La passione apocrifa di SJ

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[Questa è la versione integrale di una lunga chiacchierata cominciata sul Post con Riccardo Bagnato, l'autore di iJobs, la prima biografia italiana non autorizzata di Steve Jobs che sarebbe uscita in questi giorni anche se non fosse morto Steve Jobs, a differenza di quella autorizzata e americana, che sarebbe uscita tra sei mesi, se non fosse appunto morto Jobs].

In questo blog, oltre ai Santi standard, mi piacerebbe ogni tanto inserire quei personaggi che nel calendario ci entreranno tra qualche tempo; quelli che quando se ne vanno lasciano nell'aria un profumo di gloria, e tutti si mettono ad acclamare “Santo Subito”. Per esempio in questi giorni un po' avari di Santi interessanti mi sarebbe piaciuto scrivere un pezzo sulla Santificazione di Steve Jobs. Purtroppo ci aveva già pensato Wired. Io però ho un piccolo vantaggio, ovvero conosco il primo vero biografo italiano Non Autorizzato di Steve Jobs. Con cui ho chiacchierato un paio di settimane fa. Si chiama Riccardo Bagnato e probabilmente di lui avete già letto qualcosa. Per esempio, su Repubblica.it con cui collabora, o sul settimanale VITA di cui è redattore: i pezzi più interessanti sulle nuove tecnologie sono spesso suoi. Bagnato è anche co-autore con Benedetta Verrini di un fondamentale libro-inchiesta su una delle più importanti produzioni industriali italiane, di cui si parla sempre stranamente così poco: Armi d'Italia.

Invece il tuo ultimo libro (diamoci del tu... neanche fossimo vecchi compagni di scuola) si chiama, appunto, iJobs ed è uscito in questi giorni in cui tutti ovviamente parlano dell'altra biografia, quella di seicentotrenta pagine autorizzata da Jobs stesso, e che arriva nelle librerie anglosassoni un po' in anticipo rispetto alla prima data prevista, vero?

Sì, l'uscita del libro era stata fissata a marzo 2012. Poi il 24 agosto, quando Jobs si è dimesso da CEO, era stata anticipata al 21 novembre di quest'anno. Con la morte è stata di nuovo spostata prima al 28 ottobre mi pare, e poi al 24. Ma non è che dobbiamo per forza parlare dell'altra biografia... che dici? Inoltre, non l'ho ancora letta.

Invece avevo voglia di parlarne perché secondo me, a partire da questi giorni, la storia della vita di Jobs si sta cristallizzando nella forma che assumerà nei secoli a venire. Come la vita di alcuni Santi o di Gesù nel Vangelo, che nei primi secoli è un po' ambigua, evanescente, e poi a un certo punto viene fissata per sempre, in una successione di episodi canonici che sono poi quelli che conosciamo, quelli della cosiddetta vulgata. Ecco, secondo me questa Grande Biografia Autorizzata è destinata a diventare il Vangelo di Jobs, e tutti quelli che parleranno di Jobs da qui in poi si sentiranno costretti ad attenersi a questa fonte primaria. A questo punto quello che hai fatto tu diventa ancora più interessante, perché hai messo insieme un altro vangelo totalmente apocrifo, che darà un'idea di Jobs per forza di cose molto diversa dalla futura vulgata...

Beh, ovviamente sono molto curioso, anche se mi spaventano un po' le seicento pagine...

Spaventano anche me, ma bisogna dire che sono un po' le dimensioni standard dei best sellers anglosassoni, no? Sono sempre quei mattoni lì.

Sì, ma allo stesso tempo la trovo una cosa per certi aspetti poco jobsiana.
In effetti sarei curioso di sapere quanti Mac Air pesa, il mattone.
Ti racconto un aneddoto: sai che a un certo punto Steve Jobs esce da Apple e fonda un'altra azienda, NeXT, con l'obiettivo di costruire e offrire il computer migliore che ci sia al mondo per un target che era più o meno quello del mondo accademico. In realtà col progressivo fallimento del progetto – perché di questo si deve parlare – ad un certo punto Jobs decide di mollare quella che per lui è una grande passione, cioè la costruzione e il design dell'hardware, e di concentrarsi su quello che in realtà NeXT era riuscito a fare egregiamente e tutti gli invidiavano, cioè il sistema operativo. È il cosiddetto NeXTStep, che poi diventerà il sistema operativo sui cui si basa il MacOsX, quello che usiamo oggi. Ma in quegli anni NeXTStep faceva gola a molte aziende. Persino a IBM, il grande nemico contro cui Jobs si era scagliato nel 1984 con il famoso spot per il lancio di Macintosh. Ecco, a un certo punto IBM, l'azienda dorsale della industria informatica ed elettronica americana, chiede a Steve Jobs di poter utilizzare NeXTStep sui propri computer. Siamo a una svolta epocale: è vero che Windows sta diventando sempre più dominante, ma IBM è interessata a installare NeXTStep sui suoi portatili. Bene, a questo punto l'IBM spedisce a Jobs un contratto di diverse centinaia di pagine, com'era uso da parte di una grande multinazionale, e Jobs risponde buttando via quel contratto e chiedendo molto incazzato di mandargliene un altro, perché lui non si sarebbe letto nessun contratto che superasse le dieci pagine.

Stai dicendo che è per questo che non abbiamo il MacOS X sui PC? Perché Jobs odiava i mattoni di carta?

Riducendo ai minimi termini, con sessanta “se” davanti... Sta di fatto, che quello è stato senz'altro un passaggio cruciale. Ed è anche il motivo per cui trovo poco jobsiana l'operazione della biografia – che ovviamente avrà un successo strepitoso. Io però ho fatto tutt'altra operazione. Da un lato non potevo permettermi gli stessi strumenti e godere delle stesse relazioni. Dall'altro mi interessava sinceramente mettere in fila i fatti, costruire una narrazione semplice e godibile, in cui far parlare chi aveva vissuto, discusso o lavorato con Jobs. Non un'agiografia, né un pamphlet polemico, ma una biografia critica nell'accezione “filologica” del termine se me lo permetti.

Ecco, appunto. Tu hai scritto una biografia di Jobs dall'Italia. Anche se a Cupertino lo sanno. E la loro reazione è stata “Come osi”, una cosa del genere?

Sì, io sono in contatto con la Apple per motivi professionali. Sai, ogni volta che esce una notizia le aziende per prime, attraverso i manager o gli uffici stampa, sono disponibili a rilasciare dichiarazioni o comunicati. Con Apple ho ottimi rapporti: sono sempre stati cortesi e molto disponibili. Perciò mi è sembrato opportuno avvertirli, qualche mese fa, quando era già uscita la notizia che questa biografia non autorizzata sarebbe uscita in ottobre (almeno nel nostro caso la data di uscita non è cambiata dall'inizio). La prima reazione, un po' sgomenta è stata: “Ma tu come fai a scrivere una biografia dall'Italia di Steve Jobs? Io l'ho interpretata così: stiamo parlando di uno degli uomini più in gamba e geniali dell'universo... tu piccolo giornalista italiano come osi affrontare questa montagna?”

Ma lo sanno che internet ce l'abbiamo anche noi?

Lo sanno, lo sanno, ma è ovvio che c'è una certa ipersensibilità all'interno dell'azienda... Comunque uno dei motivi principali per cui ho intrapreso questa avventura (oltre al fatto che un editore mi ha chiesto se ero disponibile a farlo) è che mi sono reso conto che non era disponibile su carta stampata, in libreria, una vera e propria semplice ricostruzione biografica di quello che oggi è il “fenomeno Steve Jobs”, che in realtà è un essere umano che è nato, è vissuto, ha fatto determinate cose ed è morto. In Italia sono stati tradotti pochi libri, e la maggior parte sono dedicati al suo stile di management.... uno dei pochi testi per così dire “biografici” è stato tradotto per Arcana nel 2002 con un titolo osceno: “I su e giù di Steve Jobs”. In realtà è la traduzione di un bel libro di Alan Deutschman che si chiama “The Second Coming of Steve Jobs”.

Il Secondo Avvento! Che – ricordiamo – è quello di Gesù Cristo che tornerà alla fine dei tempi per resuscitare i vivi e... no, scusa, hai detto Arcana? Quella dei libri coi testi delle canzoni, con la copertina verde, che compravamo negli anni Ottanta per capire cosa stavamo cantando in corriera... insomma loro ci traducevano il rock.

Con una certa disinvoltura se ricordi...

Con una bellissima disinvoltura, praticamente hanno inventato Jim Morrison... in generale l'Arcana pubblicava mitologia intorno a quelli che tutto sommato erano i nostri idoli. Oggi però ho la sensazione che gli idoli non vengano più dalla musica, che per vari motivi non mi sembra più un orizzonte in grado di creare mitologia originale, e allora l'Arcana cosa fa? mette in giro una biografia di Steve Jobs. Ora vedremo se la biografia ufficiale spingerà ancora di più sul pedale dell'agiografia. Ma tu che hai presente la vita di Jobs per come si raccontava fino a ieri, prima che arrivasse la Vulgata, quali aneddoti ritieni che potrebbero più facilmente prestarsi a una mitologia delle gesta di Jobs?


In linea di principio Jobs incarna un'età dell'oro. Gli anni Settanta, la controcultura, l'immaginazione al potere... paradigmi che poi con ritardo di dieci o vent'anni arriveranno anche in Europa per infilarsi anche qui nel settore dell'economia (con risultati discutibili, però). E poi la new economy: le aziende che nascono nei garage e che si quotano in borsa come già all'inizio degli anni '80 aveva fatto la Apple, con la IPO più grande dai tempi in cui si era quotata in borsa la Ford. Jobs è stato uno degli ultimi e principali testimoni di quell'epoca. Ci sono degli aneddoti che fanno della sua avventura sulla terra un alternarsi di cadute all'inferno e rinascite – se non vere e proprie resurrezioni. Come per esempio l'esilio forzato dell'85, da cui però poté risollevarsi – vale sempre la pena ricordarlo - grazie ai grossi capitali che aveva guadagnato con Apple. Se è stato uno straordinario e visionario imprenditore è anche perché ha potuto reinvestire una quantità di denaro guadagnata con Apple difficilmente immaginabile. NeXT gli costò decine di milioni di dollari: lui quasi azzera il proprio capitale ma nel frattempo crea un'azienda e ne compra un'altra (la Pixar!) Nel libro che citavo prima, Deutschman descrive Jobs con un sostantivo che secondo me è tra i più azzeccati: superstite. Jobs può essere un idealista, un fanatico per molti versi, ma sa anche essere assolutamente pragmatico, e questo gli consente di sopravvivere in situazioni anomale, fuori dalla norma. Nasce da una coppia di giovanissimi: studente americana lei, ricercatore di origine siriana lui, che nel 1955 in California affidano in adozione questo figlio a una coppia. Il patrigno non ha neanche il diploma delle superiori e la moglie è sostanzialmente una casalinga: questa è la coppia che adotta Steve Jobs.

Qui più che a una leggenda di santi mi viene da pensare a uno di quei romanzi “Rags to riches” che nell'Ottocento imperversavano negli USA: storie di trovatelli che cominciano raccogliendo le cartacce e poi diventano magnati...

Sì, forse per capire come si parla di Jobs negli USA dovremmo partire da quel tipo di mitologia. Non è un caso che uno dei più grandi amici di Steve Jobs sia Larry Ellison, uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, il numero uno di un'azienda ancora più grande di Apple, per certi aspetti, Oracle (che produce, per semplificare, database). Ellison è un altro trovatello che si fa dal nulla, e tra i due scoppia una vera e propria amicizia che con alterne vicende è durata per tutta la vita.

Due trovatelli in cima ad Apple e Oracle. Poteva succedere fuori dalla California?

Questa è una cosa che viene spesso trascurata. Almeno nel libro ho cercato di sottolineare che in quegli anni '70 la California, e in particolare quell'area geografica tra San Francisco e Los Angeles o più specificatamente la Silicon Valley, è un'area con delle caratteristiche peculiari che in un qualche modo predestinano l'esistenza di personaggi come Jobs. È un'area in cui, per volontà di un'università – Stanford – e di un complesso militare che pure è presente, si concentrano aziende di elettronica e di informatica. Le stesse scuole superiori offrono corsi di elettronica, e siamo alla fine degli anni '70! Jobs e il suo futuro socio Wozniak frequentano corsi di elettronica a scuola a cavallo tra '60 e '70: Wozniak vince premi per la costruzione fai da te di primi marchingegni elettronici. Se Jobs fosse nato in qualsiasi altro posto del mondo io sinceramente non so dirti se sarebbe diventato Mr Apple. So sicuramente dirti che quella è una zona su cui le occasioni e le possibilità sono tante. C'è una frase di Jobs che ho messo all'inizio del libro perché mi è parsa molto significativa: “Non esiste una “punizione” per aver fallito in questa Valle. Né economicamente, né psicologicamente. Nel senso che se hai un’idea e inizi la tua attività, anche se fallisci, sei considerato generalmente meglio di prima, per il semplice fatto che nel frattempo hai acquisito una serie di nozioni importanti in diverse discipline”.

Questo era lo spirito di quel periodo. Al quale bisogna associare un'infinità di influenze alternative che vanno verso il buddismo il vegetarismo, l'elettronica, la libertà sessuale, i concerti, le droghe... Prendi ad esempio la rivista di cui parla Jobs durante il famoso discorso all'Università di Stanford: The Whole Earth Catalog. Bisogna averlo far le mani, sfogliarlo, vedere la grafica e i temi che tratta e tutto d'un tratto ti accorgi, quasi senti, quel clima. E capisci molto di più di quanto sia possibile spiegare. A questo aggiungi la storia personale del suo fondatore, Stewart Brand, oggi un settantenne che ha rinnegato quasi integralmente le promesse di cui parlava su quella rivista, ma a ben guardare senza mai tradirle. E vuoi sapere dove vive oggi?

Spara.

Dal 1982 su un rimorchiatore ormeggiato a nord di San Francisco. E oggi, oltre a passare le sue giornate sul “Mirene” al largo di Sausalito in compagnia della moglie Ryan Phelan (fondatrice e presidente della DNA Direct per le cure genetiche), divide il proprio tempo tra la Long Now Foundation, di cui è presidente, impegnato a prevedere cosa succederà nei prossimi 10mila anni, e il Global Business Network, un’agenzia di consulenza californiana per imprese.

Metto su Aquarius?

Fra qualche secondo... La Whole Earth Catalog nasce nel 1968 con un testo introduttivo celebre, che dà l'idea del clima che si stava respirando: in questo incipit, Stewart Brand scrive: “Siamo come Dei, e potremmo anche abituarci ad esserlo. Fino ad ora il potere e la gloria generati lontano da noi individui, e cioè attraverso il governo le grandi aziende, le istituzioni formali, la Chiesa, hanno avuto successo, ma adesso è l'individuo che deve creare in autonomia una propria strada”.

Sento già su di noi l'ombra gelida di Paulo Coelho.

Eh, sì, Coelho è di quella generazione, anche lui hippie, infanzia travagliata... l'ultima volta che l'ho visto intervistava Sean Parker (quello di Napster e Facebook) a cui chiese di commentare il film The Social Network.

Allora già che ci siamo parliamo dell'influsso orientale, del viaggio in India... Io ho sempre un certo pregiudizio verso questi personaggi che vanno in India in un periodo storico così particolare, cioè mi chiedo oggettivamente cosa potesse offrire l'India a questi occidentali, a parte diverse varietà e dosaggi di sostanze. Ho letto su Wired l'aneddoto di Steve Jobs che si lascia rasare i capelli da un guru, e lo stesso Jobs ammetteva di non aver la minima idea del perché l'avesse fatto. Insomma sempre quest'India surreale in cui accadono cose simpatiche e incomprensibili. Cosa tira fuori Jobs dall'India, secondo te?

Secondo me una delle lezioni di quel periodo è proprio la necessità di cercare la propria strada. Vuoi una frase ad effetto? Secondo me si sono saldati insieme il percorso alla ricerca di una “luce interiore” e la dottrina della predestinazione di matrice calvinista. Matura in Jobs una fede nelle grandi possibilità del singolo individuo di trovare la propria vocazione. Jobs vive questa ricerca in modo molto personale. Proprio nel periodo del viaggio in India l'adozione e la ricerca dei propri genitori naturali sembrano ossessionarlo, tanto da suggerirgli di assoldare un detective per cercarli.

Possiamo dire la banalità per cui Steve Jobs in India ha trovato la fede in sé stesso?

Sì. Jobs, nella prima biografia semiautorizzata descrive il suo viaggio a Micheal Moritz dicendo: “Non stavamo andando alla ricerca di un posto dove stare per un mese ed essere illuminati. Fu una delle prime volte in realtà in cui realizzai come probabilmente Thomas Edison avesse fatto molto di più per migliorare il mondo di quanto non avessero fatto Karl Marx e Neem Karoli Baba messi assieme.

Ecco, in India l'inventore capisce che deve concentrarsi sulle sue idee. Una cosa abbastanza calvinista, perché io per esempio nella mia mentalità veterocattolica se vado in India penso subito a Madre Teresa e ai poveri. È anche il motivo per cui mi passa anche la voglia di andarci... Invece quando Jobs e compagni si chiedono come possono aiutare i poveri del mondo, la loro risposta è: concentrandoci su noi stessi, arricchendoci finché la nostra ricchezza non avrà qualche ricaduta anche su di loro. Questo magari ci porta al discorso della Foxconn, che imbarazza particolarmente noi italiani, che avremmo tutti voglia di prostrarci e adorare Steve Jobs (perfino Sinistra e Libertà), però poi ci ricordiamo che è un capitano d'industria che fa lavorare gli operai cinesi a pochi centesimi l'ora, insomma uno schiavista.

Bisogna ovviamente dire che Apple non è l'unica azienda a utilizzare fornitori terzi in Cina. Molte altre aziende lo fanno: questo non giustifica Apple, ma mi domando cosa non giustifichi Apple, visto che la responsabilità ultima e prima di ciò che succede a Foxconn è di Foxconn. Dopodiché noi possiamo fare il passaggio ulteriore, cioè senza metterci le famose bistecche sugli occhi possiamo domandarci se è sostenibile da un punto di vista etico che Apple, punta di diamante di un certo sistema industriale, sia strutturata come tante altre aziende lasciando la testa pensante e progettante in California e le mani assemblanti in Cina; anche dal punto di vista di quella che viene chiamata sostenibilità d'impresa. Ecco, Apple ha fatto una serie di mosse per arginare quello che sicuramente è un problema oggettivo, quello dei suicidi alla Foxconn, un fornitore che non garantisce i diritti minimi: ma sinceramente allo stato attuale queste attività mi sembrano ancora poco convincenti. È una questione che dovremmo porci da un punto di vista squisitamente economico, ovvero: Apple esisterebbe se non esistesse un fornitore terzo di assemblaggio del tipo Foxconn, con quel che ne consegue a livello economico? Questo è una delle domande su cui si potrebbero fare ulteriori inchieste, e non sarei sicuro della risposta. 

Certo, da noi in Italia pensare ai computer, neanche necessariamente Apple, è già una cosa progressista; poi però a un certo punto i progressisti si ricordano che in Cina i computer che ci liberano dall'ignoranza del regime televisivo li assemblano gli operai sfruttati e ci resta un dissidio interiore. Ma secondo me questo dissidio Steve Jobs non l'aveva, era fuori dalla sua prospettiva di vita. Per quel poco che lo conosco non credo che si sia mai posto il problema se la sua ricchezza, la sua capacità straordinaria di fare soldi su soldi si basasse o no sullo sfruttamento di qualcun altro. Non è che si rispondesse di no, secondo me è proprio che non si poneva il problema, non faceva parte del suo universo morale...

Ora, se io dovessi per un attimo calarmi nella testa di Steve Jobs per come l'ho conosciuto, quindi indirettamente, attraverso la sua vita come l'ho ricostruita attraverso fonti secondarie, mi verrebbe da dire che quando si è parlato di Foxconn lui almeno ci ha messo la faccia, in diverse occasioni. Diciamo che anche mettendoci la faccia non ha dimostrato di considerarla una questione di primaria importanza rispetto a quella che era la sua missione, da sempre perseguita, cioè costruire il miglior computer del mondo. Alla delocalizzazione di Apple ha contribuito enormemente il nuovo CEO di Apple, Tim Cook, che ne è il responsabile sotto diversi aspetti. Nell'ultimo capitolo del libro, che è quello in cui cerco di affrontare Jobs non più dal punto di vista biografico, c'è una parte intitolata “Designed in California, made in China”, in cui mi domando fino a che punto Tim Cook potrà portare avanti questo tipo di azioni e operazioni senza lo schermo protettivo di quella figura iconica che è Steve Jobs. Non a caso, forse, che nel frattempo si sta insistentemente parlando di un'espansione di Foxconn in Brasile.

Quindi probabilmente quando sarà finito il contraccolpo emotivo della morte di Steve-Jobs-Santo-Subito, la Apple potrebbe avere più problemi di immagine a gestire la manodopera sfruttata nel terzo mondo.

Mettiamola così: nella misura in cui hanno già problemi di questo tipo altre aziende. Jobs era, lo dico provocatoriamente, un eccellente straordinario meraviglioso schermo deformante in cui e attraverso il quale abbiamo tutti, consumatori e giornalisti in primis, guardato i prodotti Apple con uno sguardo particolare. Lui e loro ci hanno convinti perché ben progettati, ci hanno affascinato la precisione e l'affidabilità (un po' meno il prezzo), ma ci hanno anche parlato. Mi spiega meglio, ci hanno suggerito chi potevamo essere per il semplice fatto di possedere un iPhone o un iPad. Una sorte di ipnosi commerciale, che per ora si fondava sul magico curatore delle nostre ambizioni: Jobs. Tim Cook non mi pare abbia le stesse qualità.

Ricordo come il grande uomo a cui tutti si ispiravano nel decennio precedente, Bill Gates, questo genere di problemi di immagine lo ha risolto facendo tanta beneficenza, un'altra cosa molto anglosassone che noi non capiamo del tutto: il fatto che le falle del sistema vadano turate con la beneficenza dei ricchi. Mentre Jobs di beneficenza se non sbaglio ne ha fatta poca, addirittura a volte l'ha sospesa per motivi di budget... Insomma non ci teneva molto all'immagine del Buono, mi pare.

Jobs è sempre stato molto concentrato sul lavoro. Tutto ciò che lo distraeva dal suo lavoro e (nella seconda parte della sua vita) dalla sua famiglia non lo interessava granché. Jobs era molto disponibile a curare, anche a coccolare i propri dipendenti, ma nell'ottica dell'azienda: qualsiasi operazione filantropica che in qualche modo lo distraesse dall'azienda e dai prodotti non l'ha mai concepita. Una delle operazioni di lobbying non profit di Steve Jobs è quella che ha promosso nelle scuole, The Kids Can't Wait, un programma per mettere un computer in ogni scuola – che poi alla fine rimane circoscritto alla California: lodevole iniziativa, ma si tratta comunque di installare un prodotto che lui produceva. Una filantropia che qualcuno potrebbe considerare un po' pelosa. Poi c'è l'impegno sul registro della donazione degli organi, che ha cominciato a sostenere in seguito al trapianto del pancreas che lui stesso ha avuto, avendo avuto esperienza di qual è la fatica, la difficoltà, il dolore di questo percorso.
Un altro esempio: nel 1986 – siamo nel periodo in cui sta lavorando a NeXT – crea anche la Steve Paul Jobs Foundation, che nasce quindi ben prima della Bill and Melinda Gates Foundation: però decide di chiuderla dopo appena quindici mesi. Ti cito cosa dice Mark Vermilion, che era allora il responsabile della fondazione: “Non aveva il tempo per seguire questa attività. Steve si è impegnato in due cose nella sua vita: Apple e la sua famiglia. Tutto il resto era per lui una distrazione”.
Perfino quando torna ad Apple blocca i progetti filantropici. In questo senso la coerenza con cui si è mosso Jobs è in sé la sua vera forza di marketing, se si vuole.

Sai come molti Santi abbiano corso un rischio altissimo di finire come eretici. Ecco, nel caso di Jobs mi pare che per una lunga fase lui sia stato davvero l'eretico, l'uomo del think different. Poi a un certo punto Apple si conquista una specie di egemonia almeno a livello di immagine, e a quel punto è Jobs a mostrare una certa intolleranza contro chi pretende di produrre oggetti simili ai suoi. Mi riferisco per esempio al modello del giardino recintato su iPhone o iPad, o la vertenza con Samsung a cui Apple vorrebbe proibire di commercializzare un tablet simile all'iPad. E l'arrabbiatura quando capisce che a Google stavano lavorando a un sistema operativo per smartphone, Android, che sarebbe ovviamente diventato il concorrente naturale dell'iPhone...

Beh... non mi spingerei a considerare eretici Google o Samsung. Su Samsung è semplice questione di concorrenza: una corsa all'ultimo brevetto e all'ultima copiatura. Per quanto riguarda Android la questione è un po' più complessa, perché nel momento in cui Jobs stava lavorando sull'iPhone, Eric Schmidt, numero uno di Google, era all'interno del CDA di Apple. Così quando Jobs venne a sapere che Google stava lavorando ad Android è noto che se la sia presa con Schmidt, sospettando che ci potesse essere stato – noi non lo sappiamo – un passaggio di informazioni non autorizzate. Li visse come un tradimento.

Un altro aspetto importante dei Santi e degli Eroi è che ci permettono di dare un volto a periodi e sommovimenti storici che altrimenti forse non riusciremmo ad affrontare. Almeno, io ho la sensazione che dietro ai monumenti di parole che i giornalisti dedicavano a Bill Gates qualche anno fa e oggi a Jobs, ci sia anche una specie di paura del vuoto. L'idea che il progresso tecnico sia qualcosa di troppo spaventosamente complesso e spersonalizzato, l'opera collettiva di milioni di ingegneri anonimi che non sapremmo da che parte cominciare a raccontare: e allora ci raccontiamo aneddoti su Gates, leggende su Jobs...

Spesso e volentieri noi abbiamo di fronte delle aziende molto veloci che crescono o muoiono o che si trasformano o vengono comprate o cambiano facilmente CEO o amministratore delegato o proprietà. Da questo punto di vista Apple era un'azienda con un personaggio catalizzante il che semplificava enormemente la comunicazione. Delle tante aziende della Silicon Valley è una delle pochissime in cui fino a poco fa il CEO era il fondatore, uno che in trenta e passa anni, quasi quaranta ha depositato una storia, un significato. E questo lo ha fatto anche internamente a livello aziendale. La vera passione di Steve Jobs non era tanto l'elaborazione dei prodotti, ma la costruzione di un'azienda. Tutti, in azienda, sapeva in qualche modo cosa sarebbe piaciuto a Jobs, cosa avrebbe voluto, e tutti si sforzavano di crearlo. Per rispondere alla tua domanda: sì. Apple è un sistema molto complesso, che produce oggetti e idee complesse, ma (almeno fino a poco tempo fa) in maniera estremamente semplice e diretta. I miti e le leggende sono in questo senso uno dei registri più facili da adottare per trasmettere concetti complicati, emozioni complesse, in maniera estremamente semplice al maggior numero possibile di persone. Come in una narrazione. Salvo che, il 5 ottobre scorso, è morto il protagonista (e l'autore) del racconto. L'eroe nel mito.

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Il Papa può dimettersi

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Non nel senso che "deve", eh. Solo nel senso che quando vuole può. Di solito non vuole.


Se ne parla ovviamente sul Post - perché a scrivere i pezzi sui Santi famosi sono buoni tutti, ma un pezzo su Sant'Evaristo Papa non lo leggerete da nessun'altra parte, nessuno ha mai veramente scritto più di quattro righe sul povero Sant'Evaristo Papa.

27 ottobre 2011 - Sant'Evaristo Papa e Martire (†105)


Certi santi ci lasciano monumenti di carta; altri giusto tre righe nella pergamena di un cronista svagato che magari sta solo improvvisando per riempire un buco. È il caso di Evaristo Papa, che secondo la tradizione sarebbe nato a Betlemme, ma poi in un qualche modo sarebbe arrivato a Roma in tempo per essere il quinto o il sesto successore di Pietro. Siamo tuttavia nel primo secolo, la Chiesa di Roma è ancora una piccola setta che non lascia molte tracce di sé. Può darsi che l'abbia fondata davvero Simone detto Pietro, ex pescatore palestinese con trascorsi sovversivi, come può anche darsi di no: in una delle sue tre lettere dice di scrivere da “Babilonia”, che può essere Roma ma anche qualsiasi città grande e corrotta dell'impero, per esempio Antiochia di Siria (metropoli dove Pietro rimase molti anni, non lontana dalla Babilonia storica).

I nomi dei suoi immediati successori al soglio romano sono graffiti evanescenti: “Lino” sembra davvero un nome da nulla per il secondo vescovo di Roma (contrazione di Aquilino?) Poi ci sono Cleto, Anacleto e Clemente I, ma potrebbero anche essere la stessa persona in tre dialetti diversi. Dei tre Clemente è l'unico di cui abbiamo notizie abbastanza certe, insomma il primo vero vescovo di Roma potrebbe essere lui. Nel 97 l'imperatore Traiano lo avrebbe espulso da Roma, ordinandone la deportazione nel buco più remoto dell'impero – in quel periodo la Crimea. Clemente ovviamente ne avrebbe approfittato per evangelizzare anche quella remota regione, finché l'imperatore spazientito non lo avrebbe fatto gettare in mare con un'ancora al collo... ma non era di lui che dovevamo parlare. Bensì del suo successore, Papa Evaristo. Ecco, di lui si sa ancora meno, ma quel poco che si sa è una bomba.

Secondo alcune fonti, infatti, Evaristo diventa Papa nel 97, ovvero non alla morte del suo predecessore, ma quando questi fu esiliato. Insomma, non potendo per ragioni di forza maggiore continuare a dirigere la Chiesa di Roma, Clemente avrebbe rassegnato le dimissioni. È un precedente clamoroso. Sì, voi non ne sapevate niente, delle dimissioni di Papa Clemente, ma potete star certi che sia Wojtyla che Ratzinger ne abbiano discusso (anche tra loro). Di dimissioni pontificie ce ne sono state altre (il “gran rifiuto” di San Celestino V è il più celebre), ma non così tante, e non sempre in circostanze chiarissime. Anche il caso di Evaristo non è così limpido: secondo altri studiosi tra il 97 e il 99 non fu proprio un Papa, ma una specie di vicario, perché nessuno poteva escludere in linea di massima un rientro miracoloso di Clemente a Roma. (Una delle difficoltà della Chiesa quando cerca di istituire delle regole pratiche è che non può mai, per definizione, escludere eventi miracolosi, ovvero assurdità). Probabilmente ai suoi contemporanei la questione doveva sembrare di lana caprina: Evaristo era il vicario di Cristo o il vicario del vicario? L'importante era che mandasse avanti la baracca. Il problema si pone duemila anni dopo: può un Papa subentrare a un altro Papa vivo?

Pare di sì. I precedenti ci sono, come abbiamo visto. Non solo, ma il diritto canonico riconosce nero su bianco questa possibilità, senza neanche porre troppe condizioni. (Can. 332 - §2: "S i richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti"). Memore dell'esempio di Clemente, Pio XII aveva una lettera di dimissioni pronta nel cassetto nell'eventualità che i nazisti lo arrestassero. Anche Wojtyla aveva preparato una lettera del genere, da divulgare soltanto in caso di infermità inguaribile. Il problema è che per un cattolico fervente nessuna infermità può essere ritenuta veramente inguaribile: equivarrebbe a dubitare della provvidenza, e con tutto il suo coraggio Wojtyla non avrebbe mai realmente osato farlo. Prevalse su tutto una considerazione che non era dettata dalla legge o dalla tradizione (del resto Giovanni Paolo II cambiava leggi e tradizioni ogni volta che lo riteneva utile): nessuno avrebbe potuto essere un Papa credibile mentre Wojtyla era ancora in circolazione. Come aveva detto a un chirurgo già ai tempi delle frattura al femore: “Dottore, sia lei che io abbiamo una sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo guarire. Perché non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Una questione più mediatica che dottrinale.

Oggi che Ratzinger è stanco, e non si fa scrupolo di mostrarlo al mondo, la situazione è piuttosto diversa. Anche qui, non si tratta di dottrina – tutto sommato Benedetto XVI non si è discostato molto dal solco wojtyliano – ma di carisma mediatico: il predecessore ne aveva a pacchi, lui giusto qualche briciola. Il mattino in cui si dimetterà, decine di accorati vaticanisti si stracceranno le vesti, per poi passare immediatamente al toto-conclave senza concedere al rimpianto una mezza giornata in più. Nessuno gli chiederà nemmeno di andarsene, non c'è più nessuna Crimea da evangelizzare. Una camera nei palazzi vaticani non gliela dovrebbero negare, magari proprio quella in cui dormiva quando sognava di subentrare al suo capo. Il bello è che quando Wojtyla volle un parere serio sulla questione delle dimissioni, lo chiese proprio a lui. E lui, ovviamente dopo un accurato studio delle fonti e della patristica e del diritto eccetera, rispose sì, tranquillo, si può fare. Poi è rimasto paziente ad aspettare per altri anni. Troppi anni. I giardini Vaticani un po' come la Fortezza sul deserto dei Tartari. Quando alla fine i Tartari sono arrivati, Ratzinger era già stanco. Il parere che aveva fornito a Wojtyla alla fine sarà servito almeno a lui (è difficile non immaginare a questo punto W. da qualche parte che sorride, sempre tremando un po').
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Ed invece venne il cervo

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C'è una strana storia che racconta Mattia Feltri, di Putin e Berlusconi che scannano un cervo (o meglio: Vlad lo scanna e Silvio sviene). Ma cosa significa?



Ho una teoria (#96). Sull'Unità. E si commenta là. Buona mitopoiesi.


C'è una strana storia che mi è tornata in mente in questi giorni, anche se potrebbe non essere vera, anzi credo proprio che non lo sia. Chiamiamola leggenda. La leggenda vuole Vladimir Putin e Silvio Berlusconi a spasso per la taiga, soli, senza testimoni o interpreti, in un freddo mattino russo. D'un tratto, mentre discutono in qualche misteriosa lingua comune, Putin estrae l'arma di precisione e abbatte qualcosa o qualcuno. Vanno a vedere cos'è: è un cervo. La leggenda descrive quindi Putin sventrare con una lama affilata e pochi gesti esperti l'animale, estrarne il cuore ancora caldo e porgerlo al Presidente del Consiglio, che a quel punto sbianca e forse sviene, come in fondo sarebbe potuto succedere anche a noi.

La leggenda la raccontò qualche mese fa sulla Stampa Mattia Feltri, senza spiegare da che fonte l'avrebbe ottenuta – del resto come si vede la vicenda non prevede terzi testimoni: in scena ci sono solo Vlad, Silvio e un cervo che nemmeno li vede arrivare. È una storia davvero suggestiva, ma negli ultimi tempi forse tra bunga bunga e telefonate ai latitanti di aneddotica sul nostro presidente ne abbiamo avuta fin troppa. Forse era destino che un episodio così ambiguo, di non immediata interpretazione venisse presto dimenticato: anch'io dopo qualche mese non ero nemmeno più sicuro di averlo letto davvero. Per fortuna c'è internet, che in pochi secondi me l'ha confermato: non me l'ero sognata, la leggenda del cuore di cervo esiste. Ma cosa significa?

A prima vista la leggenda parla dell'umanità di Silvio Berlusconi, descritta in contrasto con la ferinità del suo collega autocrate russo. Quest'ultimo è descritto più o meno come lui stesso ama presentarsi ai media: un uomo pronto a tutto, energico, dai riflessi pronti e duttile come un agente segreto: non sa solo ammazzare un cervo al primo colpo, ma è anche in grado di macellarlo seduta stante. Invece Berlusconi no. Berlusconi è disposto a seguire il suo collega ovunque, per amicizia e per ragion di Stato, ma è ancora un essere umano, con le sue debolezze. Feltri probabilmente aveva in mente qualcosa del genere quando sceglie di mettere la storia per iscritto.

Più in profondità c'è la simbologia dell'animale, che nelle culture indeuropee è spesso associato ai cicli stagionali di morte e rinascita. Possiamo immaginare come il pensiero di assicurarsi un nuovo ciclo di potere debba assillare i due vecchi cacciatori. Putin sembra già aver trovato una soluzione, annunciando che succederà al suo successore designato Medvedev – un Crono che mangia i suoi figli. Berlusconi, che non ha mai trovato un Medvedev, un figlio buono da mangiare, ha molte più difficoltà, e forse il dono del cuore allude a questo. Ma il cuore a sua volta porta con se altri garbugli di significato: per le antiche culture dei cacciatori era la sede dei sentimenti (e Putin la strappa via), del coraggio (e Putin la offre a Berlusconi). Sia come sia, la leggenda emette un giudizio: Berlusconi non è pronto, Berlusconi non è adatto. Ma a cosa?

Ecco la mia teoria. Nei boschi Putin ha voluto mostrarsi a Berlusconi per quello che è: un assassino svelto, spietato e competente. Questo significa essere tiranni, e questo Berlusconi non è mai riuscito ad accettarlo. Quando il suo capitolo sarà finalmente finito, avremo a disposizione infinite etichette per lui: lo chiameremo corruttore e forse ladro. Arriveremo a dire che fu un capitano d'industria senza scrupoli, ma sarà solo una metafora: non era un capitano vero, e scrupoli ne aveva, anche per i suoi nemici. L'enorme amore che nutriva per sé stesso finiva per rifrangersi su ogni oggetto vicino e lontano, impedendogli di odiare davvero qualcosa o qualcuno con la determinazione dei tiranni. Dovremo ammettere che aveva tanti difetti, ma non era un violento – fosse stato un violento, forse avremmo avuto quel regime che si è annunciato per vent'anni ma è sempre rimasto nell'aria, un progetto irrealizzabile, come il Ponte sullo Stretto.

Non era un violento, ma nel suo mestiere di presidente e ministro degli esteri ha preteso di trattare coi violenti senza scrupoli come Gheddafi, come Putin. Forse lo sorreggeva l'idea di aver trattato con successo, anni prima, con qualche capetto mafioso – ma un tiranno gioca in una serie diversa, e forse Putin, nel linguaggio dei simboli, ha voluto farglielo notare: tu, piccolo italiano che ogni tanto vieni a trovarmi, e dici di essere mio amico, ma hai capito di che amici ti devi circondare? Siamo assassini, è così che ci conquistiamo il futuro. Noi ogni giorno ci svegliamo con le mani lorde di nuovo sangue: perciò non stimiamo per forza lo straniero che col suo sorriso da venditore ce le viene a baciare.http://leonardo.blogspot.com


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Tre pezzi facili (+1)

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#1. Sono un ribelle mamma. In questi giorni non so più dove ho letto che il motivo per cui in tutto il resto del mondo si presidia una piazza giorno e notte, mentre in Italia si fa il grande corteo al sabato pomeriggio, è che parecchi rivoluzionari insurrezionisti tra i venti e i trent'anni probabilmente sono ancora domiciliati presso i genitori. Non saprei. Comunque temo che la vera specificità italiana non siano i cappucci neri, o i grandi cortei. La triste, autentica specificità del movimento italiano sono i genitori fuori dalla questura che aspettano i figli sotto interrogatorio. E i figli sono tutti ventenni e più. Grandi abbastanza da fare la rivoluzione, ma non per tornare a casa coi mezzi.

#2. Hai mai pensato a un tatuaggetto? Il Pelliccia, che lancia un estintore nel decennale di Carlo Giuliani ma nessuno reputa necessario ammazzarlo, e il giorno dopo è già reprobo in questura, è davvero la Storia che si ripete in farsa. A dire il vero, coi suoi tatuaggetti il Pelliccia celebra inconsapevolmente anche un altro anniversario, quello dell'arresto del geniale Bogdanovic, ultrà serbo idolo di una notte di mezzo ottobre dell'anno scorso. Anche quello era l'autunno più caldo del secolo e anche in quel caso Bogdanovic, che pure era stato così previdente da coprirsi il volto con un passamontagna si ritrovò a mezze maniche coi tatuaggi scoperti. Soltanto che era a cavalcioni di una transenna in eurovisione, insomma, un genio. Possiamo dire tante cose dei tatuaggi dei ribelli. #2a: sono il dettaglio rivelatore del narcisismo dei ribelli sotto i cappucci che tutto dovrebbero coprire e uniformare; lo zampetto del lupo sotto la farina. #2b: Bisogna insegnare ai ragazzini che un tatuaggio è una mutilazione; che ogni segno permanente che tracciamo sul nostro corpo è un'ipoteca su un futuro che non possiamo ancora immaginare: non è detto che quella farfallina, che quella rosellina, che quella frasetta carina ti piaceranno per sempre (o che tu debba passare il resto della vita ad autoconvincertene), ma soprattutto ti potrebbe capitare dopodomani di dover fare la rivoluzione, e non puoi perché hai un ideogramma proprio sul dorso della mano che dovresti usare per impugnare la spranga, ti tocca stare a casa e poi cosa racconti ai nipotini? Che l'ideogramma vuol dire “Mai domo”? Non lo hai capito che ogni ideogramma, una volta tatuato su un'epidermide italiana, ha un solo significato, ed è “forever pirla”?
#2c: bisogna spiegare ai ragazzini che anche internet è una seconda pelle, la bacheca di facebook in particolare: qualsiasi cazzata che hai scritto negli ultimi cinque anni potrà essere usata contro di te dai giornalisti che devono riempire due colonne mentre sei in questura: e adesso tutta l'Italia sa che il Pelliccia cercava relazioni passionali, s'ispirava a Siffredi e gli piaceva Paura e Delirio alla Svegas, ecco, io non so se vorrei essere adolescente in un'epoca in cui qualsiasi cazzata scrivi sull'equivalente digitale della tua smemoranda ti resta tatuato addosso così.
#2d (teoria del complotto alert): mentre noi cerchiamo di spiegare ai ragazzini che tatuarsi è stupido, da qualche parte probabilmente qualcuno sta pensando, ehi, ma quando saranno tutti tatuati, tutti originali, identificarli sarà un gioco da carabin... intendevo, un gioco da ragazzi.

#3. Madonnina dei dolori. Sì, va bene, è andata in frantumi una madonna di lourdes di un valore stimabile intorno ai cento euro. Capisco che qualche prete possa restarci male nello scoprire che qualcuno li considera nemici di classe e parte della casta: magari potrebbero considerare di pagare un po' l'ICI, chissà, forse gli passa. A me però è venuta in mente un'altra cosa. Che fine ha fatto il decreto Maroni... non quello che ha annunciato dopo le devastazioni, no, quello del 2009 che doveva impedire le manifestazioni davanti ai luoghi di culto, siccome che un gruppo di musulmani si era permesso di pregare in Piazza Maggiore? Perché in teoria doveva servire proprio a evitare queste incresciose profanazioni, no? No. Ho paura di no. Probabilmente doveva servire esclusivamente a impedire ai musulmani di fare manifestazioni in centro. E mi pare sia riuscita: vedete musulmani che protestano? La protesta è roba da italiani. I cappuccetti neri, per quanto discoli, hanno comunque le radici cristiane ok, loro possono anche passare davanti a una chiesa ed eventualmente vandalizzarla un po', so' ragazzi. Sarei curioso di sapere cosa sarebbe successo se una videocamera avesse sorpreso davanti alla stessa chiesa due o tre musulmani nel sacrilego e facinoroso atto di inginocchiarsi... Vabbe', fermo ed espulsione immediata.

#4. Io che ho sempre detto che era un gioco. M.fisk, hai ragione, scrivo pipponi inutili, ma finché mi diverto... il problema è meno mio di chi perde tempo a leggerli, quando basterebbe un rapido alt+f4. Ripeto anche a te che non ho mai preteso di sostituire i giornalisti, di essere una fonte primaria, tranne forse l'unica volta in cui mi è capitato di essere davvero in mezzo alla notizia. Hai ragione: sono uno come tanti che legge le stesse notizie che leggono gli altri, ma ogni volta che mi metto a scrivere ho in mente qualche ragionamento che non ho letto da nessuna parte; magari se avessi letto di più lo avrei trovato, ma forse a questo punto mi diverto più a scrivere che a leggere. Del resto giudica tu: i tre pensierini qua sopra non sono niente di speciale; ma li hai letti da qualche altra parte?
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Perché non fanno le BR?

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Alla guerra globale con le fionde

L'insurrezionalismo dei cappuccetti neri non è un fenomeno così nuovo e originale come Maroni & co. vorrebbero. È comunque qualcosa che cronisti e commentatori, non necessariamente superficiali, stanno ancora cercando di mettere a fuoco. Si procede per aggiustamenti: abbiamo accettato che non sono tutti infiltrati (ma sono infiltrabili), non sono tutti fascisti (ma fascisti ce n'è) e che i black bloc internazionali, quelli che sconfinavano ai tempi dei grandi vertici, ormai hanno meglio da fare. Ogni tanto però partono ancora riferimenti storici alla c* di cane, ad esempio c'è chi parla di BR. È un passato che riemerge più per mancanza di fantasia che per altro: non penso che nemmeno i leghisti ci credano, a questa cosa delle nuove BR. È una specie di termine per assurdo, come quando si dice “uscire dall'euro” o “secessione”: se scenari del genere si concretizzassero, sarebbero i primi a sbalordirsi. In cuor loro sanno, come lo sappiamo un po' tutti, che i cappucci neri non rifonderanno le BR, che non ne sarebbero capaci e comunque manco ci tengono: tanto è stridente il contrasto tra il loro movimento e i brigatisti di 40 anni prima (quaranta!) Ne siamo tutti così sicuri che forse vale la pena ridiscuterla, questa sicurezza: capire su quali fondamenti si posa.

Perché i cappuccetti non rifaranno le BR? In fondo brigatisti e cappucci condividono una premessa simile: l'insurrezionalismo. Le azioni di guerriglia urbana, siano sequestri o rapine o vandalismi, sono sempre concepiti come la premessa di una rivoluzione che è possibile: basta solo mostrare alla massa che si può, che la cosa è fattibile.

La differenza sta nel metodo. I cappucci sono vandali, devastatori, e lo rivendicano con orgoglio. Ogni manifestazione è una dimostrazione che la rivoluzione si può fare, anche se probabilmente l'unica idea di rivoluzione rimasta è una piazza ancora più grossa che brucia, con più camionette, più spranghe, più poliziotti da menare di più, in pratica il livello successivo del videogioco.

I brigatisti i videogiochi non li avevano. Erano sicari. I loro metodi consistevano per esempio nell'intimidazione a mezzo ciclostile, nel sequestro, nella gambizzazione, nell'omicidio politico. In ogni caso, si tratta sempre di fissare il mirino su un individuo, un solo esemplare del nemico: non la casta dei padroni, ma quel padrone, quel caposquadra o giornalista servo del padrone, quel sindacalista venduto, quell'uno da colpire per educarne cento. Col tempo l'orizzonte si estende, le Brigate Rosse alzano i mirini dalle officine al parlamento allo Stato maggiore NATO; teorizzano persino lo Stato Imperialista delle Multinazionali... però continuano a darsi obiettivi incarnati in individui: quel politico, quel segretario di partito, quel generale. Basterebbe questo a farci capire che siamo in un secolo diverso. Gli insurrezionalisti del duemila non sequestrano nessuno, non minacciano nessun Nome e Cognome, al massimo si danno come obiettivo la sede di un'istituzione nazionale o internazionale; ma se non riescono ad arrivarci va bene anche una Qualsiasi Banca. L'omicidio politico o il sequestro sono opzioni mai prese nemmeno lontanamente in considerazione, neppure dal più boccalone dei commentatori di indymedia. Varrebbe la pena di chiedersi il perché.

Un'ipotesi (un po' subdola): fare i brigatisti è troppo sbattimento. La vita del sicario, spesso ridotto in clandestinità, richiede una disciplina, una professionalità, una capacità organizzativa che il cappuccetto nero non è in grado di reggere. D'altro canto i brigatisti venivano dalle fabbriche, erano abituati alla sveglia alle sei del mattino e a proiettare la fatica quotidiana in un orizzonte progettuale. I cappuccetti neri sono disoccupati  o precari cronici, la sveglia probabilmente la vivono come una costrizione borghese. Sto senz'altro stereotipando, in realtà non credo che i cappuccetti neri siano (tutti) degli allegri cialtroni: di sicuro hanno capito come si sta in piazza e hanno buone competenze tattiche, maturate nei fantomatici campi d'addestramento greci o più probabilmente in Val di Susa. Però alla fine sono vandali organizzati, tutto qui: non è che debbano gestire sequestri o reti di covi e arsenali in tutta la penisola. Gestire sequestri, soprattutto, richiede un'organizzazione infinitamente più complessa e professionale: e poi servono fondi. È noto il modo in cui i brigatisti si autofinanziavano: rapine.

Ecco, chiediamoci questa cosa: perché i cappuccetti neri non fanno rapine? Una certa contiguità con la criminalità comune dovrebbero averla, almeno quelli che vengono dalla curve. In ogni caso ormai sanno tutto su come violare la vetrina blindata di una banca: non gli è mai venuta la curiosità di dare un occhiata non dico al caveau, ma ai cassetti degli sportelli? Non è che debbano trasformare l'insurrezione in una forma estrema di shopping, come è successo durante gli ultimi riots di Londra: però il saccheggio è pur sempre parte integrante di una rivoluzione, che non è, mi par di ricordare, un pranzo di gala. Vandalizzare una banca senza rapinarla mi sembra come fumare senza aspirare, un voler peccare per forza senza riuscirne a godere. Oltre al fatto che anche i cappuccetti avranno le loro spese: fionde, bulloni, spranghe, corsi di aggiornamento in Grecia in tariffa economica, d'accordo, ma è pur sempre un traghetto andata e ritorno. Cari cronisti, magari la prossima volta che trovate un ragazzo così chiacchierino, fategli la domanda: ma chi finanzia? Perché all'esercito di pancabbestia figli di papà io non ci credo; ce ne saranno senz'altro, ma non possono essere la maggioranza. E quindi? I centri sociali producono davvero tutto questo plusvalore?

Insomma paragonare BR e insurrezionalisti contemporanei è quasi un esercizio di stile. Un discorso diverso meritano le analogie con Autonomia Operaia, sempre dagli anni di piombo, ma quelli dopo il '77. Perché lo spartiacque è quello: chi tira fuori le BR si classifica immediatamente come un barbogio che parla a casaccio e probabilmente tiene ancora in casa 33 giri di prog italiano, la Premiata Forneria Marconi eccetera. Chi parla di Autonomia Operaia ha in mente il punk, e di punk ai cortei insurrezionalisti se ne ascolta ancora. Come dire che gli anni Settanta hanno due lati, il primo è suonato da musicisti professionali e molto tecnici e nessuno osa più passarlo per radio; dall'altra c'è già lo stesso rumore sguaiato che ascoltiamo tutti i giorni. In ogni caso no anche qui è opportuno rimarcare le differenze, non teoriche ma tecniche: nel '77 negli spezzoni di AutOp si vedevano le P38. Gli insurrezionalisti prevedono una rivoluzione globale non molto pacifica, ma per ora l'idea di sporcarsi le mani con armi non anticonvenzionali non li sfiora. Eppure noi non viviamo in un mondo meno armato di quello del '77. La criminalità organizzata controlla interi distretti della penisola: un gruppo insurrezionalista determinato non dovrebbe avere difficoltà ad equipaggiare gruppi di fuoco, in luogo delle falangi con le fionde che saranno anche efficaci a intrappolare le camionette, ma fanno comunque Ragazzi della via Pal. Se non stanno alzando il livello dello scontro alla fase sparatoria, se per lo meno non danno impressione di volerlo fare, neanche a livello di minaccia deterrente, vale anche qui la pena di chiedersi il perché. Va bene essere l'avanguardia della rivoluzione: ma pensate di farla tutta a spranghe e a estintori? In un certo senso sì, perché alle capacità devastatrici (modeste) di spranga ed estintore si aggiunge la potenza della vera arma del cappuccetto nero: il video. La rivolta è più un happening, una liturgia che un effettiva battaglia; tenere una piazza italiana per mezza giornata può considerarsi una vittoria solo se nel frattempo filmi tutto e lo condividi con gli amici. Le pistole in tutto questo non avrebbero senso: molto più fotogenico è l'estintore strappato al nemico, la fionda con tutto il sottointeso biblico (hai un bel da frantumare madonne, alla fine la Bibbia ti prende alle spalle). Sono armi che ti lasciano innocenti: quando si impugneranno i calci delle pistole l'innocenza sarà finita per sempre, ma chissà se succederà mai.

Chissà se ci credono davvero, è la domanda che mi resta in mente. Già qualche dubbio doveva serpeggiare sotto i passamontagna dell'Autonomia, che negli anni Ottanta approdarono ai centri sociali delle grandi città come a un rifugio sicuro. Lì dentro, per vent'anni, l'utopia rivoluzionaria ha ceduto il passo a una proiezione molto più ristretta, quella delle Zone Temporaneamente Autonome, la riserva indiana dell'utopia. Verso la fine degli anni Novanta i centri sociali che non erano diventati semplici discoteche o circoli ricreativi erano incartati in discorsi talmente autoreferenziali da riuscire incomprensibili anche a chi veniva dentro a ballare o a cercare sostanze (solidarietà ai compagni imprigionati durante manifestazioni di solidarietà ad altri compagni imprigionati durante gli sgomberi di centri sociali occupati in seguito agli sgomberi di altri centri sociali). Il movimento antiglobalista internazionale fu una boccata d'aria salutare, di cui alcuni seppero profittare, altri no. Dopo il forum di Firenze la spirale autoreferenziale ha ripreso il sopravvento. Forse l'episodio che ha scompaginato le carte stavolta è stato molto più locale: la guerriglia in Val di Susa. Lì i militanti dei centri sociali non hanno soltanto trovato nuove tattiche. Può darsi che abbiano trovato quello che più di tutto serve a un combattente: un motivo concreto per combattere. Non l'insurrezione globale, ma la difesa di quella valle, quel ruscello, quella gente (che non ha fatto mancare la solidarietà). Forse questo ha reso i cappucci molto più determinati. A Roma hanno portato un'organizzazione più efficace del solito. Ma a Roma c'è anche chi ha tutto l'interesse a usarli da utili idioti, e questo forse se l'erano dimenticato. Su in montagna probabilmente era tutto più chiaro: una linea da tenere, un nemico da punzecchiare, tanti amici pronti a nasconderti... Ehi, un attimo. Anch'io ho poca fantasia: sto ricascando negli anni Quaranta. Meglio finirla qui.
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L'evangelista bue

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(Fermi così, siete perfetti)


Io nel frattempo ho trovato il Santo patrono del Post. Venite a scoprirlo di là, dove nei commenti già mi prendono per Socci, è fantastico.

18 ottobre - San Luca Evangelista (1-84 ca.)
Credo che sia ormai evidente a tutti come la missione di questo blog sia portare la luce della fede in quel covo di razionalisti e laici esasperati che è il Post. Non è certo un disegno che un mortale possa portare a termine senza qualche aiuto altolocato, ed è per questo motivo che, sin dall'inizio, ho deciso di scegliere tra i Santi del paradiso il protettore del Post; non credo infatti che in redazione nessuno ci abbia ancora pensato. Dopo una lunga riflessione ho quindi risolto di nominare San Luca Evangelista, diciotto ottobre. C'è bisogno di spiegare il perché?

Per prima cosa, è il patrono del direttore, quindi un'occhiata da questa parte la buttava comunque. Ma c'è naturalmente molto di più. Di tutti gli autori del Nuovo Testamento, Luca è quello che più può rassomigliare a un moderno giornalista. Benché la sua inchiesta su Gesù sia probabilmente la meno lacunosa, Luca è l'unico evangelista ad ammettere di avere lavorato su fonti già scritte, tra le quali probabilmente il Vangelo di Marco e un'altra raccolta di detti di Gesù che è andata perduta (in realtà le cose sono probabilmente più complicate: ne parliamo un'altra volta). Questo materiale, Luca lo rielabora da buon cronista, in ordine cronologico, cercando di risolvere alcune incongruenze e forse eliminando alcuni dettagli familiari agli ebrei (le impurità rituali), che avrebbero lasciati perplessi i lettori non circoncisi a cui Luca (lui stesso forse non ebreo) si rivolgeva. Nato magari ad Antiochia, Siria (oggi Turchia), una delle tre metropoli del mediterraneo antico, Luca era uno dei più stretti collaboratori di Paolo di Tarso, il principale artefice dell'esportazione del cristianesimo fuori dal mondo ebraico. Il Vangelo secondo lui è soltanto la prima parte della sua opera, che prosegue direttamente dopo il racconto della resurrezione, con gli Atti degli Apostoli. In mezzo ai due libri la tradizione ha piazzato il Vangelo di Giovanni, il libro con più pretese filosofiche e letterarie di tutto il Nuovo Testamento, conficcato come un enigmatico cuneo nella prosa limpida e serena di Luca. Nella seconda parte degli Atti, quella che ha come protagonista San Paolo, Luca comincia a usare il “noi”, segno che dei viaggi di Paolo l'evangelista è testimone oculare: ed è l'unico indizio che ha fatto pensare a Luca, perché in realtà l'autore dei due libri non si firma; da buon giornalista, dopo una prefazione di tre righe scompare dietro ai fatti che racconta. Non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto: gli Atti s'interrompono abbastanza bruscamente mentre Paolo è agli arresti a Roma in attesa di giudizio. Luca è con lui? La tradizione lo vuole sopravvissuto in Beozia, fino all'età di 84 anni. Ma è possibile che un cronista appassionato come lui interrompa un reportage così, di punto in bianco?

Da buon giornalista, Luca prende le sue cantonate. Quando lo Spirito Santo finalmente illumina gli apostoli, da spiccio pescatore qual era San Pietro si ritrova improvvisamente in grado di tenere un discorso davanti a una folla di migliaia di persone, tremila delle quali si convertiranno alla neonata religione seduta stante (At 2,41). E va bene che a Gerusalemme c'era festa ed era venuta gente un po' da ogni dove, ma tremila sembra un dato davvero esagerato, per quei tempi senza microfoni. Potrebbe essere la prima volta che un giornalista gonfia i numeri di un'adunata di piazza. In altri casi forse è l'ideologia che lo frega. Nel suo discorso programmatico di Gesù sulla Montagna dice: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. Almeno, nel Vangelo di Matteo dice così (5,3). Ma Luca quello spirito non capisce cosa voglia dire, e lo cancella: beati i poveri, e basta (6,20). O forse è Matteo che, intimorito dal potenziale rivoluzionario delle parole di Gesù, aggiunge quella parolina, “spirito”, che in effetti può voler dire tutto e niente? Se ne discute da duemila anni, ma nel frattempo non c'è dubbio che di tutti gli evangelisti, Luca sia il più liberal (infatti è il patrono del Post). Non è che faccia propaganda, lo si capisce dal punto di vista che assume, dai soggetti che preferisce inquadrare: poveri e donne, vedove e straccioni. La Chiesa degli apostoli è una comune dove è bandita ogni proprietà privata (e chi sgarra muore sul colpo: At 5,9-10). Per Matteo l'annunciazione era una cosa tra maschi: l'angelo appariva in sogno a Giuseppe e spiegava tutto a lui (Mt 1,20). È Luca a mettere in primo piano Maria, a cui regala il suo primo inno trionfale: il Magnificat (Luca ama inserire preghiere originali e lunghe citazioni: è il patrono del Post).

Poi c'è la questione dei quadri. A un certo punto dell'alto Medioevo – probabilmente nel periodo in cui l'Islam reintroduce il divieto a produrre immagini di Dio, e a Bisanzio infuria la lotta tra iconoclasti (distruttori delle icone) e iconoduli (quelli che invece volevano conservarle), nasce la leggenda - via, diciamo la tradizione - secondo la quale Luca fu pure un bravo pittore, ovviamente il primo del cristianesimo; e gli vengono attribuite tutta una serie di madonne, tra le quali famosissima quella nera custodita a Czestochowa, Polonia, e ovviamente quella nel santuario sul colle di Bologna. Certo, per pensare che Luca (della generazione di Gesù, se non un po' più giovane), potesse aver ritratto la Madonna col bambino bisognava avere un'idea un po' vaga della cronologia del Vangelo, oppure scomodare le solite visioni miracolose eccetera. Ma erano anni duri per gli iconoduli, e non si guardava per il sottile. La scelta di Luca come primo pittore cristiano era quasi obbligata: la tradizione lo vuole medico, e anche se l'esperienza del mestiere non traspare dagli scritti, un po' di esperienza di anatomia si riteneva che dovesse averla. Insomma, scrittore e disegnatore dal vero: si poteva trovare un migliore Santo protettore per il Post?

C'è poi una caratteristica particolare dello stile, che lo rende uno degli evangelisti più apprezzati. Oltre a essere uno scrittore realistico, asciutto, un po' engagé ma senza esagerare, Luca è l'evangelista delicato. Il suo simbolo è il bue, l'animale mansueto (no, non c'entra col presepe, nessun Vangelo parla di un bue accanto all'asinello). Anche quando si muove tra processi e supplizi, riesce sempre a trovare una parola gentile per gente che non necessariamente se la merita. Un esempio tra tanti è quello degli apostoli nell'orto degli Ulivi. Si sa che non ci fecero una bella figura, quella notte: Gesù pregava, colmo d'angoscia e tentato dal dubbio, e loro dormivano. Notate che sono i futuri fondatori della Chiesa. Non è escluso che ronfassero persino, visto che ogni tanto Gesù se ne accorge e li riprende. Non deve essere stato semplice, col senno del poi, ricordarsi delle parole del Maestro: “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” Così in Matteo (26,40). In Marco, (14,37-38) Gesù si rivolge al solo Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?”. Tutto vano: gli apostoli hanno gli occhi “appesantiti dal sonno”: si addormenteranno di nuovo, per svegliarsi solo all’arrivo di Giuda con le guardie.

Luca invece è delicato. Gli apostoli dormivano, sì, ma “per la tristezza” (22,45). Sembra l’unico passo in cui Luca usa questa parola, “tristezza”. Non sono teneri, questi futuri santi e pontefici, che si addormentano dalla malinconia? Ma sarà vero che di tristezza ci si possa addormentare? A voi è mai capitato?

Io ho dovuto pensarci un po’, ma in effetti sì, mi è capitato. E a volte ancora mi capita. Luca non è solo un giornalista, Luca è un grande scrittore. Si capisce dai piccoli dettagli.
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La guerriglia prevedibile

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(Fermo così, sei perfetto).


D'altro canto chi poteva aspettarsi che una manifestazione al di sopra delle parti e dei partiti rigorosamente spontanea senza leader e senza servizio d'ordine potesse andare a finire con della gente vestita di nero e organizzata non si capisce da chi e da cosa che brucia le macchine e scrive sui muri e la polizia invece di fermarli carica la povera gente che non se lo poteva aspettare? Chi se lo poteva aspettare?
Mah, per esempio, tutti. La non imprevedibile vittoria dei Caschi Neri (H1t#95) è sull'Unità, e si commenta là. Venite senza casco.

Anche a me è capitato, come a tanti, di restare sbalordito di fronte alle immagini che sabato arrivavano da Roma. E però dopo un po' che guardavo caschi neri e camionette in fiamme mi sono chiesto: ma di cosa oso stupirmi, ancora? Non avrei dovuto aspettarmi tutto questo? Non è lo stesso copione delle marce in Val di Susa, non sono successe cose simili il 14 dicembre, per tacere del g8 di Genova, dopo il quale davvero non dovrei più essere autorizzato a stupirmi di niente? Non è in fondo il solito compitino sulla traccia impartita da Francesco Cossiga (“lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città...”)? No, io non credo di avere il diritto di stupirmi, e non credo che ce l'abbiano i manifestanti del movimento. Che rinasce ormai più volte all'anno con nomi e rivendicazioni diverse, dall'onda viola agli indignados, e ogni volta fa marcare la sua distanza da quello che c'era prima, e dai partiti e dai sindacati, e insomma rivendica il suo diritto a rinascere mondo di ogni peccato e inconsapevole di ogni dinamica di piazza – salvo poi inorridire davanti a disordini e situazioni che chiunque ha frequentato la piazza negli ultimi anni purtroppo non può fingere di non conoscere. E mentre rinasce vergine ogni sei mesi, i parassiti devastatori in casco nero si presentano a ogni appuntamento più organizzati e professionali. Alla fine non dovrebbe davvero sorprenderci se sono loro a prendersi le prime pagine. In fondo se le meritano, sono gli unici che hanno memoria e sanno imparare dai loro errori.

Tra sei mesi, quando soltanto qualche automobilista danneggiato si ricorderà più dei fatti di Roma, e le condanne o le assoluzioni per devastazione e saccheggio finiranno a pagina venti, è facile immaginare che sorgerà un nuovo movimento su facebook o altrove, che difenderà giustissime istanze e sacrosantissime recriminazioni colpevolmente fino a quel momento ignorate eccetera. I leader saranno ovviamente facce nuove, che rifiutano la vecchia politica dei partiti e la vecchia gestione della piazza dei sindacati. Resta da vedere se anche loro commetteranno l'errore di accogliere, nella propria piazza, dietro ai propri slogan, chiunque vorrà venire, pur di far numero. Perché l'errore sta tutto lì. Gli indignados avrebbero potuto mantenere un'identità forte, una piattaforma precisa, e puntare più sull'ostinazione che sul numero: come i loro ispiratori di Wall Street, o gli egiziani di piazza Tahrir che prima di essere migliaia furono centinaia. Ma in Italia non si fa così. In Italia prima si rimarca la distanza tra partiti e associazioni; e poi si fa entrare allegramente chiunque, pazienza se hanno il casco. I dieci anni da Genova avrebbero potuto insegnarci qualcosa, ma noi ci ostiniamo a rinascere tutti gli anni dimentichi degli errori dei padri, o dei fratelli maggiori, o di noi stessi quando invece di essere indignados eravamo noglobal o qualcos'altro.

Nel frattempo Libero e il Giornale festeggiano con la stessa, identica prima pagina. Ieri, come un anno fa, le immagini di Roma in fiamme soccorrono Berlusconi proprio quando ha bisogno di mostrare che l'unica alternativa a sé stesso è il caos. Ora, tagliamo corta la dietrologia. Il metodo Cossiga è pur sempre un metodo, che per essere applicato necessita di risorse e intelligenze, ed è lecito a questo punto domandarsi se al Viminale queste risorse, queste intelligenze ci siano. Ed è pure vero che i tagli hanno colpito anche le forze dell'ordine.

Però non potete venirci a raccontare che gli stessi organi di polizia che riescono ad arrestare boss di mafia e camorra non siano in grado di capire chi siano i caschi neri né quando e dove colpiranno. Va bene, non sono tutti ragazzini; non sono tutti di estrema destra; non sono tutti ultras; non sono tutti dei centri sociali. Ma sono tutti lì. Comunicano con sms e forum, mica pizzini. Non dovrebbero essere così difficili da intercettare o infiltrare. Allora i casi sono due: o li avete intercettati, e magari infiltrati, dando loro una mano a devastare il devastabile; o avete deciso di non intercettarli e infiltrarli, permettendo loro di devastare il devastabile.

Non so quale delle due prospettive mi piaccia meno, ma entrambe portano alla stessa conseguenza: questa è la devastazione che serviva al governo per tenersi in sella e dissodare l'imminente campagna elettorale, questa è la devastazione che i caschi neri prontamente gli hanno servito, questa è la devastazione che le forze dell'ordine si sono ben guardate dal reprimere, contentandosi come sempre di sparare fumogeni e manganellare un po' a casaccio. Tutto stupefacente, se non fosse già successo fin troppe volte. E può darsi perfino che succeda ancora, ma per favore, che nessuno si senta più sbalordito da qui in poi.http://leonardo.blogspot.com
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Questo non è un orgasmo

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E basta, non è che devo fare altro per vendervi il pezzo. Ho già scritto nel campo titolo "orgasmo", sarà comunque il più cliccato dell'anno.
Eh, lo so, con tutti i problemi che ci sono al mondo.
Comunque oggi era la festa di Santa Teresa d'Avila, santa un po' meno orgasmatica di quanto si creda in giro, o no? No? Boh, sul Post se ne parla.

15 ottobre - Santa Teresa d'Avila (1515-1582), Vergine e Dottore della Chiesa

Il primo orgasmo della Storia dell'arte: quando pensiamo a Teresa d'Avila di solito pensiamo a questo. La Santa in questione ha scritto migliaia di pagine, è passata per il tribunale dell'Inquisizione, ha riformato un ordine religioso, fondato diciassette conventi, percorrendo la brulla Spagna del Siglo d'Oro a dorso di mulo. Nel frattempo probabilmente soffriva di epilessia e aveva nausea e malesseri tutti i giorni. Con tutto questo, è arrivata lucida a 77 anni. Poi è successo che nel secolo successivo il più grande architetto-scultore del barocco romano, Gian Lorenzo Bernini, le abbia dedicato il suo capolavoro, un vero film di marmo e luce, ispirato a una pagina della sua biografia. È un film di un solo fotogramma, ma chi l'ha visto non se lo dimentica. La Santa guarda l'angelo e si sente trafiggere il cuore. È una sensazione dolorosa e piacevole, la trasverberazione, che la pervade totalmente. È un orgasmo? Lacan non aveva dubbi (“elle jouit, ça ne fait pas de doute”), e per qualche tempo nessuno ha osato avere dubbi su Lacan. Come dire che Bernini (mica un qualsiasi pornografo, uno degli artisti più autorevoli della Chiesa romana post-tridentina, zelante lettore di Ignazio di Loyola), si sarebbe lasciato sfuggire un orgasmo di Santa così, per distrazione, come ad altri sfugge un sogno o una parola di troppo: un lapsus di marmo. Ma sul serio possiamo dire che orgasmo ed estasi siano la stessa esperienza? Sulla base di quali conoscenze? Abbiamo mai sperimentato un'estasi? (abbiamo mai sperimentato un orgasmo?)

Nel testo Teresa descrive un dolore-piacere che parte dal muscolo cardiaco. È una sensazione ineffabile che decidiamo di chiamare “orgasmo” perché non ci viene in mente niente di meglio. In effetti, non ci viene mai in mente niente di meglio di un orgasmo. Ma è un limite nostro, non di Teresa. Lei ha passato una vita a meditare e coltivare sensazioni che noi non abbiamo mai provato (quando non era impegnata a dirigere conventi e a litigare con altri direttori di conventi). Anche stavolta, più che di una suora carmelitana del Cinquecento, stiamo parlando di noi. Sul testo rimbalzano le nostre ossessioni. Ha scritto che le è piaciuto “un po', anzi molto”, quindi dev'essere per forza un orgasmo. Ora crederete che scherzo, ma leggete per esempio questo passo del catechismo di Odifreddi (Perché non possiamo dirci cristiani, p. 103):
L’esempio più tipico è quello in cui l’ipersensibilità e l’autoesaltazione di una giovane le fanno scambiare una fantasia autoerotica, sensuale o sessuale, per l’incontro con un vero essere, angelico o divino. È probabilmente successo nell’annunciazione di Maria, ed è certamente successo nella famosa Estasi di Santa Teresa, raffigurata dal Bernini nel 1652 in Santa Maria della Vittoria a Roma, sulla base del vivido racconto della stessa protagonista nella sua autobiografia:

"Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento".

L’abbiamo provato, Teresa, l’abbiamo provato. Solo che lo chiamiamo con un nome un po’ più prosaico di trasverberazione, “esperienza indicibile”, e lo celebriamo un po’ più spesso di una sola volta l’anno.
Va bene, Odifreddi, siamo contenti se celebri anche più orgasmi all'anno, ma ti dovrebbe comunque restare un po' di tempo per studiare le cose di cui parli. “L’autoesaltazione di una giovane”... Teresa aveva già quarant'anni. E sul serio: come fai ad affermare che si sia trattato “certamente” di una fantasia autoerotica? Sulla base di che studi, qual è la branca delle scienze che ti consente di trarre conclusioni “certe” dal resoconto di una mistica del Cinquecento? Perché io non mi fiderei nemmeno se me lo dicesse Freud. Per il quale del resto Teresa era un'isterica, il che non stupisce affatto, visto che Freud curava per lo più pazienti isteriche, e che i suoi metodi li aveva messi a punto studiando l'isteria, e si sa, se hai un martello in mano tutto ti sembra un chiodo. Oggi l'isteria neppure esiste: è stata tolta dall'elenco delle malattie mentali (DSM).

È rimasto solo il modo di dire, che ci ricorda quei tempi prefreudiani in cui si riteneva che disturbi del genere potessero essere originati da infezioni dell'utero o delle ovaie – per cui a fine Ottocento i malesseri psicologici di migliaia di donne si curavano con l'ovariectomia bilaterale. Questo forse non c'entra più nulla con Teresa, che nel Cinquecento, con tutta la sua isteria e le sue visioni (memorabile quella dell'inferno, che non durò più di un battito di ciglia e la terrorizzò per il resto della vita) ebbe una carriera di tutto rispetto, occupò posizioni di potere, e in un qualche modo riuscì a domare i suoi demoni e i suoi angeli interiori. Fosse vissuta a fine Ottocento, magari un medico le avrebbe strappato le ovaie per farla stare "meglio". Fosse in vita oggi, passerebbe lunghi pomeriggi catatonici davanti a una tv, prendendo tempo tra l'assunzione di un antidepressivo e un antiepilettico. E nessun angelo verrebbe a trafiggerla con un dardo dorato. Odifreddi ci direbbe che sta meglio così, ma per fortuna non dobbiamo necessariamente essere odifreddiani.

Per conoscere meglio Teresa si può partire dal Libro della sua vita, che è qui. Di Teresa si è recentemente innamorata la studiosa postmoderna Julia Kristeva, e questo è il suo poderoso romanzo di seicento pagine, che io non ho letto poiché la vita è breve. Invece le storie a fumetti di Teresa, disegnate da Claire Bretécher, si leggono in poche ore e sono molto divertenti.
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Sradicateli

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La foto via Malvino
Lo scrivo qui perché vorrei che si sentisse il più chiaro e il più forte possibile. Io questi signori non li voterò più. Non riesco nemmeno a capire com'è possibile che sia successo, che io li abbia votati.

E' successo che tre anni fa mi fu proposto di votare un partito di centrosinistra che doveva farla finita coi cespugli e con gli inciuci; e in effetti quel partito sbatté fuori dal parlamento verdi e comunisti. Però nel frattempo aveva imbarcato questi qui, che di voti probabilmente non ne portavano più di un 2%, ma ottennero nove seggi sicuri tra Camera e Parlamento (e una cospicua percentuale del rimborso spese elettorali; sarei curioso di sapere com'è andata a finire, se insomma oltre alla valanga di denaro che sborso per Radio Radicale ho pagato pure i loro manifesti).

Già allora la cosa lasciava perplessi, però io quel favoloso PD egemone e duro e puro lo votai lo stesso, respirando forte. Poi è successo quel che ognuno poteva immaginare: in capo a qualche mese si è scoperto che lorsignori votano un po' come gli va; e che gli ordini, piuttosto che dai capigruppo PD di Camera e Senato, li prendono da tal Giacinto Pannella detto Marco, il loro guru. Insomma, è successo. Una setta di poche migliaia di persone si è fatta regalare nove seggi nel Parlamento, oltre a tutto lo spazio mediatico che possono ottenere giocando al Mi Si Nota Di Più Se Entro All'Ultimo Momento.

Va bene. Va tutto bene. Ora credo che la piccineria di questi signori sia evidente anche ai sordi e ai ciechi, e a quelli che, avendo studiato la Storia dell'Italia contemporanea sugli album Panini, si erano convinti che senza radicali non avremmo avuto divorzioabortomoratoriallapenadimorte (e Fioravanti starebbe ancora scontando uno qualsiasi dei suoi ergastoli). E posso dare per scontato che nessun dirigente del PD stia ancora pensando di imbarcarli nel prossimo grande partito egemone a vocazione bipolare eccetera.
Posso?

Perché - vorrei che fosse chiaro - se ne imbarcate anche uno solo, voi il mio voto ve lo scordate. E non soltanto il mio, direi.
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Rimpianto per un golpe mancato

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Just a little Putsch
Senz'altro fanno più colore gli sbadigli di Bossi, però di tutto l'inutile discorso di Berlusconi a mezza Camera io trovo molto più significativo e beffardo quel complimento all'“impeccabile” Napolitano. In effetti, quando mercoledì il governo è andato sotto sul bilancio, Napolitano ha avuto la più bella occasione di dichiarare decaduto il governo, e non lo ha fatto.

Certo, sarebbe stato un atto senza precedenti (ma tutti gli atti hanno avuto un precedente senza precedenti). Un'interpretazione del dettato costituzionale tutt'altro che "impeccabile". E da destra qualcuno avrebbe gridato al golpe. Con qualche ragione. D'altro canto la destra è proprietà di Berlusconi, che tiene insieme la sua maggioranza acquistando volta per volta i voti che gli servono. È una pratica che può definirsi costituzionale? Lo stesso Berlusconi, lasciando stare le decine di processi che lo riguardano, è sempre stato ineleggibile, secondo quella famosa legge del 1957. Ciononostante gli è stato consentito di candidarsi; di avvantaggiarsi di tre emittenti televisive nazionali, una delle quali trasmetteva illegalmente e ha continuato a farlo finché Berlusconi, vinte le elezioni, non è riuscito a cambiare la legge. Cosa c'è di esattamente costituzionale, in tutto questo? Del resto, se cominciamo a elencare le offese arrecate da B. alla Costituzione non ne usciamo più. Ricordiamo soltanto che B. considera la Repubblica parlamentare, così com'è stata disegnata nella carta del 1948, superata dai fatti nel momento in cui è riuscito a scrivere sullo stemma del suo partito “Berlusconi presidente”. Lo ha ribadito ieri: per lui l'unico governo legittimo possibile in questa legislatura è il suo, perché la maggioranza dei cittadini non ha eletto dei parlamentari senza vincolo di mandato, o meglio lo ha fatto senza pensarci, in realtà voleva solo fare la crocetta su “Berlusconi presidente”.

In soldoni: Berlusconi non ha rispettato mai la Costituzione e, se lo lasciamo al suo posto, farà tutto il possibile per svuotarla di senso o stravolgerla. B. non ha mai giocato pulito. Questa è una constatazione perfino banale. E allora perché insistiamo a voler giocare pulito con lui? Perché insistiamo ad appellarci a un dettato costituzionale che lui invece può violare quando e come vuole? Perché continuiamo a credere di poterlo battere ad armi dispari, su un campo in salita?

È una domanda che mi faccio da anni. La riposta che mi do è che la Costituzione del 1948, per quanto sbrindellata dalle riforme che l'hanno tirata di qua e di là, è tutto quello che abbiamo. Prima c'era il fascismo, dopo non è concepibile nessuna prospettiva. Persino ora siamo convinti che si tratti si salvare la nobile Carta dalle offese di Berlusconi e Bossi, quando si tratta invece di salvare noi stessi, con o senza Carta; la quale non è un fine, ma il mezzo che in teoria avrebbe dovuto servire a proteggerci da situazioni come queste. È evidente che non ha funzionato; ciononostante non riusciamo a separarci da lei. È la nostra coperta di Linus. Se fossimo francesi, a quest'ora ne avremmo già riscritte tre: ma loro sono venuti su così, ai tempi della ghigliottina ne mandavano fuori una all'anno. Persino a De Gaulle, il salvatore della Francia, lasciarono fare un putsch o forse due. Sono cose che capitano: se la Quarta repubblica non va, si preallertano i generali e si prepara la quinta, che male c'è. Invece noi, con tutto che sono vent'anni che non facciamo che parlare di “seconda repubblica”, tuttora non siamo pronti all'idea che una repubblica possa sul serio voltare pagina con qualche violenza: inorridiamo all'idea che qualcuno possa fare anche solo un minimo atto di forza, mandare due camionette davanti all'ingresso di Palazzo Chigi – neanche per arrestare lorsignori, no, soltanto per impedire l'ingresso ai figuranti, per notificare che dopo il Bagaglino anche il cosiddetto Consiglio dei ministri ha chiuso.

Dopodiché, certo, qualcuno brontolerebbe. In tv più che in piazza, direi. E a quel punto bisognerebbe forse bombardare Cologno, ma magari questa è solo una fissazione mia.
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