San Silvestro non c'era, o dormiva

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A Si', chette serve?
Non è un Papa da veglioni. Non è neanche un Papa da donazioni. Un Papa che indicono il concilio di Nicea e lui manco si presenta. Effettivamente, Silvestro è famoso soprattutto per le cose incredibili che non ha fatto. La grande truffa della Chiesa d'Occidente è sul Post, buona notte (e buon anno).

31 dicembre – San Silvestro, Papa (†335)
“La notte di San Silvestro”. Non so chi abbia cominciato a chiamarla così. Non è un’espressione antica: nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto, quindi si trattava piuttosto della notte della Circoncisione di Gesù (primo gennaio). D’altro canto fino al Settecento ognuno festeggiava il capodanno un po’ quando gli pareva, per la gioia delle cancellerie. Non c’era consenso nemmeno tra una città e l’altra: a Venezia l’anno iniziava il primo marzo, perciò dicembre era davvero il decimo mese. A Firenze cominciava il 25 marzo: a Pisa anche, ma c’era un anno di differenza, così, per il piacere di complicarsi la vita. In Francia si cominciava con la Pasqua. Esatto, era una festa mobile, quindi ogni anno aveva un numero di giorni diversi. A Bisanzio, ma anche nel meridione e in Sardegna, si cominciava il primo settembre, che in fondo anche oggi è il capodanno vero, quello senza spumante e con tanta tristezza. Ufficialmente però alla fine ha prevalso lo “stile moderno” – che in realtà adoperavano già i romani nel secondo secolo avanti Cristo, detto anche “della circoncisione”, perché gli ebrei venivano circoncisi nell’ottavo giorno dalla nascita, e quindi a Gesù sarebbe capitato il primo gennaio, appunto. E San Silvestro, in tutto questo?
Niente. Non c’entra niente. Eppure da bambini, a furia di sentire parlare di “veglione di San Silvestro”, finivamo per immaginare uno di quei santi bonaccioni che portano doni nottetempo: un Santa Klaus per adulti, niente regali per i bambini ma un magnum per mamma e papà, e poi danze, ricchi premi et cotillons. Ebbene no, San Silvestro non è quel tipo di Santo. Silvestro Papa è l’ultima persona che invitereste a un veglione, San Silvestro è uno dei santi più opachi del calendario, notevole non per quello che ha fatto (resse la Chiesa di Roma ai tempi di Costantino), ma per quello che non ha fatto. Per esempio non ha indetto il concilio di Arles (314) che condannò lo scisma donatista: ci pensò Costantino. Undici anni più tardi a Nicea si tenne il primo concilio ecumenico della Chiesa universale, che condannò lo scisma ariano, e Silvestro non lo organizzò: ci pensò anche stavolta Costantino. Il papa non trovò nemmeno il tempo di andarci. Insomma appare abbastanza chiaro che all’inizio del quarto secolo il vescovo di Roma era una figura di secondo piano. Più in generale, era Roma che stava perdendo colpi. Era ancora il simbolo dell’impero, da poco si era munita di mura, ma non era più capitale. Non reggeva il dinamismo delle ricche metropoli orientali, Alessandria d’Egitto e Antiochia in Siria. Ma anche i Cesari e gli Augusti d’occidente le preferivano città più prossime ai confini, come Milano o Treviri. Costantino le avrebbe dato il colpo di grazia, fondando Costantinopoli – lui in realtà pensava di chiamarla “Nuova Roma” o qualcosa del genere, non era quel tipo di tiranno che si dedica le città da vivo.
Silvestro è ricordato come un grande confessore: si tenne prudentemente alla larga dalle dispute cristologiche, e tutto lascia capire che accettò senza troppi patemi che Costantino, imperatore non battezzato, gestisse le pratiche conciliari senza di lui. Tutto qui? Tutto qui. Tranne un piccolo dettaglio. Qualche secolo dopo la sua morte, Silvestro diventa famoso come protagonista della più grande patacca della Storia europea (diciamo che se la gioca alla pari con i Protocolli dei Savi di Sion): la Donazione di Costantino, un documento falso scritto probabilmente nel nono secolo, ma attribuito a un cronista-notaio di cinque secoli prima. La Donazione racconta di come Costantino, colpito dalla lebbra (!), si fosse rivolto ai sacerdoti pagani, i quali prontamente gli suggerirono il rimedio: un bel bagno rigenerante nel sangue di neonati. Sdegnato, ma anche un po’ disperato, Costantino si riduce a chiedere aiuto a Silvestro, che prontamente lo guarisce. A questo punto l’imperatore decide di omaggiare il pontefice con una modesta elargizione di territorio: la città di Roma, tanto per cominciare; lo Stato della Chiesa tra Lazio e Ravenna, e poi… e poi, crepi l’avarizia, tutto l’Impero d’occidente, anzi tutto l’occidente, fino al mare e anche più in là. Tant’è che quando nel quindicesimo secolo nasceranno controversie tra spagnoli e portoghesi sulle colonie americane, sarà la Chiesa a fare da intermediaria, basando il proprio diritto proprio sul testo della Donazione.
E a questo punto sorge spontaneo l’interrogativo: come hanno potuto crederci davvero, per tutto quel tempo? Ci voleva davvero l’acume filologico dell’umanista Lorenzo Valla per notare qualcosa di sospetto in un testo classico che parla di “feudi”? Nel testo è sottolineata l’importanza, guarda un po’, del Papa di Roma: Costantino chiede che sia riconosciuto superiore ai patriarchi di Antiochia, Alessandria e… Costantinopoli. Ma ai tempi di Costantino, Costantinopoli era ancora un cantiere, e soprattutto, come abbiamo visto, nessuno l’aveva ancora chiamata così. Per essere creduta autentica, insomma, la Donazione richiedeva uno sforzo di fede ben superiore a quello dei misteri cristologici e trinitari. Fa un po’ effetto, a chi ri-studia la Storia da adulto, e si sforza a ogni passo a trattare gli oggetti del suo studio da adulti, adulti inseriti in un contesto di credenze molto diverso dal suo, ma pur sempre adulti, non fanciulli russoviani o vichiani: fa un po’ effetto, dicevo pensare che per mezzo millennio la favoletta della fontana di sangue di neonati fu presa sul serio anche dai detrattori del potere secolare della Chiesa, uomini di potere o intellettuali come Dante:
AhiCostantindi quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! Inferno (XIX)
Eppure in un qualche modo funzionò. Forse qualsiasi favoletta funziona, basta ripeterla con ostinazione. Per esempio, provate con me: “La Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI”… ehi, funziona.
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Consuntivo 2011

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Quello che finisce oggi è stato, per questo blog, l'undicesimo anno. È un dato che parla da solo, e non è che dica cose molto rassicuranti nei confronti dell'autore del 99% di quanto è stato pubblicato qui. Al di là di qualsiasi considerazione sull'utilità, perfino sulla necessità del tenere aggiornata una pagina on line, nessuno dovrebbe bloggare così tanto. Siamo evidentemente di fronte a una patologia, anche se a tutt'oggi non è chiaro se il blog sia la malattia o la cura. Forse è la diagnosi. Io poi in qualche modo ho anche una vita, un bel lavoro, una famiglia che promette bene, non è che mi stia crescendo la gobba. Ho anche quasi smesso di bere (quasi), perché di notte poi non riesco a scrivere. Qualsiasi vizio che confligge con l'alcolismo mi sembra tutto sommato coltivabile.

Con tutto questo, l'anno che finisce oggi poteva davvero essere l'ultimo. Oltre alla tentazione della cifra tonda, c'è la vita che va avanti e riduce inesorabilmente le ore dedicabili ai passatempi, perlomeno a gennaio la vedevo così. Più che a chiudere, pensavo che dall'estate in poi il blog sarebbe finito in coma vigile, giusto un aggiornamento settimanale per segnalare le teorie sull'Unità. Quel che invece è successo, dall'estate in poi, è che riducendo il tempo, invece di diminuire le parole, sono calate le censure, e mi sono messo a scrivere di tutto e di più come se non ci fosse un domani, letteralmente, rubando ore al sonno e agli affetti, alzando la posta con un nuovo blog a tema agiografico, e il risultato è che il 2011 è stato uno degli anni in cui ho scritto di più, forse il più verboso in assoluto (non ci tengo a controllare). La filosofia sottesa è: diamoci dentro fin che siamo in tempo. Ma insomma si è capito che se mi togliete il tempo mi togliete il silenzio, non la parola. Io avrei bisogno di più tempo non per scrivere, ma per cancellare almeno la metà della roba che scrivo.

I cinque pezzi più letti del 2011:
1. Il più grande B. dopo il Big B. (aborto di una critica sistematica al programma di Renzi, molto apprezzata dai lettori dell'Unità)
2. Nudo! Vogliamo don Giussani nudo! (curioso successo postumo di un pezzo scritto nel 2003, quando don Giussani era ancora vivo (e proprio non voleva spogliarsi)).
3. Non siete così peggio di Breivik (scritto col telefono, adesso il mio t9 a ogni "br" mi consiglia Breivik).
4. Film per adulti (buffo, proprio adesso su rai3 stanno dando Noi credevamo. Il titolo continua ad attirare lettori che probabilmente non si aspettano la recensione di un film sul risorgimento).
5. Ovunque è Piazzale Loreto (la presenza di Buffon deve aver fatto la differenza).

Parliamo di accessi. C'è chi si vergogna di parlarne, chi nasconde il contatore: bisogna sempre prima puntualizzare che si scrive per sé stessi, e si scriverebbe anche solo per cinque lettori. Ecco, io no. Per me il contatore è parte integrante del gioco da tantissimo tempo. Non mi interessa scrivere per me stesso, francamente a questo punto non saprei neanche cosa scrivermi, dopo tanto che stiamo assieme è già tanto che ci sopportiamo. A me interessa produrre cose che gli altri trovino interessanti e leggibili: e più sono gli altri meglio è.

I pezzi più linkati:
1. Se ci riflettete
2, Lettera a Bruxelles
3. I diabolici agit-prof

Da questo punto di vista trovo abbastanza impressionante il fatto che malgrado i quaranta post in più rispetto all'anno scorso (come se quest'anno avesse avuto due mesi in più); malgrado un'opera di autosegnalazione sui social network sempre meno episodica, sempre più sistematica (e senza vergogna); malgrado le sinergie con l'Unità e il Post che sono due delle realtà internettiane più dinamiche in Italia... trovo abbastanza impressionante, dicevo, che gli accessi di quest'anno segnalino una perdita secca del 5% rispetto al 2010. È senz'altro lo spread più inoffensivo dell'anno, ma è un segno di crisi: anche perché, ribadisco, nel 2011 mi sono sbattuto quasi il doppio. Cosa sta succedendo? Si è deteriorato un rapporto coi lettori? Che fine hanno fatto i dialoghetti (è vero, non ne scrivo da un pezzo)? I raccontini? (quest'estate ho praticamente scritto un libro e non se n'è accorto nessuno), le recensioni? (non vado più al cinema). Ma ha ancora un senso questo blog dopo Berlusconi?

Non saprei. A occhio mi sembra una tendenza generale: i blog stanno perdendo traffico. Non sono più al centro della sfera: raramente ci si trova a conversare sotto il post di qualcuno. Gran parte della conversazione si è spostata sui network (in Italia il 2011 è stato l'anno della riscoperta di twitter), mentre i blog si sono appiattiti lungo le pareti: sono fonti da citare, carte da consultare. Se uno accetta questa nuova situazione, può anche immaginare un rinascimento dei blog nel 2012.

I pezzi più discussi (nei commenti):
1. Lettera a un giovane Ichino
2. I diabolici agit-prof.
3. Perché ho scelto Scienze Inutili
4. Sradicateli
5. Il più grande B. dopo il Big B

Io però con l'occhio al contatore mi pongo il problema. Dove diamine è finito facebook? Non mi arrivano più accessi da facebook. Lo scorso gennaio era ancora l'indirizzo che complessivamente mi mandava più nuovi utenti. Ora è sparito. Magari è solo occultato, facebook è veramente molto opaco. Però ricordo che anche solo un anno fa ci raccontavamo di come facebook non fosse la morte dei blog, ma un'opportunità di far conoscere a un pubblico molto più vasto i nostri contenuti: ecco, quella fase mi sembra finita, in modo anche abbastanza improvviso. O forse semplicemente non sono in grado di attirare l'attenzione su facebook. Vi faccio un esempio. Uno dei miei post più letti in assoluto quest'anno è del 2003. È successo che una domenica di febbraio, mentre cercavo di buttar giù il pippone per l'Unità, abbia letto l'ennesima uscita infelice della Gelmini e ne abbia scritto dieci righe sdegnate ed estemporanee su Piste. Stava piovendo, il dettaglio credo sia decisivo. Nel giro di poche ore il mio pezzino estemporaneo è stato condiviso, tramite facebook (ma anche e okvirgilio), da dodicimila persone: il post di Leonardo che quest'anno ha fatto di meglio è arrivato giusto alla metà. Di queste dodicimila, almeno quattromila hanno seguito un link che da Piste mandava a un vecchio pezzo del 2003. Sono episodi come questi, che mi rituffano nel 2003 e spiegano credo meglio di ogni teoria perché ormai il ranking, le classifiche basate sui link, non interessino più a nessuno. Essere lincati da un centinaio in più o in meno di blog amici non fa più molta differenza. Essere segnalati nel momento giusto (domenica mattina di pioggia) dall'utente giusto su facebook, o su twitter: questo fa la differenza. O almeno la dovrebbe fare. Tranne che da febbraio in poi facebook è quasi scomparso dal radar, e questo può in parte giustificare il 5% in meno.

I due pezzi più apprezzati da chi ha votato ai BlogAwards:
1. Il lodo Ligabue
2, Non siamo malati

I post migliori.
Ditemi voi nei commenti quali vi sono piaciuti di più; io davvero quest'anno non saprei cosa dire. Metà non me li ricordo proprio: credo sia indicativo. Devo dire che, al di là dell'effetto finale, i pezzi sul Post sono molto divertenti da scrivere. Una cosa che mi ricorderò del 2011 sono state le XXI notti: devo dire che l'agosto continua a esercitare un fascino particolare, l'idea di aggiornare il blog per pochi ossessivi nottambuli. Rimane il solito problema: la narrativa non fa accessi, la narrativa fa proprio scappare la gente. Perlomeno su questo blog. Perlomeno quando la scrivo io. Mi piacerebbe scriverne di più, ma a voi no. Potrei anche fregarmene, ma non era questo lo scopo del gioco, nel 2011. Magari nel 2012 mi metterò a scrivere endecasillabi sciolti di argomento pastorale, magari. Mi resta sempre la sensazione di scriver troppo e di non spiegarmi, dopo tanti anni di non avere ancora imparato a fare l'unica cosa che continuo ostinatamente a fare, che è stare qui a pestare tasti tutta la notte. C'è roba nel mio archivio - i primi anni - che ormai mi fa pietà e spavento. Cancellerei, ma non è sportivo. In fondo non faccio che scriverci sopra come se fosse un palinsesto, nella speranza che l'ultimo strato sia così buono che a nessuno venga voglia di grattare, di scavare, di vedere cosa c'è sotto: così ogni anno che cresce io mi seppellisco sotto un'altra tonnellata di scrittura, e non funziona, alla fine salta fuori tutto alla rinfusa, google non perdona, io lo so ma l'unica cosa che posso fare è scriverci sopra, scriverci contro, alla fine questi quaranta tasti è come se fossero un tasto solo che dice cancella, cancella, cancella - sì, no, scusate, buon anno.
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Monsignori, cacciate la grana

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Stavo per titolare così sull'Unità, ma poi ad Avvenire si mettono a piangere e dicono che c'è un complotto massonico per fare pagare le tasse ai poveri preti, tutta colpa di Francesco Crespi o giù di lì.


L'ICI e i piagnistei dei monsignori (H1t#106) si legge laggiù.

A nessuno piace pagare le tasse: nemmeno ai monsignori, è comprensibile. Così come è comprensibile che sui loro giornali facciano tutto quello che possono per dimostrare l’utilità sociale di possedere canoniche e appartamenti esenti ICI, scuole private con rette cospicue esenti ICI, oratori con benefici statali (legge 206/2003) e così via (e nel frattempo le scuole pubbliche cadono a pezzi, e nei quartieri disagiati mancano centri di aggregazione non confessionali). Ognuno tira l’acqua al suo mulino, e non vi è in Italia un mulino altrettanto antico e nobile di quello della Chiesa cattolica.
Sono meno comprensibili le bugie: questa insistenza a ribadire che la Chiesa l’ICI la paga – e intanto ogni anno mezzo miliardo di euro non entra nelle casse dello Stato: è un miracolo? Ma Gesù i pani e i pesci li moltiplicava, mica li sottraeva. Sono meno comprensibili i piagnistei. L’idea che qualsiasi critica alla Chiesa non possa che essere una calunnia ordita da qualche salotto laicista. Io non so nemmeno com’è fatto, un salotto laicista: in compenso ho vissuto in una parrocchia per vent’anni, mi ci sono trovato molto bene, e proprio per questo ritengo che la Chiesa debba cominciare a pagare le tasse. Con qualche arretrato. Senza bugie squallide e senza piagnistei indegni della sua storia millenaria. Mi addolora che Giuseppe Dalla Torre su Avvenire vada a scomodare “la famigerata legge Crispi del 1890″, come se davvero in Italia non si possa criticare la Chiesa senza far parte di un complotto ottocentesco (immagino anche un po’ massone) quando la realtà è tanto più banale: in questa crisi stiamo tutti pagando tanto, e vorremmo che la Chiesa facesse la sua parte. Né di più né di meno.
Dalla Torre si domanda perché la polemica, “tanto aspra e violenta” (mamma mia), abbia riguardato “solo la Chiesa cattolica”. Certo, potrebbe trattarsi di un complotto laicista che si trascina dal 1890. Oppure la Chiesa potrebbe essere l’obiettivo delle critiche più aspre perché è quella che con le esenzioni ottiene di più: mezzo miliardo, tutti gli anni, senza contare naturalmente otto per mille, cinque per mille, e tante altri generosi aiuti. O dovremmo prendercela con gli avventisti del settimo giorno? Coi sindacati? Vero, anche certe associazioni sindacali ottengono esenzioni. Ma non gestiscono che io sappia scuole private, cliniche private, catene alberghiere. Possono gestire dei doposcuola, questo sì. E – questo è il punto fondamentale – saranno doposcuola aperti anche a chi cattolico non è. Perché a mio parere è questa la vera posta in gioco: il pomeriggio dei ragazzi italiani. Dove possono andare? Cosa possono fare? La parrocchia, l’oratorio, non possono essere le uniche risposte.
Quando due settimane fa mi sono permesso di scrivere questa cosa, ho ricevuto molte risposte critiche(civili, non sdegnate: cerchiamo di abbassare un po’ i toni) da parte di gente che, come me, in parrocchia ci è cresciuta, ma che a differenza di me ci vive ancora e ci fa volontariato. In sostanza mi hanno detto quasi tutti che non esiste apartheid tra ragazzi cattolici o non cattolici, che un musulmano può fare un percorso nell’AGESCI fino in fondo, che nessuno più in oratorio guarda il certificato di battesimo. Sono convinto che in molte realtà sia così. Ma non credo che sia così dappertutto, e non credo nemmeno che sia giusto. I cattolici hanno il diritto di fare apostolato. Non è giusto considerarli dei supplenti dei servizi sociali. Soprattutto se, come i loro esponenti politici non mancano di ricordarci, hanno dei valori non negoziabili che vengono prima delle stesse leggi dello Stato.
Se in un quartiere non c’è un consultorio, non mi posso affidare al consultorio cattolico, perché banalmente per i cattolici certe pratiche legali in Italia equivalgono all’omicidio: e hanno tutto il diritto di pensarla così, ma io ho tutto il diritto di avere nel mio quartiere un consultorio pubblico, pagato con le mie tasse: non voglio pagare le tasse per quello cattolico. E il famigerato Crispi del 1890 in questo problema non c’entra nulla. Se un padre musulmano vuole che suo figlio viva i suoi pomeriggi in un contesto relativamente protetto, ha il diritto che questo genere di contesto gli sia fornito dallo Stato, con le tasse che paga; non dovrebbe doversi fidare dell’oratorio cattolico, delle assicurazioni di un prete (ma voi vi fidereste di un Imam?), e soprattutto non dovrebbe essere costretto a pagare, lui musulmano, per un servizio confessionale. Non è solo ingiusto: c’è qualcosa di empio, in questa situazione, che un uomo di Chiesa dovrebbe capire. Se accanto ai suoi valori non negoziabili ha anche una coscienza.http://leonardo.blogspot.com
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30 modi per dire Spread in italiano senza sputare

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Forse lo spread non sarà il segno della fine dell'Italia, ma è sicuramente uno dei piccoli grandi segni della fine dell'italiano. Costava davvero così tanta fatica tradurlo? È davvero un concetto così alieno dalla cultura italiana, da richiedere un prestito dall'inglese? Peraltro la parola che ci hanno prestato (con un tasso variabile) è vaghissima, incastra la povera lingua italiana in un groviglio esplosivo di consonanti da cui non ci si può liberare senza pagare un abbondante scotto in saliva (che crea problemi coi microfoni nelle dirette), e nella lingua di provenienza ha un campo semantico amplissimo che va da "spalanca" a "margarina". Davvero non riusciamo a trovare di meglio?

Ma sì che ci riusciamo. Quello che segue è il risultato di un paio d'ore di brainstorming su un forum di cazzeggio, figuratevi se ci si mettessero i linguisti seri. Sono abbastanza fiero di presentarvi Trenta italianissimi modi di tradurre "spread", se l'italiano ci interessasse davvero. L'italiano si salva anche così (più così che incaponendosi sull'apostrofo di "po'" o di "quel").

1. allargamento
2. allargo
3. allontanamento
4. allungamento
5. allungo

6. differenza

       (preciso e di uso comune, forse un po' troppo comune).
7. differenziamento
8. differenziazione
9. discordanza
10 . discrepanza
11. discrimine
        (Questo per esempio è elegante. Attualmente è poco adoperato, per cui potrebbe diventare un ottimo tecnicismo: all'inizio suona strano, dopo tre giorni farebbero tutti a gara per riempircisi la bocca).


12. dislivello
13. disparità
14. distacco
15. distanza
16. distanziamento
17. divaricazione
18. divario 
         (anche questo non è male: sette lettere, nessuno dispendio di saliva inutile come in sPread).


19. forbice
         (il mio preferito: tecnico e concreto. E poi ho un debole per le allegorie).


20. iato
         (stavo per pubblicare quando lo ha detto Monti in conferenza stampa. Non è precisissimo, ma è il più breve in assoluto: quattro lettere, due in meno di spread, perfetto per i titoli dei quotidiani).
21. intervallo


22. scarto
         (un altro papabile: sei lettere, tante quante "spread", molto più comodo da pronunciare, traduzione praticamente letterale).

23. scollamento
        (c'è qualcosa di vagamente appiccicoso nel campo semantico dell'originale "spread").

24. scollatura
       (ideale per i garbati giuochi di parole... peccato che il Bagaglino abbia chiuso)


25. separazione (più chiaro di così)
26. slargo (breve, chiaro, e anche un po' violento)
27. spalancamento
28. spalmatura
29. sperequazione
30. stacco


Bastano, che dite? Ovviamente nessuno si aspetta che i titolisti comincino a usare "divaricazione" o "differenziamento", però valeva la pena di mostrare che il vocabolario italiano non è quella mummia ingessata che si crede in giro. "Iato", "scarto", "forbice", "discrimine", sono tutti termini italianissimi, comprensibili, eleganti, relativamente brevi, e non ti fanno sputare l'anima col significante.
Che a quello ci pensa già il significato.

(Grazie a tutti quelli che hanno giocato, segnatevi un caffè sul mio conto).
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La festa dei feti

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Era ieri, Santi Martiri Innocenti. Martiri di che? Di Erode?


Ma siamo tutti un po' Erodi dentro, in Italia dal 1978. E ancor di più dal 2007, quando Benedetto XVI ha chiuso il Limbo. Se ne parla sul Post, speriamo bene.

28 dicembre - Santi Martiri Innocenti (1-1).


Racconta Matteo nel suo Vangelo (2,1-16) di come Erode, all'arrivo dei Magi a Gerusalemme,  cascasse dalle nuvole: cercano un bambino? Che da grande farà il re dei Giudei? Interessante. Provate a cercare a Betlemme, secondo i miei scribi potrebbe trovarsi là. Andate, andate, però poi se lo trovate venite a dirmelo che interessa anche a me, il futuro re dei Giudei. I Magi vanno e trovano effettivamente Gesù, ma vengono avvertiti in sogno di non ripassare da Gerusalemme, ché quell'Erode - se proprio non l'hanno capito da soli - non è animato da buone intenzioni. E infatti quando Erode si rende conto del bidone, fa spallucce e decide di massacrare tutti i bambini di Betlemme e dintorni sotto i due anni. Una strage?

Per più di mille anni i pittori la descrissero così, trasferendo spesso sulla tela il ricordo dei massacri di cui erano stati testimoni (assolutamente da brividi, per esempio, Bruegel il Vecchio, che invece della solita montagnola di bambolotti sgozzati mostra un drappello di mercenari che devasta un villaggio, e tu sai, lo capisci benissimo, che Bruegel il Vecchio quei mercenari li ha visti davvero da giovane, in azione). Negli ultimi secoli tuttavia si comincia a minimizzare, una strage, via, quanti bambini sotto i due anni vuoi che ci fossero a Betlemme, il capoluogo più piccolo della Giudea? Secondo Giuseppe Ricciotti più o meno una ventina, meno delle vittime di una banale influenza stagionale in quei millenni senza paracetamolo. Insomma, sì, una strage, però una come tante, niente di eccezionale.

Non è come credete, non c'è nessun complotto massonico o giudaico in corso per rivalutare la figura di Erode il Grande, che - su questo giudei e gentili sono concordi - era soprattutto un grande pezzo di merda. Per prima cosa non era ebreo, ma idumeo: la differenza è sottile, ma in sostanza non poteva che essere detestato dai giudei di Gerusalemme e in particolare dal partito fariseo, il Likud del tempo. In compenso era sostenuto dai Romani, sì, ma erano tempi difficili anche per i collaborazionisti: Cesare batte Pompeo e allora ti metti con Cesare, poi lui muore e ti metti con Marco Antonio, ma in Egitto c'è Cleopatra che vuole farti fuori e ci riesce quasi, poi ad Azio Marco Antonio e Cleopatra vanno a picco e tocca farsi amico Ottaviano. Nel frattempo ci sono i Parti che spingono da Est, gli Arabi da sud. I figli da strangolare prima che diventino troppo ambiziosi. E un terremoto. Mancava giusto un Re bambino in una mangiatoia. No, per essere riuscito a regnare per più di trent'anni in quella terra di matti, Erode doveva essere davvero un grande stronzo. Su questo le fonti (che poi si riducono a Flavio Giuseppe, ebreo latinizzato) concordano. A Roma i cesari si raccontavano barzellette: preferiresti essere il figlio di Erode o il suo maiale? Preferirei essere il maiale, almeno sarei sicuro che non mi mangerebbe, ah ah, che antisemiti quegli antichi Romani (continua...)

Insomma, nessuno vuole bene a Erode. Quando morì, per essere sicuro che si piangesse al funerale, fece rinchiudere un po' di giudei importanti in un ippodromo e ne ordinò il massacro. Flavio Giuseppe ci racconta cose del genere, abbastanza inverosimili, ma che ci fanno capire quanto poco gli fosse simpatico: com'è possibile che si dimentichi invece un episodio succoso come la strage degli innocenti di Betlemme? I casi sono due: o Matteo si è inventato tutto (scopiazzando per altro una leggenda rabbinica sull'infanzia di Mosè, in cui l'orco ammazzabambini era il Faraone)... o la strage degli innocenti doveva essere passata inosservata: una stragetta, via, un eccidio. Vogliamo dire una dozzina di neonati? Comunque abbastanza per comporre un quadro agghiacciante. Il capolavoro resta quello di Guido Reni (lo trovate alla pinacoteca di Bologna) la composizione triangolare dovrebbe avere ispirato Guernica.

Ma stanotte ho scoperto altre due perle: un Duccio di Boninsegna davvero struggente, con le madri dolenti che abbracciano i bambolotti insanguinati. Ecco da Duccio non me lo sarei mai immaginato, per me è sempre stato uno di quei senesi ieratici e antipatici, e invece la sua strage è triste davvero, piangono anche gli assassini. E poi sul Sacro Monte di Varallo, che è una specie di Terrasanta in Miniatura, c'è una composizione di terracotta del Cinquecento con dei soldati ad altezza naturale che conficcano delle spade vere in neonati a grandezza naturale, e in un angolo sul trono c'è pure il lascivo re Erode che approva: ho visto solo una foto, ma il risultato ha un che di morboso che lo rende inquietante. È vero che mi emoziono con poco, ultimamente.

La festa degli Innocenti era, nei secoli passati, un piccolo bis del Natale, in cui si praticava un simpatico rito purtroppo messo da parte nell'ultimo Concilio: presbiteri e diaconi scambiavano i loro seggi coi chierichetti, in pratica la Messa la dicevano i bambini. L'orrore della strage veniva ampiamente superato dall'immediata santificazione dei neonati. In realtà ci sarebbe un problema teologico: come fanno quei coetanei di Gesù a salire subito in cielo, se nessuno li ha battezzati? Non portano con sé il peccato originale, quello di Eva e Adamo? Naturalmente c'è sempre la scappatoia: quando Gesù passa dal regno dei morti a prelevare i patriarchi, può anche aver prelevato questa ventina scarsa di neonati frignanti. A vederla da questo punto di vista, morire neonati ammazzati da una guardia di Erode si rivela un autentico colpo di fortuna: tre chilometri più in là magari si moriva di lebbra e si finiva all'inferno senza condizionale... o no? Dove finiscono i bambini non battezzati?


Annoso problema, che tormentò più di un padre della Chiesa. Sappiamo tutti come veniva risolto più o meno ai tempi di Dante: gli innocenti non battezzati (ma anche gli uomini savi e virtuosi vissuti prima di Giovanni Battista e di Gesù) finivano nel Limbo, un'oltretomba a parte: né paradiso né purgatorio né inferno, anche se Dante per una questione di ordine la infila in quest'ultimo, ma in una sezione priva di supplizi di sorta. In pratica è l'Ade greco-romana, un non-luogo di ombre dove non si è né felici né tristi, perché in sostanza non si vive. Come soluzione non era forse il massimo dell'eleganza, ma salvava capra (l'importanza assoluta del battesimo) e cavoli (che razza di Dio ti sprofonda nell'inferno perché un tuo avo ha mangiato una mela di nascosto?) Il limbo tuttavia non è mai stato un dogma ma, come abbiamo saputo solo di recente, un'ipotesi, mai particolarmente apprezzata dal cardinale Ratzinger e respinta definitivamente nel 2007 sotto Papa Benedetto XVI da una Commissione Teologica Internazionale nel documento "La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo":
...vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione.
La mossa di Benedetto XVI, oltre a spalancare le porte del paradiso cattolico a una moltitudine immensa di morti di parto, crea la cornice per la vera strage degli innocenti postmoderna, in confronto alla quale re Erode il Grande non può che apparire un serial killer di provincia: l'Aborto. Esatto, sì, se ogni embrione è Vita e ogni vita senza battesimo è comunque suscettibile di essere introdotta nella beatitudine eterna... i nostri aborti sono già in Paradiso che ci guardano e scuotono la testolina. Non poteva che finire così, la tradizione del limbo mal si conciliava con l'ossessione della Chiesa contemporanea per l'embrione. Gli aborti sono diventati i martiri della legge 194. E il paradiso è molto cambiato.


Non solo è diventato un'enorme nursery - se ammettiamo che i morti di parto siano salvabili, non possiamo immaginare che Dio faccia differenze tra epoche e razze, e quindi dobbiamo pensare a una moltitudine di feti e neonati di ogni etnia, ma perlopiù (statistiche alla mano) indiani e cinesi. Esatto, anche lì. Tu nasci in Italia, ti fai battezzare, ti comporti il meglio che puoi, ricevi tutti i tuoi sacramenti, poi muori e ti ritrovi in mezzo a una moltitudine di monelli orientali che non ha la minima idea di come ha fatto a trovarsi lì, è successo tutto in un attimo, e cos'è questo odore? Pollo al curry? Anche qui? Soprattutto qui? Per l'eternità? Vedi che nel medioevo non avevano tutti i torti, vedi che alla fine quell'ipotesi del limbo aveva un senso. Ma ormai è troppo tardi. La globalizzazione, sì. Anche in paradiso.
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Dalla Padella alla Rivelazione

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San Giovanni è apostolo, evangelista, vergine, martire no perché ha resistito a una frittura in pentola, allucinato profeta di sventure, forse è il fratellino di Gesù, forse è sua moglie, forse è immortale ma probabilmente no; è il patrono della Turchia, degli scrittori, degli alchimisti, degli editori e delle scottature.
Il suo Vangelo, dei quattro, è la gamba che traballa. Se ne parla sul Post, l'unico magazine on line coi dibattiti cristologici in tempo reale.

[Il pezzo si legge qui].
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Un giornalista indica un vulcano

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Bocca insostenibile

Credo che i meridionali abbiano effettivamente qualche diritto di sentirsi offesi da Giorgio Bocca, che davvero scrisse su di loro cose affrettate e imprecise. Il suo disprezzo, davvero malcelato, non era occasionale: ha ragione Zambardino, esso rappresenta bene l'atteggiamento di una cultura tutt'altro che minoritaria e provinciale, tant'è che Bocca continuò a mostrarlo anche quando terminò la breve infatuazione per la Lega. Bocca è anche in questo caso un'epitome della storia italiana: un piemontese laico e democratico che sbarca nel sud ma non lo capisce, o meglio non capisce cosa ci sia di salvabile, e alla fine – complice la vecchiaia, che sgrava il fardello di speranze a lungo termine – si ritrova a dire Forza Vesuvio.

Di questo fanno bene i napoletani a indignarsi, mentre concludono le loro celebrazioni natalizie – magari quest'anno un po' più sobrie e austere – e si accingono a testare una volta in più i rodatissimi piani di evacuazione che dovrebbero mettere in sicurezza mezzo milione di abitanti nel caso il Vesuvio esploda davvero, visto che è tutt'altro che spento, anzi: la quarantennale eruzione è in ritardo di parecchio, e a questo punto qualsiasi cosa succeda potrebbe succedere piuttosto alla svelta e fare davvero molti danni. È curioso che nessuno ne parli mai. Di Bocca e dei suoi peggiori discepoli del nord sappiamo cosa pensare: è ingiusto aspettarsi informazione su un vulcano da chi per il vulcano fa il tifo. È più strano che ne parlino poco i meridionali, visto che il rischio di nubi ardenti e lapilli sulla superficie di popolosi centri abitati collegati da strade occluse dallo sverso abusivo di rifiuti...




...Voi, per esempio, che vi state toccando in questo momento, ecco, sì: Bocca non perdeva tempo a cercare di capirvi. Vi disprezzava. Buon anno, se non vi è di malaugurio.
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Al Sole Mai Sconfitto

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Tenete duro, lo spread tra sole e oscurità è destinato a diminuire. Nel frattempo davanti a un camino ci raccontiamo le vecchie storie di sempre, e qualcuno potrebbe arrivare nella notte e portarci qualcosa.


Il Dio Odino, per esempio. Gli Spettri dei Natali Passati quest'anno sono sul Post.
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Un', nessun', centomil'

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Forse siete distratti dalla manovra Monti o dalla bozza Ichino o dal solstizio invernale, che ne so: comunque nel mondo vero in questa settimana è successo che Saviano ha sbagliato un apostrofo su Twitter, e da lì è partito un dibattito con Severgnini Riotta e pure lui.


E alla fine insomma anch'io ho scritto cinquemila battute su un apostrofo. Che faccio, mi vergogno? Sull'Unita.it (H1t#105), e si commenta là.

Il 2011 è stato davvero l’anno in cui l’Italia è arrivata su Internet. Sì, d’accordo, alcuni c’erano da vent’anni. Io da dieci, e già mi sento un nonno. Il grosso delle truppe è sbarcato verso il 2009, con Facebook. Ma il 2011 è stato una boa importante. Nel 2011 i vip italiani hanno scoperto Twitter. E da qui in poi non si torna indietro. Nel 2010 Internet lo usavamo ancora per condividere pensieri e foto di gatti con amici e sconosciuti. Nel 2011 ci sediamo comodi e guardiamo Fiorello che litiga con Sabina Guzzanti. È internet, la cosa di cui tutti parlano in tv. Fino all’anno scorso succedeva l’esatto contrario.
Il 2011 è stato l’anno in cui abbiamo visto certe dinamiche tipicamente internettiane trasferirsi sui quotidiani. Per esempio: un dibattito sull’apostrofo. Ecco, chi bazzica soprattutto Facebook e si è fatta l’idea di Internet come di un club di bimbominkia forse non lo immagina, ma ci sono luoghi su internet dove se sbagli un apostrofo ti massacrano; i grammar nazis (“nazisti della grammatica”) hanno molta meno pietà di chi la grammatica la studia e la insegna. In molti casi sono semplicemente dei troll, disturbatori che attaccano l’errore per distogliere l’attenzione sui contenuti di una discussione. Alcuni sono molesti, altri perfino benigni: ci aiutano a conservare la concentrazione, a non sottovalutare la grammatica.
Da qualche giorno i Grammar Nazis sono approdati su un quotidiano nazionale. Sul GiornaleAlessandro Gnocchi ha attirato l’attenzione su Roberto Saviano che, udite udite, osa scrivere “qual” con l’apostrofo. È sbagliato, no? Se ne è discusso su Twitter, con ospiti di eccezione come Beppe Severgnini e Gianni Riotta. Questo può anche servire a darci un’idea di cosa ci attende nel nostro futuro deberlusconizzato: di cosa parleremo quando non potremo più parlare di Lui? Di infinite cose, per esempio di dove mette gli apostrofi Roberto Saviano.
Quest’ultimo, dopo una consultazione popolare, forte dei nobili precedenti di Pirandello e Landolfi, ha concluso che non è un errore, e che continuerà a scrivere “qual” con l’apostrofo. E questo, Gnocchi, non lo può assolutamente consentire. Bisogna dire che qualche ragione ce l’ha: penso di poterlo dire con cognizione di causa, visto che la grammatica la insegno, e di manuali ne ho sfogliati parecchi. Non concordano sempre su tutto, ma l’apostrofo su “qual” è unanimemente rigettato, di solito in una delle prime pagine, che i ragazzini studiano e si dimenticano immediatamente. L’apostrofo su “qual” rimane infatti uno degli errori più gettonati fino all’esame di licenza media: oltre non vado, ma ho il sospetto che molti continuino ad apostrofare anche al ginnasio e al liceo. Secondo Gnocchi un giornalista che avesse fatto lo stesso errore sarebbe stato licenziato in tronco. E a me viene un po’ da ridere, mentre penso a quante volte ho trovato apostrofi del genere in tutti i quotidiani che mi è capitato di leggere: magari non nel “Giornale”, ma solo perché lo leggo davvero molto poco. Fa sorridere pure Severgnini, che da un apostrofo deduce che Saviano i tweet se li scrive da solo, senza ufficio stampa: come se li sapessero maneggiare davvero così bene, gli apostrofi, gli uffici stampa.
Insomma l’argomento di Gnocchi si può tranquillamente rovesciare: non è che un errore del genere si perdona soltanto a Saviano. L’apostrofo su “qual” è qual tipo di errore che commettono tutti nell’indifferenza generale, fin quando non ci casca, appunto, Roberto Saviano, con tutto il fardello di polemiche letterarie ed extraletterarie che si trascina con sé. Per gli altri scrittori i cecchini nazi grammar non perdono neanche tempo ad appostarsi: se qualche altro autore sbaglia un apostrofo, la colpa è sempre del correttore di bozze.
Quanto a me, devo confessare una certa stanchezza. Se penso agli errori dei miei compagni di internet, l’apostrofo di “qual” mi sembra uno dei meno importanti: non influenza in nessun modo la ricezione del contenuto, al massimo distrae chi ha la deformazione professionale del correttore. Se dipendesse da me, preferirei che internauti e giornalisti curassero più la punteggiatura, senza la quale persino un breve tweet a volte diventa ambiguo o incomprensibile.
Come insegnante naturalmente continuo a correggerlo, quell’apostrofo: a cancellarlo e a farlo notare con vigorosi segni di penna rossa, anche se ho la sensazione di sprecare tempo che dovrei dedicare a correggere errori più interessanti. Come appassionato di fatti linguistici invece mi sento di poterlo dire: quella regola è spacciata, non sopravviverà a un’altra generazione di utenti di internet. Se davvero continueremo a scrivere così tanto (il che per quanto mi riguarda è una buona notizia), ci sono fatiche mentali che presto o tardi rimuoveremo, come quella di dover distinguere ogni volta tra “quell’” con l’apostrofo e “qual” senza. E presto o tardi anche l’orribile “pò” senza apostrofo e con l’accento entrerà sui dizionari – dopo essere passato attraverso i quotidiani, che non ce ne hanno mai veramente fatti mancare. La lingua cambia un po’ ogni giorno; i grammatici lo sanno e presto o tardi si adeguano. Può sorprendere il fatto che alcuni dei più accaniti conservatori resistano proprio su internet. Ma chi ci bazzica già da qualche tempo lo sa: è la jungla ideale per qualsiasi giapponese ancora in attesa di ordini dall’imperatore Hirohito. Anzi, in certi contesti la regola più apprezzata è proprio la più inutile e astrusa: nel momento in cui i network sono diventati “sociali”, è diventato fondamentale dimostrare di saper stare in società. Più che filologia, si tratta di galateo: disporre gli accenti come le posate in tavola. Inutile chiedersi perché qui no e lì sì: sarebbe come chiedersi il motivo della forchetta dell’insalata (e comunque alle elementari tutti questi perché non ce li fornivano)… http://leonardo.blogspot.com
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Lettera a un giovane ichino

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Caro giovane disoccupato, oppure lavoratore, e quindi sicuramente precario. Caro giovane di sinistra, o di destra, o di nessuno, o del migliore offerente.

Tu che su facebook scrivi almeno una volta al giorno che il sindacato non ti rappresenta; che il PD è un partito di pensionati per i pensionati; che l'articolo 18 è un arnese fuori dal tempo che ti opprime; tu che tra le caste che soggiogano questa povera Italia non ti stanchi mai di ricordare la più odiosa, quella dei dipendenti a tempo indeterminato illicenziabili; tu che non ti perdi un'intervista a Pietro Ichino e me ne aggiorni su twitter; caro giovane disoccupato o precario:

volevo dirti che in linea di massima hai ragione.

Il sindacato davvero non ti rappresenta – del resto dovrebbe? Non sei iscritto. Il sindacato non è un ente benefico che lotta per un mondo migliore: è un'associazione che tutela i diritti dei suoi tesserati. Il PD è davvero un partito di pensionati, anzi ha il suo daffare a tenersi buono lo zoccolo molle di anziani che rimane fondamentale in vista delle elezioni dell'anno prossimo. E quindi, insomma, ti resta Pietro Ichino. Ti ha spiegato che in Italia c'è un recinto di lavoratori tutelati (pochi) e una prateria di precari e disoccupati, e la sua proposta è più o meno: aboliamo il recinto. Dopo ci sarà più lavoro per tutti e anche più diritti, sì, per tutti. Sto semplificando, ma non è che Ichino e i suoi altoparlanti su giornali e tv la facciano molto più complicata, eh? Diciamo che la mettono giù in un modo più convincente.

Però, caro giovane, tu e Ichino potreste avere ragione anche su questo. Che ne so io, dopotutto. E quindi non ti chiedo di smettere di prendertela col PD, o con la CGIL, o con quel feticcio che è l'articolo 18. Puoi continuare se ti va a vedere in me un membro della casta, perché ho un contratto a tempo indeterminato, anche se alla fine del mese magari piglio meno di te. Vorrei soltanto essere sicuro che tu abbia capito cosa stai chiedendo.

Tu non stai chiedendo di abbattere il mio steccato. Quello ormai resta. La Fornero non si pone neanche il problema. Nemmeno Ichino osa. Il mio steccato non è in discussione. Tu stai semplicemente lottando perché nessuno sia più ammesso dall'altra parte. Chi è stato assunto prima della futura riforma Ichino resterà più o meno garantito. Gli altri, anche se sono arrivati a un tempo determinato dopo anni di contratti a progetto, resteranno per sempre al di qua. Licenziabili per un capriccio.

Posso essere più chiaro? Tu non stai lottando per togliere un diritto a me. Tu stai chiedendo che lo stesso diritto non possa più essere esteso al te stesso di domani. E si capisce, sei giovane e pieno di energia. Cambiare contratto una volta al mese non ti spaventa, perché dovresti ambire a una sistemazione a tempo continuato sotto l'ombrello dell'articolo 18? e a una panchina ai giardinetti, già che ci siamo? Largo ai giovani.

Lo stesso vale per le pensioni. Quando chiedi che siano tagliate, non stai parlando delle pensioni dei tuoi genitori. Stai parlando della tua. Quando auspichi l'abolizione della pensione di anzianità, non stai parlando della mia anzianità: stai parlando della tua. Quando chiedi che sia innalzata l'età pensionabile, è della tua vita che si parla. (Ma tanto tu non invecchierai come tutti gli altri, tu a 66 anni sarai ancora pieno di tanta voglia di fare). Lo so che sei in buona fede, quando pensi che il corpo flaccido e inerte del mondo del lavoro si meriti una sferzata: voglio solo essere sicuro che tu abbia capito che l'unica schiena a disposizione è la tua. Dopodiché, puoi continuare a ichineggiare e perfino sacconeggiare, se ti fa sentire bene. Magari hai ragione. Magari davvero l'unica strada è quella di alzare l'età pensionabile (la tua), e rendere più facile il licenziamento (tuo). Io resto scettico, ma è Ichino l'esperto.

E lui sta pur tranquillo che non lo licenzia nessuno.
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