La Bovary sarai tu!

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Traffico di senso: la parola bovarismo

Io ho sempre pensato che un giorno avrei avuto una casa, non grande, magari non bella, ma con una libreria interessante. Finché un giorno ho capito che non sarebbe successo mai, per più di un motivo. Non ho così tanti libri, in fondo, e quelli che ho non sono così decorativi. Invecchiano senza diventare nobili; non restituiscono l'immagine di una persona studiosa, piuttosto di uno che ha frequentato troppe edicole e bancarelle e non si vergognava a portarsi a casa un newton compton rosso fuoco (del resto quel Tutto Dante a 9900 lire non era un affare?) Non riescono nemmeno a restare in ordine, non capisco bene il perché; non li consulto quasi mai (sto quasi sempre su internet). Ma sono i miei libri, mi assomigliano. Non è che mi piacciano tanto, però non riuscirei a disfarmene nemmeno volendo. Li ho messi in una stanza a parte, quando vengono ospiti chiudiamo la porta. Perché vi racconto questa cosa.

Perché l'altro giorno ho letto questo pezzo del Corriere, in cui si cercava di ammucchiare nei confronti di Nicla Tarantini tutto il disprezzo possibile (si capisce che il giornalista si è recato a Bari apposta e ha condotto indagini estese), e il risultato è condensato appunto in quel titolo: "Brillanti e niente libri". Il massimo dell'ignominia, per un giornalista del Corriere (ma poteva essere la Repubblica, la Stampa, e tanti altri) è non avere una libreria in casa. Il che non è nemmeno sicuro, non è che Goffredo Buccini sia stato in casa di Nicla e abbia verificato l'arredamento. Ha solo raccolto le chiacchiere di amiche e conoscenti, e di una in particolare. Notate come la presenta:

«Però manco mezza libreria: loro stavano ai libri come io sto a una suora», ridacchia una delle fate della scuderia, la più spiritosa e, probabilmente, la meno ignorante.

E' "spiritosa" perché sa istituire il rapporto Tarantini:libri=io:suora. E' (probabilmente) "meno ignorante" perché intuisce la vacuità di una vita senza mezza libreria in casa. E va bene. Non è che io voglia fare lo snob al contrario, anche a me capita di entrare in case d'altri ed elaborare pregiudizi in base ai libri che vedo e al modo in cui sono accatastati. Una libreria non rende certo una persona colta o intelligente; però aiuta. La cosa veramente curiosa è che due paragrafi più su Buccini aveva definito la parabola dei Tarantini una "piccola storia di bovarismo del Terzo Millennio". Il che potrebbe anche starci, in fondo questi due trentacinquenni "perfino più immaturi della loro età", come li definiva Lavitola, qualcosa in comune con Emma Bovary ce l'hanno: il consumo compulsivo di beni voluttuari, l'esigenza di vivere al di sopra delle proprie possibilità (la difficoltà anche a capire quali siano effettivamente, queste possibilità).

Il bovarismo, però, come lo aveva isolato Flaubert, si verificava in presenza di determinati agenti patogeni: i libri. Emma, mi par di ricordare, ne leggeva troppi. Nicla (forse) neanche uno. Anche il bovarismo, insomma, non è più quello di una volta, e in realtà è proprio questo che m'interessa: notare come le parole cambiano continuamente di significato, ogni volta che le usiamo: e sì che le usiamo proprio perché vorremmo far forza su un bagaglio di nozioni date per scontate, un retroterra culturale solido, qualcosa dove metter radice, una bella libreria immobile, lucchettata: niente da fare. Le parole ci cambiano in mano, afferriamo un martello e ci troviamo in mano un cacciavite che c pone dei problemi: perché pensavate di usarmi come un martello? Cosa vi faceva pensare che io potessi pestare un chiodo? Cosa vuol dire oggi la parola "bovarismo"? Non lo so, probabilmente Buccini ha una sua idea che non è la mia. Ma non è così interessante. Quello che è interessante è cosa dice la parola "bovarismo" di noi che pretendiamo di usarla oggi.

Ci dice che siamo molto diversi da Flaubert, al punto che non lo capiamo quasi più. Lo si capisce anche solo dal modo in cui trattiamo i libri: ne apriamo molti meno, ma nel frattempo abbiamo sviluppato un'enorme fede in loro. La loro sola presenza, la semplice ostensione dei libri in una teca, avrebbe il potere di salvare la nostra vita, riscattarla sia dalla banalità della provincia, sia dai luccicori dei "coca-party". Se uno legge libri, se uno possiede librerie o perlomeno nota la loro assenza in un salotto, è "meno ignorante".

Ai tempi di Flaubert probabilmente non era così. I libri erano oggetti perfino pericolosi, che potevano portare alla perdizione: da assumere con prescrizione medica. Lo stesso Flaubert, se ricordo bene, a momenti ci crepava, sulla Tentazione di Sant'Antonio: e Madame Bovary lo scrisse anche per disintossicarsi, scegliendo la storia più banale e terra-terra, meno letteraria che riuscisse a trovare.

Tanti anni fa, ormai è quasi una vita precedente, visitai la casa di Balzac, che in realtà non era nemmeno la casa di Balzac, perché quel formidabile cialtrone riusciva a mettere il suo nome (falso) su tantissime cose che non possedeva: era una casa di amici e ammiratori in cui lui poteva arrivare quando voleva, entrare nella sua stanzetta e mettersi a letto e/o scrivere. Tra le incisioni alle pareti ne ricordo una che mostrava "il lettore" (dunque il cliente-tipo di Balzac). Voi subito immaginate un signore distinto che seduto su una poltrona aggrotta la fronte, magari per tener fermo il monocolo. Perché siete uomini del XXI sec., per voi leggere è cosa da nobili, e che nobilita. Invece "il lettore" dei tempi di Balzac è un vecchietto spiritato che siede a tavola col piatto pieno di cibo freddo (non riesce a staccare gli occhi dalla pagina) e che si versa il vino fuori dal bicchiere. Un poveretto, il "lettore". Totalmente succube di un'ossessione-compulsione che è simile a quella che noi lamentiamo nei ragazzini con playstation. Il "lettore" era un malato, un tossicodipendente. La lettura non lo nobilitava: lo estraniava dalla società. Naturalmente lo stesso Balzac si sarebbe ribellato a una tesi del genere, e avrebbe sostenuto che c'erano libri e libri: immondi feuilletons e accurati ""études philosophiques". Oggi no: oggi qualsiasi libro è comunque meglio di qualsiasi altro impiego del tempo libero: basta aprire un libro, qualsiasi libro, per sembrare più intelligente di qualcun altro che nello stesso momento sta guardando la tv,  o videogiocando, o cercando prove della propria esistenza su un social network, o cicalando su un cellulare. L'unica cosa vagamente paragonabile sono i film, ma qui conserviamo ancora qualche distinguo sul contenuto: la frase "in casa ha tanti dvd" in sé non vuol dir niente, resta da stabilire se siano Tarkovskij o Neri Parenti. Invece la libreria è indizio di cultura a prescindere. La persona che ha fatto una soffiata sui Tarantini, magari a casa ne ha una piena di Moccia o Fabio Volo; ma sono libri - parallelepipedi di fogli di carta rilegati su un lato, e quindi comunque la rendono "meno ignorante". Magari, per dire, ha tutti i pamphlet antislamici di Oriana Fallaci...

A proposito. Il giorno dopo lo stesso quotidiano, il Corriere, è uscito con una buffa versione "da collezione" per il decennale dell'11 settembre, il giorno che secondo loro ha cambiato tutto. Il che tra l'altro è sempre più discutibile: a distanza di dieci anni non c'è una sola notizia importante, in questi giorni (crisi europea, fine del berlusconismo, guerra in Libia, incidenti nucleari, riscaldamento globale) che sia facilmente riconducibile con un rapporto di effetto-causa agli attentati di dieci anni fa. Probabilmente se Mohammed Atta se ne fosse rimasto a casa oggi i nostri telegiornali ci racconterebbero le stesse cose. Però è ugualmente vero che per il Corriere dieci anni fa è cambiato tutto. E' stato il momento in cui i suoi lettori, un tempo maggioranza silenziosa, hanno tirato fuori dagli scantinati il loro razzismo fino a quel momento muto e un po' vergognoso, e hanno cominciato a vantarsene, a trovarlo giusto e interessante, sacrosanto addirittura, e a sfoggiarlo addirittura su una mensola in bell'evidenza, sotto forma di cartonato di Oriana Fallaci. La vecchietta, si è poi saputo (ma si poteva benissimo intuire), non era più molto padrona di sé, ma De Bortoli e RCS non si posero evidentemente il problema, spremendo il limone fino all'ultima goccia (acida). Una cosa del genere non sarebbe stata possibile fino al 10/9/01: dopo sì. Quindi, effettivamente, l'11 settembre ha cambiato qualcosa. Nelle nostre librerie, perlomeno. Che ci assomigliano. E a me non è che piacciano tanto. Agli ospiti non le mostrerei.
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Il temino sull'11/9

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Io l'11 settembre 2001 ero

[inserire il luogo in cui dov'ero]

e stavo facendo

[descrivere brevemente la mia occupazione in quel momento]

quando all'improvviso [in tv / alla radio / al telefono un amico / su internet, perché modestamente io la usavo già] ho scoperto quello che stava succedendo; ho visto coi miei occhi

[spazio per inserire due o tre immagini toccanti che tutti si ricordano: torri che fumano, persone che precipitano]

e ho pensato: niente sarà più come prima.

Poi ci sono state alcune guerre, ma insomma, i dieci anni sono passati e io sono ancora qua, Bin Laden invece è morto, salire sugli aeroplani è più difficile, però tutto sommato poteva andarci peggio, dai. Ma non dimenticherò, perché chi non ha memoria non ha futuro. Questa è più o meno la traccia tipica del temino sull'11 settembre, purtroppo non a scuola ma sui nostri quotidiani (e sui blog, certo), dove abbiamo cominciato a leggerne già il 12 settembre 2001. A distanza di dieci anni, sarebbe interessante prendere i giornali di domattina e contare quanti pezzi saranno composti ancora con una traccia del genere. Magari neanche uno, chissà, magari si sono stancati di scriverli, come noi (da un pezzo) di leggerli. Sì, appunto, magari.

Chi sa dov'è il Wendy's più vicino?

Tra qualche ora vedremo. Nel frattempo vorrei fermare qui un appunto, una cosa che mi è venuta in mente, da raccontare a chi non c'era. Ma, appunto, il problema con l'11 settembre è che c'eravamo tutti, sicché questa mania di continuare a raccontarcela a vicenda è un po' stucchevole. Tra l'altro, più ce la raccontiamo, più rimescoliamo le nostre memorie, e alla fine sembra davvero che tutti ci ricordiamo le stesse cose.

L'unica speranza risiede nelle giovani generazioni – sperando che non si siano sciroppate troppi documentari e docufiction negli ultimi dieci anni, altrimenti rischiano di avere una memoria a posteriori migliore della nostra (quel fenomeno per cui io mi ricordo la formazione di Italia Germania 4-3). Comunque io quest'anno avrò una classe di ragazzi del Duemila, ormai ci siamo. Anche se è ancora un po' troppo presto per spiegar loro questa cosa che mi è venuta in mente.

Mi è venuta in mente guardando la controversa foto qui sopra (via il Post) che ritrae alcuni giovani in una posa apparentemente spensierata sulla sponda sicura dell'East River, con Manhattan affumicata sullo sfondo. Dico apparentemente perché, quando la foto è diventata famosa, le persone catturate dal fotografo si sono difese spiegando che in realtà erano tutte piuttosto sconvolte. Anche se dallo scatto non appare. Il che potrebbe sembrare strano, a chi l'11 settembre non fosse lì, di fronte a Manhattan. (Ma c'eravamo tutti).

Allora bambini quello che dovrei dirvi, non oggi ma tra qualche anno, è che in realtà non è affatto strano. È la differenza tra fotografia e fiction, forse. Un regista di fiction, se dovesse immaginare un set così, chiederebbe agli attori di assumere espressioni di incredulità, impotenza, rabbia, disperazione, sgomento, panico, insomma una bella spadellata di Urli di Munch. E se gli attori non fossero dei cani, potremmo trovare la scena verosimile. Questa foto però non ha nessuna pretesa di essere verosimile, perché è vera. Io lo posso dire perché ero lì, cioè non proprio lì; a sei fusi orari di distanza, ma avevo davvero davanti la stessa scena: e benché mi sentissi anch'io sconvolto, impotente, incredulo, probabilmente sul viso non avevo un'espressione molto diversa da quella di quei cinque ragazzi. Potrei essermi stiracchiato anch'io, a un certo punto, sul terrazzino che dava sul mio ufficio. Avrò anche sorriso un po', per cortesia o addirittura ascoltando una battuta – sì, ci raccontavamo addirittura le battute. Perché è vero che eravamo preoccupati. Eravamo preoccupatissimi. Ma per il momento eravamo sulla sponda sicura. Nessuno poteva ancora sapere cosa sarebbe successo il 12 settembre 2001: parlare di Terza Guerra Mondiale, in quel momento, non suonava affatto fuori luogo. Nulla sarebbe stato come prima, davvero, nulla, ma nel frattempo eravamo ancora in quel “prima”, non sapevamo bene da che parte quel “prima” avrebbe cominciato a franarci addosso, e più che rabbiosi, più che impotenti, più che sgomenti, io credo di aver trovato la parola che potrebbe definirci.

Eravamo euforici. Nell'occhio del ciclone di un grande cambiamento storico. Comparse di un action movie che non sarebbe finito senza qualche milione di morti. Ma era il nostro film, finalmente. Riguardava noi, e l'unica cosa sicura era che ci avrebbe cambiato la vita. In un modo o nell'altro. E dovete capire, bambini, che la maggior parte di noi faceva già una vita abbastanza di merda. Dicevamo “nulla sarà come prima” e intanto pensavamo “magari”.

Poi la sera arrivò Vespa, Scajola disse che c'erano stati venti, trentamila morti, gliel'avevano detto gli americani, arrivavano agenzie di bombardamenti di Afganistan, Massoud era morto ammazzato, io mi addormentai sul divano davanti a RaiNews.

No, aspetta. Non potevo captare RaiNews.
Ecco, sta succedendo. Sto ricordando quello che è successo a qualcun altro.
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Mo an's'pol gnanc piò fér an gir, adésa?

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Oddio, mi piace pure il logo

Io Ferrero lo stimavo anche un po', quando faceva politica; poi è diventato il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e l'ho perso di vista. Ecco, l'altro giorno ha scritto a Napolitano per denunciare l'incostituzionalità del Giro di Padania. Cioè, seriamente: nella Costituzione secondo Ferrero ci dev'essere un codicillo da qualche parte che proibisce alcune competizioni ciclistiche associate ad alcune espressioni geografiche. E' anche vero che è un periodaccio da un punto di vista mediatico: non sta succedendo niente, i mercati vanno bene, la gente è soddisfatta del governo, e così un segretario di Rifondazione per farsi un po' di visibilità è costretto a crearsi dei casi un po' così. D'altro canto dove la trovi, un'altra manifestazione sportiva che riesci a disturbare anche con squadracce, pardon, con collettivi di poche decine di persone? Basta che ti piazzi in mezzo a una strada e qualcuno prima o poi casca e si fa male! E in tv ci vai garantito! Ci va anche Renzo Bossi, contestualmente, a lamentarsi dei cattivoni, ma probabilmente è un effetto collaterale sopportabile, se sei il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e vedi vulnus costituzionali nelle gare in bici.
Allora io ho scritto che il Giro di Padania non è affatto incostituzionale, che la Padania esiste e che disturbare i ciclisti mentre fanno il loro lavoro non è bello, e l'ho scritto sull'Unità (H1t#90). Si commenta di là.

Io - sia chiaro - i leghisti non li sopporto. Non li sopporto quando promettono mari e monti e federalismi, e non ottengono niente, e fanno finta di niente. Non li sopporto quando si inventano lì per lì obiettivi di scorta, contentini da mostrare agli elettori che evidentemente prendono per fessi: i ministeri a Monza, ma per favore. Non li sopporto se fanno i barricaderi, quando la verità è che non sono mai riusciti nemmeno a organizzare una marcia sul Po come si deve. Non li sopporto quando minacciano di tirar fuori i fucili: ma ce li mostrassero davvero 'sti fucili un giorno o l'altro, poi ridiamo. Non li sopporto quando cercano di cavalcare l'ondata antislamica facendo i cattolici, e dieci anni fa si sposavano col rito celtico. Non li sopporto quando promettono di risolvere il problema dei barconi prendendoli a cannonate, e questa promessa criminale è forse l'unica che hanno mantenuto. Non sopporto un ministro che lascia un paio di motovedette a pattugliare un braccio di mare che pullula di profughi: si chiama concorso in strage. Non li sopporto quando succhiano soldi dallo Stato per riempire edifici pubblici di Soli delle Alpi, o per piantare quei ridicoli cartelli coi nomi dei comuni in dialetto, e io pago. Non li sopporto per centinaia di altri motivi che in questo pezzo non ci stanno. 

Ma se decidono di organizzare una gara ciclistica, e se la pagano loro, con gli sponsor e tutto quanto, beh, io non capisco cosa ci sia da eccepire. Anzi. Se da qui in poi Renzo Bossi e famiglia si limitassero a organizzare soltanto gare ciclistiche, tornei di calcio tra nazioni inesistenti, paraolimpiadi, concorsi di bellezza, sabba nei boschi, io francamente sarei molto contento e sollevato, magari andrei anche a sentirmi qualche concerto di cornamuse al festival di cultura celtica. Purché non succhino altri soldi al pubblico erario, come quando presero i miei soldi per pagare i figuranti rumeni di quel Barbarossa che persino la Rai di Mazza ha pena a programmare. 

Siamo in un periodo difficile, e lo sappiamo. Crisi economica, governo delegittimato eccetera. In mezzo a tutto questo è successo che Ferrero, segretario di ciò che resta del Partito della Rifondazione Comunista, abbia sentito l'urgenza di denunciare a Napolitano l'incostituzionalità del Giro di Padania. Come se i padri costituzionali avessero perso tempo a inserire nella Carta una tabella con le manifestazioni sportive ammissibili e quelle che invece proprio no. Secondo Ferrero il Giro sarebbe incostituzionale perché costituirebbe un atto di propaganda politica, e nella Costituzione di Ferrero (che deve avere parecchie pagine in più della mia) fare propaganda politica organizzando una gara in bicicletta è pro-i-bi-to. Invece mandare i propri attivisti a disturbare le gare altrui è ok. 

Del resto è così facile. Il ciclismo è sempre stato lo sport con meno barriere tra concorrenti e pubblico. Bastano poche squadre di disturbatori per mandare all'ospedale un ciclista, o un tifoso o un carabiniere, e far parlare di sé i telegiornali. Minima spesa, massima resa. Certo, con la stessa logica bisognerebbe denunciare anche l'incostituzionalità del Giro delle Fiandre, o della Freccia Vallone, o del Giro dei Paesi Baschi, e chissà di quante altre competizioni associate a entità geografiche non nazionali. Tempo al tempo, per adesso è fondamentale che Ferrero possa ribadire che “la Padania non esiste”. Buffo, l'anno scorso in questi giorni lo diceva Gianfranco Fini. E nella sua bocca suonava lievemente autoritario, il classico tic dell'uomo d'ordine che nega l'evidenza quando non si adatta al suo sistema. È davvero triste che Ferrero ripeta la stessa cosa. 

Che senso ha dire che la Padania "non esiste"? Le nazioni sono concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che qualche leader afferma che “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi. Proprio perché è una parola potenzialmente pericolosa, bisogna guardarsi dal farne un tabù. L'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. La Padania esiste, è sempre esistita: è un comodo sinonimo del più tradizionale Val Padana. La usava Gianni Brera quarant'anni fa, senza nessuna velleità separatista; la usò nel 1975 Guido Fanti, presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, per proporre un coordinamento tra le regioni intorno al Po. Hanno cominciato a usarla i leghisti, relativamente tardi, e probabilmente si deve a loro lo slittamento dell'accento (prima si pronunciava Padanìa, ma forse non era gradita la rima con Albanìa o Romanìa). 

La Padanìa è un'espressione geografica: è una valle sconsolatamente piatta, circondata da due catene montuose tra le più alte d'Europa. Se si eccettua la brevissima parentesi napoleonica, non è mai stata una nazione unitaria. È una delle macroregioni di cui è composta l'Italia: esiste tanto quanto il Mezzogiorno. Vi si può senz'altro disputare un giro in bicicletta, così come si corre ogni anno il giro di Lombardia o il Giro di Sicilia senza che la Corte Costituzionale abbia nulla da eccepire. Con buona pace di Ferrero e compagni, a cui in questi giorni argomenti più seri non dovrebbero mancare. Grazie comunque, perché spaccandogli il giochino (uno dei pochi innocui che avevano a portata di mano), mi avete ricordato un'altra cosa che non sopporto dei leghisti: il vittimismo. http://leonardo.blogspot.com
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Un ministro entra in un cesso, plof

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Don't feed the clown

Anche ieri sera al tg7 provavano a rivendere la barzelletta di Sacconi come un diversivo tattico, l'indizio di una strategia comunicativa affinata con gli anni. Io, alla luce delle recenti mosse del Ministro, e del grado di lucidità mostrato da tutti i suoi colleghi in questa inutile estate, ho maturato un parere differente, un po' meno articolato. Secondo me il tizio è fuori. Come un balcone. Non so se si sia sporto di recente o sia lì appeso da generazioni, ma a questo punto poco cambia.

Sacconi, ricordiamolo, era nel pool di professionisti che a un certo punto, tra un ridimensionamento delle province e un ritocco alle aliquote, partorì l'idea probabilmente più geniale dell'agosto 2011: mangiarsi i contributi di laureandi e militari, ché tanto non li riscattano quasi mai, no? Per Sacconi infatti si trattava di danneggiare al massimo 4000 contribuenti, robetta. Nel giro di 24 ore si scoprì che invece erano 600mila, io dico che nemmeno il corvo Rockfeller, nominato ministro in sua vece, riuscirebbe a fare peggio di così. Perché a un certo livello non capire un cazzo non basta, bisogna passare a un livello ulteriore, dimenticarsi le tabelline, le addizioni, le schede con le frecce e gli insiemi che ti danno nella sezione dei cinque anni. Nel frattempo al Giornale bloccarono i commenti, in giro per le città semivuote si percepiva una vibrazione irosa ogni volta che ti avvicinavi a un professionista, un avvocato, un dentista, un operatore immobiliare, probabilmente è stato il giorno in cui Berlusconi ha perso più punti gradimento negli ultimi vent'anni.

Sacconi insomma è uno di quelli che in agosto doveva decisamente andare al mare, invece è rimasto tra uffici e conferenze, ed evidentemente ha sbroccato. Ora racconta le barzellette, ma potrebbe anche ruttare, recitare scioglilingua, cantare i successi dei Ricchi e Poveri quando erano ancora un quartetto, e Mentana con molto acume ci farebbe notare la sottile strategia diversiva. Seduto di fianco a Bonanni, che di tutti i sindacalisti al mondo è probabilmente l'unico ad appartenere a una setta cattolica radicale (i neocatecumenali), Sacconi per spiegarsi meglio decide di raccontare una storiellina, e di tutte le storielline si fa venire in mente proprio quella in cui stuprano delle suore. Cosa direbbe Freud? Mah, non saprei, mai sentito un ebreo austriaco bestemmiare. Ora dirò una di quelle cose che poi la gente s'incazza e scrive alla De Gregorio vergogna licenzialo (sì, è successo).

Ho sentito barzellette peggiori.

Certo, non c'entrava nulla. Era fuori dal contesto, surrealismo puro, era suggerita da una di quelle labili concatenazioni di idee che vi vengono mentre vi strofinate sul cuscino e vi consegnate a Morfeo (la CGIL può dire di no come... come... come la suora nella barzelletta in cui le stup...ronf...) Era l'ultima cosa da dire di fianco al cattolicissimo Bonanni, una palese dimostrazione di incapacità, e anche un patetico tentativo di scimmiottare il Caro Leader proprio negli aspetti più imbarazzanti. Però, se non fosse stata raccontata da un ministro durante una grave crisi internazionale, la storiellina in sé un mezzo sorriso poteva strapparlo. Una smorfia, via.

E' una barzelletta sulle suore, che fanno le santarelline, ma poi... E' una barzelletta sessista. Diciamo pure maschilista. E racconta di uno stupro di massa! Ma le barzellette sono così. Giocano sugli stereotipi. Nelle barzellette i neri hanno organi smisurati e barlano sembre gome dei devigiendi. Le donne non sanno guidare. Alle suore non spiacciono i rapporti illeciti. Gli italiani sono geniali e i francesi e gli inglesi rosicano, eccetera. Proprio per questo, potendo, sarebbe meglio evitare le barzellette nelle comunicazioni istituzionali, ma anche nella comunicazione tout court, e tenersele per le lunghe notti intorno al fuoco con amici fidati che sono sulla tua stessa lunghezza d'onda.

Non a caso nella sua replica Sacconi confessa (l'infame) di averla sentita da Guido Carli, che gliel'aveva raccontata "per sdrammatizzare un momento critico". E qui c'è tutta la differenza tra un grande professionista, che in un momento difficile fa la battutina scema per alleggerire un po' la tensione del gruppo di lavoro, e il discepolo che non ha capito niente del maestro, e crede che la battutina abbia un valore in sé, sia estrapolabile dal contesto, e si possa riprodurre anche davanti alle telecamere e di fianco a un sindacalista neocatecumenale, un exemplum retorico di raffinata fattura. 

Insomma, Sacconi ha fatto una piccola, immensa cazzata, che dimenticheremo presto soltanto perché lui e i suoi colleghi ne fanno a un ritmo vorticoso, insostenibile. Ma che per questa barzelletta debba "chiedere scusa alle donne", beh, mi sembra la solita esagerazione controproducente. Sacconi ha offeso tutti gli interlocutori, che meritavano un discorso serio, da parte di un ministro serio che rappresenterebbe un governo serio. Sacconi ha offeso la sua nazione, mostrando una spettacolare inettitudine nell'esercizio delle funzioni. Sacconi però non voleva dire che lo stupro in generale è un atto consenziente. Allo stesso modo in cui chi racconta la barzelletta del fantasma formaggino non sta dichiarando di credere ai fantasmi e alla vita dopo la morte. Sono barzellette. Sono paradossali, scorrette, razziste, scioviniste, campaniliste, sessiste, reazionarie. E' folle che un ministro della Repubblica le usi per comunicare. Ma è anche folle che qualcuno (qualcuna) lo prenda sul serio. Non stava incitando allo stupro delle monache, non stava negando il concetto di violenza sessuale; stava soltanto facendo il buffone, come ha visto fare il suo capo. Questa è la cosa grave. Poi le donne italiane hanno miliardi di motivi per sentirsi esasperate, ma per favore, non prendete sul serio una barzelletta idiota, non scandalizzatevi per una freddura da oratorio, non date al buffone questa soddisfazione.
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No pranzo di gala

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Poi per carità, se De Bortoli o Scalfarotto non capiscono perché scioperiamo, non penso di riuscire a spiegarglielo io. Io al limite mi lamento un po', ecco.


Ma cos'è mai questo sciopero che crea inenarrabili disagi? (H1t#89) è on line sull'Unita.it e si commenta laggiù.

Forse non riusciranno a togliercelo subito, il diritto allo sciopero. Nel frattempo stanno facendo qualcosa di più sottile: cambiare il senso alla parola “sciopero”. Fino a qualche mese fa era un incontestabile diritto dei lavoratori. Da qualche giorno è diventato un odioso privilegio nelle mani di irresponsabili, che invece di salvare l'Italia standosene zitti e buoni hanno deciso di esercitarlo in modo dissennato, proprio adesso che un governo responsabile sta facendo tutto il possibile per farci uscire da questo lievissimo accenno di crisi... 

Un passaggio importante è stato l'episodio dello sciopero dei calciatori. Una vertenza marginale, che interessa poche migliaia di tesserati, ma che ha goduto – e non poteva essere altrimenti – di un'esposizione mediatica enorme. Il sospetto è che i rappresentanti della Lega Calcio abbiano cercato di approfittare dell'aria di crisi per strappare qualche soldino ai calciatori, che non ci sono cascati, hanno mostrato che lo sciopero non era un bluff, si sono ritrovati alla gogna (per aver esercitato un diritto) e... hanno vinto. Sì, hanno vinto: il contratto che hanno firmato era quello proposto dai loro rappresentanti pochi giorni prima. A quel punto però forse è passata l'idea che lo sciopero sia roba da calciatori strapagati: uno dei tanti appannaggi di questa o quella casta. Certo, si presume che tutti sappiano più o meno cosa sia uno sciopero e come funzioni. Eppure molti che ne discutono in questi giorni danno l'aria di essersene dimenticati. C'è un sindacato che ha deciso un giorno di astensione del lavoro, e la cosa di colpo è diventata surreale, incomprensibile, mai vista. 

Lasciamo stare Pierferdinando Casini, che è un politico di centro che fa il suo mestiere. Secondo lui lo sciopero mina “la coesione delle forze sociali”, che non fosse per la CGIL sarebbero coesissime: si vede infatti con quale coesione abbiano accettato le trentadue bozze di finanziaria che Tremonti & co. hanno provato a buttar giù in questo agosto inutile. D'altro canto è comprensibile che i proprietari di SUV non vogliano saperne di tasse sui SUV, che la provincia di Savona non volesse essere conglobata in quella di Genova o che gli evasori scudati non intendano pagare un centesimo in più: tutti costoro avevano il sacrosanto diritto di pianger miseria e minacciare ritorsioni nelle ultime settimane; i lavoratori no. I lavoratori dovrebbero starsene tranquilli, proprio quando è ormai chiaro che questo governo sta solo cercando una categoria disposta a pagare per tutte senza lamentarsi (e forse l'ha trovata: gli immigrati senza diritto di voto). Però, appunto, Casini deve fare Casini: uno sciopero così non potrebbe accettarlo nemmeno se lo volesse. 

È già un po' più sorprendente Ferruccio De Bortoli, sconvolto dalla possibilità che uno sciopero impedisca al Corriere di uscire, negando “i diritti di altri lavoratori e, soprattutto, dei lettori”. Incredibile, no? Questa cosa per cui gli scioperi negano i diritti degli altri. Vien da domandarsi dove fosse De Bortoli in tutti questi anni, mentre per esempio gli autoferrotramvieri scioperavano negando il diritto degli altri a recarsi in ufficio; o i controllori di volo tenevano gli aeroplani a terra, inaudito! Naturalmente De Bortoli non può non sapere cosa sia uno sciopero, e perché per funzionare debba arrecare disagi. Ma forse spera che qualche lettore del Corriere se lo dimentichi, e si beva la favola della Camusso-capoclan che potrebbe precettare tesserati che hanno già aderito allo sciopero, e non lo fa per colpire, tra tutti i quotidiani, proprio il Corriere (conta poco che anche l'Unità non sia uscita...)  

L'autentica sorpresa però è Ivan Scalfarotto, che questo sciopero proprio non lo ha capito, e lo ha spiegato diffusamente in due interventi sul suo blog. Niente di strano, salvo che nella colonnina a fianco dello stesso blog si legge come Scalfarotto sia, tuttora, il vice presidente del PD: un partito che allo sciopero ha aderito. Ma evidentemente ha aderito senza consultarsi con uno dei suoi vicepresidenti; senza nemmeno spiegargli il perché. Oppure è Scalfarotto che non ha capito, non si è convinto, e se ne lamenta sul suo blog personale. Le obiezioni che fa Scalfarotto poi possono essere anche interessanti, ma per ora non vorrei entrare nel merito. Trovo semplicemente molto curioso che il vicepresidente di un partito confessi sul suo blog pubblico di non capire quello che fa il partito. Mi pare anche l'indizio di una certa difficoltà a passare da battitore libero a figura semi-istituzionale. 

Per Scalfarotto, in una situazione come questa, invece di scioperare bisognerebbe essere propositivi. Come se a tutti i lavoratori spettasse di avanzare controproposte: come se tutti avessero il tempo di studiare la letteratura sulla finanziaria 2011, ormai sterminata (e in gran parte finzionale). Come se tutti poi potessero scrivere su un blog molto seguito, o addirittura su un organo di stampa. Come se fossimo insomma un po' tutti dirigenti o quadri del PD. Certo, una bella assunzione di responsabilità. Peccato che nel frattempo gli stessi dirigenti del PD non si preoccupino di scrivere a briglia sciolta sui loro blog che non capiscono quel che il partito fa. 

E allora, cari Casini, De Bortoli, Scalfarotto: perdonateci se noi lavoratori siamo troppo semplici, se non facciamo controproposte (per la verità la CGIL una contromanovra l'ha proposta, anche se non riesce a tenere il ritmo delle trovate tremontiane), se usiamo ancora questo mezzo brutale, ottocentesco, che è lo sciopero. Bisognerà però che ve ne facciate una ragione: non siamo i buoni, siamo solo lavoratori. Abbiamo il controllo di alcuni servizi e mezzi di produzione, e se ci fate arrabbiare può darsi che qualche giornale non vada in stampa, che qualche treno non parta, che qualche scuola non apra. È sempre andata così, non è una novità: la novità è il vostro sguardo smarrito quando scoprite che le categorie sanno ancora difendersi. Ma difendersi è un diritto: c'è gente che è perfino morta per procurarcelo, e noi per adesso ce lo teniamo. È l'unico modo per meritarcelo, sapete.http://leonardo.blogspot.com
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Ma xke', xke', xke'

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Twitter è un po' quel posto dove tutti entrano credendosi salaci epigrammisti à La Rochefoucauld, ed escono bimbominkia.
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Heautontimorumenopolis

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Dagli al centromediano

È sempre dura ripartire a settembre; però ti consola il pensiero che stavolta sarà diverso; che stavolta, con l'agosto che c'è stato, saranno tutti incazzati no? insomma hai visto cosa ha fatto il governo? E cosa non ha fatto? Cioè è palese, evidente, lapalissiano, non si sta neanche a discutere, stavolta si va davvero alle barricate, e poi

poi suona la sveglia e ti versi un primo caffè, arrivi a scuola in scioltezza e dal parcheggio cominci a sentire le voci, dalle finestre, voci di colleghe che si lamentano (ci hanno tagliato le classi, i bidelli, i metricubi, gli armadietti), si lamentano, senti come si lamentano; ma poi

poi ti scorre l'occhio sul foglio delle adesioni allo sciopero, ed è pieno di "no", e se tu sei ancora così addormentato da reagire, "Ma come no scusate, ma vi rendete conto?" loro ti rispondono che gli scioperi ormai li fanno solo quei capitalisti dei calciatori che non vogliono pagareilcontributodisolidarietà, fine.

E allora ti svegli, e ti ricordi che sei in Italia, e chiedi sommessamente scusa a Tremonti e Berlusconi e Bossi e compagnia, sì, dimenticavo, voi state solo eseguendo gli ordini. Mi ero un attimo dimenticato di chi vi ha messo lì. Maledetta memoria corta, maledette vacanze lunghe.

(Sullo sciopero dei calciatori cfr. Costa).
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Il vero stress test

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Ma ve ne volete andare al mare?

Non ne so più di quanto ne sapete voi; forse anche meno, visto che a un certo punto gli articoli di quotidiano sulla manovra ho smesso di leggerli (perciò potrei essermi perso il terzo o il quinto aggiustamento sulle province o sull'aliquota iva, scusate). Però, così a occhio, direi che l'unico vero stress test che quest'estate ha dato un risultato chiaro lo ha fatto la nostra classe dirigente: quel centinaio scarso di leader dalla conclamata professionalità, quel tipo di gente che lavora venti ore al giorno, quelli che tra una riunione e l'altra si portano con loro l'ufficio anche in autoblù, ecco, quelli lì: abbiamo voluto vedere se in una situazione di emergenza, una crisi storica senza precedenti, erano in grado di funzionare senza il loro bell'agosto al mare. E il risultato dello stress test ce l'abbiamo davanti. In pratica abbiamo scoperto che senza i loro venti giorni di sdraio e tintarella, questi non sono nemmeno in grado di fare due conti o di chiudere le porte mentre stanno cercando di prendere decisioni. O forse pensavano che siccome è agosto avrebbero potuto parlare ad alta voce di qualsiasi aliquota o ipotesi gli frullasse in testa in quell'istante, tanto gli italiani erano sotto l'ombrellone e sarebbero stati informati a cose fatte. Questi qui semplicemente non sanno che anche nelle pensioni a due stelle c'è la televisione, anche il wi fi stavo per dire, ma non esageriamo: piuttosto i giornali, i cari vecchi giornali di carta, nei chioschi dietro a tutte le spiagge con dentro le notizie sulla manovrina del giorno coi pareri degli esperti, tipo la Santanchè che discute di province, la Santanchè, io le metterei una cartina davanti e poi le chiederei di indicarmele, le province, giusto per curiosità.

Io poi sono un simpatico cialtrone (col passare degli anni sempre meno simpatico), e nella vita ne ho organizzate di cose, sempre male e sempre chiedendomi perché proprio a me. Ho portato minorenni all'estero, gestito gruppi parrocchiali, mi sono preso responsabilità che a ripensarci adesso c'era da arrestarmi. E perciò credetemi se ve lo dico, che questo Stato italiano a questo punto lo potreste dare in gestione a una banda di diciottenni senza titoli di studio, o a un collegio di frustrati insegnanti di scuola dell'obbligo coi capelli bianchi, ma anche a un collettivo antifascista che vive coltivando roba bio in un casolare coi cani, e vi garantisco che non saprebbero fare i disastri e le figure di merda internazionali che sono riusciti a combinare Berlusconi, Bossi, Tremonti, Sacconi in questo mese. Potevate davvero andarvene al mare. Forse è il caso che ci andiate adesso. Senza aspettare gli scioperi o i cortei e tutta l'autunnale rottura di palle delle cariche dei carabinieri e ci scapperà il morto eccetera eccetera: il capo se ne sale al Colle con una letterina per Napolitano, e ciao. Non c'è neanche bisogno di farla scrivere a una stagista, ci sarà pure un modulo prestampato. Si può fare in una mattinata e con un jet privato si arriva ad Antigua in tempo per vedere il tramonto. Poi se sarà il caso tornerete con calma in autunno a fare l'opposizione, senz'altro vi divertirete tantissimo a dire quelle cose tipo “Giù le mani dalle tasche degli italiani” eccetera. Noi a questo punto non è che ce l'abbiamo con voi: è che la situazione è molto seria e voi, con le vostre comiche finali, ci disturbate. Qui ha da passare una nottata e voi siete come i bambini noiosi che non vogliono andarsene a letto, e no che non te lo metto su KunfuPanda, scordatelo. Son già le undici.

Io, a questo punto, più che con voi ce l'ho con quegli altri stimatissimi esperti, terzisti e moderati, che per quasi vent'anni vi hanno preso per dei governanti, vent'anni in cui ve ne siete sfilati a chiappe nude per la via delle parate col vostro seguito di cicisbei che lodavano la statura intellettuale di Tremonti, Giulio Tremonti, uno a cui nessun italiano sano di mente darebbe in gestione il proprio condominio, l'uomo che voleva salvare il potere d'acquisto degli italiani con l'Euro di carta: uno così tre mesi fa per il Corriere era ancora uno statista. Poi di cosa ci lamentiamo? Brunetta doveva rivoltare la pubblica assistenza come un calzino, probabilmente non conosce nemmeno il senso letterale del modo di dire, facile che non abbia mai preso in mano e rivoltato un calzino vero in vita sua. Cari borghesi italiani, così moderati, così ponderati, voi certo non mettereste uno scimpanzé alla guida di uno scuolabus, ma in qualche modo non vi è sembrato strano che a Maria Stella Gelmini fosse affidato il volante delle scuole e delle università italiane. E che Calderoli semplificasse la legislazione. E che Scajola fosse ministro di qualsiasi buco gli si riuscisse a trovare. A un fascista da barzelletta, schifato perfino da militari e fascisti veri, avete messo in mano le forze armate: ma andava bene tutto, veramente tutto, perché l'alternativa evidentemente era troppo terribile, la Quinta Internazionale di Prodi e Padoa Schioppa. Cari borghesi italiani, che vi contate già in tasca le monetine da tirare a Silvio appena cadrà in disgrazia: questo disastro è tutto vostro, e meritereste di pagarlo tutto voi. Siccome però non accadrà, posso almeno rivolgervi un'accorata preghiera? Quando esprimerete il prossimo uomo forte, il prossimo genio italiano col sole in tasca o Montezemolo che sia, potreste ricordarvi di fargli uno stress test subito, o comunque abbastanza presto, insomma non dopo diciassette anni? Grazie.
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Ognibene ippopotamo in Kenya

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(1996)

Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà - e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine - sarà forse una tomba d'argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l'ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa... E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. "Bel Dio mi sono scelto - penserà, a modo suo - un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c'è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d'acqua limpida... laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi - guardali, lassù - e da iene".


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia - nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell'acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz'altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell'universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori - e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? - non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all'anno, quando ti fa più comodo. D'accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D'accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente - pensa Ognibene - non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l'esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall'alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri - e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L'uccelletto scatta in volo per evitare d'infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l'altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d'acqua non scendessero un po', otturandosi di fango una volta per tutte... Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi...

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un'ombra soltanto, in realtà, un'idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque - ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d'ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d'odio e di potenza. (C'è mai stato un animale più perfido dell'ippopotamo? L'unico che attenti alla vita del suo simile...). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d'ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d'acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d'un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott'acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d'acqua tutta l'aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall'acqua all'improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l'inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L'istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell'acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d'acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d'istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all'asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell'avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell'ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d'altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po' i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l'imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell'ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po', sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell'acqua, imbarazzato. Mamma mia l'ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l'affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un'infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste... Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall'asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell'ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai...

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l'avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e - ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c'è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell'estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d'incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe - del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte - luna piena - ora di pascolo, e l'istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C'era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d'acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l'estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un'ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell'argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall'assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell'ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz'ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l'Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all'improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all'erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d'importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c'era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi...

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell'alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell'ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l'altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c'era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall'odore del sangue, erano tornati all'attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall'argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt'intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l'argilla. Ognibene non li degnò d'uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell'ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell'ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l'hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull'altipiano: l'ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia... forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c'è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c'è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.



******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza
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La strage alla sagra d'Autunno

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(2000)
Lo lasci dire a me che lo conoscevo, brigadiere: Fischio non era un tipo cattivo.

Sì. Faceva il deejay. Che vuol dire, è un mestiere come un altro: peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.

32, dice lei?

Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?

Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, bamboccione. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.

E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Sagra d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina.

Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.

Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.

*******


"Toh, professore", commentò l'algida Verola, "sei tornato al tuo cavallo di battaglia: le stragi! Ammetto tuttavia che non mi piacciono più come un tempo; i miei gusti variano evidentemente secondo il capriccio della stagione".
"Mia signora, anche stavolta ho fatto quel che ho potuto. Se vuole eliminarmi, non ho nessuna obiezione, tanto più che avverto sempre più un certo languore nel basso v..."
"Elimina piuttosto me, mia signora", lo interruppe allora don Tinto. "Ho tremiti e sudori freddi ed è comunque più prudente per voi due privarvi della mia presenza".
"E dove andresti, pretonzolo? Giù dabbasso a evangelizzare i lupi? Resta qui, non c'è più uscita".
"Mia signora, ho dunque vinto?"
"Se la cosa ti fa star meglio".
"Molto meglio, mia Signora", rispose don Tinto, e sorridendo spirò.




******* FINE DEL QUINTO TURNO *******




"L'abbiamo fregato", disse allora Verola al professore, "in realtà hai vinto tu".
"Non ci contavo. E adesso?"
"E adesso prova a immaginare. Ce la fai a spostare Don Tinto almeno in corridoio? Mi snerva tenermi un cadavere nell'alcova".
"Mia signora no, mi spiace, le forze mi mancano".
"Va bene, cerchiamo almeno di farlo cadere giù... ecco. Uff! Povero prete. Alla fine non ho mica capito se credeva in Dio o no".
"Credo che non si ponesse più il problema da un pezzo".
"E tu, professore?"
"Io cosa?"
"Tu Dio come lo immagini?"
"Mia signora, a questo punto più che sforzarsi di immaginare, non ci resta che avere un po' di pazienza".
"La pazienza, già. Non è tra le mie virtù".
"Lo so, mia signora".
"Ma credo di poter aspettare dignitosamente ancora un poco, se mi racconti un'ultima storia".
"Un'altra storia?"
"Siccome hai vinto la competizione, me la devi".
"Non ho più storie, mia Signora".
"Fingi d'essere Don Tinto. Raccontamene una delle sue, una storia su Dio".
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