Uno spettro si aggira nel Nordafrica

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Pensate che c'è gente che, di fronte ai moti che scoppiano tra Maghreb e Medio Oriente, continua a porsi il problema se avesse o no ragione Bush. Ma chissenefrega di Bush, scusate, e poi chi era questo Bush, in fin dei conti. Qui c'è bisogno di idee nuove. Per capire una realtà in rapido movimento. Nuove teorie. Pensatori originali. Per esempio, questo signore:


sulle rivoluzioni, ha dei punti di vista molto interessanti. Lo spettro che si aggira nel Nordafrica è sull'Unita.it, e chi non vuole condividerlo e commentarlo su facebook (cosa vi avrà poi fatto di male facebook), può farlo qui sotto.

Io delle ultime rivoluzioni del Nordafrica non ho capito un bel niente. Tanto vale ammetterlo. Non le avrei mai previste, fino a qualche mese fa; quando Ben Ali scappò pensai che una cosa del genere non sarebbe potuta accadere a un leader potente e universalmente rispettato come Mubarak; quando se ne andò pure Mubarak pensai che questo poteva succedere in una società dinamica come l'Egitto, mentre in quella caserma stagnante che era la Libia Gheddafi avrebbe conservato il suo potere per sempre. Insomma, non ne capivo niente, continuo a non capirne niente, difficilmente migliorerò in futuro.

Mi consola l'essere in ottima compagnia. I più grandi esperti di geopolitica. I diplomatici più consumati. Gli statisti più potenti. Nessuno di loro ha previsto quello che sta succedendo. L'inverno del 2011 è stato ancora più sorprendente dell'autunno 1989; a quei tempi la glasnost di Gorbaciov aveva già fatto annusare un po' di aria diversa a chi se ne intendeva. Ma chi avrebbe scommesso tre mesi fa un euro o un dollaro sull'esilio di Mubarak? Voi no? Complimenti, ve ne intendete più o meno come i consulenti della Casa Bianca. O gli opinionisti del New York Times. Siamo tutti cascati dalle nuvole, insieme.

Ma davvero era così difficile prevedere tutto questo? Ora confesserò una colpa grave, anche se credo che i lettori dell'Unità saranno comprensivi. Senza essere uno studioso di Marx – perché davvero, non lo sono – io mi ritengo di impostazione marxista, anche se di un marxismo imparaticcio, di terza o quarta mano. Davanti a una rivoluzione, per esempio, sarò portato a domandarmi quali siano le classi sociali in lotta tra loro, chi detenga i capitali e i mezzi di produzione, e se per caso non ci sia una carestia in giro, perché già nel 1848 in Europa l'andamento delle rivoluzioni sembrava legato all'aumento dei prezzi dei cereali. Sembra infatti che la gente scenda in piazza quando ha fame. Poi trova anche altri argomenti (costituzioni democratiche, diritti civili, diritti del lavoro, nazionalità, libertà religiose...), altri spettri da agitare, però la fame ha tutta l'aria di essere un elemento scatenante. Tutto questo io lo so – credo di saperlo – semplicemente perché l'ho studiato nei testi di persone che avevano studiato su testi di persone che avevano studiato Marx, quindi non è affatto detto che la cosa funzioni. Eppure.

Eppure un marxista vecchio stampo in questo caso avrebbe potuto prevedere qualche rivolta nel mediterraneo con qualche anticipo sui teorici della Jihad mondiale o del complotto CIA (sì, c'è pure chi crede che sia tutto un complotto CIA, con Barack Obama che finge di non sapere dov'è la Libia sulla cartina, ma nell'ombra trama ghignante; Marcello Foa sul Giornale ha scritto dei pezzi molto divertenti sull'argomento). È un peccato che non li facciano più, questi marxisti vecchio stile, perché con tutti i loro enormi difetti, forse sarebbe bastato mettergli in mano i prezzi dei cereali quattro mesi fa, e avremmo avuto una previsione di rivolta nel medio-breve termine. E invece cosa abbiamo? Analisti e opinionisti che si guardano smarriti e si affidano più o meno alle loro emozioni. Com'è possibile che tutto accada nel giro di pochi mesi, si domandano? (in realtà accade sempre tutto nel giro di pochi mesi: basta leggere i manuali di Storia... ah, già, ma li hanno tutti scritti i marxisti, maledizione). Stimati osservatori traggono auspici dal fatto di non avere ancora visto bruciare una bandiera americana; in Libia per la verità si vede poco o niente, ma se domani da qualche fotoblog uscisse fuori una bandiera bruciacchiata del genere, cominceremo a gridare Mamma li jihadisti? Se qualche migliaio di egiziani posta la rivolta su Twitter, la rivoluzione diventa un affare di Twitter; poi torna dall'esilio un imam, fa un comizio davanti alle telecamere, e improvvisamente la Twitter generation cede il passo alla Repubblica Islamica. Un esercito depone il dittatore? Un sacco di pensosi opinionisti si precipitano a scrivere che non è mai una buona notizia quando un esercito depone qualcuno. Già, di solito quando si fanno le rivoluzioni l'esercito rimane neutrale, consegnato nelle caserme. È un peccato che costoro non fossero già in servizio attivo ai tempi di La Fayette, o della Rivoluzione dei Garofani, o quando Badoglio sostituì Mussolini: avrebbero potuto gridare al golpe già allora.

Ma i più buffi di tutti restano i Neocons – non quelli originali; diciamo quelli all'amatriciana che, come certi personaggi di telefilm, bloccati per anni su isole deserte, nel 2011 continuano a combattere una lotta senza quartiere per difendere fuori tempo massimo il loro eroe, che in caso ve lo foste dimenticato, era George W. Bush. Ancora lui? Ebbene sì, è lui il vero ispiratore della rivoluzione egiziana, scrivono. Come si fa a capirlo? Semplice: quand'era presidente finanziava gruppi egiziani anti-Mubarak (ma finanziava molto di più Mubarak). Poi Obama ha tagliato quei finanziamenti. Poi il prezzo dei cereali è andato alle stelle. Infine l'Egitto si è ribellato a Mubarak. Come si fa a non vedere che è tutta una geniale strategia di Bush e dei suoi sapienti consiglieri? Se poi dopodomani un partito islamico antisionista dovesse vincere le elezioni al Cairo, saranno pronti a scrivere che aveva ragione Bush a sostenere Mubarak, vicino affidabile di Israele. Ma in realtà i Neoconi più che aiutarci a risolvere un mistero, ne aggiungono un altro: cosa c'era di così affascinante in Bush per continuare a sostenerlo anche oggi che non è nemmeno più ricandidabile? Come se la pagina dell'Iraq non si riuscisse più a voltare. Bisogna assolutamente dimostrare che quella guerra lunga e sanguinosa sia servita a qualcosa, e allora si arriva a dimostrare che i rivoltosi egiziani hanno preso l'esempio da quelli iraniani, che a loro volta avrebbero cominciato a manifestare perché hanno visto che in Iraq un regime si poteva cambiare. È una congettura interessante: la guerra in Iraq che causa le manifestazioni in Iran che causano il crollo di Mubarak...  anche solo per l'acqua che perde in tutti i passaggi: a noi che non siamo neocons sembrava piuttosto che le invasioni di Iraq e Afganistan avessero portato l'Iran a un arroccamento intorno al suo commander in chief (Ahmadinejad); quando poi gli studenti delle città hanno manifestato sono stati repressi nel sangue: il che a rigor di logica avrebbe dovuto demotivare gli aspiranti rivoluzionari del Cairo, piuttosto del contrario... ma noi che ne sappiamo, in fondo? Niente.

Proviamo ad articolare questo niente, con le categorie che il nostro imparaticcio marxismo ci ha lasciato in eredità. Sappiamo che il prezzo di acqua e cereali aumenta, e continuerà ad aumentare per un po'. Le nazioni arabe sono mediamente ricche di risorse naturali, ma acqua e cereali li devono importare. Questo può avere avuto l'effetto di rendere insostenibili ai popoli quei governi che per decenni non hanno redistribuito le ricchezza del sottosuolo. Ora i prezzi non diminuiranno – non basta assediare i forni, questo prima di Marx ce lo aveva mostrato Manzoni – ma alcune sacche di corruzione erano insostenibili, dovevano sgonfiarsi. Cosa accadrà adesso? Dipende dai gruppi sociali, che in un primo momento vanno insieme sulle barricate per sconfiggere il tiranno, ma poi cominciano a lottare tra loro per il famoso controllo dei mezzi di produzione. Se nessun Paese arabo del Medio Oriente, fin qui, sembra essere riuscito a evolversi in una democrazia parlamentare nel senso europeo del termine, questo non è accaduto perché gli arabi siano etnicamente inadatti alla democrazia (come sostiene qualche criptofascista o qualche uomo di paglia dei neoconi) ma perché questi regimi parlamentari sono espressione del ceto medio, e in queste nazioni il ceto medio spesso non c'è. Talvolta l'unico vero ascensore sociale è l'esercito, l'unica ombra di 'classe media' è rappresentata da militari e funzionari statali: in questi casi molto spesso è l'esercito a gestire le rivoluzioni, dalla Turchia di Ataturk fino alla Libia del ventisettenne colonnello Gheddafi. Se in molte aree  la classe media è quasi inesistente (ma non nel popoloso e urbanizzato Egitto), esiste in questi Paesi un cospicuo bacino di abitanti sotto la soglia della povertà – proletari e sottoproletari, li avremmo chiamati – che sono il terreno più adatto alla diffusione del fondamentalismo islamico (un'etichetta un po' di comodo: confondere la Fratellanza Islamica ad Al Qaeda è una bestialità). In casi come questi, dunque, la seconda fase della rivoluzione potrebbe vedere la contrapposizione tra fondamentalismo nelle province ed esercito nei centri urbani, con il primo che cerca il consenso dei più umili sviluppando un welfare alternativo a quello statale, e il secondo che cerca di legittimarsi (anche all'estero) come difensore di istanze progressiste e laiche. Non sappiamo se andrà così: diciamo che è andato più o meno così in Turchia e in Algeria negli anni '90. Perché dovrebbe andare diversamente, per esempio, in Egitto? Perché l'Egitto è grande, giovane, ha ormai sviluppato un ceto medio che non può sottomettersi agli imam né ai colonnelli di turno, e ha insomma tutta l'energia per stupire i veteromarxisti con le loro categorie ottocentesche.

Ma in Libia? O in Bahrein? Chi lo sa. In realtà ne sappiamo veramente troppo poco. Alcuni dettagli – l'indipendentismo della Cirenaica – ci sfuggono del tutto, siamo già contenti di ricordare dove sta sulla mappa, la Cirenaica. La dialettica tra Sunniti e Sciiti, nel Bahrein, non è così facilmente riconducibile allo schemino marxista di ricchi e di poveri (anche se gli sciiti sembrano occupare ovunque il gradino più basso della società). Le teorie si elaborano a partire dalle informazioni, e informazioni ce ne arrivano poche. Finché continuiamo ad avere dieci opinionisti por ogni reporter sul campo... d'altro canto, i dieci opinionisti costano meno e riempiono più fogli...

In attesa di vedere cosa succede, almeno qualcosa lo abbiamo imparato. Che le rivoluzioni sono un po' più imprevedibili, specie da quando abbiamo smesso di leggere Marx. Se oggi Mubarak e Ben Ali non sono più al loro posto, se lo stesso Gheddafi potrebbe non esserci più da un momento all'altro non è grazie alla Cia, non è grazie a Bush, non è grazie ai leader europei che, con le tutte le loro meravigliose idee sulla democrazia d'esportazione, avrebbero continuato ad abbracciare e baciare questi tiranni finché non avessero ceduto il potere ai figli. La Storia non la fanno sempre i potenti con le loro idee: più spesso la fanno i popoli, soprattutto quando hanno fame. Ecco la mia teoria – assai poco originale.
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Se ci riflettete

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Ho plagiato Hugo Proff

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Aggiornamento: Hugo ha chiesto scusa e ora sul suo blog riconosce le fonti dei post che ha... preso in prestito. Per quel che mi riguarda siamo a posto così.

"Personalmente mi ritengo soddisfatto quando un mio Post o comunque un Articolo postato su questo Blog gira per la rete.
L’unica cosa che chiedo è mettere un link al sito.
Poi esiste un’altra classe di furbacchioni che non soltanto copiano, ma addirittura postano l’ articolo con data precedente allo stesso, spacciandolo per proprio.
I più odiosi".



Il copione

Lo so che qualcuno penserà che questo è solo un patetico tentativo di salvarmi in corner. Ormai Hugo Proff è sulle mie tracce. Ha snidato Ghebreigziabiher, e ben presto troverà anche me. Questione di giorni, ore, forse minuti.

Eppure il mio pentimento è sincero. Eppure nel fondo del mio cuore ho sempre saputo che stavo facendo qualcosa di sbagliato, di orribilmente sbagliato. Ho copiato per mesi i suoi bei post, sporcandoli appena un po' con la mia prosaccia schifosa. L'ho saccheggiato a man bassa, pensando che non se ne sarebbe mai accorto. Tanto è roba che sta su internet gratis, pensavo.

Il pezzo su Ferrara, per esempio. È tempo di ammetterlo: è farina del suo sacco. Lo potete leggere sul blog di Hugo Proff, nella giornata di lunedì 14 febbraio. Io l'ho preso da lì, compresa la citazione di quel Bertolt Brecht che non so bene chi sia (uno svaligiatore di banche, credo), e l'ho pubblicato pre-datandolo, in modo che tutti credessero che lo avessi scritto io. Perché sono astuto, io, nella mia cialtronaggine. E siccome non scrivo bene come Hugo, ahimè, ho cambiato qualche espressione qui e là (per esempio ho tolto i riferimenti alla sua tumultuosa vita personale, non avendo io nessuna vera “vita”, in realtà passo il tempo su internet a copiare i pezzi degli altri). Ho tolto molti a capo, per dissimulare l'eleganza stilistica di Hugo. Ho sostituito “Berlusconi” a “Psico-pedo-papi”, il divertentissimo epiteto coniato da Hugo, che è il suo marchio di fabbrica più riconoscibile. E poi, sentite un po' che ho fatto, perché è da dettagli come questi che si capisce che povera persona sono: ho plagiato anche i commenti. Esatto, ho preso i commenti in calce al suo pezzo, li ho copiati e li ho reincollati in calce al mio, perché io a uno bravo come Hugo gli invidio anche i commenti, se fossimo due cani gli invidierei le pulci sotto i coglioni.

Ma ho fatto di peggio. Qualche settimana fa Wikimedia Italia mi chiese un contributo per 10annidisapere.it, il blog che festeggia il decennale di Wikipedia. Io accettai con entusiasmo, e... siccome non avevo nemmeno ben chiaro cosa fosse, Wikipedia, andai a documentarmi in uno dei pochi blog italiani che valgono la pena, ovviamente il blog di Hugo Proff (che scrive anche sul Fatto Quotidiano, non si sa bene dove, forse tra le righe). Dove infatti trovai un pezzo con un punto di vista molto interessante... che copiai di pacca, anche in questo caso modificando lo stile qua e là, allungando il brodo succulento con le mie scipite esperienze d'insegnante, perché nessuno mi crederebbe, se di colpo mostrassi di saper scrivere bene come Hugo Proff.


Vent’anni dopo è successa una cosa straordinaria.
La possibilità di andare su internet quando vogliamo. Qualsiasi domanda ci venga in mente… tu digiti, e in pochi secondi internet ti risponde. E così mi sono reso conto di una cosa.
Oggi i computer assomigliano molto di meno a quegli scatoloni vuoti che ho cominciato a usare gli albori cibernetici, e molto di più a quei cervelloni che sognavo da bambino.
Vent'anni dopo è successa una cosa straordinaria. Mi hanno montato una lavagna interattiva in una classe, e ora possiamo andare su internet quando vogliamo. Qualsiasi domanda ci venga in mente... tu digiti, e in pochi secondi internet ti risponde. I ragazzi ci si abituano subito, del resto la maggior parte ha già internet in casa, e le ricerchine le sanno fare, anche solo per trovare le specifiche di un videogioco. E così mi sono reso conto di una cosa.

Oggi i computer assomigliano molto di meno a quegli scatoloni vuoti che ho cominciato a usare alle medie, e molto di più a quei cervelloni che sognavo da bambino. Guarda il modo in cui li usano i ragazzi: fanno domande, e il computer risponde. 


E poi che altro c'è... ah, sì, pensate, in settembre Proff scrisse un altro pezzo lungo e curioso sull'ora di religione, non so bene il perché lo fece proprio in quel momento: so solo che in quel periodo ero alla disperata ricerca di cose interessanti da scrivere, e così... sì, lo copiai anche quella volta. Senza pietà. Ma per aggiungere verosimiglianza alla cosa, lo pre-datai di cinque mesi, al maggio 2010, rendetevi conto della mia intelligenza diabolica, in modo che sembrasse scritto immediatamente dopo la sentenza del Consiglio di Stato di cui si parla nel pezzo!

Bene, la pacchia è finita. Stamattina Hugo Proff si è accorto che un altro ladruncolo come me lo scopiazzava, e ha minacciato di tirar fuori il suo nome e il suo cognome, nientemeno! La gogna mediatica! La stessa che meriterei io. Spero soltanto che questo mio tardivo autodafé possa in qualche modo rabbonirlo.

Hugo, davvero, mi dispiace. Fino a un certo punto non mi ero nemmeno reso conto. Trovavo i tuoi contenuti in giro per la rete, tutto quel ben di Dio disponibile gratis, e pensavo che non ci fosse niente di male a rubare qualcosa che è gratis.

Ora ho capito che quel che ho fatto è terribilmente grave e stupido. Stupido, perché prima o poi te ne saresti accorto. Grave, perché saccheggiando i tuoi bei contenuti, sporcandoli col mio brutto stile, e rimettendoli in circolo col mio nome, io ti ho tolto l'unica proprietà a cui tenevi: la proprietà delle tue idee... ma no, nemmeno quella in realtà, le idee sono di tutti. Il tuo stile. È tutto quello che sei. E io l'ho preso, l'ho strapazzato e me lo sono messo indosso, indegnamente. Avrei mai potuto farti qualcosa di peggiore?

E ora cosa farai? Mi denuncerai (dopotutto non ho rispettato le licenze d'uso)? Pubblicherai il mio nome e il mio cognome e l'indirizzo IP, su una pagina ben indicizzata da google, con il resoconto preciso e gli screenshot di tutte le mie malefatte? Beh, forse me lo merito. Che tutti sappiano, googlandomi, che razza di individuo sono. Eppure imploro pietà. Non sono cattivo. Sono soltanto uno che ha cominciato a giocare senza aver capito le regole. In fondo sono ancora nuovo dell'ambiente.

Insomma, se tolgo tutti i pezzi che ho scopiazzato e chiedo pubblicamente scusa a tutte le persone a cui li ho scopiazzati, tu me la daresti una seconda possibilità?
[Grazie a Mazzetta, come sempre].
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Forse dovremmo intervenire in Libia

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Datti una mossa, Grande Proletaria

- Può darsi che la mia Patria non sia proprio il mondo intero, può darsi che in un mondo di risorse limitate la mia sopravvivenza implichi la non sopravvivenza di qualcun altro che quindi è un mio nemico. Può darsi che io non mi possa sobbarcare di tutto il dolore e di tutta l'ingiustizia del mondo, perché non sono onnipotente, anzi. Può darsi.

Ma non sono neanche del tutto impotente: per esempio, potrei essere l'Italia: la Libia allora sarebbe uno spiazzo poco lontano da casa mia, dove ai tempi del nonno avevo pure piantato qualche bandierina. Io che da dieci anni mi segno sul calendario di ricordarmi di piangere per l'undici settembre, cosa scriverò sulla mia agendina il ventuno, sul ventidue, sul ventitré febbraio? “Nulla”, come Luigi XVI il 14/7/1789?

Allora, accantoniamo per favore la svenevole polemica su chi abbia più baciato e abbracciato Gheddafi. Lo hanno fatto tutti, da Andreotti a Berlusconi; se quest'ultimo in particolare ci diede la sensazione di aver calato le braghe, non è questo il momento per rimproverargli una mancanza di stile che è cronica. Questo è il momento del disastro, il momento in cui si accantonano le nostre beghe familiari perché là fuori ci sono i nostri vicini, che gridano, e bruciano vivi.

Se fossi l'Italia, sarei una nazione in crisi, che sta stagliuzzando a sangue servizi essenziali (sanità, istruzione, pubblica sicurezza, giustizia), ma continua a non tagliare un settore strategico. La Difesa. Ci spendo tutti gli anni il 2% del PIL, qualcosa come 24mila milioni di euro: sono un sacco di soldi. Ecco, appunto. Dove li sto mettendo? Ora c'è un folle incendiario, uno stragista assassino che sta bombardando un popolo amico alle porte di casa: non dovrei intervenire? Non sono intervenuto per molto meno, in passato? Dove sono le mie navi, i miei jet, i miei uomini? In Asia centrale, a insegnare la democrazia ai sassi. Ma siamo sicuri che sia ancora la priorità?

E l'Unione Europea dov'è? Perché se fossi l'Italia avrei la fastidiosa sensazione di essere trattata un po' come io trattavo la Libia, da parente povero e scemo a cui appaltare un bel campo profughi in riva al mare. Non è il caso di chiamare dal deserto: guardate che qui o si fa il Mediterraneo o si affonda tutti? A chi spetta, se non a noi? Tra dieci anni potremmo avere un Nordafrica civile, democratico, che scambia le sue enormi risorse energetiche in cambio di cibo (e l'Europa dovrebbe averne in sovrappiù); che per costruire infrastrutture assorbe manodopera da Europa e Africa Nera. Oppure potremmo avere la costa settentrionale del Sahel, il porto della disperazione, un'enorme Somalia piagata da lotte tribali o religiose e appaltata a bande di pirati. Democratici di sinistra, cinici di destra, o viceversa; leghisti, nazionalisti, cattolici, lo chiedo a tutti: cosa ci conviene avere, in quello spiazzo poco lontano da casa nostra? Può darsi che le sorti dell'Antartide e di Haiti non dipendano da noi, ma possiamo davvero lasciare che un pazzo massacri i nostri vicini di casa? Scusate, io d'impostazione sarei un pacifista, ma non posso evitare di pormi la questione: se le forze armate non mi servono a intervenire in situazioni di questo genere, per cosa mi servono? E quindi, insomma, per cosa le pago?

Se invece siete di quelli che avevano buoni motivi per la guerra in Afganistan o in Iraq, allora vi prego, moltiplicate quei buoni motivi per cento, per mille. Gheddafi possiede armi di distruzione: Gheddafi le sta usando, ora.

Se poi i libici si libereranno da soli, tanto meglio per loro: ma con che faccia tratteremo coi loro nuovi capi? E se l'assassino invece dovesse vincere, se dovesse trionfare su un deserto di fosse comuni, andremo a stringergli le mani al prossimo summit? Sul serio è ancora realpolitik, ma cosa c'è di realistico nell'idea che un incendio nello spiazzo dietro casa si spenga facendo finta di niente?
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Il Tempo e la Fanciulla

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Professore, lei lo sa

“Ah, Emma...”
“Sì, prof.”.
“Volevo dirti che non ho mai avuto la tua versione”.
“Massì prof glielavevodata”.
“No, Emma. Mi hai dato la tua versione della versione di Martinelli, con gli stessi errori precisi che ha fatto lui”.
“Uffa prof...”
“E i cuoricini al posto dei puntini sulle i, che come tentativo di personalizzare quella schifezza di versione di Martinelli, capisci, non è abbastanza”.
“Prof, deve capire che è un brutto periodo per me”.
“No, no, l'anno scorso era un brutto periodo. Poi verso marzo avevamo deciso che era finito il brutto periodo, ti ricordi?”
“Vagamente”.
“Il preside aveva convocato i tuoi genitori, la tua povera madre si era messa a piangere, aveva detto che non sapeva più cosa fare con te, allora ti eri messa a piangere tu, il preside si era messo a consolarti, poi si era messo a piangere anche lui...”
“Fu una cosa molto emozionante, prof”.
“Fu la più grossa pagliacciata a cui ho assistito in vita mia, Emma, detta da uno che da bambino al circo ci andava volentieri. E allora adesso ti chiedo: quest'anno prevedi le repliche?”
“Prof, insomma, cosa pretende da me? Il latino? Una cosa che tra cinque mesi comunque non c'entrerà più con la mia vita? Devo davvero perdere il mio tempo con quella roba? Si metta un po' nei tuoi panni”.
“Nei tuoi panni, Emma, ed è un argomento che avrei preferito non toccare, nei tuoi panni tu stessa fatichi un po' a starci, ultimamente”.
“Epprof...”
“Tanto più che la mini non va neanche più di moda”.
“Che c'entra, io non seguo la moda”.
“Come no”.
“Io sono classica”.
“Emma, ma ci credi se ti dico che sono preoccupato per te? Seriamente preoccupato”
“E non dovrebbe, prof”.
“E invece mi preoccupo”.
“Ma se le dico che non dovrebbe”.
“Che il discorso del latino io lo potrei anche capire, se me lo venisse a fare una ragazza seria, responsabile, una che arrivasse qui e mi dicesse: professore, ho capito qual è la mia strada, e il latino proprio non c'è, per cui ho deciso di concentrarmi su altre cose, eccetera, ecco, un discorso così io lo capirei”.
“Bene, prof, allora facciamo che quella ragazza lì sono io”.
“Mi stai dicendo che hai deciso cosa farai l'anno prossimo?”
“Ci sto pensando”.
“È da sei mesi che ci stai pensando”.
“È che ci devo pensare bene”.
“Ma ci sarà qualcosa nella vita che ti piace fare”.
“Eccerto che c'è”.
“Ed è...”
“Ma se glielo dico lei poi si arrabbia”.
“Emma io non mi sto arrabbiando. Mi sto preoccupando, che in un certo senso è peggio”.
“Uff, e va bene. Vorrei cantare”.
“Cantare”.
“Perché sono brava, si ricorda in gita? E me lo dicono tutti. Anche mio padre, pensi”.
“Va bene, cantare, ma in che senso, scusa, cantare”.
“Nel senso che mi piacerebbe farlo nella vita”.
“Di mestiere, intendi?”
“Ma sì, anche”.
“E hai pensato di prendere lezioni? Perché per il conservatorio è tardi, direi”.
“Il conservatorio? Ho fatto qualcosa di male? No, io per adesso ho questi amici miei, con un complesso, ma non è proprio la musica che fa per me, io appena trovo qualcuno che capisce mi metto da sola...”
“Perché la musica che piace a te, sarebbe...”
“La musica italiana”.
“Un classico”.
“Gliel'ho detto che sono classica, io”.
“Mi sembra tutto ancora molto vago. Sarò franco, Emma, mi sembrano davvero i classici sogni di una ragazzina”.
“Ma a volte i sogni si avverano”.
“Sì, però non è che si avverano a furia di sognarli, ci vuole applicazione, studio... e anche fortuna, naturalmente. Insomma, se ci pensi bene, mettersi a cantare dopo il liceo... significa cominciare una strada senza sapere dove ti porterà... per quanto ti potranno sostenere ancora i tuoi, ci hai pensato?”
“Beh, magari per i miei all'inizio è un sacrificio, ma poi se le cose vanno bene...”
“E se non andranno bene?”
“E vabbe', prof, se uno ragiona così, non si lancia mai”.
“Che verbo curioso che hai usato, lanciarsi”.
“Lei non ci crede proprio in me, eh? Pensa che cascherò male”.
“Sono preoccupato, Emma, tutto qui. Mi sei sempre sembrata una ragazza sveglia, originale, eppure... a quattro mesi dalla maturità me ne esci con la cosa più banale di tutte: che vuoi cantare, che hai un sogno, che poi magari cosa c'è in questo sogno, dimmi: pensi che inciderai dei dischi? avrai successo? Vincerai Sanremo?”
“Sanremo è da vecchi”.
“Ma sei sicura che anche questo famoso sogno, Emma, non sia in qualche modo un rifugio, un posto dove nascondersi quando vedi che i nodi si avvicinano al pettine... non ti chiedo di smettere di sognare, ma almeno sogna un po' più a breve termine, prova a sognare quello che ti succederà tra sei mesi, un anno, due: dove ti vedi?”
“Beh pensavo che potrei prendere una laurea breve in psicologia, come si chiama...”
“Psicologia?”
“Quella per insegnare ai bambini...”
“Pedagogia”.
“Perché mi piacciono i bambini”.
“Vuoi lavorare coi bambini? Maestra d'infanzia?”
“Massì, comunque se non riesco a cantare da professionista, al massimo farò quello”.
“Suona un po' come un ripiego, no?”
“In che senso?”
“Insomma, in concreto cosa farai? Di giorno studierai per diventare maestra e di sera canterai? Pensi che potrà funzionare?”
“E perché no”.
“Perché sono due vite in una sola, Emma, e per ora non mi sembri capace di mandarne avanti nemmeno una. Ma prima o poi dovrai scegliere, capisci?”
“E in quel momento sceglierò”.
“Forse mi sono spiegato male. Non sarà “un momento”. Saranno infiniti momenti, in cui tu dovrai scegliere se insistere in un sogno che diventa sempre più difficile, più rischioso, oppure prendere la strada più semplice, magari diventare maestra d'asilo, per scoprire che però anche la strada più semplice è faticosa, che lavorare coi bambini è sfibrante, si torna a casa con la voce roca e la schiena a pezzi, e a quel punto scoprirai che il lavoro si mette di traverso al tuo sogno...”
“E allora mi licenzierò”.
“Ma forse non ci riuscirai più, perché nel frattempo magari avrai conosciuto un ragazzo e avrai messo su casa, e avrai bisogno di soldi, o anche semplicemente di un lavoro che dimostri al mondo che tu non sei una persona inutile, un'acchiappanuvole che continua a inseguire i sogni fuori tempo massimo...”
“Un'acchiappache?”
“Quel che ti sto cercando di dire è che... se tu davvero tu ci credessi, nel tuo 'sogno', se davvero pensassi che cantare fosse la tua vita, non ti lasceresti nessun ponte alle spalle. Invece tu hai già pronto un piano B, lavorerai coi bambini e nei ritagli di tempo sfonderai come cantante. Ma non va mai a finire così. Nessuno è mai diventato un divo nel dopolavoro. È una cosa che non succede, semplicemente”.
“E quindi cosa dovrei fare?”
“Guardare davvero in fondo alle tue motivazioni. Ci credi sul serio, al tuo futuro di cantante? o è solo un trucco con cui inganni te stessa mentre il tempo passa? Se ci credi sul serio sono il primo a dirti: buttati, fottiti del latino, della maturità, di quel che pensano genitori e professori, torna qui con un disco d'oro o non tornare. Ma ci credi davvero?”
“Non lo so”.
“E forse questa è già una risposta”.
“Si è fatto tardi, professore, devo andare”.
“Anch'io. Arrivederci, Emma”.
“Arrivederci, professor Vecchioni”.

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Barbie e Cleopatra

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Insomma, è successo: mentre l'Africa sanguina, io ho scritto un pezzo su Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis. Però leggetelo, è davvero bellissimo, come direbbe lui.
Barbie Ballerina contro Cleopatra a Sanremo è on line sull'Unita.it, e si commenta... su Facebook, come tutti i pezzi sull'Unita.it d'ora in poi. Tanto un account su FB ce l'avete ormai tutti quanti, no? Insomma, probabilmente è la soluzione più snella. Per stavolta comunque tengo aperti anche i commenti qui sotto, vediamo come va.

Una volta era davvero tutto più semplice. Per rappresentare le donne a Sanremo bastava la par condicio tricotica: la Bionda e la Mora. La coppia di vallette di quest'anno è stata scelta con una simbologia ben più raffinata, anche se probabilmente inconscia. Così, al primo sguardo, avremmo potuto dire: la Straniera e l'Italiana. In realtà il confronto è più complesso, stratificato: Belen Rodriguez è l'argentina che trova l'America in Italia; Elisabetta Canalis, la soubrette che dall'Italia si proietta verso Hollywood. Cominciamo quindi col registrare la minore benevolenza del pubblico nei confronti della compatriota che spicca il volo, rispetto all'aliena che atterra: quasi che le regole del desiderio e dell'invidia (i due sentimenti che ci hanno tenuto davanti al video a guardarle) seguissero leggi speculari a quelle del buon senso quotidiano, che ci portano ad aver paura degli immigrati e a esortare figli e amici a viaggiare, a trovare la propria strada anche fuori dal Paese. E invece siamo così grati all'extracomunitaria Belen di essere scesa tra noi, e così invidiosi che la Canalis abbia fatto il salto...

Se un giorno qualche studioso vorrà sintetizzare la condizione della donna nella società dello spettacolo in Italia a cavallo dei due millenni, probabilmente isolerà il caso di Elisabetta Canalis, anche solo per l'esemplarità del suo cursus honorum: proprio mentre la “velina che sta col calciatore” diventava un luogo comune delle conversazioni anni Novanta, Elisabetta Canalis ballava gli stacchetti di Striscia la Notizia e si fidanzava con Bobo Vieri. Il Sogno Italiano Standard, di milioni di fanciulle cresciute negli ultimi quindici anni, si realizza in lei, e al termine del sogno c'è il matrimonio con l'uomo-più-sexy-del-mondo. Tutto perfetto, salvo un orribile dettaglio: nulla è credibile. Sì, ormai ci siamo rassegnati e rassegnate: la Canalis sta davvero con George Clooney. Ma resta poco credibile lo stesso: sembrano fuori fuoco anche nelle foto di passerella, come se intorno a loro una bolla di sapone attendesse di scoppiare da un momento all'altro: tanto che quando Silvio Berlusconi consigliò a Ruby di spararle grosse, la panzana più enorme che venne in mente alla giovane incallita mentitrice fu proprio evocare l'incredibile coppia del lago di Como: cosa c'è di meno probabile di una cena a cinque con Silvio, la Santanché, George ed Elisabetta?

Insomma, non ci crediamo. Non perché non sia vero, ma perché non vogliamo crederci. Se Elisabetta è l'una su mille che ce l'ha fatta, noi siamo i 999 che tiferemo fino alla fine contro di lei, continuando a scommettere che la bolla scoppi presto, a gioire per gli infortuni di percorso. Anche a Sanremo, non ci bastava che presentasse le canzoni e sorridesse, come qualsiasi altra valletta professionale. No, lei era convocata per un esame: doveva dimostrare alla commissione del popolo italiano che aveva maturato una buona conoscenza della lingua inglese. Senza la quale, è sottointeso, resta una legnosa Barbie Ballerina che mai George potrà amare veramente. Elisabetta è l'Italia che si crede - chissà poi perché - migliore di noi, e quindi dev'essere umiliata, punita, messa di fronte all'inconsistenza delle proprie pretese: se ne devono mostrare in eurovisione tutti i difetti: solo allora spegneremo il telecomando, sazi e rassicurati nella nostra mediocrità.

Dall'altra parte c'è Belen Rodriguez: la donna straniera, che viene da lontano, a cui non si chiede che di essere quello che è: e quindi ballerà il tango, suonerà la chitarra perché lo ha imparato in famiglia; sarà docile e si farà abbracciare e rimirare da tutti. Sarà anche per il bombardamento televisivo degli ultimi mesi, ma è oggettivamente difficile anche per un telespettatore distratto come me vedere la Rodriguez e non pensare alle decine di sudamericane e nordafricane che negli ultimi mesi sembrano aver soppiantato, nel cuore del premier, le donne italiane. È solo una libera associazione del nostro inconscio, che non è mai innocente; in realtà Belen non fa parte di quel mondo, se non per una curiosa proprietà transitiva: ha legato il suo destino a quello di Fabrizio Corona, che lo aveva legato a quello di Lele Mora, che lo ha impigliato a Silvio Berlusconi. Sia come sia, scendendo sul palco dell'Ariston Belen finisce per rappresentare il supremo trofeo: e l'ombra che proietta sulla platea allude forse alla decadenza di una civiltà. Si sa che abbiamo puntato tutto sulla famiglia, noi italiani: altrove si aiutavano i figli a uscire di casa il prima possibile, noi abbiamo preferito mantenere sontuose pensioni ai genitori. In realtà lo spaghetti-welfare per un po' ha funzionato: bastava che i figli avessero un po' di pazienza e avrebbero ereditato le sostanze dei padri. La sabbia nelle macine del sistema l'hanno messa queste conquistatrici straniere bellissime e disponibili a prezzi modici, leste a intercettare i risparmi del nonno e a farsi intestare i beni che avrebbero dovuto spettare al nipotino.

Così, forse abbiamo tollerato che Berlusconi ci derubasse del nostro futuro, finché era implicito che prima o poi lo avrebbe reso ai nostri nipoti. Quello che forse non potremo perdonargli è che lo stia devolvendo alle straniere, buttandolo via: ora persino chi fino al Noemigate sosteneva di non voler fare il moralista, si domanda se non sia il caso di interdire il nonnetto che fa il bunga bunga con presunte nipoti di leader extracomunitari. Il personaggio Belen incarna tutto questo: è la Cleopatra che sedusse Cesare e travolse Marco Antonio, a cui il prossimo imperatore dovrà mostrare di saper resistere. Ma non se ne vedono, all'orizzonte. Solo una generazione di barbie ballerine, cresciute nel sogno cantare, recitare, sfondare, fidanzarsi con un VIP; mentre i loro coetanei su internet cercano la loro cleopatra, docile e sorridente, a un prezzo sostenibile. http://leonardo.blogspot.com
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Frustami un po' più a destra

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Professor Ricolfi, buongiorno. Sono la Sinistra italiana. Di solito sono un concetto astratto, ma a volte mi impossesso del corpo di un blogger a caso. Volevo ringraziarla per le sue critiche di martedì scorso, ne avevo davvero bisogno. Io amo molto le critiche, come lei ben sa, e questa settimana rischiavo di andare in bianco.

In effetti è stata una settimana strana. Domenica c'è stata la manifestazione delle donne, un successo insperato, che ha reso immaginabile lo strano asse Vendola-Bindi: finalmente un ticket interessante per le primarie di coalizione, che prima o poi si faranno (nel frattempo è uscito allo scoperto anche Renzi, una faccia relativamente nuova, con idee discutibili ma stimolanti). Lunedì sono usciti dei sondaggi che mi davano vincente anche senza Fini sul groppone, roba seria, eh? Mannheimer, dico, era da parecchio che non succedeva. So benissimo anch'io che non è proprio merito mio: Berlusconi continua a friggere nel bunga-bunga, i suoi sostenitori perdono tempo in bizantinismi giudiziari e non riescono più a comunicare niente di realmente interessante ai loro elettori. Fini è spompato, non regge il pressing parlamentare; anche i leghisti hanno i loro problemi col federalismo promesso che non c'è, i respingimenti promessi che non ci sono, insomma a me basta poco per fare bella figura. Se poi è anche la settimana di Sanremo, e invitano Benigni... beh, per le mie quotazioni è tutto grasso che cola. Cosa chiedere di più? Ferrara che fa il coglione? Magari qualche leak in cui Berlusconi viene ridicolizzato da un ambasciatore americano? Insomma, caro Ricolfi, è stata una settimana troppo buona per me. Primavera in anticipo. Per fortuna che c'era il suo editoriale a riportarmi a terra, a ricordarmi le mie precise responsabilità nel disastro del Paese.

Perché sì, a volte rischio di dimenticarmelo, che è tutta colpa mia. Berlusconi, per esempio: al potere ce l'ho mandato io. Con la mia supponenza. Con la pretesa, sempre quell'odiosa pretesa, di rappresentare il meglio del Paese, quella che mi ha inimicato non il peggio, ma il grosso degli italiani. È vero, professore, è proprio vero, è tutta colpa mia, e anche se i sondaggi per una volta me la danno buona, questa non è una scusa per interrompere la mia abituale autoflagellazione. Così, a ripensarci, le iniziative di Renzi e Vendola non sono che la dimostrazione che la sinistra è litigiosa e non riesce a trovare un vero leader (la Bindi infatti si è smarcata subito). E i diplomatici che stroncano Berlusconi hanno qualche severa parola anche per gli ulivisti incapaci che lo hanno lasciato vincere. Insomma, mea culpa, mea maxima culpa...

Mi stavo dunque cospargendo di cenere come di consueto, quando gli occhi mi sono scivolati su una notizia interessante: ha presente, professore, gli allevatori (quasi tutti leghisti) che da anni mentono sulle quote latte e dovrebbero pagare un'euromulta? Ecco, il governo gli ha concesso un'altra proroga di sei mesi. I soldi intanto li mette il governo che, a quanto pare, li attingerà da un fondo stanziato anche per "l'assistenza e la cura dei malati oncologici". Fa un po' impressione, no? I soldi delle cure oncologiche per le quote latte. Ora, senz'altro anche in questo caso si può trovare un modo di dare la colpa a me, ma come? Probabilmente con la mia tradizionale snobberia non sono riuscito a convincere gli allevatori disonesti a scegliere me: non ho offerto loro nessuna scappatoia, magari la mia pretesa superiorità morale mi ha impedito di fottere qualche denaro pubblico all'erario per loro, sottraendoli a vedove od orfanelli. Mea culpa, mea maxima culpa... Però, prof. Ricolfi, lei ammetterà che in questo caso almeno un po' di colpa ce l'hanno anche i leghisti? Voglio pensare che sì.

E allora mi spieghi questa cosa: perché non leggo mai, sulla Stampa, o sul Corriere, sul Sole un editoriale come il suo, ma rivolto ai leghisti, o ai berlusconiani? Un pezzo che ricordi le loro responsabilità morali, prima che giudiziarie, il loro essersi adagiati sulle peggiori abitudini del Paese, il populismo, il qualunquismo, il clientelismo...

Caro Ricolfi, ho una teoria. Lei un pezzo così non lo scrive perché sa che non servirebbe a niente. Criticare la Destra è perfettamente inutile: ci sguazza, la Destra, nelle critiche degli opinionisti. Chiunque sollevi una benché minima obiezione si ritroverà iscritto nel registro dei radicalchic, a che pro? Così alla fine se continuate a criticare soltanto me, non è per parzialità, ma perché sono l'unica che vi ascolta, l'unica che vi dà retta. Perché alla fine, caro Ricolfi, i primi a credere nella superiorità della sinistra siete proprio voi, che alla sinistra continuate a rivolgere le vostre critiche, mentre alla destra cosa vuoi mai, alla destra è inutile parlare, ormai ci parla solo chi è a libro paga.

Ma chissà se è poi vero. Chissà se a destra sono così sordi alle critiche. Chissà se non lo sono anche un po' diventati col tempo, a furia di non riceverne mai da quelli da cui avrebbero potuto anche ascoltarle. Pensi a Berlusconi, a come si è ridotto. Non è anche responsabilità di chi poteva rimproverarlo al momento giusto e non lo ha fatto? Perché in fondo era più comodo, più gratificante, più vantaggioso prendersela con me? Forse sì. Ma a questo punto so cosa obietterà: non è stata colpa vostra, sono stato io a dare troppa corda a voi critici, a ringraziarvi troppo, a intrappolarmi in un autoerotico autodafé. E quindi cosa dovrei fare? Fottermi delle vostre critiche e mandarvi, magari, virilmente a fare in c... ma non è il mio stile, dai, non sarei credibile. Sono la sinistra. Sono lamentosa e compassionevole - no, diciamo la verità. Sono masochista, sono cresciuta mentre crollava il Muro di Berlino, e quel trauma me lo porto dentro, così ho bisogno delle vostre frustate settimanali.

Caro Ricolfi, conosce quella barzelletta del sadico e del masochista? Sono amanti. Il secondo dice al primo: "Fammi male". Il primo gli risponde: "No!" Il secondo gode. Forse, caro Ricolfi, sono pronta per quell'ultimo, supremo piacere. Chiuderò gli occhi e voi sparirete: li riaprirò e sarò sola, senza più flagelli e frustini, senza peccati originali da scontare, con qualche responsabilità per tutto il casino che è successo, tanto lavoro da fare, tanto Paese da provare a rimettere in piedi. Non sarà facile. Ma prima o poi deve succedere. Questo nostro giochino morboso non è più divertente da un pezzo.
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Mors vestra

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Col volto umano

“Signore, quelli bussano”.
“E che vogliono?”
“Le solite cose, ma stavolta...”
“Stavolta?”
“C'è un'aria diversa in giro, insomma, io non vorrei che succedesse un disastro...”
“È già successo”.
“Sì, ma dal punto di vista umanitario, insomma...”
“No”.
“Come dice, signore?”
“Sto rispondendo alla domanda che non hai il coraggio di farmi”.
“Prego?”
“Tu dovresti chiedermi: Signore, li aiutiamo? Apriamo i cancelli? Stanziamo quel che c'è da stanziare? Ma non hai il coraggio, perché conosci benissimo la risposta, e sai che è una risposta criminale, e hai paura che anche solo pormi la domanda ti renda in qualche modo complice. Ma io non ho bisogno di complici e non ho vergogna a risponderti: mi prendo tutta la responsabilità e ti dico: no. Non li aiutiamo. Non stavolta”.
“Con tutto il rispetto... questo non sarà il solito naufragio di gommoni”.
“No, probabilmente no”.
“Parliamo di una carestia. Forse milioni di morti. In generale la Storia non è generosa con chi lascia morire milioni di persone”.
“Fammi pensare. Cina 1960, Grande Balzo in avanti, carestia, dai venti ai quaranta milioni. Hanno tolto i quadri di Mao alle pareti?”
“Non ancora, no”.
“Del resto non è che mi interessi più di tanto del parere dei posteri, eh. Mi biasimeranno, diranno cose terribili su di me, con la loro ciotola piena. Hai mai letto Malthus, tu?”
“No, confesso di no”.
“È passato di moda un po' troppo presto. Insomma, questi hanno fame e vorrebbero entrare. Non gli basta mandare a casa qualche governante corrotto? Eppure sono belle le rivoluzioni, no?”
“Non danno il pane”
“Al massimo i rincari ti spingono a eliminare qualche sacca di corruzione. Ma non basta, la fame è più potente. La fame ti compra il biglietto per il gommone. Comunque stavolta no. Sparino pure ai gommoni, me ne prendo la responsabilità”.
“...”
“E non guardarmi con quegli occhi, son cose che capitano. Un giorno faranno un film su gente come me e come te. Te ti faranno dimesso e lagnoso, consapevole dei crimini che commetti, ma incapace di disobbedire gli ordini. A me invece regaleranno una faccia da matto fanatico. Ti sembro un matto fanatico?”
“No, signore, assolutamente”.
“Probabilmente ti sbagli, la storia la fanno i vincitori quando cominciano a sentirsi in colpa. Io sono il matto che preferisce salvare una sola scialuppa invece di aiutarne un'altra col rischio che affondino entrambe. Mi daranno del razzista. Pensi che io sia razzista? Che se fossero biondi e pallidi magari li aiuterei?”
“Se posso permettermi...”
“Certo che puoi”.
“Se le politiche si giudicano dai risultati, quello che stiamo per fare sarà interpretato da molti come razzismo”.
“Senz'altro, ed è il motivo per cui negli ultimi quarant'anni ne abbiamo fatti entrare un po' di tutti i colori, e adesso abbiamo elettori che si chiamano Mohammed e Chen, e saranno loro, capisci, saranno loro a votare per noi quando gli diremo che non possiamo aprire i cancelli a tutti i meridionali del mondo. Perché loro lo hanno sempre saputo: Malthus ce l'hanno nel sangue, loro. Sono quelli che si sono messi in moto per primi. Selezione naturale. E nessuno potrà darci del razzista, se applichiamo un banale principio di sopravvivenza. Tutte le specie viventi, i branchi e le comunità cercano di sopravvivere difendendo il loro territorio, e noi possiamo fingere di non essere un branco, possiamo affettare una cosiddetta 'cultura', ma quando i prezzi dei cereali salgono mostriamo i denti, come qualsiasi altro mammifero stanziale. Non c'è posto per tutti qui da noi. Semplicemente non c'è. Ce n'era un po', e chi è arrivato prima se l'è preso. E ora non ce n'è più”.
“Signore, posso essere franco?”
“Spara”.
“Questo è semplicemente fascismo. Fascismo dal volto umano, ma...”
“Preferiresti il volto disumano? Perché a questo punto il problema si pone in questi termini. Non credete a noi, che vi sbarriamo le porte con gentilezza? Aspettate qualche anno, e poi al nostro posto ci sarà un matto vero, un visionario che ha letto il mein kampf o altre stronzate, uno di quelli che con la scusa del revisionismo ogni tanto va a Bergen Belsen a controllare le cubature perché, dopotutto, il Novecento ci ha mostrato che qualche sistema rapido per far spazio, con un po' di impegno e fantasia...”
“Quindi, insomma, alla delegazione che gli dico?”
“Me lo hai già chiesto. Ti ho già risposto. No. Stavolta Non ci muoveremo. Diglielo. Conoscono il latino?”
“Dovrebbero”.
“Allora digli così: Mors vestra, vita nostra. Niente di personale”.
“E se si mettono a piangere?”
“Piangere? una delegazione diplomatica?”
“Signore, lo sa... in fin dei conti sono italiani”.
“E tu lasciali piangere, ne hanno il diritto”.

Secondo Roberto Maroni è “impensabile” che, di fronte a quella che definisce “emergenza umanitaria” di Lampedusa, “le istituzioni europee stiano solo a guardare”.
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Non disperdiamoci

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L'imboscato
- Una volta questo blog era, non lo dico per vanteria (anzi un po' me ne vergogno) il più manifestaiolo di tutti; poi è successo qualcosa, in modo anche abbastanza brusco: non so se ci avete fatto caso, ma ai cortei non ci vado più. A volte ci invito gli altri, ma poi non ci vado lo stesso. A volte faccio il tifo. A volte faccio finta di niente.

A questo punto però ci tengo a mettere agli atti che se non scendo più in piazza non è per disillusione, non è per divergenze sulla piattaforma programmatica, non è perché mi si nota di più. No, vorrei che fosse chiaro che le cose sono molto più semplici: ho messo pancia, ho messo famiglia, ho una pila di roba da correggere alta così, insomma banalmente invecchio.

Queste scuse non richieste non interessano probabilmente nessuno, e nemmeno le avrei scritte, se non avessi letto in questi giorni su diversi blog affini a questo una certa insofferenza per le adunate di piazza. Per esempio Bordone che fa i distinguo con le femministe (poi però in piazza ci va e si diverte), Costa che fa ironia, Adinolfi che fa due calcoli e scrive: andare in piazza è una stronzata. Ecco, per me no. Andare in piazza non è quasi mai una stronzata. Sono contento che qualcuno abbia più energia di me e ci vada. Lo ritengo tutto sommato necessario. In particolare, sono contento che la manifestazione delle donne sia venuta così bene. Io mi sono tenuto a distanza, ultimamente ho qualche difficoltà a capire e a farmi capire da diverse donne, però credo che abbiano ragioni da vendere, pardon, da regalare (insomma le ragioni sono vostre, gestitevele voi); essere donne in Italia è difficile, oggettivamente.

C'è da dire che abbiamo un tempismo fantastico, noi blogger italiani d'opinione: mentre in medio oriente le piazze fanno tremare i tiranni, noi ci domandiamo se la piazza sia opportuna, se la piazza non abbia controindicazioni, se la piazza non sia moralista, presbiteriana, eccetera. Per me l'unico vero difetto delle piazze italiane è che non si riempiono abbastanza: probabilmente tante volte non siamo riusciti a concludere qualcosa non perché andavamo troppo in piazza, ma perché ci siamo rimasti troppo poco. E comunque è opinabile anche questo. Io in dieci anni tutte queste manifestazioni inutili, per nobili cause senza speranze, non me le ricordo. Ho manifestato per chiedere luce sui fatti di Genova, e un po' di luce c'è stata. Ho manifestato contro l'abolizione dell'articolo 18, e l'articolo è rimasto (ok, la cosa era un po' più complessa). Ho manifestato contro la guerra in Iraq; Romano Prodi ha vinto le elezioni e il contingente italiano ha lasciato l'Iraq. Potevamo ottenere qualcosa di più? Senz'altro, ma tutte le volte che siamo stati davvero tanti, che abbiamo forato in tv e sui giornali, qualcosa a casa lo abbiamo portato. Magari è solo una coincidenza, ma all'indomani della manifestazione delle donne i sondaggi hanno dato Berlusconi in calo verticale (alla salute di tutti quelli che pensavano che il caso bunga-bunga non lo avrebbe danneggiato, quelli che conoscono gli italiani e hanno il polso del Paese). Certo, non è una cosa automatica. Non è che se manifesti un paio di giorni la Gelmini ritira la riforma universitaria o Berlusconi si dimette. Però lo abbiamo fiaccato, Berlusconi... pardon, lo avete fiaccato, io stavo a casa e scrivevo sul blog.

Ecco, ho anche questa cosa da dire a mia discolpa. Ho un blog. Una serie di fortunate circostanze lo ha reso più letto di altri. In piazza non sono che un minchione tra tanti (un decimo di minchione per la questura), ma qui posso spiegarmi, posso far partire dei messaggi, insomma a un certo punto mi sono raccontato che il mio contributo alla causa potevo darlo da qui. Tanto più che non sono più quel bel giovane zazzeruto che nelle foto in mezzo agli striscioni veniva così bene. E allora come si spiega questo rimorso sottile.

Probabilmente è la consapevolezza che i nipotini non se la berranno. Nonno, insomma, mentre Berlusconi mandava tutto in vacca tu cosa facevi? Eri passato in clandestinità, almeno? No, non proprio, all'inizio andavo in piazza, ma poi le cose si fecero lunghe, misi pancia, misi famiglia... però continuavo a esprimermi su un sito che funzionava col protocollo http... sì, vabbe' nonno, ciao.

PS: se Berlusconi proprio non si vuole dimettere, io uno sciopero generale lo faccio volentieri. Un giorno, una settimana, quel che serve. Mi ha già rubato così tanti anni.
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E decidetevi!

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Noi a questo punto non è che pretendiamo molto.
Non è che vogliamo che ci tiriate fuori dalla crisi - ok, è una crisi più grande di voi e di noi, si è capito.
Non è che pretendiamo che sappiate con chi va a letto B. stanotte - al limite, via, se poteste selezionare le tipe all'ingresso, sequestrare i videotelefonini, ecco, sarebbe una cosa ragionevole da parte vostra. Però non è che si può pretendere, eh.
Insomma, non è che pretendiamo moltissimo. Giusto i fondamentali, per esempio: tra un mese c'è una festa nazionale o no? Ce la fate a dircelo in settimana? Perché avremmo anche noi degli impegni, capite.
E sì, vabbe', capisco che è difficile, avevate soltanto... 150 anni di tempo per decidervi.


Il 17 marzo si fa festa o no? Chiediamocelo insieme sull'Unità, commentando qui.

Io non credo di avere particolari doti di leadership, e forse la maggior responsabilità che mi è toccata nella vita è stata gestire un piccolo gruppo scout di provincia, una cosa piuttosto alla buona, parecchi anni fa. Evidentemente non ero tagliato per farlo, eppure ricordo bene una cosa: persino nella nostra totale improvvisazione di ventenni, eravamo perfettamente in grado di offrire ai genitori dei nostri ragazzi il calendario delle attività e delle uscite con due, tre mesi di anticipo. Insomma, era il minimo: se non sai organizzare un calendario, non puoi gestire non dico una nazione, non dico un'azienda, ma nemmeno un gruppo parrocchiale.

Per questo motivo vorrei qui mettere tra parentesi tutta la questione della celebrazione risorgimentale e formulare una semplice, retorica domanda: considerato che oggi è il 14 febbraio (auguri a tutti i fidanzati, compresa la misteriosa ragazza di Silvio), è possibile che operai, funzionari, studenti, insegnanti, non sappiano ancora se tra un mese c'è una festa nazionale o no? Non siamo tutti opinionisti affascinati dal dibattito sulla necessità del centocinquantenario: siamo perlopiù persone normali; svolgiamo comunissime occupazioni, abbiamo scadenze da rispettare e alcune addirittura oltrepassano il fatidico 17 marzo: un giorno o un ponte tra un mese potrebbero fare la differenza. A questo punto non vogliamo necessariamente essere messi al corrente del parere di Bossi o della Marcegaglia o della Gelmini: vogliamo solo sapere se le scuole saranno chiuse o no; se gli uffici saranno chiusi o no; se quel giorno potremo andare in banca, o alle poste, se l'asilo di nostro figlio terrà aperto, perché insomma è di un giorno della nostra vita che si sta parlando; un giorno che in teoria ci appartiene, e non dovrebbe più dipendere dai capricci di un sovrano distratto e dei suoi litigiosi ciambellani.

Chi dice che un giorno di vacanza in più potrebbe avere funeste ripercussioni sul PILpotrebbe anche, in linea di massima, non avere tutti i torti. Certo, sarebbe bastata un'occhiata un po' più attenta al calendario per rendersi conto che quest'anno pasquetta cade il 25 aprile, e quindi di che vacanza in più stiamo parlando? Io sono tra i primi a ritenere che le feste primaverili siano un fattore di disordine (soprattutto le feste mobili); nel mio piccolo ho anche avanzato una proposta in merito. Avrei capito un serio invito a rimboccarmi le maniche: dopotutto siamo in crisi, anche se ci avete ripetuto per anni il contrario; non importa; ormai ci siamo e in qualche modo dovremo pure uscirne. Ma come si può lavorare serenamente senza avere davanti nemmeno il calendario degli impegni del mese prossimo? Cari leader leghisti, cari dirigenti di confindustria: pensate che l'incertezza di milioni di lavoratori non avrà essa pure qualche ripercussione sul PIL?

Quanto al governo, insomma: che razza di governo è, se l'uomo “del fare” non è nemmeno in grado di far rispettare un giorno di festa? Certo, qualche cosa può sfuggire anche al migliore statista, ma come si fa a farsi prendere alla sprovvista da una data che poteva essere prevista 150 anni fa? Come ammise lo stesso Gianni Letta in gennaio, alle celebrazioni del 17 marzo non saranno presenti capi di Stato stranieri semplicemente perché non c'è stato il tempo per invitarli. O doveva essere Sarkozy, doveva essere Angela Merkel a telefonare a Berlusconi sei mesi fa e chiedergli se facevamo qualcosa per il centocinquantenario della nascita della nostra nazione?

È un dettaglio tra tanti, d'accordo, e in questi mesi ce ne sono di più pittoreschi; però la leadership si misura anche da queste cose. Si poteva discutere sulla necessità di una festa una tantum: se ne poteva discutere anche per dieci, per venti mesi, in fondo il governo di centrodestra dal suo insediamento ha avuto tre anni per farlo. Ma a un certo punto si decide, e quel che si decide si fa. Punto. È semplicemente surreale che si continui a parlare di una cosa del genere a un mese di distanza. Se Berlusconi è momentaneamente distratto dalle sue vicende giudiziarie, i suoi uomini e le sue donne potrebbero fargli il favore di non contraddirsi a vicenda, di dare almeno l'impressione di un esecutivo compatto; perché non è poi una parola scelta a caso, “esecutivo”. Ma insomma non vi rendete conto di quanto risulti poco serio, poco autorevole, poco professionale, un governo che non sa ancora dirci cosa esattamente cosa faremo da qui a trenta giorni?

D'accordo, siete tutti parlamentari; ormai è da un anno che parlate di elezioni anticipate una settimana sì e l'altra pure. Probabilmente avete interiorizzato un senso di precarietà totale, probabilmente avete smesso da mesi di fare progetti più lunghi di due, o tre giorni. Alcuni di voi non sanno nemmeno in che gruppo parlamentare siederanno la settimana prossima. Che dirvi: il Paese, grazie al cielo, ha progetti a più lungo termine dei vostri. Anche chi quaggiù è precario, non lo è così tanto da ritenere il prossimo 17 marzo un traguardo remoto. No, probabilmente ha del lavoro da consegnare, un viaggio da fare, una riunione da organizzare. Non è per essere sgarbati, ma anche noi, senza essere capi di Stato, abbiamo un'agenda; se ci volete invitare a una festa, dovete farlo per tempo e con buona educazione. È il minimo per gestire non dico una nazione, non dico un un'azienda, ma anche solo un gruppo parrocchiale. Senza offese per le parrocchie, che a questo punto sono piene di gente pronta a governare il Paese (davvero, non potrebbero fare peggio di questi qui).http://leonardo.blogspot.com
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