimonio della Apple non sono i fanboy pronti a comprare e adorare ogni prodotto rivoluzionario a scatola chiusa. Sono gli utenti brontoloni, quelli che piantarono una grana perché il primo Iphone non aveva il copia incolla, e oggi protestano perché la nuova Cosa Meravigliosa non è multitasking. Si impara dalle critiche, non dall'ammirazione.

Io sono PC. Sono scadente e maldestro, ma del resto anche l'universo lo è. È pieno di oggetti imperfetti che si rompono. Molta gente ha bisogno di vedere il Sacro Graal, o il Gadget Perfetto ogni sei mesi, ma io no. Anche se mi regalaste il Graal, mi cadrebbe di mano, lo scheggerei, maledirei i numi. Sono fatto così, ma il punto è che siete fatti così anche voi. Regalatevi pure il nuovo oggettino, ma ricordate: l'universo è graffi, cadute, crash di sistema, bug, surriscaldamenti, entropia, e polvere soprattutto, tantissima polvere. Particelle dei gadget dei nostri antenati.
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Ippopotami italiani

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Berciami ancora(*)

In questa immagine potete vedere un vaso. Oppure due volti di profilo. O ancora l'ultimo film di Muccino, che per buona metà è impaginato così: faccia a sinistra, faccia a destra, e in mezzo una coppa nera di frustrazione che può comunque sparire da un momento all'altro stritolata in un bacio che non è mai, accidenti, l'ultimo.
Ma il più delle volte le bocche sono spalancate, i volti sono rossi, e tutti si stanno urlando addosso. Nei minimi termini il film è questo: un rosario di scene madri tra due personaggi che dopo un po' si gridano in faccia le peggio cose. Che i personaggi dei film italiani contemporanei tendessero al melodramma urlato si sapeva, ma qui sembra veramente che non ci siano alternative: ogni dialogo è uno scontro, e gli scontri si risolvono così: faccia contro faccia, chi urla più forte vince (analogie tra gli italiani e gli ippopotami del Kenya). Qualcuno dirà che è liberatorio. Secondo me no. Secondo me il mimetismo vince su tutto, secondo me il 40% di chi è andato a vederlo ha sentito l'esigenza di mangiare la faccia del partner nel tragitto verso casa.

“Non vedo l'ora di mettermi a letto”.
“Io invece mi scongelo una pizza”.
“Certo, così mi sporchi tutta la cucina”.
“Senti, ma se ho fame... e poi PERCHE' MI DEVI PRENDERE COME UN IDIOTA MALEDETTA STRONZA TI AMMAZZO! TI AMMAAAAAZZZZOOOOOOOO!”


Metà del film così. L'altra metà propone la variante: invece di fissarsi come ippopotami allupati, i due volti guardano in camera, grazie all'invenzione più importante dell'ultimo secolo: l'Automobile. Essa ha rivoluzionato i nostri costumi e forse sì, vabbè, può aver contribuito a intossicare l'atmosfera, ma in compenso ha permesso ai nostri valenti film-maker qualcosa che altrimenti sarebbe irrealistico: far discutere i personaggi mentre guardano dritto verso di noi. Si capisce la convenienza, perché nelle scene di profilo butti via un 50% di faccia che comunque devi pagare lo stesso intera (e con quel che può costare al giorno d'oggi la faccia di un Accorsi o di un Favino...) E soprattutto, l'avrete sperimentato nella vostra realtà vera, certe scenate si possono fare solo in una macchina pressurizzata ai cento all'ora – a casa no, c'è rischio che i vicini s'appassionino.

Lo so cosa state pensando. Stronca Muccino, che coraggio, domani mitraglierà la croce rossa... no. Sette anni fa, quando stroncare GM era già sport nazionale, io resistevo. Una possibilità a GM l'ho sempre voluta dare, perché fra tutti i registi di film bruttini gli riconoscevo almeno una cosa che faceva la differenza: il ritmo. Per quanto potesse apparire simile a tutti quei registi romani persuasi di ritrarre una generazione attraverso i complementi d'arredo dei salotti, Muccino aveva qualcosa che parzialmente lo riscattava, ed era proprio la spudoratezza: i salotti rimanevano salotti, ma vuoi mettere, col carrello circolare! La grammatica dell'action movie applicata agli amorazzi dei trentenni, l'handycam che ti segue nel corridoio stretto verso il bagno in fondo a destra. Le isteriche che piangono hanno fatto il loro tempo? Ok, proviamo con le isteriche che urlano in mezzo alla strada! Le isteriche sotto la pioggia! E se dobbiamo ritrarre borghesi inutili, almeno ficchiamocene dentro un centinaio in due ore: sovraccarichiamo il sistema finché non si rompe qualcosa.

Qualcosa si ruppe davvero. L'ultimo bacio e Ricordami di me sono stati l'esplosione, in tutti i sensi, di un genere di cui Ozpetek e colleghi hanno faticosamente raccattato i pezzi per ribollirci il solito passato sciapo di buoni sentimenti. Ma il Muccino di dieci anni fa se li friggeva, i buoni sentimenti. Non aveva pietà di nonne o di ragazzini, disprezzava tutti e non lo mandava a dire. Probabilmente quei due sono gli unici film-italiani-bruttini che reggono ancora la prova televisiva in seconda serata. Vanno giù come piloti di serie americane, ed è il complimento migliore che si possa fare a GM. Il quale, scheggia impazzita detonata coi suoi film, si era ritrovato catapultato ad Hollywood. Tifavo per lui. La tecnica l'aveva, il coraggio pure: quello che gli mancava erano le storie originali, proprio quelle che gli americani sanno trovare. Hollywood gli avrebbe tolto di mano i soliti triti canovacci generazional-amorosi, gli avrebbe presentato qualche soggettista degno di questo nome e... un film in effetti funzionò, l'altro meno, così l'avventura sembra già finita. Però almeno hai avuto un'avventura, Gabriele Muccino. Hai fatto film con Will Smith, sei stato per due stagioni alla catena nell'autentica fabbrica dei sogni. Adesso non è che puoi tornare a rifriggere le solite storielline amorose per il pubblico bue italiano. Sarebbe come dire che hai perso l'unica cosa buona che avevi, il coraggio. E un Muccino senza coraggio cosa mi diventa. Un Ozpetek eterosessuale, un soprammobile inutile e per giunta in serie, ce l'hanno uguale i vicini, buttare via.

Baciami ancora non è nemmeno un film generazionale: non sappiamo niente sulla vita dei personaggi, sui loro gusti o le loro idee (ce n'è uno che vota Fini, il che può voler dire qualsiasi cosa ormai). Fanno cose che avrebbero potuto fare dieci o vent'anni fa: i grandi spot pubblicitari, i bambini disegni di dinosauri. E tutti corrono nel grano. Dire qualcosa sugli anni Zero era troppo rischioso: facciamoli piuttosto reinnamorare disperatamente, che funziona sempre. Magari in questi dieci anni hanno avuto una vita interessante (droga, pazzia, carcere), ma appena torna Muccino col suo teleobiettivo tutto sprofonda di nuovo nell'ossessività dei rapporti amorosi banali, fedeli alla regola per cui la vita dei personaggi del cinema italiano bruttino dev'essere meno interessante di quella della media degli spettatori (sul serio, io ho giornate molto più interessanti di quelle dei personaggi di Muccino).

Baciami ancora è un chiodo sulla bara dell'industria cinematografica italiana, gestita da personaggi che sembrano terrorizzati dall'idea di poter dire qualcosa di nuovo, qualcosa d'intelligente, o persino di stupido, insomma qualcosa. Ma L'ultimo bacio qualcosa lo diceva. Era un film che si permetteva del cinismo, aveva un finale spiazzante che è rimasto in testa a tutti. Il sequel si guarda bene da spiazzare alcunché. Se c'è un suicidio non preoccupatevi, ve lo facciamo capire un'ora prima. Nel derby della scena-madre-in-camera-ardente Muccino le prende persino dall'Ozpetek di Saturno contro, come dire perdere con l'Albinoleffe in casa, rivogliamo il prezzo del biglietto. Quando dopo un paio d'ore risenti la voce fuori campo di Accorsi, capisci che è la classica voce off che tira le somme, e ti rendi conto di quanto poco ha voluto dirti questo film: Dicono che i quarant'anni siano l'età della maturità. Ma forse la vita comincia a cinquant'anni. O a Sessanta. O chi lo sa. Buio in sala, Giro di do jovannottesco, titoli. Due ore e venti per sentirsi dire che la vita va vissuta... Nostalgia dei carrelli circolari. Non che dicessero nulla di più, ma almeno ti facevi un giro in giostra. Muccino sembra aver paura di dire persino: ehi, sono sempre io, Muccino. Un regista con un determinato stile. Ma se poi ti scambiano per un Autore, di quelli che fanno i film d'Autore? C'è il rischio che il pubblico dei cinepanettoni non ti caghi più! Poi si accendono le luci, e il pubblico dei cinepanettoni corre a casa a guardarsi una puntata di Desperate Housewives che con personaggi da fumetto e una trama totalmente surreale ti dice più cose della tua vita che due ore di quarantenni che si urlano in faccia. Prima o poi a Roma bisogna che si mettano in testa una semplice cosa.

Non è che al cinema ci si va per specchiarsi – oddio, sì, può capitare anche di specchiarsi in qualcuno, ma è sempre qualcuno migliore di noi. Come minimo è più bello. Probabilmente veste meglio, ha la risposta pronta che a noi verrebbe in mente mezz'ora dopo. Perché al cinema ci si va per cercare dei modelli. Nessuno sano di mente crede di specchiarsi in George Clooney. Le persone vanno a vedere George Clooney perché vorrebbero diventare un po' come lui, risolvere un problema come lo risolve lui alla fine del film. Migliorare, perché persino lui ci prova. Questo è il segreto del cinema americano: modelli, non specchi. Strategie per risolvere un problema, non persone che si urlano in faccia i loro problemi irrisolti e magari uguali ai tuoi. A me non interessa se i quarantenni romani passano le giornate a gridarsi Ti-Amo-Ancora-Non-Ti-Amo-Più. Se davvero fanno così, bisogna convincerli a cambiare, a migliorare un po'. A coltivare altri interessi che non siano quelli di portarsi a letto qualcuno, restare incinta di qualcuno, riconquistare qualcuno. A gestire gli scazzi in un modo meno mediterraneo, perché sul serio, non possiamo continuare a urlare tutti quanti così. Dopo due ore ti ritrovi l'Impacciatore sul tombino che sembra una prefica del Seicento, stiamo regredendo a vista d'occhio. Ci sono altri modi di discutere che non prevedono necessariamente l'Urlo Preventivo, la Minaccia di Morte (“Giuro che t'ammazzoooooo!”), lo Specchio Riflesso (“Fottiti!” “Fottiti te!”. Era la clip che hanno portato domenica da Baudo). Non stupisce che dopo un po' comincino a urlare anche i bambini. Di colpo, dallo stand-by silenzioso (“Vuoi che ti presentiamo tuo padre?” “...”) allo stadio isterico (“Dai, se vuoi ti presentiamo tuo p...” “Ho detto di NO MALEDETTI STRONZIIIIIII!”)

Anche qui, guarda gli americani. Dialogano anche loro, di amore e di altre cose. Eppure non urlano, o magari sì, ma una volta su dieci. Hanno altri sistemi per scambiarsi i pareri: per esempio, l'ironia. Nell'ultimo bacio ce n'era un po', di ironia. Qui no, niente, il pubblico potrebbe non capire. Per ridacchiare dobbiamo aspettare che Favino incocci un muro: comicità fisica, perché chi ha rivisto la sceneggiatura temeva che una battuta di troppo possa essere fraintesa dallo spettatore di Neri Parenti. Poi lo spettatore di Neri Parenti torna a casa e si guarda le repliche del dottor House che fa ironia con le proteine e le malattie infettive.

Questo è un cinema sbagliato. Un cinema che col pretesto del realismo peggiora la realtà, ci ruba due ore e venti e ci lascia tramortiti come un vecchio amico che non senti da dieci anni e poi ti tiene un pomeriggio al telefono, urlando i suoi problemi senza che tu possa offrirgli una soluzione. Se si calma, alla fine, è per stanchezza: quella che prende tutti quanti alla fine del film. I due tizi si rimetteranno assieme, continueranno a scambiarsi baci e soprattutto urla, perché non sono mai cresciuti, la vita di coppia per loro è ancora quella di due quindicenni isterici, e non ci sono alternative: la vita è così. No, maledizione, noi possiamo essere migliori di così. A nessuno piace essere sé stesso, neanche al dottor House. Vogliamo tutti avere una chance di migliorare, e abbiamo bisogno di scrittori, di registi che ce la mostrino. Di attori che ce la impersonino. E di critici che ti mandino seriamente a quel Paese, GM: torna in America, fatti restituire quel coraggio e quel cinismo che erano le uniche cose interessanti che avevi.

* Il titolo l'ho scopiazzato da qui, grazie a M. Elena.
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La diabolica e-mail

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Copia l'Olocausto e spediscilo a 10 tuoi amici

Magari è arrivato anche a voi: il Male Assoluto via e-mail. È un allegato che vi ha spedito un vostro amico, o un collega (ma può anche trattarsi di un perfetto sconosciuto). Un clic, e ve lo trovate davanti (continua sull'Unità online; si può commentare lì).

(La foto è presa da qui).

Può darsi che sia arrivato anche a voi: il Male Assoluto via e-mail. È un allegato che vi ha spedito un vostro amico, o un collega (ma può anche trattarsi di un perfetto sconosciuto). Un clic, e ve lo trovate davanti. Certo, è un orrore ‘già visto’: le foto in bianco e nero dei prigionieri dei campi di sterminio tedeschi. Eppure, dopo tanti anni (e dieci Giornate della Memoria) le foto restano spaventose. Ce n’è una che mostra una fossa comune, un’altra che ritrae un gruppo di bambini, nudi e scheletrici – qualcosa non va. Non si dovrebbero inviare foto di cadaveri o di bambini nudi e torturati per e-mail. Potrebbe perfino essere illegale. Eppure la persona che vi ha spedito il messaggio era in buona fede: il pensiero di commettere un reato non deve averlo sfiorato nemmeno. Lo ha fatto a fin di bene: voleva aiutarvi a ricordare.

Ma soprattutto voleva mettervi in guardia da chi la Shoah fa di tutto per dimenticarla: i cosiddetti negazionisti. Pare che siano dappertutto, e che malgrado tutti i nostri sforzi aumentino sempre di più. Com’è possibile? Nel testo che accompagna le foto spaventose si legge: Recentemente, il Regno Unito, ha rimosso l’Olocausto dai suoi programmi scolastici perché “offensivo” nei confronti della popolazione mussulmana che afferma che l’Olocausto non è esistito…

Ecco risolto l’arcano: i negazionisti sono i musulmani. La “popolazione musulmana” addirittura “afferma che l’Olocausto non è mai esistito”. E siccome i musulmani sono un blocco compatto, probabilmente la penseranno così anche quelli che abitano tra noi. Non solo, ma sono tutti terribilmente suscettibili: appena provi a parlare di Shoah nelle scuole, si offendono a morte, e quindi gli insegnanti del Regno Unito avrebbero deciso di non parlarne più. Non è una vergogna? Non vale la pena di contrastarla in tutti i modi, anche inviando foto di cadaveri ad amici e conoscenti?

È una vergogna, sì, perché è una bugia. Una bufala. Non è vero che il Regno Unito abbia “rimosso l’Olocausto” dai programmi scolastici. La “popolazione musulmana” della Gran Bretagna non ha mai fatto pesare questa sua supposta suscettibilità. Senz’altro il negazionismo si è diffuso anche tra i musulmani, ma questo non significa che la maggioranza di loro non creda alla Shoah. I loro figli, comunque, a scuola la imparano. Lo spiegava già due anni fa Paolo Attivissimo, nel suo prezioso blog anti-bufale: “L'equivoco è nato probabilmente perché qualcuno ha interpretato male la segnalazione sul Guardian che un singolo dipartimento di storia di una singola scuola aveva tolto l'Olocausto dal proprio programma”. La bufala gira per la rete sotto forma di catena informatica forse già dal 2005. Probabilmente è nata in inglese, ma è stata più volte tradotta in italiano da persone volonterose che hanno accolto l’invito finale (“Aiuta ad inviare l’e-mail in tutto il mondo. Traducila in altre lingue se necessario”).

Da un anello all’altro la catena ha accumulato diversi errori: a un certo punto ai “sei milioni di ebrei” sono stati aggiunte le cifre fantasiose di “20 milioni di russi”, “10 milioni di cristiani” e “1900 preti cattolici” (viceversa nessuno ha sentito la necessità di aggiungere i dati sullo sterminio di altre minoranze, come zingari, omosessuali o testimoni di Geova). Il fulcro del messaggio comunque è rimasto lo stesso: gli orrori compiuti dai nazisti rischierebbero di scomparire dalla nostra memoria collettiva a causa… dei musulmani suscettibili. Ma questa cos’è, se non una diceria che scredita una minoranza, in modo non molto diverso diverso da quelle che circolavano sulle minoranze ebree negli anni Trenta del secolo scorso? E perché non ce ne siamo accorti subito? Probabilmente eravamo distratti dai cadaveri, dai bambini, dalle immagini dell’orrore che non ammettono discussioni. L’orrore dello sterminio degli ebrei è stato usato per contrabbandare una diceria razzista su un’altra minoranza: difficile immaginare qualcosa di così diabolico. Eppure è lì, nella nostra casella della posta.

Ho una teoria: contro l’odio e il razzismo l’esercizio della memoria non basta. La memoria dei crimini del passato può aiutarci a non ripeterli, ma anche ispirarci a commetterli. Chi per primo ha scritto quella mail ha saputo usare le parole giuste e scegliere le immagini più adatte a ricattare la nostra coscienza. Il suo obiettivo non era salvare la memoria di uno sterminio, ma creare le premesse per il prossimo. Contro un odio così astuto, il ripasso fotografico degli orrori del passato non sarà mai sufficiente. Se davvero vogliamo contrastarlo dovremmo doppiarlo in astuzia: diffondere dubbi e senso critico dove altri seminano ignoranza e dicerie. Meglio cominciare subito.
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È sempre più tardi

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Com'è tradizione, l'antichissimo blog Leonardo in occasione del suo 279° compleanno chiede ai lettori di votare il post più bello del 2009. Segue lungo discorso che si può agevolmente  saltare.

(La mia scelta:
Cugghiuni + Business
Seminator di scandalo
Il segreto dell'altalena
Croce e delizia
Il Silvio parallelo
Mamma! Mamma!
Di ronda in ronda
Dagli abbastanza corda
Ogni riferimento è puramente
Voi potete sceglierne anche altri)

"Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo … lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.

Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?

Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati... al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica... Io quelli che fanno così, come Facci, o TheWineGuy, non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…

No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.

Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…

Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque?

Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro. Ditemi però cosa ne pensate di quest'anno, perché lo sapete che io tengo soprattutto a una cosa. No, non è la classifica, no. Non sono neanche gli accessi. A me interessa che i miei pezzi siano belli, siano validi, si leggano volentieri. Perciò vi chiedo, come da duecentoepassa anni, di scrivermi nei commenti qual è il pezzo che vi è piaciuto di più. Per favore. Non fate come tutti gli anni che di solito siete un migliaio ma quando c’è da farmi questo favore restate in venti. Cos’è, avete paura a scegliere un pezzo invece di un altro? Tirate la monetina, mica me ne accorgo. Potete anche scrivere il pezzo che vi è piaciuto meno, magari quello vi viene più facile. Coraggio, su, e poi per un altro anno non vi disturbo più. Adesso se vi dispiace devo andare a pisc… no, niente, ormai è tardi. Tanti auguri.

Ma ve l'ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava... Entro in un'osteria e..."
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Ho una teoria #7

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Una classe tutta bianca

Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative... (continua sull'Unità on line; potete commentarlo lì) (è l'ennesimo pezzo in cui provo a spiegare come funzionano le quote stranieri; però magari stavolta ci riesco).


Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative. A quel punto sui media l’indignazione per il flagrante caso di apartheid si tinse di panico: ma ci sono davvero così tanti stranieri a Luzzara? A molti sfuggì un dettaglio: nella stessa cittadina, a pochi metri dalla scuola incriminata, ce n’era un’altra. Frequentata quasi soltanto da bambini italiani. Era la scuola parrocchiale. Paritaria, ovviamente. Finanziata anche dal comune. A differenza di quella pubblica, questa scuola non era obbligata ad accettare le iscrizioni dei bambini stranieri, ma si era comunque degnata di ammetterne… addirittura otto.

Torno sull’episodio perché illustra alla perfezione la mia teoria: per ogni “classe-ghetto” con alte percentuali di stranieri, c’è da qualche parte (magari a pochi metri) una classe tutta bianca, di cui nessuno parla mai. È la classe che non si vede in tv (dove le scolaresche sono rigorosamente multietniche), che non finisce sui giornali: in compenso è una classe molto ambita. Quasi sempre c’è una lista d’attesa per entrarci. Non è necessariamente una classe cattolica o privata: anche molte scuole pubbliche hanno le loro classi tutte bianche. Naturalmente non le chiamano così: nel Piano dell’Offerta Formativa (il dépliant che viene mostrato ai clienti, pardon, ai genitori) si parlerà di classi speciali, o sperimentali; con lingue straniere un po’ più difficili, con corsi integrativi particolari. Quel che importa è che ci sia una lista: il modo più semplice per compiere una selezione all’ingresso. I genitori che conoscono il meccanismo e iscrivono i figli a questo tipo di classi non sono necessariamente i più abbienti. Sono semplicemente persone che desiderano il meglio per i loro figli. Il più delle volte non si considerano nemmeno razzisti: non hanno niente contro gli stranieri, ma non desiderano che loro figlio finisca in una di quelle classi dove sono addirittura otto o nove… in una di quelle famigerate “classi-ghetto”.

E così il serpente si morde la coda. Sì, perché le classi ghetto esistono soltanto perché dall’altra parte della strada, o del corridoio, o a volte della parete, esistono le classi tutte bianche. Senza le une, le altre non avrebbero ragion d’essere. Non c’è nessuna invasione nelle scuole italiane: su cento studenti italiani gli stranieri sono appena sette. È vero che sono concentrati soprattutto al Nord e nelle città. A quanto pare esistono già 514 scuole primarie in cui il numero di studenti stranieri supera il 30% del totale. Cosa succederà in queste scuole, ora che il ministro Gelmini ha stabilito che la quota del 30% non è più superabile?

È difficile immaginare i bambini stranieri in esubero caricati sui pulmini e portati in qualche altro istituto (magari in un bel quartiere residenziale). Anche perché un altro pulmino dovrebbe fare il viaggio inverso, e scaricare qualche bel bambino bianco nella scuola di un quartiere problematico... pulmini del genere attirerebbero critiche sia da sinistra che da destra, ma soprattutto avrebbero un costo. Il trucco lo ha già svelato lo stesso ministro, affrettandosi a chiarire che la quota del 30% è da intendersi riferita soltanto agli stranieri non nati in Italia. Evidentemente gli stranieri di seconda generazione (un terzo del totale) sono già da ritenersi perfettamente integrati. Una bella fortuna, perché in altri Paesi come Francia o Gran Bretagna è proprio la loro crisi d’identità a creare le premesse delle rivolte razziali. Ma per la Gelmini la seconda generazione non va conteggiata, quindi il problema non sussiste.

C'è poi un altro migliaio di scuole in cui gli stranieri sono già tra il 20% e il 30% del totale. Qui la quota Gelmini, più che a evitare le classi-ghetto, servirà ad istituzionalizzarle. Da questo momento in poi presidi e consigli d’istituto sanno che possono infilare fino al 30% di studenti stranieri in una classe (9 su 27, dieci su trenta) senza il rischio di creare un “ghetto”. Perché la circolare dice, nero su bianco, che non c’è ghetto finché in classe c’è appena uno straniero su tre – attenzione, stiamo parlando di stranieri nati all’estero. Perché poi c’è sempre la possibilità di aggiungere qualche straniero nato in Italia, che come abbiamo visto non conta.

Proviamo con un esempio. Mettiamo che in una piccola scuola con cinque classi s’iscrivano trenta bambini stranieri su un totale di 150. Se l’obiettivo fosse l’integrazione, la soluzione ottimale sarebbe spargerli in quantità uguali: sei per classe. Il Ministro avrebbe potuto chiedere di dividere il numero di stranieri per il numero di classi: sarebbe stato un criterio ragionevole. Ma non lo ha fatto. Ha preferito inventare una “quota” che nel nostro caso consente di ammucchiare gli stranieri in tre classi, e lasciare che le altre due diventino Classi Tutte Bianche. Certo, qualche genitore verrà prima o poi a lamentarsi. Che genitori saranno? Quelli che non conoscono certi meccanismi, che ignoravano l’esistenza di liste di attesa, che temevano di iscrivere il figlio a una classe troppo impegnativa. E poi, naturalmente, ci saranno gli stranieri (anche loro, a Luzzara, hanno protestato). A questi genitori (tra i quali il nostro amico Elmo) i presidi potranno dire che va tutto bene, che la classe è un po’ vivace ma funziona, che è indietro col programma ma recupererà, e che comunque non è ghetto finché sono dieci su trenta: lo ha detto la Gelmini. Una che i problemi li risolve.
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Per ora è un sogno, ma

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Fondata sui Sogni

Se dovessi scegliere qual è lo spot più stimolante degli ultimi mesi, a occhio direi il Mito di Pietro Barilla. Diciamo che è l'unico su cui riuscirei a buttar giù un pezzo in uno di quei giorni in cui non si pescano altri argomenti (Craxi: fatto, Haiti: fatto, Processo breve: troppo difficile, Fotoricatti: troppo presto...)

Non che abbia molto da dire, giusto due cose: 1. C'è una gran voglia di identità, di Storia, di tradizioni, e non da ieri. La Barilla su queste cose ci lavora da anni – ormai però questa voglia di passato si è fatta così parossistica, e mobilita talmente tante professionalità (costumisti, scenografi) da rasentare il grottesco (nella pubblicità, negli sceneggiati, al cinema). Non ci si limita più ad allestire qualche quadretto vintage: no, qui si assiste alla nascita di veri e propri Miti di fondazione. Riemerge così, dalle tenebre della Storia (risuscitato da qualche dagherrotipia sfocata) Pietro Barilla: non più oscuro bottegaio in Parma, ma novello Romolo che traccia un solco e fonda il Marchio Leggendario. Tutto molto bello, e ovviamente falso.

2. Ma come si fa a capire che è falso? Beh, basta sentirlo parlare. Malgrado baffi e camicia filologicamente fedeli al 1877, il mitico Pietro Barilla ragiona come un nostro contemporaneo. E allora, sentiamo, Sig. Barilla, perché vuole venderci sfarinati di grano duro? Ancora dieci anni fa ci avrebbe detto che aveva dei “valori” (la famiglia, la tradizione, l'identità, bla bla bla), ma oggi... oggi Pietro Barilla ha “un sogno” (oltre alla “passione”, ovviamente: vicino ai sogni c'è sempre quella roba lì). E qual è il sogno del mitico Barilla? “Forse diventare una pasta famosa”. Proprio come la tredicenne che vuole diventare una famosa ballerina, o il chitarrista 16enne che incita i suoi amichetti, “se c'è la passione potremo diventare una band famosa...” ecco, riuscite a immaginare gli stessi pensieri nella testa di un vero signore baffuto in una bottega di Parma nel 1877? No, infatti questo è Pietro Barilla 2009: un uomo che aveva un sogno, e tanta passione, e quindi ce l'ha fatta, proprio come Balotelli o Marco Carta. La Barilla non è una semplice fabbrica di sfarinati, la Barilla è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni – s'intende, non i vostri sogni di adulti decrepiti (il massimo delle vostre fantasticherie, lo so, è buttarvi sul divano davanti a una maratona di telefilm), ma i sogni vergini, i sogni dei ragazzini, i sogni di Gloria e di Successo.

In pratica la Storia, proprio mentre si evoca (1) si abolisce (2). I bottegai baffuti del nostro passato sono uguali a noi, siamo noi, la Storia non è che un'infinita sequela di generazioni di giovincelli che si pettinano in modi diversi ma tutti comunque sognano di sfondare nel mondo dello showbiz o, in mancanza di show, almeno nel pastabiz.

Se continueremo con passione, allora potremo perfezionarci, e forse diventare una pasta famosa... magari in tutto il mondo! Per ora è un sogno, ma se c'è la passione, perché non sognare?

Ecco, bravo Pietro, perfezionati, allenati, studia la parte. Com'è poi andata lo sapete: nel 1895 al teatro Storchi di Modena la prima edizione di Italy's Best Pasta vide i rigatoni di Pietro sconfitti in finale, di misura, dalle linguine di Gioachino Buitoni. I cronisti dell'epoca riportano la sensazione che i veri antagonisti dei rigatoni fossero i boccoli biondi di Gioachino, soprattutto presso il pubblico femminile (per tacere del pubblico gay, di cui effettivamente a quei tempi si taceva). Un'altra teoria è che la popolarità di cui godeva già Barilla abbia portato la giuria di qualità a favorire l'altro prodotto, col risultato di lanciare sul mercato due marchi invece di uno...

Eh? No, scusate, mi ero fatto prendere da una vertigine steampunk. Niente, cari creativi, non c'è che da togliersi il cappello davanti alla vostra doppia capriola: (1) trasformare un anonimo bottegaio in un fondatore di civiltà e (2) dotare questo fondatore di civiltà dello stesso lessico e della stessa sensibilità di un Amico di Maria De Filippi. Sulla cui trasmissione avrei racimolato un altro paio di cose da buttar giù. Magari un'altra volta, in un altro di quei giorni in cui non si pesca niente.
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Vuoi pure queste?

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Bettino, vuoi pure queste?

Diro anch'io la mia su Craxi (potevo esimermi?)
Era antipatico.

Tutto qui? Beh, sì. Ma scusate, vi sembra una cosa da poco? Credete che antipatia e simpatia non siano dettagli da tenere in conto quando si formula il giudizio su un leader politico democratico? Barack Obama e Berlusconi non vi hanno insegnato niente.

Non voglio nemmeno dire che la politica consista nel farsi amare dalla gente. Però aiuta. Diciamo che è il 40% del lavoro. L'altro 60 magari consiste nel migliorare il proprio Paese, e da questo punto di vista... cough, sto ancora lavorando per pagare il debito pubblico che questo tizio ha aiutato a quadruplicare, per cui, se non vi spiace, lasciamo perdere (potrei prendere fuoco). Concentriamoci sull'aspetto “piacere alla gente”. Oggi si dà per scontato.

Trent'anni fa era diverso. Si stava passando dal modello in bianco e nero (il politico serioso e autorevole, eloquio soporifero, occhiali da nerd) a quello a colori: il politico pop, che conquista i telespettatori lanciando slogan brevi e a effetto. Craxi rimase incastrato nella fase di transizione. Se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che non funzionava né a colori né in bianco e nero. La sua faccia unticcia e le sue pause imbarazzanti stridevano sul vetro televisivo come i pattini sul ghiaccio della vecchia pubblicità viakal Cif Ammoniacal (si-può-graf-fia-re). Non era necessario essere stati indottrinati dal Kgb per trovarlo immediatamente insopportabile. Fidatevi: veniva spontaneo.

Il dibattito di questi giorni (ammesso che interessi qualcuno) è paradossale. Sembra che su Craxi sia possibile formulare soltanto due ipotesi antitetiche: statista o tangentaro. In mezzo ci sono quelli che, mah, forse non era né un gran statista né un gran tangentaro (mediocre anche in quello? Andiam bene). Nessuno che faccia presente una semplice e banale verità: prima ancora di essere più o meno politico o ladro, Craxi era antipatico come pochi, e questo alla lunga gli rese un pessimo servizio. Anche perché c'era una certa hybris nell'idea di poter governare e addirittura modernizzare l'Italia senza essersi mai fatto votare da più di un italiano su sei. Sulla cresta di un'onda lunga sempre prevista, mai arrivata - oppure era quella che alla fine lo travolse.

Vi è capitato di vedere, negli ultimi giorni, qualche intervista inedita, un filmato di repertorio? (No. Non ve ne poteva fregar di meno. Appunto). Di solito quando una grande uomo muore, gli cresce l'aureola attorno, anche nei documenti video: diventa più bravo, più bello, le sciocchezze che dice sembrano massime di La Rochefoucauld. A Craxi non succede. A distanza di anni la sua voce stentorea continua a urtare l'orecchio come un controsenso. Craxi viveva nei televisivi anni Ottanta, contemporaneo di Jei Ar e del mio amico Arnold, e impostava la voce come in un comizio anni Cinquanta.

Lo so cosa state per dire: anche Pertini. E Pertini era popolarissimo. Sì, perché con quella voce d'altri tempi Pertini impastava discorsi a braccio pazzeschi, prendeva una cerimonia come il Discorso di Fine Anno e lo trasformava nel confessionale del Grande Fratello (Hai sentito come gliele ha cantate a Gheddafi?) Pertini si era ormai incarnato nello stereotipo del nonnetto bizzoso con un passato da romanzo, e ci si divertiva. Craxi invece era il Padre che non torna neanche a cena, ha l'amante e non ti parla da anni, ma ti toglierà il saluto se non ti iscrivi a giurisprudenza. Poi magari il vero Craxi coi figli era tutt'altro (possibile, a giudicare dallo zelo con cui ancora oggi ne difendono la memoria), ma il personaggio-Craxi era quello, e stava sulle palle all'ottanta per cento degli italiani. Non mi sembra un dato politico da sottovalutare.

Non è che i suoi diretti concorrenti non soffrissero dello stesso problema, ed è interessante studiare gli sforzi che fecero per adeguarsi a qualcosa che ancora non si capiva cosa fosse. Berlinguer si fece prendere in braccio da Benigni, fu un momento profetico. Andreotti cercava di spacciarsi per battutista televisivo, funzionò finché resse la claque. Forlani non faceva niente e infatti Forlani è stato risucchiato dal niente. Occhetto sbaciucchiava la moglie davanti ai fotografi. Erano esperimenti un po' così, ma tutti avevano capito che qualcosa andava fatto. Craxi no. Lui nel frattempo si era sdoppiato in due personalità: lo Statista Di Livello Mondiale e il brigante Ghino di Tacco – ed erano antipatiche entrambe. Probabilmente pensava a sé stesso come una specie di Mitterand italiano, machiavellico ed enigmatico quanto bastava, e credeva che il problema simpatia si risolvesse circondandosi di nani e ballerine (invece riusciva a rendere antipatici anche costoro). Che bisogno c'è di essere simpatico, quando in lista hai Gerry Scotti? Non si faceva molta fatica a capire che il suo personaggio avrebbe finito per restare impregnato di tutta l'arroganza così caratteristica degli anni Ottanta. E che avrebbe fatto la fine triste di un cattivo di Dinasty o di Falcon Crest, di quelli che scompaiono dalla scena senza neanche salutare perché non gli rinnovano il contratto. A volte li si fa esplodere in mille pezzi su un motoscafo. Altre volte partono per un Paese lontano, da cui non si ritorna. Si parla ancora un po' di loro, di sfuggita: e poi scompaiono, non sono mai esistiti, la vita (finta) va avanti.

Viene il sospetto che Forattini – uno molto più bravo ad annusar l'aria che a far ridere – avesse captato qualcosa di profondo disegnandolo come un piccolo mussolini. La stessa arroganza a doppio taglio: gli italiani per un po' la sopportano, ma alla prima difficoltà eccoli pronti ad appenderti per i piedi. A Craxi poi non è andata così male: appena un assalto con le monetine. Eppure continuano a farcelo vedere, come se ce ne dovessimo vergognare. Di aver preso a monetine un politico arrogante? Non mi vengono in mente cento lire meglio spese. Ma no, i vedovi Craxi non si danno pace. Probabilmente perché la fede in Craxi Grande Statista ha qualcosa di simile a quella nel Dio del Vecchio Testamento: richiede un investimento emotivo e psichico enorme. Bisogna ricordarsene tutti i giorni e tutte le notti.

E quindi si stracciano le vesti: Perché ha pagato lui per tutti, perché? Semplice: ha rifiutato di farsi processare... No, ci vuole una spiegazione più profonda. Va bene, e allora tenetevi questa: ha pagato più degli altri non perché fosse il più disonesto, ma perché era il meno simpatico. E' giusto? No, magari no. Ma è giusto giocare a fare i leader carismatici col 15% dei suffragi? Berlusconi, che tanto gli deve, dai suoi errori ha imparato parecchio. Berlusconi, lui, non graffia: va giù liscio come una mousse. Ha il sorriso smagliante, la battuta pronta (magari mediocre, ma pronta), non si blocca ogni cinque secondi per trovare l'espressione più tranchant, che poi tranchant non era mai.


Date un'occhiata a questo grafico sull'affluenza alle urne nei referendum abrogativi. L'ho fatto qualche mese fa, perché m'interessava mostrare che il trend negativo è quasi trentennale. L'unica eccezione è un picco improvviso tra 1991 e 1993 (e dire che l'anno prima per la prima volta il quorum non era stato raggiunto). Cos'era successo nel 1991?
Tante cose, ma secondo me su tutte una: un giornalista aveva intervistato Craxi a tavola. Ricordate, era il momento in cui i politici cercavano di mostrarsi più alla mano, quindi questo giornalista aveva avuto accesso alla tavola di Craxi. E gli aveva chiesto se davvero secondo lui gli italiani dovevano andare al mare, la domenica del referendum. Craxi (che al mare c'era già) dopo la solita pausa, aveva detto: passatemi l'olio.

Ecco chi era Craxi. L'unico politico in grado di riportare gli italiani nelle urne referendarie, invertendo un un trend ventennale. Semplicemente facendo una figura da stronzo per dieci secondi in tv. Altro che monetine. Ringraziate che fosse finita la stagione dei bulloni.
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Arriva Elmo

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Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].

Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media. 

All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.

Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette. 

“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri... 
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.

Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer). 
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”. 
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.

Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega. 

Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!

In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?

“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”

Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
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