And if you think it obsolete

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Noi ogni tanto sentiamo parlare di qualche vecchio disco; da come ne parlano le persone in cui riponiamo la nostra fiducia, capiamo che si tratta di un disco che potremmo amare. E allora cosa aspettiamo a procurarcelo? Il fatto è che abbiamo il triste sospetto che sia troppo tardi, per innamorarsi di una dozzina di canzoni. Una cosa puerile in fin dei conti, e noi cominciamo ad avere un'età. Certe canzoni dovevamo incontrarle per caso quando avevamo ancora il cuore giovane, come sconosciute al campeggio: farci l'amore una notte e poi magari non scordarcele più. Se non è successo, è inutile recriminare: abbiamo avuto altre canzoni, poteva andarci molto peggio. Per esempio, avere 16 anni oggi e doverseli gestire coi ritornelli di Rihanna...



Forever Changes non è un disco che si incontra per caso. Bisogna andarselo a cercare, e quindi tanto vale programmare l'esperienza: tirarne fuori tutto il meglio che si può ricavare da un incontro tra adulti. Certo, non sarà l'amore dei nostri sedici anni, ma ci si può imbastire comunque un rapporto solido, basato sulla fiducia e il rispetto reciproco. Io consiglio di aspettare l'estate (la prossima, perché questa ormai è andata: fatevi un appunto per il giugno 2011). Raccomando di non nutrire aspettative eccessive, perché vi è già successo di portarvi in casa questo o quell'osannato capolavoro e scoprire che in fin dei conti era solo l'ennesima collanina di canzonette vintage. Ecco, prendetela così: Forever Changes è una deliziosa collanina di canzonette vintage, istoriata con fregi spagnoleggianti, quasi fintoaztechi. Un regalo della cugina avventuriera che ha passato un fine settimana a Tijuana. Se poi vi capiterà di innamorarvene sul serio, tanto di guadagnato. In caso contrario, avrete pur sempre una collanina buffa da tirare fuori nei giorni d'estate.

Consiglio di aspettare il termine della siesta pomeridiana, quando il sudore vi appiccica i pensieri. Ascoltatelo svagati, in una stanza rivolta a occidente, pensando ad altro e facendo altro, mode repeat all, senza preoccuparsi di distinguere i ritornelli. Può darsi che vi cresca dentro, così come può darsi di no. Dategli comunque un po' di fiducia all'inizio: riconoscete che è un lavoro fatto con grande amore e un notevole sprezzo del pericolo, in anni in cui il rock non si sapeva ancora esattamente che direzione avrebbe preso (avrebbe preso la direzione opposta, poveri Love). Lasciatelo aperto fino a tutto il tardo pomeriggio, che s'impregni dell'afa del giorno e della luce del tramonto. Ripetete l'applicazione più volte nel corso dell'estate, e a fine agosto richiudete ermeticamente fino al giugno successivo.

Se tutto va come deve andare, sarete riusciti a insufflare un po' della vostra personale melanconia estiva in Forever Changes: che ve la restituirà fedelmente, ogni volta che gliene chiederete. Se non funziona, che vi posso dire. Ognuno s'innamora di quel che può (no, l'amore non si merita: ti capita e basta). Magari a voi è toccata Rihanna. Inutile recriminare.
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Un giorno sfondo

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Diceva d'essere un attore,
e anche un po' fotografo;
la sua vita era una commedia,
perciò era pure un comico.
Avrebbe fatto i milioni,
ormai stavano arrivando...
e nel frattempo cazzeggiava.

Si guardò indietro nello specchio:
tutti quegli anni, formidabili.
Posò lo stuzzicadenti
e rise un po' dei cazzi suoi.
Vedeva l'odio per sé stesso
già inciso nell'autoritratto
che avrebbero esposto a Brera
di fianco a un Tintoretto,
ma era in ritardo con l'affitto.

Spiegava: sono un musicista,
che ha questa ambizione:
che tutti possano ascoltare
il mio ritmo interiore...
Nel frattempo stava immobile
e diceva così:

È una questione di tempo,
vedrai che arriva il mio momento.
Io credo ancora nel mio sogno:
sto per spaccare il culo al mondo,
sto per spaccare il culo al mondo.

Non negava di esser bello,
aveva fatto anche il modello,
ma non mandava giù l'idea
di sfilare in mutande
(rendeva più in Autunno-Inverno).

E lavorava a un portale(*)
che avrebbe aperto a Natale.
Faceva tutto anche da casa
con il suo cellulare,
finché è rimasto senza credito.

Un gran lavoratore,
che non riusciva a stare fermo:
cercava ancora il suo Dio,
senza più credere all'inferno
(ma andava ancora a confessarsi).

Un uomo molto indipendente,
ma con qualche dipendenza;
un vero uomo libero,
(dormiva in case occupate);
aspettava un bonifico,
che ormai stava arrivando,
e nel frattempo cazzeggiando
mi spiegava così:

È una questione di tempo,
ma arriverà il mio momento.
Io ci credo un giorno sfondo,
spaccherò il culo al mondo,
spaccherò il culo al mondo...

Fatti spiegare il mio sistema,
mentre mi offri la cena,
ecco vedi,

Io sono un attore,
e anche un po' un fotografo;
poi la mia vita è una commedia,
il che fa di me un comico.
Vedrai farò i milioni,
vedrai vedrai che arrivano...

(*) Era il 2000, dopotutto. Succedeva persino a me.
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Ils ont pris tout

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Prima o poi doveva succedere:


il cielo ci è caduto sulla testa.
Un Big Mac per Obelix si legge sull'Unità.it, e si commenta qui.

Nel 2010 dopo Cristo tutta la Gallia, pardon, la Francia, è stabilmente integrata nel mercato globale. Tutta? No! Un villaggio dell'Armorica, abitato da irriducibili Galli, resiste ancora e sempre all'invasore... Perlomeno, resisteva. Fino a qualche settimana fa. Quando anche il villaggio di Asterix ha ceduto alla globalizzazione, e nel modo più plateale possibile: vendendo la sua immagine al prodotto meno francese e più globalizzato che si possa immaginare.

Immaginatevi un Topolino convertitosi al nazismo, o uno zio Paperone che scopra il Capitale di Marx e trasformi il suo deposito in una Cassa Operaia di Mutuo Soccorso. Il cartellone pubblicitario che raffigura un banchetto degli Irriducibili non più sotto le stelle, ma sotto il tetto a pagoda di un McDonald's, è uno choc del genere. Sin dal loro arrivo nelle edicole francesi, 51 anni fa, i Galli di Goscinny e Uderzo hanno incarnato l'orgoglio dei francesi, la loro “irriducibilità” nei confronti dei costumi e delle mode che arrivavano da fuori – in primis, dall'America.

In realtà Asterix deve moltissimo al sogno americano del suo inventore, René Goscinny, emigrato a 19 anni nella patria delle comic strips. Americano è il suo fratello maggiore, il pellerossa Umpa-pà, primo personaggio creato da Goscinny. Prima di essere localizzato in Armorica, il primo villaggio che Goscinny immagina assediato dai 'civilizzatori' è un proprio un accampamento di tepee. Certo, la decisione di creare un eroe gallico era un tentativo di smarcarsi da un immaginario già profondamente colonizzato dagli eroi anglosassoni: cow-boys, gangster, pirati, erano già il pane quotidiano dei giovani lettori francesi degli anni Cinquanta. Eppure anche nel momento in cui creava il suo personaggio francese al 100%, Goscinny in fondo stava mettendo in pratica le sue lezioni americane. Così come Disney aveva voluto concentrare le doti dell'americano medio in un piccolo, simpatico roditore, Asterix sarebbe stato un concentrato delle qualità francesi. I due personaggi mantengono tratti comuni: la bassa statura (che suscita nei piccoli lettori un'istintiva solidarietà), l'astuzia priva di malizie, la disponibilità all'avventura, il naso pronunciato e, sul capo, due grosse appendici che accentuano l'espressività del viso: due enormi orecchie nere per Mickey, due ali bianche per Asterix. Anche le due spalle comiche presentano caratteristiche simili: come Pippo, Obelix è un bambino che non teme di crescere, perché sa che questo non potrà succedergli mai: la marmitta di pozione magica in cui è caduto da bambino lo ha reso irriducibile anche alle preoccupazioni dell'età adulta.

Asterix e Obelix dovrebbero dunque offrirci l'immagine che i francesi hanno di loro stessi: ed è un'immagine piuttosto sorprendente, per come si discosta da quella che noi non-francesi abbiamo di loro. Mancano del tutto, nel popolatissimo universo di Asterix, gli stereotipi che più spesso rappresentano i francesi all'estero: la femme fatale disinibita e chic o l'intellettuale snob parigino. Del resto ai tempi di Asterix Parigi, anzi Lutezia, pur essendo già “la città più bella del mondo” è poco più di un affollato villaggio su un'isolotto della Senna, e i suoi abitanti non sono che paesani rifatti.

La Francia di Asterix e Obelix è sorprendente perché è quella che non si vede quasi mai nei film: la provincia profonda. Per noi la Francia è la patria dell'eleganza e della cucina raffinata: gli eroi di Goscinny disdegnano qualsiasi cibo che non sia il cinghiale arrostito, da sbafare con le mani o con lo stesso spadino con cui si affrontano gli avversari. A ben vedere, nella Gallia di Asterix e Obelix i raffinati sono i nemici, i Romani. Sono loro a cucinare piatti insopportabilmente chic, a ostentare modi effeminati, a costruire dappertutto città di marmo eleganti ma anonime, dotate di modernissime terme. A questo processo di globalizzazione Asterix e Obelix si ribellano con l'astuzia e il buon senso dei provinciali (e una buona dose di barbarica forza bruta). Dopo le prime trionfali avventure contro i Romani, nel corso degli anni '70 le sceneggiature di Goscinny diventano più complesse e profonde, lasciando intendere sempre più chiaramente che il vero invasore a cui resiste il villaggio non sono i poveri legionari Romani, ma il progresso. Nel tentativo di "civilizzare" gli irriducibili, i Romani le proveranno tutte: abbatteranno la foresta per trasformarla in un villaggio residenziale; in una delle ultime e più amare storie di Goscinny, un sosia del giovane Chirac riuscirà addirittura a corrompere Obelix, trasformando la sua attività di intagliatore di menhir in un'impresa industriale che, fortunatamente, avrà una vita breve. La voglia di menare le mani avrà il sopravvento, e la foresta ricoprirà ancora una volta i progetti imperialisti dei civilizzatori. È questo che rende la resa a McDonald insopportabile ai lettori. Asterix avrebbe potuto farsi gladiatore o legionario, visitare l'America o crescere un figlio: tutto questo nel corso degli anni è effettivamente successo, senza che nessun lettore si sentisse tradito. Ma vendersi a McDonald è davvero troppo.

Da parte loro, gli addetti marketing McDonald non possono che essere entusiasti. Sostituendo all'inquietante clown Ronald il piccolo Gallo, sanno di poter sfruttare la visibilità di un personaggio amato da generazioni di lettori. Nel gergo dell'ambiente, Asterix oggi è quello che si chiama un franchise: un personaggio già affermato che può fruttare milioni di euro grazie ai film (animazione e live action), al merchandising, e a operazioni pubblicitarie come questa. I veri asterixologi si potevano consolare, fino a qualche tempo fa, col pensiero che tutto questo avesse poco a che fare con il vero Asterix: quello, orgogliosamente artigianale, sceneggiato e disegnato da Uderzo, unico autore delle storie dopo la scomparsa prematura del grande Goscinny. Questo significava accettare che le avventure di Asterix fossero ormai giunte molto vicine al loro termine naturale: del resto Asterix e Obelix hanno ormai viaggiato in tutte le terre conosciute e sconosciute, solidarizzando lungo la strada con tanti piccoli villaggi disposti a resistere "ora e sempre" all'invasore. Ultimamente però Uderzo si è scelto i suoi successori. Asterix quindi sopravvivrà al suo autore; magari tornerà a occupare con materiale inedito quelle edicole dalle quali era praticamente sparito negli ultimi 15 anni: ma per farlo dovrà necessariamente tradire un po' sé stesso. L'universo in cui ha vissuto il suo mezzo secolo di avventure dovrà essere svecchiato e aggiornato ai gusti dei nuovi giovani lettori, che probabilmente lo hanno conosciuto prima nelle sue versioni cinematografiche: e cosa c'è di meglio, per avvicinare Asterix e co. alle nuove generazioni, di un happy meal da McDonald, stampato e riprodotto su milioni di manifesti?

Insomma il patto tra Asterix e il Big Mac conviene a entrambi, e non dovrebbe scandalizzarci troppo. In fondo Asterix e Obelix non hanno mai voluto sconfiggere il loro nemico. In molti casi si sono trovati addirittura a collaborare con Giulio Cesare. Tutte le loro energie si sono spese nel tentativo di preservare lo status quo, la loro condizione di eterni bambini: il villaggio di Irriducibili circondato da una foresta che è un giardino di delizie, ricca com'è di cinghiali da sbafare e legionari da pestare. Gli Irriducibili hanno un senso perché esiste, oltre la finestra, la modernità, che la cinge in un blando stato d'assedio.  Purché tutto rimanga com'era nelle prime tavole schizzate da Uderzo: un piccolo villaggio che resiste, ora e sempre. I francesi amano immaginarsi così. E per difendere questa loro fantasia, sono disposti a venire a patti anche con Cesare. O con Ronald McDonald, in questo caso.
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The Happy Birth of You (& me)

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Le Man Avec Les Lunettes è il nome di un gruppo che gode di una certa popolarità in Val Trompia, Svezia, Giappone, e in piazza Rodolfo Pio a Carpi. All'inizio era un duo, poi è diventata una piccola orchestra che suona l'indiepop meno fracassone e più raffinato che possiate sentire in giro. Il loro ultimo album, intitolato più o meno Plaskaplaskabombelibom, per un paio d'anni è stato il nostro privato Sgt. Pepper: ci ha accompagnato in tutti i luoghi e soprattutto in tutti i laghi, senza prendere mai polvere. Mezz'ora di scandalosa armonia. Però una mezz'ora passa in fretta, e in due anni ne sono passate davvero tante, e insomma quando arriva un disco nuovo?

Nel frattempo, voi che non li conoscete potete ascoltarvelo tutto in streaming, e un po' v'invidio. In giro per la rete ci sono decine di video, alcuni molto professionali, che tolgono ogni dubbio sulle qualità artistiche e le competenze tecniche dei componenti del progetto. In un qualche modo però mi sembra ineluttabile mostrarvi questo, dove la resa acustica non è un granché, ma si vede un angolino di Mattatoio e ci si diverte molto. Forse a causa di uno scambio di chitarre, o semplicemente perché suonare nei Le Man è divertente. Questo è il migliore giorno in cui vivere. Buon compleanno.

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Cheap day return

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Ian Anderson non è per tutti. Lo so, lo accetto.
C'è un sacco di gente che odia il progressive. È roba pretenziosa, la rivincita dei secchioni delle belle arti sui proletari del rock. Tutto prima o poi è tornato di moda, ma il prog no – troppo pesante per qualsiasi rigurgito di hype. Il prog è vecchio, e se lo ascolti sei patetico. Lo so, lo accetto.
C'è un po' di gente che ama il progressive, ma non sopporta comunque i Jethro Tull, che non erano veramente prog. Hard rock col flauto, questo facevano. Lo fanno ancora, se è per questo, e o li ami o li odi. In realtà no. Ti possono anche lasciare indifferenti.

Ma Cheap day return la devi ascoltare. Dura un minuto. Dove lo trovi un pezzo orchestrale di un minuto? Quelli erano tempi in cui bisognava dimostrare di aver studiato solfeggio, sotto i cinque si scendeva raramente. Cheap day return è appena uno schizzo, la storia di una visita al padre in casa di riposo. Ian abbozza un sospetto sulla badante, ma poi lei gli chiede un autografo, che risate. C'è una chitarra acustica che dialoga coi violini, e sembra la cosa più naturale del mondo. E no che non lo è. Cheap day return è un piccolo gioiello di semplice ma straordinaria fattura, se fossi stato un critico musicale in quegli anni avrei scritto così, incastonato nel primo lato di Aqualung, che comprai ad occhi chiusi la mattina in cui scoprii che non mi avevano rimandato. Mi meritavo dunque un disco a prezzo intero, anche se uscito più di vent'anni prima. L'anacronismo in sé non era un problema, i miei compagni compravano Pink Floyd e Genesis senza pudore. Ma io ero affascinato ancor più impudicamente da certi dischi che suonavano ancora più antichi di quel che erano; come la voce di Robert Plant che a volte sembra riverberare direttamente sulle pietre di Stonehenge, o come i Jethro Tull che avevano questa immagine medioevale già allora imbarazzante, ma a quel tempo me ne fregavo alla grande di quello che potevate pensare di me. La migliore colonna sonora per leggersi il Signore degli anelli, come feci quell'estate; e misi giù anche il pavimento del terrazzo, ma non venne bene. Poi lunghi e tortuosi giri in bicicletta, durante i quali pioppi e cipressi di Albareto impararono a memoria il primo lato di Aqualung. E se ci tornassi, uno di questi pomeriggi, senza queste stupide cuffiette, so che me lo canterebbero ancora, solco dopo solco, dal riff iniziale alle risate di chiusura. Ma fa troppo caldo.

Non ci giro più molto in bicicletta. Il Signore degli Anelli non lo tengo neanche in casa. Il pavimento del terrazzo è stato rifatto da personale competente, e comunque ora è un terrazzo di casa d'altri. La paura di essere rimandato a settembre in qualcosa è una sensazione che non riesco più nemmeno a evocare. Sono insomma un'altra persona, fatta di cellule in gran parte generate nei vent'anni successivi. Se m'incontrassi non mi capirei, anzi mi prenderei a ceffoni. Ma per fortuna non mi può succedere. Tranne una volta all'anno, quando ascolto Aqualung. Neanche tutto. Il primo lato. Ed è come se il ragazzo venisse a trovarmi all'ospizio, ciao vecchio, come va, la nurse ti tratta bene? On Preston platform, do you hear shoe shuffle dance?


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E versa, versa

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Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, quando ci entri davvero, ti sembra di rinvenire sotto le strutture pop sapientemente disegnate da Don Was tutto un mondo di spiritualità e mistero, come una moschea mozarabica dissimulata sotto volute gotiche o barocche. Puoi anche prendere Serbi Serbi per il grido del muezzin che ti richiama alla preghiera del crepuscolo. Se non conosci le parole.



Quando leggi le parole in traduzione, scopri che Khaled è infelice per amore – fin qui ci potrebbe anche stare – e quindi si sta ubriacando. La parola alcohol è incastrata come un brillante pagano in una ka'aba di gorgheggi sacri, e Serbi Serbi forse significa “Versa versa”. Altro che mezzuin. Questo è ubriaco perso, e la sua preghiera è l'equivalente algerino di “si son cioc purtev'm a ca' su 'na carriola”. Uno ci può anche restare male.

Poi però, se uno ci riflette bene: cosa c'è di più rock'n'roll di cantare pene per amore alcoliche, mentre il Fronte Islamico di Salvezza prende il potere? Alcuni colleghi di Khaled morirono ammazzati per non aver fatto altro: cantare di amorazzi e bevute. Una cosa molto banale qui da noi, roba da cospiratori in Algeria. Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, anche l'alcol diventa qualcosa per cui lottare, qualcosa di sacro.
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We are billion year old carbon

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Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.

Ma non ci ha creduto a lungo. Due anni dopo, all'isola di Wight, un fricchettone sale sul palco e la interrompe proprio mentre canta We are stardust. Il manager lo prende a calci – il pubblico fischia Joni. Joni chiede il rispetto per l'artista, cioè per sé stessa. Non ci si bagna più nello stesso fango del pubblico, non gli si insegnano più i ritornelli. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. La versione di Matthews scala le classifiche nello stesso periodo.

La distanza tra le versioni di CYSN e della Mitchell è di pochi mesi. Eppure Matthews ha saputo metterci qualcosa che interpreti più conosciuti di lui non avevano ancora trovato. La pedal steel, direte voi. Bravi. In realtà io intendevo la nostalgia. La Mitchell non aveva nostalgia per Woodstock; solo un po' di rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Iain Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze. In quegli anni le fotografie ingiallivano in fretta, le speranze duravano un paio d'estati e poi finivano, e anche le canzoni migliori dopo venti mesi erano roba vecchia. D'altro canto nascevano continuamente nuove speranze e nuove canzoni, per cui la nostalgia restava un prodotto di nicchia.

Oggi tutto quel passato è stato surgelato, per la comodità degli utenti: quando ne vuoi un pezzo lo scongeli e lo consumi in pochi minuti. Così ogni estate ci si mette a parlare di Woodstock, il grande evento che ha cambiato la storia della musica eccetera. Anche la nostalgia sa un po' di precotto. Del resto è tutta gente che a Woodstock non c'era, non era nata o ascoltava Gianni Morandi. Per quelli che c'erano passati, Woodstock era probabilmente roba vecchia già nel 1970. Ne sfogliavano le foto, e cominciavano a non riconoscersi più. Siamo polvere. Di stelle, ma pur sempre polvere.
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Il grande Giovane

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(Questo pezzo è un esperimento: l'unica fonte è wikipedia).

Cossiga – può esser difficile ricordarselo proprio oggi – è stato per molto tempo un giovane. Nel senso molto relativo che la parola “giovane” poteva avere nell'ambiente stagnante della prima repubblica, Cossiga è stato addirittura il “più” giovane. Laureato a 20 anni, deputato d'assalto a trenta (leader dei “giovani turchi” sassaresi), sottosegretario alla difesa a 38 (record), ministro degli Interni a 48 (record), presidente del Senato a 55 (record), Capo di Stato a 56 (record imbattuto). Fino a ieri era ancora il più giovane tra i Presidenti della Repubblica in vita: più giovane di Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Giovani, volete far politica? Seguite Cossiga: laureatevi presto e buttatevi nella mischia. Sceglietevi comunque un partito importante; se non vi piace del tutto scalatelo comunque: potrete sempre picconarlo una volta in cima.

È possibile isolare questo elemento “giovane” nella carriera politica di Francesco Cossiga? Si parla molto tra noi di come sarebbe migliore l'Italia se la governassero i 40-50enni piuttosto che i 70-80enni: Cossiga è un esempio a favore o contro? In che modo la sua (relativa) “giovinezza” può aver cambiato le cose? È difficile da dire, anche perché Cossiga più che un politico è stato un uomo delle istituzioni: non scriveva disegni di legge, ma riformava i servizi segreti. Gli si può riconoscere una certa irruenza, uno stile spiccio nella gestione dell'ordine pubblico: mandare mezzi blindati contro gli studenti è, in un certo senso, una cosa 'da giovani' (il vecchio Giolitti non lo avrebbe fatto). Nella sua lunga carriera però Cossiga è stato anche l'esatto contrario: un notaio attentissimo al rispetto del dettaglio, della norma più desueta e obsoleta. O non c'è qualcosa di giovanile anche in questo? Tra le varie onoreficenze che collezionava, c'era il grado di Capitano di Fregata. Quando il parlamento lo elesse Presidente nessuno se ne ricordava, tranne lui: che deviò il corteo presidenziale per chiedere il consenso allo Stato Maggiore della Marina Militare. Si presentò in divisa da Capitano di Fregata, appunto. La passione per le uniformi, le cariche, le battaglie... se tutto questo non è sufficiente a definire Cossiga un nerd, ecco l'arma segreta: era un radioamatore. Quando salì al Quirinale si portò il baracchino con sé. Persino nei tre anni del “presidente notaio” (1985-1988), quando nessuno avrebbe potuto immaginare che ragazzaccio sguaiato covava in lui, Cossiga si dimostrò in qualche misura giovanile: pose fine a una delle più lunghe crisi del pentapartito nominando a Palazzo Chigi, nel 1987, Giovanni Goria. È ancora il più giovane Presidente del Consiglio.

Invecchiando, Cossiga ha mantenuto i tratti dell'enfant terrible; anche se davanti a certi sbalzi di umore diventava più facile pensare a una psicosi maniaco-depressiva. Le istituzioni erano tutto per lui; allo stesso tempo, fare il presidente durante il semestre bianco era una palla; si dimise due mesi prima.

Chi comincia giovane ha più tempo per re-inventarsi. Di Cossiga ne abbiamo avuti tanti, e diversi tra loro. Io ne riesco a isolare quattro, ma chi lo conosce meglio senz'altro ne conosce molti di più. Abbiamo il Cossiga Giovane Turco, spericolato innovatore della sinistra DC; il Kossiga boia, mandante di assassini di Stato; il Presidente Notaio, che nelle vignette di allora occhieggiava da una fessura delle finestre del Quirinale; e dopo il Muro di Berlino, il Picconatore. Questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere conto della complessità del tipo; il Cossiga post-Quirinale mi sembra ancora un sequel del Picconatore, sempre più stemperato col passare degli anni. I quattro Cossiga sono anche autosufficienti, nel senso che ognuno si comporta in maniera indipendente dall'altro: studiando le mosse del Giovane Turco non si capisce come sia potuto diventare Kossiga; allo stesso tempo non è facile capire come il Kossiga dalle maniere forti sia diventato, nella prima parte del suo settennato, il presidente più opaco della storia della Repubblica. Quanto al picconatore, ciarliero e imprudente, rappresenta una negazione di tutte e tre le identità precedenti. Potrei concludere definendo Cossiga come il David Bowie della politica italiana, ma forse chi legge qui ormai ricorda Bowie meno di Cossiga (è un cantante inglese di qualche anno fa, che sul palco cambiava spesso identità).

Del cadere in piedi. Cossiga è il ministro degli Interni che non riesce a liberare Aldo Moro. Si dimette. Un anno dopo è nominato Presidente del Consiglio. Il PCI del cugino Berlinguer porta in parlamento l'accusa di aver rivelato al senatore Carlo Donat Cattin che il figlio Marco era indagato per terrorismo. Il caso è archiviato; Cossiga si dimette nel 1980. Tre anni dopo lo nominano Presidente del Senato. Vent'anni dopo Cossiga ammette parzialmente la circostanza: rivelando di averne parlato col cugino Berlinguer, aspettandosi un sostegno. Berlinguer invece lo accusò in Parlamento. Vatti a fidare dei cugini comunisti.

Dopo il 1989 Cossiga ha ripreso a fare 'politica', conquistando spesso le prime pagine con dichiarazioni fantasiose e sboccate che cambiarono il lessico della politica italiana. A distanza di anni diventa difficile capire quale fosse il suo progetto, se ne aveva uno. Sbaglierò, non sono un cossigologo, ma non mi sembra di avere mai sentito un parere di Cossiga sull'economia, sul lavoro, sui diritti civili. Cossiga aveva sempre qualcosa da dire su magistrati, sui colleghi politici: non suggeriva campagne politiche, quanto alchimie parlamentari. Un satrapo di palazzo, convinto che l'Italia si potesse salvare modificando una maggioranza in parlamento o un comma in una legge. Mettiamola così: fino al 1989 era un atlantista convinto, disposto a chiudere un occhio e a volte entrambi pur di mantenere lo status quo in uno degli Stati strategicamente più importanti per la Nato. Al crollo del muro capisce subito (con una prontezza che stupisce tutti) che quel progetto è finito: l'Italia non è più un fronte, ma sta scivolando nelle retrovie. Dal suo osservatorio privilegiato nota che gli americani sono sempre più insofferenti nei confronti della Dc; ostili alla costituzione dell'ennesimo governo Andreotti (filopalestinese?) Ne trae le conseguenze e inizia a tirare bordate alla Dc. Voleva forse creare le premesse per ripristinare l'alternanza di governo? Andreotti però reagisce aprendo al giudice Casson gli archivi del caso Gladio. Il PCI-PDS di Occhetto scopre di essere stato sotto tiro per tutto il dopoguerra (non doveva essere una gran scoperta) e chiede al parlamento l'impeachment. Cossiga, che cannoneggiava a centrodestra, si ritrova bersaglio della sinistra. A quel punto il piccone presidenziale comincia a roteare a 360°: l'uomo forse ricorda che nelle vite passate è stato il depositario di segreti ben più indecenti. Ha infiltrato i movimenti studenteschi; ha lasciato che ammazzassero Moro: di tutto questo erano informati quando lo nominarono al Quirinale: e ora osavano accusarlo per una faccenda risibile come Gladio? Pivelli, avrà pensato. Giudici ragazzini.

In realtà, visto da lontano, il Cossiga post-Quirinale non ha mai fatto mancare il suo sostegno al centro-sinistra. D'Alema è uno dei pochi politici che in questi anni Cossiga abbia stimato davvero: anche lui non proprio popolare, ma ben ferrato nelle logiche di palazzo. Nel 1998 è stato il primo presidente del Consiglio ex comunista, e lo è stato grazie al voto del Senatore a vita Cossiga, dopo che Bertinotti aveva ritirato il sostegno al Prodi I. Otto anni più tardi Cossiga è stato altrettanto decisivo a salvare (o meglio: a protrarre l'agonia) del Prodi II, il governo che si teneva a galla coi voti dei senatori a vita. Insomma, Cossiga non ha mai negato il suo aiuto a quella parte politica: la parte di quelli che nei salotti magari indulgevano alle battute sul Kossiga-Boia, ma tiravano un sospiro di sollievo quando gli autonomi venivano sgomberati da Bologna; quelli che lo mettevano in stato d'accusa in parlamento, ma poi nello stesso parlamento mendicavano il suo voto. Cossiga li ha sempre sostenuti, magari disprezzandoli. Forse avrebbe fatto lo stesso col centrodestra (di fatto ha votato la fiducia all'ultimo governo), se il centrodestra avesse mai avuto bisogno di lui.

Cossiga lascia quattro lettere indirizzate alle quattro cariche. Il sogno di tutti noi è che esse contengano la soluzione di almeno uno dei cento misteri d'Italia: uno tra i tanti scheletri che Cossiga è riuscito a contenere tutta la vita nell'armadio. Potrebbe anche essere, l'uomo amava i coup de theatre. Però chi ama veramente il teatro non resiste all'idea di assistervi: Cossiga ha avuto molti anni per raccontare le sue verità. In certi casi lo ha fatto, nel modo più teatrale possibile: affermando di avere “ucciso Moro”, o raccontando al Resto del Carlino come si gestiscono i movimenti di piazza (“infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”).

Con tutte le sue manie e le sue depressioni, Cossiga ha mantenuto un forte senso di appartenenza nei confronti dello Stato, delle forze dell'ordine, di tutte quelle cose organizzate che fanno la Storia, e che continuano anche dopo di lui. Posso sbagliarmi, ma per chi vive al servizio di queste cose la morte assume un senso relativo: quello che non poteva proprio dire da vivo, non credo possa rivelarlo da morto. Quel che invece può fare da morto è continuare a depistare, magari suggerendo altre illazioni sull'attentato di Bologna (quella famosa pista palestinese basata sull'idea che l'OLP spostasse gli esplosivi sui treni di linea, e non uno straccio di prova), o qualche altra chicca inedita su Ustica o sulle BR. Insomma io non mi fido di lui neanche da morto. Tanto più che da oggi tra i depositari di quei segreti c'è Silvio Berlusconi.
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Trashmen didn't get my trash today

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Spike Lee ha diretto alcuni tra i film più brutti e più belli che ho visto. A volte immagino che abbia un gemello cattivo, che lo odia e vuole rovinargli la reputazione, mettendo il nome di S. L. su quintali di pellicola senza capo o coda, come Miracolo a Sant'Anna o Bamboozled. In realtà Spike Lee ha un fratello e una sorella, che a un certo punto volevano scrivere un film sulla loro infanzia brooklynese. Fecero leggere la sceneggiatura a Spike, che glielo comprò; tolse le parti di sesso tra adolescenti, e realizzò Crooklyn. Non è senz'altro tra i film più brutti che ho visto. Ma la cosa che me lo rende caro più di ogni altro film di SL sono i titoli iniziali. Niente di trascendentale: un dignitoso isolato di Brooklyn, primi anni Settanta. I grandi giocano a domino, i bambini corrono sui marciapiedi, i ragazzi s'infrattano sotto le scale. L'estate in città, in tutto il suo splendore. In sottofondo gli Stylistics cantano di scioperi dei netturbini e varia umanità – le cose che fanno girare il mondo. Una pezzo soul sui generis, impregnato della luce del mattino, odoroso di donuts alla cannella. In seguito ho cercato in lungo in largo la loro versione di People make the world go round, senza soddisfazione. Ne ho trovato una, pregevole, di Micheal Jackson bambino, ma ora m'intristisce. Poi mi sono reso conto che la canzone mi piace ascoltarla così: col rumore dei bambini che fanno la conta. È anche questo che fa girare il mondo.
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Isorabbia

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Domanda: si può passare un buon ferragosto in autostrada, senza di lui?


Isoradio, cambia musica (anzi, toglila proprio). (Sull'Unita.it). (Si commenta qui).

Passato un buon ferragosto? O eravate anche voi intrappolati in una coda d'autostrada, cullati dalle dolci note di Sandro Giacobbe? Rassegnatevi, è l'Italia. Certi problemi sono complessi. Gli esodi di agosto, per esempio, non sono così facilmente aggirabili. Ma Sandro Giacobbe? Un modo di aggirarlo ci dovrebbe pur essere. Non so, per esempio... una class action contro Isoradio?

Chiedere i danni a Isoradio, che idea folle. Come calcolare la quantità di tempo e di denaro bruciate in tutti questi anni in centinaia di migliaia di code? Code che milioni di automobilisti avrebbero potuto evitare, se Isoradio li avesse informati prontamente di quello che succedeva 30 km più in là, invece di proporre un vecchio classico di Umberto Tozzi dopo l'ultimo successo di Biagio Antonacci...

La selezione musicale di Isoradio è una di quelle ingiustizie alle quali forse i potenti sperano di assuefarci con gli anni. Magari, pensano, col tempo ci affezioneremo a quest'Italia di svincoli presi senza sapere se dietro la curva c'è una coda o no, mentre i Ricchi e Poveri cantano Mammamarìa. E intanto gli anni passano, le code si allungano, dei Ricchi e Poveri si sarebbe perso anche il ricordo, se non fosse per i dj di Isoradio. Ma cosa vogliono da noi? Perché non si limitano a dirci in pochi secondi che le uscite sull'Adriatica sono intasate? Perché prima devono per forza somministrarci Gianni Togni? Cosa abbiamo fatto di male, esattamente? Di quale colpa oscura ci siamo macchiati (probabilmente a metà degli anni Settanta)? Non siamo anche noi automobilisti come gli altri? Perché Isoradio non sembra fatta per noi – ma a orecchio non sembra fatta per nessuno.

Credo che in partenza ci fosse un'idea: intervallare le informazioni sul traffico con un po' di musica 'popolare', per evitare che il conducente si assopisse o cambiasse frequenza. Forse trent'anni fa tutto questo aveva ancora un senso. Le autostrade erano meno trafficate, le code meno frequenti, e tra una notizia e l'altra si potevano programmare canzoni da hit parade, quel tipo di canzoni che rappresentavano un patrimonio collettivo, le conoscevano tutti e le cantavano... no, aspetta, trent'anni fa? Era il 1980, le autostrade erano già fiumane di lamiera rovente, i ragazzini ascoltavano il post-punk e vomitavano sulle note delle canzoni preferite da mamma e papà. Il sogno generalista di Isoradio viene ancora da più lontano. E non ha davvero più il minimo senso.

Oggi non esiste più un patrimonio di canzoni condivise (ammesso sia mai esistito). Se metti su Sanremo l'ascoltatore dei Pink Floyd cambierà frequenza. Techno e Hip-hop non sono più fenomeni 'giovani': è roba che gira da una ventina d'anni, una parte non piccola degli utenti delle autostrade c'è cresciuta in mezzo e magari non ascolta altro. Ma Isoradio non può programmarla, perché? Perché c'è il rischio che il camionista cinquantaseienne si addormenti, sbandi e schiacci l'appassionato dei Pink Floyd contro l'amante della techno. Va bene. D'altro canto il camionista 56enne ormai è un rumeno di Conegliano, e Tiziana Rivale non risveglia in lui nessuna luminosa epifania degli anni Ottanta: se è stanco si addormenta e sbanda uguale. E se mettessimo un notiziario sul traffico in più, semplicemente? Anche in rumeno, perché no, pensiamoci.

Di tante rivoluzioni a cui abbiamo assistito, ce n'è una che forse ci siamo lasciati sfuggire. Da qualche tempo in qua ascoltare musica in auto è diventata un'esperienza molto meno frustrante. Cos'è successo? Una piccola cosa: nelle auto sono entrati i lettori mp3. Ormai, nell'affannosa corsa al cliente, le concessionarie li offrono in serie. Con tutto quello che significa: caricare su ogni auto una valigia colma di cd, compressa in pochi centimetri cubici, e gestibile con una mano sola. Si può viaggiare per l'Italia e l'Europa con il proprio juke box personale, che quasi mai include i successi di Pupo tanto cari ai dj Isoradio. Questa rivoluzione impalpabile ha i suoi pro e i suoi contro. Non dipendiamo più dai selezionatori delle radio, non saremo più costretti a memorizzare il tormentone del momento. D'altro canto c'è il rischio di blindarci nella nostra bolla musicale personale, e di perdere ogni contatto coi gusti musicali delle persone che stanno vicino a noi.

Ma tutto questo in fondo non riguarda Isoradio. La diffusione dei lettori mp3 sulle auto metterà in discussione la programmazione delle emittenti commerciali, ma Isoradio è servizio pubblico; il suo scopo è offrire in tempo reale informazioni sul traffico. Non importa quante ore di buona musica abbiamo a bordo; in certi momenti avremo sempre voglia di sintonizzarci su Isoradio. A patto che ci dia immediatamente informazioni sul traffico, non sui momenti oscuri della carriera dei Matia Bazar. Non si può semplicemente programmare un notiziario dopo l'altro, senza interruzioni musicali? Dite che è troppo noioso? Più di un successo di Amedeo Minghi?  http://leonardo.blogspot.com
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