Il Lodo Ligabue
11-07-2011, 20:07Emilia paranoica, Ligabue, racconti, ucroniePermalinkLe persone che non siamo diventate.
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
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Anche dieci anni, anche vent'anni
09-07-2011, 03:53Berlusconi, famiglie, intercettazioniPermalinkA leggere intercettazioni e fuori-onda dei notabili del centrodestra, all'inizio ti diverti: c'è il Ministro Caio che dà del cretino al Ministro Tizio, la ministra Sempronia che dà della vaiassa alla deputata Calpurnia... dopo un po' però ti viene lo stesso sospetto che ti socchiude le palpebre mentre guardi i reality, e cioè: non faranno anche un po' finta? Si danno dei cretini per risultare credibili, e in effetti dopo un po' uno gli crede. Però in fondo va bene così, tanto c'è gente che è in nomination da anni e non viene mai eliminata, e per un Bondi o un Fini che lasciano le scene c'è sempre pronto uno Scilipoti o uno Stradacquanio.
D'altro canto ti chiedi anche se si possa vivere in quel modo, senza potersi fidare di un amico, un collega, un complice; dovendo dare per scontato che tutti ti sparlino alle spalle. La Casa delle Libertà, una volta si chiamava così, sembra una di quelle famiglie dove il papà non deve neanche più dare le spalle per sentire che gli danno del rincoglionito, dove tutti si sorvegliano nei corridoi per evitare che il fratello tossico si venda il televisore, la sorella cominci a ricevere i clienti pure in camera. Uniti tutti solo dalla paura che frani il tetto che nessuno si umilia a riparare, e dalla paura che fa il mondo di fuori. E ti chiedi per quanto ancora può durare, una famiglia così, per quanto.
Poi pensi a famiglie che conosci, e ti rispondi.
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I venti viceré
07-07-2011, 10:35cattiva politica, Pd, provinciaPermalinkI provinciali.
Io credo che la scarsa convinzione con cui i parlamentari del PD affrontano il dibattito sull'abolizione delle province si possa facilmente spiegare con questa cartina. Parliamo di un partito che nella sua breve Storia non è mai arrivato al 30% nazionale, ma che occupa, soprattutto nel livello amministrativo intermedio, una quantità di territorio impressionante: poco meno della metà. Un turista bizzarro che volesse esplorare l'Italia transitando soltanto per le province governate dal PD potrebbe partire dalla Val di Susa e arrivare nell'Agro Romano; un analogo turista del PDL al massimo potrebbe fare un Ascoli-Salerno, non è la stessa cosa.
Ci vuole insomma un certo tasso di masochismo a essere del PD e a chiedere l'abolizione delle province (e infatti molti militanti del partito le chiedono). Il PD non è un movimento (pseudo)rivoluzionario che cavalca le proteste del momento; non è nemmeno il braccio politico di un miliardario che ha problemi con la giustizia; il PD è un partito di amministratori. Nel bene e nel male: nel primo caso (bene) si parla di buon governo, nel secondo (male) di clientelismo e corruzione, ma in sostanza un partito di amministratori si difende occupando le amministrazioni, a ogni livello. Se un livello viene a mancare, è difficile che facciano salti di gioia. Un signore come Pierluigi Bersani non ha nuovi miracoli italiani da offrire: l'unica cosa che può promettere agli italiani è di governare bene, così come ha governato bene una Comunità montana e una Regione. Il suo cursus honorum l'ha fatto lì: dove avrebbe dovuto farlo? In publitalia, in magistratura, doveva fare il comico o l'opinionista in tv? Le amministrazioni sono l'ambiente in cui l'apparato del PD si difende, in cui costruisce il suo consenso (quando amministra bene); chiedere allo stesso apparato di abolire l'istituzione secolare delle province è un po' come proporre al consorzio dei pesciolini rossi l'abolizione dell'acquario. Il fatto che alcuni pesciolini si dicano favorevoli, addirittura entusiasti, non depone a favore dell'intelligenza collettiva della specie, che (come ogni specie) dovrebbe per prima cosa tendere all'autoconservazione.
Quanto all'IdV, beh, è chiaro che ha altre priorità. L'IdV è un partitino d'assalto che, a parte qualche feudo locale, si gioca tutte le sue carte a Roma, dove può diventare ago della bilancia, in attesa che il piattino di centrodestra sobbalzi e travasi una fetta interessante dell'elettorato. Così, a Roma, l'IdV può anche esercitarsi nel gioco preferito della seconda Repubblica, “suggerisci una riforma costituzionale a caso”, in questo caso una proposta piccola piccola che eliminava la parola “province” da tutti gli articoli della Costituzione in cui compariva (avranno usato ctrl+f?) E i deputati del PD, vuoi per disciplina, vuoi per puro istinto di autoconservazione, non l'hanno votata. Apriti cielo. Il Partito è stato accusato, anche dai meno esagitati degli osservatori, di aver perso chissà quale occasione importante di realizzare un'abolizione delle province che addirittura comparirebbe nel programma del PD. Al punto che Bersani è stato costretto a dire che il PD le vuole abolire sul serio le province, che ha già una sua bozza pronta. È tutto abbastanza deprimente.
In realtà la bozza del PD non prevede la sbianchettatura della parola “province” dalla Costituzione: al massimo un iter per l'accorpamento di enti locali, per cui certe province potrebbero, se proprio volessero, autoabolirsi (sì, certo, come no). In realtà nel programma del 2008 il PD non chiedeva di abolire le province, se non quelle che dovevano trasformarsi in aree metropolitane. E qui bisognerebbe aprire una parentesi. Molti appassionati sostenitori dell'abolizione delle province non hanno la minima idea di cosa le province siano e facciano. Non per ignoranza, ma perché non abitano in una dimensione provinciale. Spesso stanno a Roma, o a Milano, o in altre città dove in effetti è difficile capire a cosa servano degli uffici provinciali che sono a tutti gli effetti dei doppioni di quelli comunali. Del resto già da tempo almeno Roma, Milano e Napoli sarebbero dovute diventare aree metropolitane.
Per contro, io che ho sempre abitato in una provincia, non faccio molta fatica a identificarla. Quando sento dire che in provincia fanno poco, la mia reazione d'istinto non è chiederne l'abolizione, ma un ulteriore sforzo di decentramento delle competenze regionali (o accentramento di quelle comunali). Fanno poco? Male, dovrebbero fare molto di più. Mentre ai comuni dovrebbe essere affidato tutto ciò che che rientra nella gestione dei centri abitati (che in Italia non sono quasi mai enormi conurbazioni) alle provincia dovrebbe competere tutto ciò che è gestione del territorio, dall'allocazione delle discariche alla cura dei corsi d'acqua (a proposito, abbiamo appena chiesto, con un referendum, che l'acqua potabile sia gestita dal pubblico: e poi vogliamo abolire l'ente pubblico?) Dove vanno costruiti gli ospedali? Le scuole secondarie? Dove devono passare le autolinee? Sono tutte decisioni che non possono essere prese a livello comunale, e di cui la regione – secondo me – non dovrebbe impicciarsi. Anzi, faccio un po' fatica a capire di cosa dovrebbe impicciarsi, la regione, in generale: pur vivendo a cinquanta minuti da Bologna, non riesco a capire cosa debba fare lei per me e io per lei, figurati se stessi a Fiorenzuola o a Comacchio. Insomma secondo gli allegri riformatori costituzionali dell'IdV, le decisioni sul mio pronto soccorso, o sul mio inceneritore, o sulle fermate della mia corriera, le dovrebbero prendere a Bologna i consiglieri eletti tra Piacenza e Rimini. Ora io non ho niente contro piacentini e riminesi, però non capisco cosa c'entrino col mio territorio, semplicemente. Per me la regione continua a essere un'astrazione, un accorpamento di territori eterogenei per fini statistici; ma mi rendo conto che il federalismo all'italiana va in una direzione diversa. Va, in sostanza, verso la creazione di venti vicereami indipendenti, retti da venti sovrani più o meno autonomi, tutti occupati a nascondere la spazzatura (centrali inquinanti e discariche) nella piega del tappeto più lontana alla propria capitale, più prossima al feudo del vicino.
Siccome eliminando la parola “province” dalla Costituzione non si eliminano i fiumi né le discariche, e gli ospedali restano dove stanno, sembra abbastanza chiaro che quella proposta dall'IdV non è l'abolizione delle province. Al massimo corrisponde alla loro trasformazione in enti esclusivamente burocratici, senza rappresentanti eletti. L'ufficio scolastico provinciale cambierebbe targhetta e diventerebbe la sezione provinciale dell'istituto scolastico regionale, ma in sostanza continuerebbe a fare le stesse cose. La cura delle strade intorno alla provincia di Ascoli Piceno continuerebbe a dipendere da un ufficio sito di Ascoli e da maestranze di Ascoli, che però dovrebbero aspettare ordini da Ancona. Continueremmo a pagare per una burocrazia provinciale, con l'unica differenza che non sarebbe più controllata da un rappresentante eletto dei cittadini a livello provinciale, ma solo a livello regionale: tutto dovrà passare dal viceré di Bologna, di Torino, di Milano, di Roma, di Napoli, che bel federalismo. Io preferisco chiamarlo accentramento regionale, che è più o meno quello che ha in mente la Lega (oddio, “mente”...) e che piace anche a qualche masoch del centrosinistra. Deve piacere anche a me?
In Europa è così? Le uniche nazioni con cui si possono fare paragoni seri, per dimensioni e popolazione, sono Francia e Germania. Ci sarebbe anche il Regno Unito, ma i suoi livelli amministrativi sono incomprensibili per me; comunque mi pare di capire che anche i sudditi britannici possano votare per enti locali di almeno tre livelli (correggetemi se sbaglio). Nella Germania federale i cittadini votano per comuni (Gemeinde), province (Landkreis) e Stati federali, tranne nelle Città-Stato (Amburgo, Berlino, Brema) che sono in pratica aree metropolitane, dove i Landkreis non ci sono. In Francia si votava per i comuni, i dipartimenti e le regioni, ma recentemente le elezioni regionali sono state soppresse: dal 2014 il consiglio regionale sarà composto da rappresentanti del dipartimento (l'unità territoriale più simile alla nostra provincia). Non si potrebbe fare una cosa del genere in Italia? Abbiamo realmente bisogno di eleggere direttamente i venti viceré con annessi cortigiani, non potremmo mandare ai consigli i delegati delle province (che così lavorerebbero un po' di più)? Eh, ma vuoi mettere quanto è più sexy promettere l'“abolizione delle province”?
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Tutti matti per B.B.
05-07-2011, 05:04Il G8 di Genova 2001, manifestaiolismiPermalinkLa definizione di Black Bloc
"E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato" (un pirla, 10 anni fa).
Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell'ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un'altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno 'violenti' in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l'impatto mediatico. L'idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.
Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l'infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto 'sta confusione di adesso.
In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all'inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un'altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po' incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.
In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c'è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un'altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po' come confondere PCI e Brigate Rosse; d'altro canto molta gente ormai lo fa.
Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull'argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.
Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c'entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l'indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va' a sapere.
Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l'unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c'è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c'è gente che su google si guarda bene dall'andarci.
"E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato" (un pirla, 10 anni fa).
Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell'ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un'altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno 'violenti' in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l'impatto mediatico. L'idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.
Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l'infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto 'sta confusione di adesso.
In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all'inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un'altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po' incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.
In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c'è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un'altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po' come confondere PCI e Brigate Rosse; d'altro canto molta gente ormai lo fa.
Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull'argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.
Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c'entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l'indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va' a sapere.
Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l'unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c'è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c'è gente che su google si guarda bene dall'andarci.
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What a room service
03-07-2011, 10:27Francia, ho una teoria, prostituzionePermalinkE quindi, chi lo avrebbe mai detto, ma in un albergo con suite a 3000 dollari a notte circolano inservienti compiacenti che potrebbero consentire a rapporti sessuali in cambio di mance adeguate, salvo poi denunciare il proprio utilizzatore finale e rovinargli la corsa all'Eliseo. In altre parole: DSK non ha fatto niente di male. Ma proprio niente? Cioè: lo vorreste alla Présidence della vostra République, un tizio così?
Io forse no.
Scusate, era un rigurgito di moralismo. Sull'Unita.it (H1t#81). Si commenta laggiù.
Al Sofitel di Times Square, per una cifra intorno ai tremila dollari, puoi passare una notte nella suite imperiale. È probabilmente possibile, con un piccolo sovrappiù, convincere una componente del personale di servizio a un rapporto orale, e magari anche a farsi strattonare un po', per una cifra probabilmente inferiore a quella che guadagna Strauss-Kahn in dieci minuti, e un'inserviente in un anno. È andata così?
Non lo sappiamo ancora, non è detto che lo sapremo mai: un conto è la verità processuale e un conto è quel che accade in una stanza, senza testimoni, tra una 32enne analfabeta venuta dalla Guinea e il direttore del Fondo Monetario Internazionale. Però non è così improbabile. E allora mettiamo da parte l'accusa di violenza, che forse non regge più. Ammettiamo anche che “Ophelia” abbia cercato, maldestramente, di ricattare l'uomo potente. Riconosciamo, con una certo stupore, l'ingenuità degli inquirenti newyorkesi, che pensavamo ben più professionali, ma forse abbiamo guardato troppi telefilm. Quel che ci resta è un mix amarognolo di moralismo e incredulità: sul serio DSK farebbe ancora in tempo a candidarsi all'Eliseo? Sul serio i francesi potrebbero pensare di votare un signore col passatempo di strattonare donne di servizio, ancorché consenzienti?
Io forse no.
Scusate, era un rigurgito di moralismo. Sull'Unita.it (H1t#81). Si commenta laggiù.
Al Sofitel di Times Square, per una cifra intorno ai tremila dollari, puoi passare una notte nella suite imperiale. È probabilmente possibile, con un piccolo sovrappiù, convincere una componente del personale di servizio a un rapporto orale, e magari anche a farsi strattonare un po', per una cifra probabilmente inferiore a quella che guadagna Strauss-Kahn in dieci minuti, e un'inserviente in un anno. È andata così?
Non lo sappiamo ancora, non è detto che lo sapremo mai: un conto è la verità processuale e un conto è quel che accade in una stanza, senza testimoni, tra una 32enne analfabeta venuta dalla Guinea e il direttore del Fondo Monetario Internazionale. Però non è così improbabile. E allora mettiamo da parte l'accusa di violenza, che forse non regge più. Ammettiamo anche che “Ophelia” abbia cercato, maldestramente, di ricattare l'uomo potente. Riconosciamo, con una certo stupore, l'ingenuità degli inquirenti newyorkesi, che pensavamo ben più professionali, ma forse abbiamo guardato troppi telefilm. Quel che ci resta è un mix amarognolo di moralismo e incredulità: sul serio DSK farebbe ancora in tempo a candidarsi all'Eliseo? Sul serio i francesi potrebbero pensare di votare un signore col passatempo di strattonare donne di servizio, ancorché consenzienti?
In fondo perché no, dopotutto ieri il neosegretario del PdL ha confermato che nel 2013 gli italiani avranno ancora la possibilità di votare l'uomo del bunga bunga. Sì, però l'Italia è la famosa repubblica delle banane che non dovrebbe fare testo. In Francia non risultano tg minzoliniani pronti a negare l'evidenza e a ritagliare un santino intorno a DSK. Ma forse manca pure quel moralismo bacchettone che mi pervade in questo momento, mentre penso che sì, forse il direttore del del FMI non ha fatto nulla di penalmente rilevante, forse è vittima di un complotto, ma non mi piacerebbe ugualmente essere governato da un uomo come lui. È un pregiudizio? Un uomo che confessa ai suoi collaboratori più stretti di temere macchinazioni nei suoi confronti, e poi nella suite di un albergo paga la prima sconosciuta che trova? L'uomo responsabile di decisioni su scala planetaria appare, come minimo, poco avveduto: incapace di mettere a freno pulsioni che alla sua età dovrebbe essersi lasciato alle spalle. Ma sono pur sempre pulsioni maschili, nelle quali riconosco (elevate alla massima potenza) le stesse mie, e in parte alla base della mia riprovazione morale potrebbe esserci semplicemente questo.
Se io trovo ancora osceno un mondo in cui un uomo ricco è libero di sbattersi un'inserviente per una cifra ridicola, è per un'antica educazione egalitaria o semplicemente perché il mio gradino sulla scala sociale è rimasto troppo vicino a quello dell'inserviente, troppo remoto da quello di DSK? In una parola: non è la mia semplice invidia? Sì, può darsi, tra l'altro è uno dei carburanti della società. È anche la misura della mia distanza da quei potenti che probabilmente non si rendono nemmeno conto della differenza tra sesso consensuale, prostituzione o stupro: visto dalle altezze dei loro superattici il confine morale che alcuni di noi inservienti mettono ancora intorno ai loro genitali deve sembrare uno steccatino ridicolo – come quel Berlusconi che qualche anno fa disse solennemente “non ho mai pagato una donna” e probabilmente era una frase sincera, da parte di un uomo che non va in giro col portafogli in tasca e probabilmente da trent'anni non ha mai nemmeno fisicamente pagato un caffè. Ecco, forse mi sbaglio anche su DSK, forse quella notte non era in preda a nessuna incontrollabile pulsione, forse dopo l'idromassaggio ha chiesto alla donna delle pulizie una fellatio o una sodomia con lo stesso riflesso stanco con cui io posso chiedere a un cameriere un caffè dopo la pizza. Dobbiamo fargliene una colpa? Non merita come Bill Clinton di essere giudicato non per le sue distrazioni occasionali, ma per quello che fa nel suo mestiere di banchiere mondiale, oggi, e magari tra un anno di presidente? E se il prezzo da pagare per avere un buon professionista in un ruolo di assoluta responsabilità è qualche inserviente coi graffi ogni tanto, non varrebbe comunque la pena?
Non lo so. Meglio così, visto che la decisione spetta ai francesi. Ho invidiato loro molti candidati in questi anni: Jospin, la Royal, perfino il vecchio Chirac mi pareva, con tutti i suoi processi sospesi, più rispettabile di qualsiasi rappresentante della destra italiana. Invece non invidio Dominique Strauss-Kahn, che forse ha soprattutto il torto di esibire ai riflettori quello che sapevamo già, ma preferivamo borbottare nei nostri cinici dopocena: in questo mondo libero i ricchi sono liberi di sbattersi i poveri, i poveri sono liberi di chiedere la mancia. Ma senza esagerare, senza tirare troppo la corda, come probabilmente ha fatto Ophelia.http://leonardo.blogspot.com
Al di là del Principio di Realtà
30-06-2011, 04:00Berlusconi, cattiva politicaPermalinkWo es war...
Appena un mese fa – me lo ricordo straordinariamente bene – Pisapia vinceva, al secondo assalto, la battaglia di Milano, che per vari motivi apparve subito più significativa di quella pur notevole di De Magistris a Napoli. Quel che è successo in questo mese, dai referendum al caso Bisignani al flop di Pontida, per finire con la finanziaria, non dà l'impressione di una ritirata strategica. Sbaglierò, ma ha tutta l'aria della trattativa di un armistizio. A volersi arrendere non è tanto Berlusconi (tutt'altro che lucido, in questa fase), quanto la classe dirigente che solo due anni fa sembrava dover regnare invincibile fino alla salita di Silvio al Quirinale e oltre. Bene, a un certo punto hanno mollato. Non hanno perso le elezioni, badate. Potrebbero persino rivincerle: hanno i mezzi e hanno i numeri. Ma, dopotutto, chi glielo fa fare? Non è che governare l'Italia in recessione sistemica sia questo grande affare. Probabilmente conviene succhiare il succhiabile e tornarsene all'opposizione, dove sarà più semplice rifarsi una verginità gridando a gran voce Padania libera, No all'Oppressione Fiscale o qualche altro slogan che verrà in mente al momento giusto.
Si dice che il vento sia cambiato. È poco più di un modo di dire. Gli italiani sono – purtroppo – gli stessi di un mese fa. Continuano ad aver paura degli zingari e dei neri che vengono a rubarci il lavoro: ad appassionarsi al delitto dell'estate e a blindarsi in autostrada nella fila centrale ai centoventi, insomma non sembrano cambiati. La stessa batosta delle amministrative e poi del quorum non è una novità: Berlusconi ci è già passato, per esempio nel 2005, e in quelle occasioni ha approfittato per prendere le misure ai suoi avversari e recuperare gli svantaggi accumulati. Stavolta è forse più stanco e più distratto, ma non è un problema soltanto suo. C'è tutto un blocco sociale che costituisce ancora la maggioranza di questo Paese, ma che non mostra più nessuna volontà di imporsi. Se si andasse a votare domani, molti degli elettori di questo blocco semplicemente si asterrebbero – e la loro astensione probabilmente sarebbe decisiva all'affermazione del centrosinistra. Altri pescherebbero un leader alternativo tra i tanti che Berlusconi è riuscito ad allontanare dai vertici quando ancora potevano contare qualcosa: Fini, Casini, perfino Di Pietro, nessuno sarebbe in grado di ereditare il berlusconismo com'è oggi (men che meno Montezemolo o Maroni). I più continuerebbero a votare Berlusconi: per inerzia.
Abbiamo parlato per anni di sinistra e di destra in Italia, ma per la verità è più o meno dalla discesa in campo del '94 che sarebbe più opportuno parlare di principio di realtà e principio del piacere. Chi vota Berlusconi o Bossi non è di destra in senso storico, o liberale, o perfino fascista: Lega e PdL si votano per la soddisfazione immediata che garantiscono, promettendo ogni volta di tagliare le tasse e ridisegnare fantomatici confini federali. Allo stesso modo, chi vota centrosinistra ormai ha ben poco di comunista o di socialdemocratico (anzi ha contribuito talvolta al varo di riforme di sapore liberale); di solito lo fa per un senso più o meno consapevole di responsabilità individuale o collettiva; per entrare in Europa, o restarci, per salvare il bilancio, il buon nome del Paese, eccetera eccetera. Il Centrodestra regala sogni, il centrosinistra interviene ogni cinque anni a salvare i conti. Da questo punto di vista non si tratta di due schieramenti contrapposti, quanto piuttosto complementari: se Berlusconi ha potuto folleggiare (ma gli italiani non è che abbiano folleggiato parecchio, nemmeno durante i suoi mandati), lo deve agli odiatissimi Amato, Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, che al momento giusto arrivavano a salvare i conti e a porre le basi per una nuova trionfale campagna anti-oppressione-fiscale.
A sancire questa alternanza arriva l'ultima finanziaria presentata da Tremonti in parlamento: una barzelletta triste che farebbe ridere se non parlasse di noi. Per sua voce il governo ha annunciato che con il ticket al pronto soccorso e altri tagli alle scuole riuscirà a raccattare due dei 47 miliardi di euro necessari – i restanti 45 li raccoglierà il prossimo esecutivo. Di che altro si tratta se non di una resa incondizionata, una fuga dalle proprie responsabilità? Toccherà a Bersani e Vendola trovare il prossimo Visco, il prossimo Padoa Schioppa, il prossimo obiettivo per il tiro al piccione di Libero e Giornale. Feltri e compagnia si rimetteranno in riga, i leghisti dalla loro ridotta del cinque per cento si rimetteranno a urlare Secessione – che è la cosa che gli riesce meglio – e magari tra sei anni sarà già tutto sistemato, e il Paese pronto per il prossimo sogno, il prossimo smagliante Miracolo Italiano, la prossima fuga della realtà.
Come se ne esce? Non so, forse votando Berlusconi, blindandolo per altri cinque anni, obbligando lui e i suoi elettori a prendersi le responsabilità per le proprie scelte, di fronte alla concreta possibilità di andare in malora – salvo che in malora ci siamo già. E allora forse quando il centrosinistra vincerà, non perché rappresenta la maggioranza del Paese, ma perché la maggioranza del Paese non vuole più essere rappresentata, vale la pena di insistere su un concetto: Berlusconi, Bossi e il loro sistema non vanno semplicemente sconfitti, ma delegittimati. Occorre riconoscere, da un punto di vista non semplicemente giudiziario ma politico, che erano un'associazione a delinquere che ci ha impoverito, tutti: e trarne le conseguenze. Altrimenti quelli tra sei anni sono ancora lì, pronti a venderti la rivolta fiscale, la secessione il tiro ai barconi dei negri, e gli italiani queste cose le comprano, purtroppo.
“Insomma, stai dicendo che quando Bersani vincerà bisogna ricordarsi di distruggere...”
“...Cologno Monzese, sì”.
“Lo potevi dire prima, mi risparmiavo cinque minuti”.
“Così lo sponsor è più contento”.
“Lo sponsor... ma ti senti? Guarda che Berlusconi può perdere tutto, ma dentro di te ha vinto da un pezzo”.
“Che io possa essere il magro premio di consolazione”.
“Amen”.
Appena un mese fa – me lo ricordo straordinariamente bene – Pisapia vinceva, al secondo assalto, la battaglia di Milano, che per vari motivi apparve subito più significativa di quella pur notevole di De Magistris a Napoli. Quel che è successo in questo mese, dai referendum al caso Bisignani al flop di Pontida, per finire con la finanziaria, non dà l'impressione di una ritirata strategica. Sbaglierò, ma ha tutta l'aria della trattativa di un armistizio. A volersi arrendere non è tanto Berlusconi (tutt'altro che lucido, in questa fase), quanto la classe dirigente che solo due anni fa sembrava dover regnare invincibile fino alla salita di Silvio al Quirinale e oltre. Bene, a un certo punto hanno mollato. Non hanno perso le elezioni, badate. Potrebbero persino rivincerle: hanno i mezzi e hanno i numeri. Ma, dopotutto, chi glielo fa fare? Non è che governare l'Italia in recessione sistemica sia questo grande affare. Probabilmente conviene succhiare il succhiabile e tornarsene all'opposizione, dove sarà più semplice rifarsi una verginità gridando a gran voce Padania libera, No all'Oppressione Fiscale o qualche altro slogan che verrà in mente al momento giusto.
Si dice che il vento sia cambiato. È poco più di un modo di dire. Gli italiani sono – purtroppo – gli stessi di un mese fa. Continuano ad aver paura degli zingari e dei neri che vengono a rubarci il lavoro: ad appassionarsi al delitto dell'estate e a blindarsi in autostrada nella fila centrale ai centoventi, insomma non sembrano cambiati. La stessa batosta delle amministrative e poi del quorum non è una novità: Berlusconi ci è già passato, per esempio nel 2005, e in quelle occasioni ha approfittato per prendere le misure ai suoi avversari e recuperare gli svantaggi accumulati. Stavolta è forse più stanco e più distratto, ma non è un problema soltanto suo. C'è tutto un blocco sociale che costituisce ancora la maggioranza di questo Paese, ma che non mostra più nessuna volontà di imporsi. Se si andasse a votare domani, molti degli elettori di questo blocco semplicemente si asterrebbero – e la loro astensione probabilmente sarebbe decisiva all'affermazione del centrosinistra. Altri pescherebbero un leader alternativo tra i tanti che Berlusconi è riuscito ad allontanare dai vertici quando ancora potevano contare qualcosa: Fini, Casini, perfino Di Pietro, nessuno sarebbe in grado di ereditare il berlusconismo com'è oggi (men che meno Montezemolo o Maroni). I più continuerebbero a votare Berlusconi: per inerzia.
Abbiamo parlato per anni di sinistra e di destra in Italia, ma per la verità è più o meno dalla discesa in campo del '94 che sarebbe più opportuno parlare di principio di realtà e principio del piacere. Chi vota Berlusconi o Bossi non è di destra in senso storico, o liberale, o perfino fascista: Lega e PdL si votano per la soddisfazione immediata che garantiscono, promettendo ogni volta di tagliare le tasse e ridisegnare fantomatici confini federali. Allo stesso modo, chi vota centrosinistra ormai ha ben poco di comunista o di socialdemocratico (anzi ha contribuito talvolta al varo di riforme di sapore liberale); di solito lo fa per un senso più o meno consapevole di responsabilità individuale o collettiva; per entrare in Europa, o restarci, per salvare il bilancio, il buon nome del Paese, eccetera eccetera. Il Centrodestra regala sogni, il centrosinistra interviene ogni cinque anni a salvare i conti. Da questo punto di vista non si tratta di due schieramenti contrapposti, quanto piuttosto complementari: se Berlusconi ha potuto folleggiare (ma gli italiani non è che abbiano folleggiato parecchio, nemmeno durante i suoi mandati), lo deve agli odiatissimi Amato, Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, che al momento giusto arrivavano a salvare i conti e a porre le basi per una nuova trionfale campagna anti-oppressione-fiscale.
A sancire questa alternanza arriva l'ultima finanziaria presentata da Tremonti in parlamento: una barzelletta triste che farebbe ridere se non parlasse di noi. Per sua voce il governo ha annunciato che con il ticket al pronto soccorso e altri tagli alle scuole riuscirà a raccattare due dei 47 miliardi di euro necessari – i restanti 45 li raccoglierà il prossimo esecutivo. Di che altro si tratta se non di una resa incondizionata, una fuga dalle proprie responsabilità? Toccherà a Bersani e Vendola trovare il prossimo Visco, il prossimo Padoa Schioppa, il prossimo obiettivo per il tiro al piccione di Libero e Giornale. Feltri e compagnia si rimetteranno in riga, i leghisti dalla loro ridotta del cinque per cento si rimetteranno a urlare Secessione – che è la cosa che gli riesce meglio – e magari tra sei anni sarà già tutto sistemato, e il Paese pronto per il prossimo sogno, il prossimo smagliante Miracolo Italiano, la prossima fuga della realtà.
Come se ne esce? Non so, forse votando Berlusconi, blindandolo per altri cinque anni, obbligando lui e i suoi elettori a prendersi le responsabilità per le proprie scelte, di fronte alla concreta possibilità di andare in malora – salvo che in malora ci siamo già. E allora forse quando il centrosinistra vincerà, non perché rappresenta la maggioranza del Paese, ma perché la maggioranza del Paese non vuole più essere rappresentata, vale la pena di insistere su un concetto: Berlusconi, Bossi e il loro sistema non vanno semplicemente sconfitti, ma delegittimati. Occorre riconoscere, da un punto di vista non semplicemente giudiziario ma politico, che erano un'associazione a delinquere che ci ha impoverito, tutti: e trarne le conseguenze. Altrimenti quelli tra sei anni sono ancora lì, pronti a venderti la rivolta fiscale, la secessione il tiro ai barconi dei negri, e gli italiani queste cose le comprano, purtroppo.
“Insomma, stai dicendo che quando Bersani vincerà bisogna ricordarsi di distruggere...”
“...Cologno Monzese, sì”.
“Lo potevi dire prima, mi risparmiavo cinque minuti”.
“Così lo sponsor è più contento”.
“Lo sponsor... ma ti senti? Guarda che Berlusconi può perdere tutto, ma dentro di te ha vinto da un pezzo”.
“Che io possa essere il magro premio di consolazione”.
“Amen”.
Comments (14)
Piccolo Ministero Antico
29-06-2011, 15:11ho una teoria, scuolaPermalinkSì, in realtà era il momento giusto per presentare il pregevole ebook sulla scuola messo insieme da Peppe Liberti, con racconti e testimonianze di gente che a scuola ci ha messo piede anche negli ultimi cinque, dieci anni.
Poi è successo che una che nelle nostre scuole negli ultimi anni non sembra averci messo molti piedi (il Ministro dell'Istruzione on. Maria Stella Gelmini) ha scritto una letterina sul suo esame di maturità, in cui confondeva Fogazzaro con Corazzini (va be', sempre roba di gente che scriveva nei libri vecchi) e uno degli autori del pregevole ebook (lo Scorfano) se n'è accorto in anteprima. E basta, in effetti il pezzo è tutto qui. Però è sull'Unita.it, (H1t#80) e si commenta laggiù.
Poi è successo che una che nelle nostre scuole negli ultimi anni non sembra averci messo molti piedi (il Ministro dell'Istruzione on. Maria Stella Gelmini) ha scritto una letterina sul suo esame di maturità, in cui confondeva Fogazzaro con Corazzini (va be', sempre roba di gente che scriveva nei libri vecchi) e uno degli autori del pregevole ebook (lo Scorfano) se n'è accorto in anteprima. E basta, in effetti il pezzo è tutto qui. Però è sull'Unita.it, (H1t#80) e si commenta laggiù.
Desolazione della povera ministra sentimentale
Cari maturandi, in bocca al lupo e tutto il resto. Vi diranno che l'esame di maturità non si dimentica mai – non credeteci troppo. In realtà con gli anni ci si dimentica un po' di tutto, ed è giusto così, anzi: se un giorno vi accorgerete di non ricordare più, per esempio, la traccia del vostro tema d'Italiano, è un buon segno: significa che la vita vi ha lasciato ricordi migliori. Del resto non fidatevi troppo, in generale, della memoria: è una cosa che vi portate dentro, che cresce con voi, e che modifica i dati del passato per adattarli meglio alle esperienze del presente. Volete un esempio?
Ieri un quotidiano ha pubblicato una commovente letterina dell'onorevole del Ministro dell'Istruzione. L'on. Maria Stella Gelmini rievocava proprio il suo esame di maturità, che a quanto pare non riesce a lasciarsi indietro. Anzi, l'insistenza con cui tornava sul concetto (“Un ricordo ancora molto vivo e puntuale in me”, “un momento che non è possibile, di certo, dimenticare mai”) tradiva una vera e propria ossessione. Nel finale addirittura il Ministro si lascia andare a una confidenza: lei l'esame se lo sogna ancora. E va bene. Probabilmente fu, per lei, un momento davvero importante, vissuto con molta partecipazione e magari un po' di angoscia.
Ma sognare la maturità non significa ricordarsela bene. Anzi. Il sogno può servire anche a mascherare un ricordo traumatico, o a sostituirlo con qualcosa di meno traumatico. Magari è proprio quello che le è successo. Il ministro afferma di avere un ricordo molto vivo della traccia letteraria, che riguardava poeti e scrittori che “conosceva bene”: del resto non sono passati nemmeno vent'anni, perché non dovrebbe ricordarsi di quella traccia del 1992 su Palazzeschi, i crepuscolari e... Fogazzaro? Ma nel 1992 non è uscito nessun tema su Fogazzaro!
Il primo ad accorgersene ieri è stato lo Scorfano, uno degli autori del blog “Sempre un po' a disagio” (che, neanche a farlo apposta, insegna in un liceo): stamattina magari la notizia sarà stata ripresa dai quotidiani. Per la verità non è successo niente di grave: la Gelmini ha probabilmente confuso il tormentato romanziere modernista Antonio Fogazzaro con il più tardoSergio Corazzini, autore della lacrimevole Desolazione del povero poeta sentimentale. Poco più di un lapsus, che potremmo divertirci ad analizzare senza prenderci troppo sul serio: forse quel Corazzini fu un trauma, forse quel caldo mattino del giugno 1992 la Gelmini non se lo ricordava affatto (del resto a quei tempi erano poche le classi che lo affrontavano: la traccia suscitò qualche polemica), forse il corazziniano “fanciullo triste che ha voglia di morire” suona oggi molto più scandaloso di 19 anni fa a un ministro della Repubblica, al punto da essere sostituito dai personaggi meno inquietanti, persino civilmente impegnati, di Fogazzaro. Sì. Ma possibile che in un Ministero facciano uscire una comunicazione al pubblico senza nessuna verifica? Bastavano pochi secondi di google per evitare al ministro almeno questa piccola figuraccia.
Ma è tutta questa enfasi sui ricordi, giusti o sbagliati che siano, a non avere senso. Di fronte a un evento importante, e sempre nuovo, come l'esame di migliaia di ragazzi in tutt'Italia, il Ministro reagisce come reagiamo un po' tutti: si mette a ricordare gli esami suoi, come se il ricordo potesse suggerire o addirittura surrogare una competenza.
E dire che in questi 19 anni l'esame è cambiato più volte. Ma soprattutto è cambiata la scuola, sono cambiati i ragazzi: eppure la maggior parte di chi parla di scuola, sui quotidiani e in tv, continua ad affidarsi per lo più ai propri ricordi personali, parziali e fallaci che siano, di una scuola che non c'è più, fatta per una società che nel frattempo è cambiata radicalmente. Parlano di scuole da cambiare, di esami da introdurre e di insegnanti da valutare... ma si vede così bene che intanto pensano alla loro scuola, ai loro esami, ai loro insegnanti, ormai in pensione, ma che ancora li tormentano nel sonno.
La scuola intanto cambia, tra riforme e controriforme, un poco ogni giorno. E non c'è nessun ricordo di esperti o ministri che valga un buon racconto, una testimonianza, di quanto accade nelle classi di oggi, nella scuola italiana del 2011 (a proposito, qui si trova un bell'e-book collettivo sulla scuola italiana, che raccoglie racconti e testimonianze di vari blog italiani (qui la versione pdf; qui la versione epub). C'è anche lo Scorfano di cui sopra, e ci sono anch'io. È gratuito e vale davvero la pena di esser letto – magari non sotto l'ombrellone, ma entro settembre, diciamo). http://leonardo.blogspot.com
Il sacchetto in amido di mais
27-06-2011, 08:40famiglie, raccontiPermalinkI savoiardi
- Il sacchetto in amido di mais che ti costringi a comprare quando sei partito da casa senza contenitori più seri – magari volevi solo comprare il pane e dopo un po' hai nel carrello il decimo del tuo stipendio mensile netto – oleoso al tatto, sprigionante una vaghissima fragranza di popcorn che è pura autosuggestione; il sacchetto odioso che si lacera non appena ci infili il pacchetto di spaghetti di traverso, che non vale i cinque eurocent che ti chiedono, anche perché dovresti comprarne una dozzina per essere sicuro che non ti lasci a piedi nei dieci passi dieci tra l'ormeggio del carrello e la tua automobile, con una serie di lacerazioni strutturali che dal foro degli spaghetti si innerva lungo tutto l'inviluppo della tua spesa, il tuo adipe in potenza (tutto quello che è lì dentro dovrebbe finire nella pancia tua e dei tuoi cari, o espulso in quanto packaging in cinque contenitori di colori diversi), l'inadeguatissimo sacchetto in amido di mais:
è la cosa della mia vita che più mi fa venire in mente la DDR.
Le trabant di cartone a tre marce.
Le tessere alimentari.
I piani quinquennali e la stabilità.
Nel bel mezzo di questo parcheggio immenso e desolato, di questa crisi senza fine, inginocchiato con le vettovaglie che mi franano da tutte le parti e la colpa è mia, il bravo cittadino con la Fede nell'Avvenire si ricorda di portarsi il bustone rigido da casa.
E anche i bravi comunisti oltrecortina, probabilmente, persero la Fede nell'Avvenire in un giorno così. Prima ancora che la classe dirigente si devolvesse totalmente a vodka donnine e bagordi?
Andrà così? Avremo sacchetti sempre meno resistenti? auto che si disfano a guardarle, alimentate da combustibili di scarto?
Devo tornare a casa, mi aspettano creature con il becco spalancato, la jungla in cui vivranno mi cresce tutto intorno (per ora mi arriva all'ombelico, ma spinge).
Mi sarò ricordato i savoiardi?
- Il sacchetto in amido di mais che ti costringi a comprare quando sei partito da casa senza contenitori più seri – magari volevi solo comprare il pane e dopo un po' hai nel carrello il decimo del tuo stipendio mensile netto – oleoso al tatto, sprigionante una vaghissima fragranza di popcorn che è pura autosuggestione; il sacchetto odioso che si lacera non appena ci infili il pacchetto di spaghetti di traverso, che non vale i cinque eurocent che ti chiedono, anche perché dovresti comprarne una dozzina per essere sicuro che non ti lasci a piedi nei dieci passi dieci tra l'ormeggio del carrello e la tua automobile, con una serie di lacerazioni strutturali che dal foro degli spaghetti si innerva lungo tutto l'inviluppo della tua spesa, il tuo adipe in potenza (tutto quello che è lì dentro dovrebbe finire nella pancia tua e dei tuoi cari, o espulso in quanto packaging in cinque contenitori di colori diversi), l'inadeguatissimo sacchetto in amido di mais:
è la cosa della mia vita che più mi fa venire in mente la DDR.
Le trabant di cartone a tre marce.
Le tessere alimentari.
I piani quinquennali e la stabilità.
Nel bel mezzo di questo parcheggio immenso e desolato, di questa crisi senza fine, inginocchiato con le vettovaglie che mi franano da tutte le parti e la colpa è mia, il bravo cittadino con la Fede nell'Avvenire si ricorda di portarsi il bustone rigido da casa.
E anche i bravi comunisti oltrecortina, probabilmente, persero la Fede nell'Avvenire in un giorno così. Prima ancora che la classe dirigente si devolvesse totalmente a vodka donnine e bagordi?
Andrà così? Avremo sacchetti sempre meno resistenti? auto che si disfano a guardarle, alimentate da combustibili di scarto?
Devo tornare a casa, mi aspettano creature con il becco spalancato, la jungla in cui vivranno mi cresce tutto intorno (per ora mi arriva all'ombelico, ma spinge).
Mi sarò ricordato i savoiardi?
Comments (26)
Com'era triste la Piazza Rossa
22-06-2011, 17:23scuolaPermalink(Questo lunghissimo commento alla prova d'Italiano nazionale Invalsi è comparso sull'Unita.it in due puntate: prima e seconda . Lo riporto anche qui, nessuno si senta in dovere di leggerlo, ma credo sia utile archiviare il testo per intero presso un solo indirizzo).
Ne parliamo (male) da mesi, ma ieri le abbiamo fatte davvero: parlo delle prove di Stato Invalsi 2011 per la scuola media. A tutti coloro (esperti o no) che vogliono continuare a discuterne, propongo prima di provarle. Per esempio, qui c'è la prova d'Italiano: i ragazzi ci hanno messo un'oretta, un adulto che naviga su internet dovrebbe cavarsela in molto meno tempo (facciamo una ventina di minuti?) Ricavare il vostro voto (o valutazione oggettiva) è molto più macchinoso, comunque se volete provarci le risposte e i criteri per l'attribuzione dei punteggi sono qui.
Ecco, per esempio. Qual è il senso di una domanda del genere? Cosa dovrebbe studiare un ragazzino, per rispondere bene a una domanda del genere? Non la narratologia, ci mancherebbe, e allora cosa? Ho un'ipotesi: dovrebbe studiare attentamente il suo maestro, fino a capire come risponderebbe lui; perché l'unica risposta giusta è quella che darebbe lui (nel caso dell'Invalsi, “il dono di Giovanna”).
***
Lunedì scorso tutti gli studenti di terza media (bisognerebbe dire: secondaria di primo grado) hanno svolto, in due ore, la Prova Nazionale Invalsi di matematica e italiano. Martedì ho scritto una lunga recensione della prima parte della prova di italiano, cercando di spiegare perché molti dei quesiti (non necessariamente difficili) sono, a mio parere, mal posti. Non mi aspettavo di ottenere tanta attenzione, ma ne sono contento: dopotutto non c'è in Italia un esame più condiviso di questo (gli alunni che cinque anni dopo arrivano alla Maturità sono parecchi in meno).
Nel frattempo, come ha prontamente notato Mila Spicola ieri, abbiamo scoperto un altro pasticcio dell'Invalsi: le griglie di correzione fornite dal Ministero erano sbagliate. Si tratta di un errore rimediabile, non di un disastro: la maggior parte del lavoro di correzione svolto dagli insegnanti nel pomeriggio di lunedì è salvo. Rimane un'impressione di assoluta improvvisazione, che il primo anno era spiegabile: ma siamo al quarto, e continuano a succedere guai del genere. Probabilmente all'Invalsi hanno gli stessi problemi che abbiamo noi insegnanti nelle scuole: scarso organico, scarsa motivazione, direttive non chiare.
Un ultimo appunto, prima di ricominciare con la recensione: il programma che calcolava i punteggi è un file di Excel che funziona soltanto sulle versioni più aggiornate di Microsoft Office. Ora, non è scritto da nessuna parte che una scuola debba essere dotata dell'ultima versione di un prodotto come Microsoft Office, soprattutto da quando sono in circolazione pacchetti software che fanno più o meno le stesse cose e sono gratuiti. Stiamo parlando delle stesse scuole che fanno fatica a trovare risorse per acquistare la famosa carta igienica: un po' di economia si potrebbe anche cominciare a fare da qui.
Testo argomentativo-espositivo: La pubblicità mi piace, ma non se è obbligatoria
Dopo un brano letterario impegnativo come quello di Vittorini, forse per riequilibrare, all'Invalsi hanno scelto di inserire come testo “argomentativo” un breve fondo del buon Piero Ottone, con contenuti deliberatamente semplici, ai limiti della banalità. L'anno scorso la situazione era inversa: il testo letterario era una cosa minimale di un autore contemporaneo (Francesco Piccolo), il testo argomentativo un brano di divulgazione scientifica non semplicissimo. Viene il sospetto che siano state recepite le critiche del professor Giorgio Israel, già collaboratore della Gelmini, che qualche mese fa si domandava se la prova Invalsi non costituisse un affronto alla missione fondamentale del docente di Italiano, che è (almeno secondo Israel), l'insegnamento della letteratura italiana (“Un insegnante della secondaria superiore dovrebbe smettere di insegnare la letteratura italiana, per insegnare a leggere le istruzioni di un piano di evacuazione della scuola in caso di calamità naturale”?). Ecco: quest'anno abbiamo avuto la Letteratura con la L maiuscola: Vittorini, un Classico del Novecento; e in luogo di un testo tecnico o scientifico, il riadattamento di un editoriale che, non me ne voglia Ottone, finisce per somigliare a un 'temino', quel genere letterario che esiste soltanto nella scuola italiana e sulle pagine di alcuni quotidiani. Niente divulgazione scientifica, niente piani di evacuazione (che pure gli studenti italiani dovrebbero imparare a leggere, prima o dopo Vittorini); qui c'è solo un giornalista (non un esperto) che dice cosa pensa della pubblicità. Indovinate un po': gli piace.
“Sono sempre stato un sostenitore della pubblicità, e non solo per il beneficio che ne traggono i gruppi editoriali, compreso quello al quale appartengo.”
Mettiamo in chiaro una cosa: io francamente non credo, come ha scritto qualcuno, che l'“Invalsi sostenga il capitalismo americano”. Però magari un testo meno apologetico della pubblicità, nel momento in cui ci governa un signore che ha fatto tanti soldi con le televisioni private e i giornali, si poteva trovare. Noi insegnanti veniamo accusati di fare propaganda a scuola, anzi, di “inculcare” gli studenti, per molto meno. Con tutti gli editoriali di prestigiosi opinionisti sulle mezze stagioni o sulle auto in divieto di sosta, sono andati a pescare proprio questo? Ma ditelo, che avete proprio voglia di litigare.
Veniamo alle domande.
B3. Perché l’autore afferma che la pubblicità «è l’ossigeno del capitalismo»
(righe 3-4)?
A. Stimola i consumatori a fare maggiori acquisti
B. È molto costosa e ha bisogno di grandi capitali
C. Esiste solo nei paesi capitalisti
D. Caratterizza la società moderna
Credo che sia facile, per un adulto con una cultura generale non troppo limitata, rispondere “A”. L'idea che il consumo di beni non indispensabili (quelli reclamizzati dalla pubblicità) sia l'ossigeno del capitalismo è una delle idées reçues della società contemporanea (basti pensare a George Bush che l'11 settembre chiede ai consumatori di non aver paura e continuare a consumare: il consumo come baluardo contro il terrore). Il quattordicenne però non è esattamente un contemporaneo: vive in una specie di bolla, non ha molta dimestichezza coi quotidiani, quando Bush fece quel discorso aveva quattro anni. Non è che non sappia cos'è il capitalismo (in terza dovrebbe averlo studiato), però questa metafora così abusata, consumo=ossigeno, probabilmente non la conosce, non ci ha ancora riflettuto su. Non è stupido, ha imparato tante altre cose, Pitagora e il Risorgimento, ma questo luogo comune per cui facendo shopping dai fiato all'economia non l'ha ancora necessariamente introiettato. Allora va a vedere alle righe 3,4, come gli è stato suggerito di fare. E alle righe 3 e 4 c'è scritto:
“La pubblicità è elemento essenziale della società moderna, è l’ossigeno del capitalismo. E contribuisce a ravvivare le nostre città, la nostra esistenza”.
Avete letto? “Elemento essenziale della società moderna”. Quindi la risposta corretta dovrebbe essere la D. Io, almeno, guardando le righe 3 e 4, avrei almeno messo la D. E mi sarei sbagliato. Secondo l'Invalsi la risposta giusta è la A. Nel testo non c'è scritto; ci devo arrivare con un ragionamento; il ragionamento devo averlo fatto per i fatti miei, o in classe, con un insegnante che mi abbia spiegato bene cos'è il capitalismo e perché funziona col consumo. Insomma: questa non è una comprensione; questo è il test su una lezione di capitalismo e consumismo che si presume che l'insegnante debba aver fatto, anche se non è scritto da nessuna parte: così come non è scritto da nessuna parte che la scuola debba pagare per aggiornare un costoso pacchetto software. Il capitalismo funziona così, inculchiamoci di conseguenza.
B4. A che momento del passato si riferisce l’autore con l’espressione “fino all’altro ieri” (riga 5)?
A. Ad alcuni giorni prima
B. A quando esisteva ancora l’URSS
C. A quando Times Square era il cuore di New York
D. A prima che la pubblicità diventasse una componente determinante della società
Qui non è in discussione la facilità della domanda. È giusto che un ragazzo di terza sappia che cos'è l'“Unione Sovietica”, e che “URSS” (termine che non compare nel testo) ne sia un sinonimo. Però anche questa non è una domanda di comprensione: fa riferimento a una serie di nozioni (il crollo del Muro di Berlino, lo stile di vita nei Paesi del patto di Varsavia) che sono state affrontate, forse, in Storia negli ultimi mesi (o in geografia al secondo anno). Fa quasi sorridere questa insistenza su una nazione, l'URSS, che ha cessato di esistere prima che i nostri quattordicenni nascessero. Se la conoscono un po', è probabilmente perché la scuola non ha ancora cambiato le cartine geografiche alle pareti (e certo, è molto più importante aggiornare il pacchetto di Microsoft Office... va bene, va bene, adesso la pianto).
B5. Che cosa ha convinto il New York Times a pubblicare annunci a pagamento in prima pagina?
A. L’esigenza dell’editore di aumentare i guadagni
B. Il desiderio di migliorare e rinnovare il quotidiano
C. La necessità di vincere la concorrenza
D. La volontà di compiacere gli inserzionisti
Ottone non lo scrive. Fa solo riferimento a una non meglio precisata “crisi in atto”. Un adulto ci mette poco a capire che si tratta di una crisi economica, e che quindi la risposta giusta è la A. Però, anche stavolta, la risposta giusta è più nel Contesto che nel Testo. Ovvero: non è la domanda adatta se si vuole testare la competenza di comprensione del testo. Ma ormai è chiaro che all'Invalsi questa competenza non è che interessi più di tanto (interessa più ricordare che la pubblicità è piacevole e che l'Unione Sovietica era un luogo triste?)
B6. La decisione presa dal New York Times di pubblicare annunci in prima pagina viene definita “saggia” perché, secondo l’autore, in questo modo
A. il giornale ha dimostrato di essere il miglior quotidiano del mondo
B. è più facile per i lettori trovare gli annunci economici
C. si aumenta il numero di pagine dedicate alla pubblicità
D. la prima pagina del giornale risulta più vivace e attraente
Qui invece la risposta giusta (D) si trovava proprio nel testo; il problema se mai è che la risposta è un po' ridicola. Io posso capire che Times Square sia più bella grazie ai pannelli pubblicitari (in effetti non resterebbe che un incrocio di palazzoni); ma sul serio Piero Ottone pensa che la prima pagina del New York Times sia diventata più “attraente” grazie alle inserzioni? Boh, sarà, non sono un lettore abituale del NYT. Però questa idea che la pubblicità renda più “attraenti” i quotidiani mi sembra molto discutibile. Sì, ma l'esame non è il luogo per una discussione; l'esame è il luogo dove a tutti gli studenti d'Italia è chiesto di crocettare la risposta D: la pubblicità rende le prime pagine “più vivaci” e “attraenti”: in futuro si potrebbe chiedere ai candidati di scrivere un poemetto sugli inserzionisti pubblicitari, ossigeno della nostra civiltà.
B8. Nel testo alla riga 15 si legge: «Ma gli elogi della pubblicità preludono a una critica». Che cosa significa “preludono”?
A. Seguono
B. Presentano
C. Preannunciano
D. Deludono
Significa “preannunciano”. Il problema è che né “preannunciano” né “preludono” hanno molto senso in questo testo (forse ne avevano nell'originale, che è stato riadattato). Per preludere a qualcosa bisogna, appunto, averla preannunciata nella prima parte del testo. Ma nella prima parte del testo non c'è nessun embrione di critica all'istituzione della pubblicità. Se un ragazzo di terza mi avesse scritto una cosa del genere in un tema, glielo avrei segnato come errore di lessico, la classica ingenuità del ragazzo estroso che vuole strafare e usa termini ricercati senza conoscerli bene. Insomma, anche qui, la risposta non è così difficile; peccato che la domanda sia sbagliata.
B13. Che cosa rende la pubblicità in tv fastidiosa? Indica quali tra le seguenti argomentazioni sono effettivamente utilizzate nel testo dall’autore e quali no
- Lo spettatore è costretto a sottostare a decisioni non sue
- La pubblicità in tv è raramente di buon gusto, spesso è sgradevole
- La pubblicità interrompe arbitrariamente i programmi che si stanno seguendo
- È sgradevole vedere accostati messaggi pubblicitari alla notizia di eventi drammatici
A questo punto, forse anche perché cominciava a esser tardi, ma io credevo di sognare. Secondo l'Invalsi tutte queste argomentazioni sono state usate (non "utilizzate": altra ingenuità lessicale), tranne la seconda: cioè, Ottone in questo testo non direbbe mai che “La pubblicità in tv è raramente di buon gusto, spesso è sgradevole”. Eppure scrive che “è imperiosa e invasiva”. Eppure descrive il fastidio causatogli dal “passaggio repentino da una notizia tragica a una pubblicità frivola”, che definisce “irriverente”. “Come si può tollerare che il resoconto di una strage sia interrotto dall'elogio di un lassativo?” Qui siamo veramente dalle parti del lapsus. Ottone non ama la pubblicità televisiva, trova sgradevoli e di cattivo gusto i lassativi in prima serata dopo il tg, ma all'Invalsi non l'hanno capito. I quattordicenni che invece potrebbero averlo capito rischiano di prendersi un voto in meno: questa è la nostra “valutazione oggettiva”. Andiamo avanti.
I quesiti di grammatica
Mi sembrano fatti con maggior criterio. Sento alcuni borbottare sul fatto che una pagina intera sia dedicata a una regola ovvia come quella dell'apostrofo su “un”: come se non fosse uno degli errori che troviamo più spesso su internet e sui quotidiani... Un appunto un po' tecnico sul C4: si dà per scontato un metodo di scomposizione della frase complessa (con riquadri uniti da linee orizzontali per la coordinazione, verticali per la subordinazione) che non è affatto scontato. Da insegnante, noto sempre di più come i ragazzi tendano a non leggere le istruzioni degli esercizi, e a seguire il loro intuito (abituati come sono a strumenti sempre più intuitivi: computer, cellulari, consolle). Anche all'Invalsi devono aver pensato che ormai le istruzioni non le legge più nessuno, e tanto vale offrire allo studente uno schema intuitivo. Sì, probabilmente così è più facile. Però anche in questo caso quello che si perde è l'aspetto della comprensione del testo.
Per concludere
Chi ha scritto questi appunti è un insegnante di scuola media che non rifiuta, a priori, la prova nazionale; però vorrebbe che fosse fatta bene, e che verificasse soprattutto la competenza di comprensione del testo (non nozioni sul Ginnasio-Liceo o sull'Unione Sovietica). Spero che le mie critiche, ancorché un po' esasperate (dopo quattro anni) siano interpretate in senso costruttivo.
Un'ultima cosa: anche chi non condividesse nessuna delle mie critiche, anche chi fosse convinto della bontà di questa prova, è invitato a non prendere troppo sul serio i risultati nazionali, quando arriveranno. Ancora più dei cattivi quesiti, a pesare sul risultato finale è la cattiva organizzazione della correzione. Non si tratta solo del pasticcio con le griglie (che comunque va messo in conto); tutte le risposte degli alunni sono state infatti ricopiate dagli insegnanti (stanchi e poco motivati) su una griglia cartacea e su una griglia elettronica, con tutti gli errori di trascrizione che chi abbia mai fatto un lavoro così meccanico non dovrebbe stentare a immaginare. È facile pensare che in molte scuole le due ricopiature non siano state simultanee: ovvero, prima gli insegnanti hanno inserito i dati nel cartaceo (commettendo una certa dose di errori), poi hanno ricopiato i dati dal cartaceo all'elettronico (riproducendo i vecchi errori e aggiungendone di nuovi). Come ho scritto altre volte, si tratta di uno spreco di risorse umane inefficiente e umiliante per chi vi è sottoposto: in altri Paesi, teoricamente meno sviluppati del nostro, le scuole sono dotate da anni da scanner in grado di correggere in pochi istanti test come questo, risparmiando tempo e – nei Paesi dove il tempo degli insegnanti ha un costo – denaro. Grazie per l'attenzione.
Ne parliamo (male) da mesi, ma ieri le abbiamo fatte davvero: parlo delle prove di Stato Invalsi 2011 per la scuola media. A tutti coloro (esperti o no) che vogliono continuare a discuterne, propongo prima di provarle. Per esempio, qui c'è la prova d'Italiano: i ragazzi ci hanno messo un'oretta, un adulto che naviga su internet dovrebbe cavarsela in molto meno tempo (facciamo una ventina di minuti?) Ricavare il vostro voto (o valutazione oggettiva) è molto più macchinoso, comunque se volete provarci le risposte e i criteri per l'attribuzione dei punteggi sono qui.
Nei mesi scorsi, gli insegnanti che hanno osato criticare le prove sono stati spesso accusati di voler rifuggire una valutazione oggettiva delle proprie competenze; come se gli insegnanti non vivessero sulla propria pelle ogni giorno la valutazione di alunni, colleghi, genitori, dirigenti (davvero, se il giudizio degli altri ci facesse così paura ci saremmo probabilmente trovati un altro mestiere). A chi faceva notare i difetti dei test, gli esperti rispondevano che l'importante era avere finalmente uno strumento oggettivo, ancorché “perfettibile”.
Siamo al quarto anno, e il test continua a essere molto “perfettibile”. Quello di quest'anno per esempio mi sembra persino più “perfettibile” di quello dell'anno scorso. Non è tanto la difficoltà dei brani proposti (non semplicissimi), quanto l'ambiguità delle domande - o meglio, delle risposte disponibili. Vediamone alcune:
La compagna di scuola (E. Vittorini)
Un primo appunto sulla scelta del brano: Vittorini non è un autore semplice, nemmeno in questa versione riadattata che lascia filtrare comunque termini abbastanza desueti (“Parasanghea”, “canuto”, “repentino”) in grado di mettere un po' in soggezione il lettore quattordicenne (ricordo che la prova nazionale la fanno tutti gli studenti medi della Repubblica, inclusi i ragazzi di origine non italiana che non possono portarsi il vocabolario da casa). C'è un bel gradino, per esempio, tra questo brano delGarofano rosso e quello di Francesco Piccolo di un anno fa.
A1. Il protagonista-narratore è uno studente del Ginnasio-Liceo. Di quale classe, probabilmente?
La risposta non era impossibile, ma vale la pena soffermarcisi un po'. Vittorini dà per scontato, e gli esperti Invalsi con lui, che sia chiaro a tutti i quattordicenni che cos'è un Ginnasio-Liceo: l'unico corso di scuola media superiore in cui i più grandi fanno la “terza” e non la “quinta”. Ebbene no, non è così scontato. La prova nazionale la fanno tutti gli alunni di terza media: gran parte di loro vive in località dove non c'è un Ginnasio-Liceo Classico, e non ha mai preso in considerazione l'ipotesi di iscriversi a un Ginnasio-Liceo Classico; anche perché (a differenza dei tempi di Vittorini), gran parte della scuola italiana non gira più intorno al prestigioso Ginnasio-Liceo Classico. Poi, ripeto, anche chi non avesse mai dato un'occhiata al piano di studi di un Classico poteva trovare nel testo gli indizi per rispondere correttamente; la domanda era comunque un po' disorientante, e faceva affidamento su una cultura generale che a quattordici anni oggi non è affatto scontata. Ma fossero questi i veri problemi...
A2. Alla riga 10, l’aggettivo “sgobboni” riferito a compagni significa...
A. molto antipatici
B. molto studiosi
C. molto ingobbiti
D. molto intelligenti
“Sgobboni” è un termine colloquiale, al limite del gergale, di sessant'anni fa (Il garofano rosso è del 1948, anche se sul fascicolo c'è scritto 1972). Può darsi che in certe zone d'Italia sia ancora di uso comune; non nella mia. Anche qui, il contesto aiutava a chiarire. Ma il quattordicenne che non ha mai sentito il termine può farsi un dubbio in più e perdere altro tempo. Se volevamo accertare le sue competenze lessicali, forse c'erano termini più importanti.
A6. Come reagisce il protagonista ogni volta che sente l’urlo di uno dei piccoli?
A. Gli viene il desiderio irrefrenabile di partecipare ai loro giochi
B. Gli vien voglia di mettersi a correre come un cavallo
C. In cuor suo si sente ritornare il bambino vivace che era stato
D. Vorrebbe saltare anche lui dai gradini della cattedrale
Qui cominciano i problemi seri, secondo me. Per l'Invalsi la risposta esatta è la C. Io francamente non avrei saputo scegliere. Vittorini scrive: “ogni volta che l’urlo di uno dei piccoli andava lontano oltre la strada sulla prateria della piazza mi sentivo nitrire dentro e ritornare cavallino com’ero stato quando anche io dai gradini della cattedrale spiccavo il volo radente sopra l’asfalto”. Un quesito come questo valuta la comprensione? Chi ha risposto C ha compreso meglio di quelli che hanno risposto A o D? La mia sensazione è che chi risponde C, più che una comprensione, stia fornendo già un'interpretazione. O meglio: sta scegliendo l'interpretazione che gli fornisce il Maestro, pardon, l'Invalsi.
A8. Come viene descritta la ragazza? Ritrova nel testo le informazioni che la riguardano e riportale nella tabella completandola.
La Prova Nazionale non è esattamente quel "test chiuso" che molti immaginano. In realtà per molti quesiti è prevista una risposta semi-aperta; vale a dire che il candidato ha dei margini per rispondere, il che complica la vita a chi corregge e perturba probabilmente i risultati. Per esempio, Vittorini dipinge una ragazza dagli “occhi chiari, fieramente grigi”; in sede di correzione era considerato corretto sia “occhi chiari” che “occhi grigi”: meno male. Però poi bisognava per forza scrivere che Giovanna era “bruna”: si trattava dell'unica risposta consentita. Ma in italiano corrente “bruna” si riferisce di solito al colore dei capelli, mentre Vittorini, scrivendo “viso di bruna”, ha in mente l'incarnato; però “bruna” per l'Invalsi è una risposta buona, “viso di bruna” non si sa, forse no (in una scuola che conosco, dopo un po' di dibattito, si è deciso di no; in altre probabilmente sì; forse gli esperti avrebbero potuto evitare casi dubbi come questi, anche perché in alcune classi tutti i moduli dovevano essere corretti in una mezza giornata, visto che stamattina si comincia con le prove orali, e insomma non c'era tutto questo tempo per un dibattito filologico).
A10. Dopo essere stato guardato, il protagonista mette in atto una serie di comportamenti per farsi notare dalla ragazza. Indicane due.
Un altro caso in cui gli esperti Invalsi potevano fare uno piccolo sforzo di chiarezza in più, ed evitare un pasticcio. Le risposte che forniscono sono tutte alla prima persona, così come il brano di Vittorini (“mi misi dietro a lei tenendo dieci passi di distanza”, “a tutte le uscite l’accompagnavo”). Ma i ragazzi di solito rispondono in terza persona (“si mise dietro a lei”, ecc.), seguendo una prassi che è tipica dei questionari sui loro libri di testo. Ieri ho corretto diciotto prove: nessun candidato aveva risposto in prima persona (e comprensibilmente, nessuno di loro essendo Elio Vittorini). Un correttore che volesse essere fiscale potrebbe invalidare tutte le risposte. D'altro canto, perché un correttore dovrebbe essere fiscale, finché corregge le prove di candidati della sua scuola? Conflitto d'interessi! (Per superarlo, basterebbe usare uno scanner al posto della manodopera sottopagata, come si fa nei paesi civili).
A11. Perché nella sua lettera il protagonista chiama “Diana” la ragazza di cui è innamorato?
A. Perché non conosce il suo vero nome
B. Per poter comunicare con lei senza essere scoperto
C. Perché nella sua immaginazione gli appare come una dea
D. Per far finalmente colpo sulla ragazza e farsi notare da lei
Ma Vittorini non lo dice! Perché il lettore quattordicenne dovrebbe saperlo? Peraltro un quattordicenne spesso è al corrente di ciò che agli esperti Invalsi sfugge, ovvero che certe cose si fanno per più di un motivo: “Diana” è un senhal, serve al protagonista per eludere la sorveglianza degli adulti (B) e senz'altro far colpo sulla ragazza (D), però per l'Invalsi l'unico motivo buono è che “nella sua immaginazione gli appare come una Dea” (C); ebbene, da nessuna parte nel brano c'è un riferimento alla Dea (viene menzionata solo in nota a piè di pagina). Questa non è comprensione. Questa è un'interpretazione del testo che viene imposta come unica interpretazione consentita. C'è qualcosa che non va.
A12. Per il protagonista narratore, di che cosa è espressione il garofano rosso?
A. Del fatto che Giovanna vuole ricambiare la sua lettera
B. Dell’amore di Giovanna, che è per lui tutto il bene
C. Della passione di Giovanna per i fiori
D. Del fatto che è stata Giovanna a prendere l’iniziativa
Ma il narratore non lo dice! E benché a un lettore adulto la risposta B possa apparire abbastanza scontata, faccio presente che un quattordicenne sudato e un po' innervosito non ha a sua disposizione molti argomenti testuali o di cultura generale per escludere a priori la A o la D. Queste domande non sono né “facili” né “difficili”; secondo me sono semplicemente le domande sbagliate, che non certificano la comprensione del testo. Anche quando il lettore risponde correttamente, gli rimane addosso la fastidiosa sensazione che gli sia sfuggito qualcosa.
A14. Il protagonista è incerto se baciare o no la ragazza perché
A. ha paura che il suo sentimento non sia corrisposto
B. non crede che sia il momento adatto per farlo
C. teme di rovinare tutto con un gesto fuori luogo
D. non vuole metterla in imbarazzo davanti ai compagni
Signori Invalsi, non v'invidio. Evidentemente anche nei vostri momenti più intensi, ed emozionanti, non siete riusciti a formulare più di un pensiero alla volta. Non credo che la coscienza di Vittorini fosse angusta quanto la vostra; la paura che il suo sentimento non sia corrisposto (A) è evidente quando scrive “E tremai per il bene che mi voleva che un nulla sarebbe bastato, credevo, a cancellare via dal suo cuore”. Un nulla; figurati un bacio: non è evidentemente il momento adatto (B); però l'unica risposta che accettate è la C. Ma è davvero un test di comprensione questo? Cioè: chi risponde A e B sul serio non ha capito?
A16. Come si potrebbe definire il rapporto tra i due ragazzi?
A. Coinvolgente e delicato
B. Leggero e superficiale
C. Teso e movimentato
D. Incerto e burrascoso
Questa mi fa proprio arrabbiare. Non è comprensione, è giudizio, un'altra cosa; e non è bello imbeccare i giudizi dei lettori. Ovvero: sono abbastanza sicuro che la stragrande maggioranza avrà risposto “coinvolgente e delicato”, che per l'Invalsi è la risposta giusta, ma sul serio è l'unica? Un rapporto fatto di sguardi, di camminate a dieci passi di distanza, di lettere alle dee e garofani nelle buste, non è anche “leggero e superficiale”? Di nuovo: “Il bene che mi voleva che un nulla sarebbe bastato, credevo, a cancellare via dal suo cuore”: se non è leggero un sentimento del genere, cosa? Però la (A) fa molto più the letterario. E risvolto harmony, anche.
A17. Nel testo moltissimi particolari sottolineano che il racconto si svolge in una stagione calda, in un clima quasi rovente. L’autore vuol farci capire che
A. il protagonista vuole conquistare la ragazza prima delle vacanze estive
B. il caldo esterno corrisponde alle sensazioni ed emozioni del protagonista
C. la pigrizia degli studenti seduti al caffè è provocata dal caldo eccessivo
D. per il protagonista l’estate è il tempo dell’amore e della passione
Ma insomma che roba è questa? Non sarei sicuro della risposta io con un dottorato in lettere moderne, figurati un quattordicenne con l'ansia di concludere con la compagna di terza prima che vada lei al mare e lui in campeggio. Io davvero vorrei che uno degli estensori di questi test si palesasse e spiegasse perché, secondo lui, “il caldo esterno corrisponde alle sensazioni ed emozioni del protagonista” (B): quali sintagmi, quali espedienti stilistici gli consentirebbero di vedere nel protagonista un lupacchiotto in calore.
A18. Nel testo che hai letto l’autore utilizza una particolare tecnica narrativa, che viene definita dell’“io narrante”. Con questa espressione si intende che
A. il narratore sa già come va a finire la storia
B. l’autore parla poeticamente dei propri sentimenti
C. l’autore narra fatti realmente accaduti
D. la persona che narra è all’interno della storia
Questa non era difficile, ma ne approfitto per un appunto. È uno dei pochi quesiti che abbia a che fare con la narratologia. Di solito chi critica i test scolastici in quanto test è sempre convinto di avere contro l'armamentario dello strutturalismo e della narratologia, vecchi idoli critici di più di una generazione; e invece lo avete visto, su diciotto domande questa forse è la prima in cui si misurino queste competenze. La polemica contro la narratologia è annosa; è vero che negli ultimi 30 anni la didattica dell'italiano è stata colonizzata da questa disciplina. E tuttavia c'è un motivo se gli autori di manuali e gli insegnanti continuano a usarne (e abusarne): è relativamente facile, consente a chi l'apprende sui testi di metterla in pratica nella produzione di altri testi, e soprattutto ha una sua oggettività. Voglio dire che se chiedi a qualcuno se un brano del genere è in prima persona, lui può risponderti solo sì (giusto) o no (sbagliato). Invece se gli chiedi cosa significa il caldo per l'io narrante, ti butti a capofitto in una soggettività più impalpabile che profonda, dove alla fine tutte le risposte sono uguali, ma una è più uguale delle altre (quella dell'esperto Invalsi).
A19. Quale altro titolo si potrebbe dare al testo che hai letto?
A. Il dono di Giovanna
B. Un amore infelice
C. Un anno speciale
D. A scuola a sedici anni
***
Lunedì scorso tutti gli studenti di terza media (bisognerebbe dire: secondaria di primo grado) hanno svolto, in due ore, la Prova Nazionale Invalsi di matematica e italiano. Martedì ho scritto una lunga recensione della prima parte della prova di italiano, cercando di spiegare perché molti dei quesiti (non necessariamente difficili) sono, a mio parere, mal posti. Non mi aspettavo di ottenere tanta attenzione, ma ne sono contento: dopotutto non c'è in Italia un esame più condiviso di questo (gli alunni che cinque anni dopo arrivano alla Maturità sono parecchi in meno).
Nel frattempo, come ha prontamente notato Mila Spicola ieri, abbiamo scoperto un altro pasticcio dell'Invalsi: le griglie di correzione fornite dal Ministero erano sbagliate. Si tratta di un errore rimediabile, non di un disastro: la maggior parte del lavoro di correzione svolto dagli insegnanti nel pomeriggio di lunedì è salvo. Rimane un'impressione di assoluta improvvisazione, che il primo anno era spiegabile: ma siamo al quarto, e continuano a succedere guai del genere. Probabilmente all'Invalsi hanno gli stessi problemi che abbiamo noi insegnanti nelle scuole: scarso organico, scarsa motivazione, direttive non chiare.
Un ultimo appunto, prima di ricominciare con la recensione: il programma che calcolava i punteggi è un file di Excel che funziona soltanto sulle versioni più aggiornate di Microsoft Office. Ora, non è scritto da nessuna parte che una scuola debba essere dotata dell'ultima versione di un prodotto come Microsoft Office, soprattutto da quando sono in circolazione pacchetti software che fanno più o meno le stesse cose e sono gratuiti. Stiamo parlando delle stesse scuole che fanno fatica a trovare risorse per acquistare la famosa carta igienica: un po' di economia si potrebbe anche cominciare a fare da qui.
Testo argomentativo-espositivo: La pubblicità mi piace, ma non se è obbligatoria
Dopo un brano letterario impegnativo come quello di Vittorini, forse per riequilibrare, all'Invalsi hanno scelto di inserire come testo “argomentativo” un breve fondo del buon Piero Ottone, con contenuti deliberatamente semplici, ai limiti della banalità. L'anno scorso la situazione era inversa: il testo letterario era una cosa minimale di un autore contemporaneo (Francesco Piccolo), il testo argomentativo un brano di divulgazione scientifica non semplicissimo. Viene il sospetto che siano state recepite le critiche del professor Giorgio Israel, già collaboratore della Gelmini, che qualche mese fa si domandava se la prova Invalsi non costituisse un affronto alla missione fondamentale del docente di Italiano, che è (almeno secondo Israel), l'insegnamento della letteratura italiana (“Un insegnante della secondaria superiore dovrebbe smettere di insegnare la letteratura italiana, per insegnare a leggere le istruzioni di un piano di evacuazione della scuola in caso di calamità naturale”?). Ecco: quest'anno abbiamo avuto la Letteratura con la L maiuscola: Vittorini, un Classico del Novecento; e in luogo di un testo tecnico o scientifico, il riadattamento di un editoriale che, non me ne voglia Ottone, finisce per somigliare a un 'temino', quel genere letterario che esiste soltanto nella scuola italiana e sulle pagine di alcuni quotidiani. Niente divulgazione scientifica, niente piani di evacuazione (che pure gli studenti italiani dovrebbero imparare a leggere, prima o dopo Vittorini); qui c'è solo un giornalista (non un esperto) che dice cosa pensa della pubblicità. Indovinate un po': gli piace.
“Sono sempre stato un sostenitore della pubblicità, e non solo per il beneficio che ne traggono i gruppi editoriali, compreso quello al quale appartengo.”
Mettiamo in chiaro una cosa: io francamente non credo, come ha scritto qualcuno, che l'“Invalsi sostenga il capitalismo americano”. Però magari un testo meno apologetico della pubblicità, nel momento in cui ci governa un signore che ha fatto tanti soldi con le televisioni private e i giornali, si poteva trovare. Noi insegnanti veniamo accusati di fare propaganda a scuola, anzi, di “inculcare” gli studenti, per molto meno. Con tutti gli editoriali di prestigiosi opinionisti sulle mezze stagioni o sulle auto in divieto di sosta, sono andati a pescare proprio questo? Ma ditelo, che avete proprio voglia di litigare.
Veniamo alle domande.
B3. Perché l’autore afferma che la pubblicità «è l’ossigeno del capitalismo»
(righe 3-4)?
A. Stimola i consumatori a fare maggiori acquisti
B. È molto costosa e ha bisogno di grandi capitali
C. Esiste solo nei paesi capitalisti
D. Caratterizza la società moderna
Credo che sia facile, per un adulto con una cultura generale non troppo limitata, rispondere “A”. L'idea che il consumo di beni non indispensabili (quelli reclamizzati dalla pubblicità) sia l'ossigeno del capitalismo è una delle idées reçues della società contemporanea (basti pensare a George Bush che l'11 settembre chiede ai consumatori di non aver paura e continuare a consumare: il consumo come baluardo contro il terrore). Il quattordicenne però non è esattamente un contemporaneo: vive in una specie di bolla, non ha molta dimestichezza coi quotidiani, quando Bush fece quel discorso aveva quattro anni. Non è che non sappia cos'è il capitalismo (in terza dovrebbe averlo studiato), però questa metafora così abusata, consumo=ossigeno, probabilmente non la conosce, non ci ha ancora riflettuto su. Non è stupido, ha imparato tante altre cose, Pitagora e il Risorgimento, ma questo luogo comune per cui facendo shopping dai fiato all'economia non l'ha ancora necessariamente introiettato. Allora va a vedere alle righe 3,4, come gli è stato suggerito di fare. E alle righe 3 e 4 c'è scritto:
“La pubblicità è elemento essenziale della società moderna, è l’ossigeno del capitalismo. E contribuisce a ravvivare le nostre città, la nostra esistenza”.
Avete letto? “Elemento essenziale della società moderna”. Quindi la risposta corretta dovrebbe essere la D. Io, almeno, guardando le righe 3 e 4, avrei almeno messo la D. E mi sarei sbagliato. Secondo l'Invalsi la risposta giusta è la A. Nel testo non c'è scritto; ci devo arrivare con un ragionamento; il ragionamento devo averlo fatto per i fatti miei, o in classe, con un insegnante che mi abbia spiegato bene cos'è il capitalismo e perché funziona col consumo. Insomma: questa non è una comprensione; questo è il test su una lezione di capitalismo e consumismo che si presume che l'insegnante debba aver fatto, anche se non è scritto da nessuna parte: così come non è scritto da nessuna parte che la scuola debba pagare per aggiornare un costoso pacchetto software. Il capitalismo funziona così, inculchiamoci di conseguenza.
B4. A che momento del passato si riferisce l’autore con l’espressione “fino all’altro ieri” (riga 5)?
A. Ad alcuni giorni prima
B. A quando esisteva ancora l’URSS
C. A quando Times Square era il cuore di New York
D. A prima che la pubblicità diventasse una componente determinante della società
Qui non è in discussione la facilità della domanda. È giusto che un ragazzo di terza sappia che cos'è l'“Unione Sovietica”, e che “URSS” (termine che non compare nel testo) ne sia un sinonimo. Però anche questa non è una domanda di comprensione: fa riferimento a una serie di nozioni (il crollo del Muro di Berlino, lo stile di vita nei Paesi del patto di Varsavia) che sono state affrontate, forse, in Storia negli ultimi mesi (o in geografia al secondo anno). Fa quasi sorridere questa insistenza su una nazione, l'URSS, che ha cessato di esistere prima che i nostri quattordicenni nascessero. Se la conoscono un po', è probabilmente perché la scuola non ha ancora cambiato le cartine geografiche alle pareti (e certo, è molto più importante aggiornare il pacchetto di Microsoft Office... va bene, va bene, adesso la pianto).
B5. Che cosa ha convinto il New York Times a pubblicare annunci a pagamento in prima pagina?
A. L’esigenza dell’editore di aumentare i guadagni
B. Il desiderio di migliorare e rinnovare il quotidiano
C. La necessità di vincere la concorrenza
D. La volontà di compiacere gli inserzionisti
Ottone non lo scrive. Fa solo riferimento a una non meglio precisata “crisi in atto”. Un adulto ci mette poco a capire che si tratta di una crisi economica, e che quindi la risposta giusta è la A. Però, anche stavolta, la risposta giusta è più nel Contesto che nel Testo. Ovvero: non è la domanda adatta se si vuole testare la competenza di comprensione del testo. Ma ormai è chiaro che all'Invalsi questa competenza non è che interessi più di tanto (interessa più ricordare che la pubblicità è piacevole e che l'Unione Sovietica era un luogo triste?)
B6. La decisione presa dal New York Times di pubblicare annunci in prima pagina viene definita “saggia” perché, secondo l’autore, in questo modo
A. il giornale ha dimostrato di essere il miglior quotidiano del mondo
B. è più facile per i lettori trovare gli annunci economici
C. si aumenta il numero di pagine dedicate alla pubblicità
D. la prima pagina del giornale risulta più vivace e attraente
Qui invece la risposta giusta (D) si trovava proprio nel testo; il problema se mai è che la risposta è un po' ridicola. Io posso capire che Times Square sia più bella grazie ai pannelli pubblicitari (in effetti non resterebbe che un incrocio di palazzoni); ma sul serio Piero Ottone pensa che la prima pagina del New York Times sia diventata più “attraente” grazie alle inserzioni? Boh, sarà, non sono un lettore abituale del NYT. Però questa idea che la pubblicità renda più “attraenti” i quotidiani mi sembra molto discutibile. Sì, ma l'esame non è il luogo per una discussione; l'esame è il luogo dove a tutti gli studenti d'Italia è chiesto di crocettare la risposta D: la pubblicità rende le prime pagine “più vivaci” e “attraenti”: in futuro si potrebbe chiedere ai candidati di scrivere un poemetto sugli inserzionisti pubblicitari, ossigeno della nostra civiltà.
B8. Nel testo alla riga 15 si legge: «Ma gli elogi della pubblicità preludono a una critica». Che cosa significa “preludono”?
A. Seguono
B. Presentano
C. Preannunciano
D. Deludono
Significa “preannunciano”. Il problema è che né “preannunciano” né “preludono” hanno molto senso in questo testo (forse ne avevano nell'originale, che è stato riadattato). Per preludere a qualcosa bisogna, appunto, averla preannunciata nella prima parte del testo. Ma nella prima parte del testo non c'è nessun embrione di critica all'istituzione della pubblicità. Se un ragazzo di terza mi avesse scritto una cosa del genere in un tema, glielo avrei segnato come errore di lessico, la classica ingenuità del ragazzo estroso che vuole strafare e usa termini ricercati senza conoscerli bene. Insomma, anche qui, la risposta non è così difficile; peccato che la domanda sia sbagliata.
B13. Che cosa rende la pubblicità in tv fastidiosa? Indica quali tra le seguenti argomentazioni sono effettivamente utilizzate nel testo dall’autore e quali no
- Lo spettatore è costretto a sottostare a decisioni non sue
- La pubblicità in tv è raramente di buon gusto, spesso è sgradevole
- La pubblicità interrompe arbitrariamente i programmi che si stanno seguendo
- È sgradevole vedere accostati messaggi pubblicitari alla notizia di eventi drammatici
A questo punto, forse anche perché cominciava a esser tardi, ma io credevo di sognare. Secondo l'Invalsi tutte queste argomentazioni sono state usate (non "utilizzate": altra ingenuità lessicale), tranne la seconda: cioè, Ottone in questo testo non direbbe mai che “La pubblicità in tv è raramente di buon gusto, spesso è sgradevole”. Eppure scrive che “è imperiosa e invasiva”. Eppure descrive il fastidio causatogli dal “passaggio repentino da una notizia tragica a una pubblicità frivola”, che definisce “irriverente”. “Come si può tollerare che il resoconto di una strage sia interrotto dall'elogio di un lassativo?” Qui siamo veramente dalle parti del lapsus. Ottone non ama la pubblicità televisiva, trova sgradevoli e di cattivo gusto i lassativi in prima serata dopo il tg, ma all'Invalsi non l'hanno capito. I quattordicenni che invece potrebbero averlo capito rischiano di prendersi un voto in meno: questa è la nostra “valutazione oggettiva”. Andiamo avanti.
I quesiti di grammatica
Mi sembrano fatti con maggior criterio. Sento alcuni borbottare sul fatto che una pagina intera sia dedicata a una regola ovvia come quella dell'apostrofo su “un”: come se non fosse uno degli errori che troviamo più spesso su internet e sui quotidiani... Un appunto un po' tecnico sul C4: si dà per scontato un metodo di scomposizione della frase complessa (con riquadri uniti da linee orizzontali per la coordinazione, verticali per la subordinazione) che non è affatto scontato. Da insegnante, noto sempre di più come i ragazzi tendano a non leggere le istruzioni degli esercizi, e a seguire il loro intuito (abituati come sono a strumenti sempre più intuitivi: computer, cellulari, consolle). Anche all'Invalsi devono aver pensato che ormai le istruzioni non le legge più nessuno, e tanto vale offrire allo studente uno schema intuitivo. Sì, probabilmente così è più facile. Però anche in questo caso quello che si perde è l'aspetto della comprensione del testo.
Per concludere
Chi ha scritto questi appunti è un insegnante di scuola media che non rifiuta, a priori, la prova nazionale; però vorrebbe che fosse fatta bene, e che verificasse soprattutto la competenza di comprensione del testo (non nozioni sul Ginnasio-Liceo o sull'Unione Sovietica). Spero che le mie critiche, ancorché un po' esasperate (dopo quattro anni) siano interpretate in senso costruttivo.
Un'ultima cosa: anche chi non condividesse nessuna delle mie critiche, anche chi fosse convinto della bontà di questa prova, è invitato a non prendere troppo sul serio i risultati nazionali, quando arriveranno. Ancora più dei cattivi quesiti, a pesare sul risultato finale è la cattiva organizzazione della correzione. Non si tratta solo del pasticcio con le griglie (che comunque va messo in conto); tutte le risposte degli alunni sono state infatti ricopiate dagli insegnanti (stanchi e poco motivati) su una griglia cartacea e su una griglia elettronica, con tutti gli errori di trascrizione che chi abbia mai fatto un lavoro così meccanico non dovrebbe stentare a immaginare. È facile pensare che in molte scuole le due ricopiature non siano state simultanee: ovvero, prima gli insegnanti hanno inserito i dati nel cartaceo (commettendo una certa dose di errori), poi hanno ricopiato i dati dal cartaceo all'elettronico (riproducendo i vecchi errori e aggiungendone di nuovi). Come ho scritto altre volte, si tratta di uno spreco di risorse umane inefficiente e umiliante per chi vi è sottoposto: in altri Paesi, teoricamente meno sviluppati del nostro, le scuole sono dotate da anni da scanner in grado di correggere in pochi istanti test come questo, risparmiando tempo e – nei Paesi dove il tempo degli insegnanti ha un costo – denaro. Grazie per l'attenzione.
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