Chetati, grillaccio!

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Il 25 aprile dunque Beppe Grillo ha lasciato scritto sul suo blog che se i vecchi partigiani vedessero come è ridotta l'Italia di Napolitano "metterebbero mano alla mitraglia". È una cazzata? Sì, lo è per molti versi; nessuno dovrebbe permettersi di piantare le proprie bandiere sulle tombe dei partigiani, che peraltro non ci hanno tutti già lasciato (ad esempio Giorgio Napolitano è vivo). Ma bisogna essersi dimenticati di molte cazzate degli ultimi vent'anni, dalle migliaia di fucili bergamaschi alle toghe rosse passando per Mussolini più grande statista del '900, per lasciarsi scandalizzare da Grillo che arruola i partigiani morti. A me, sarò di bocca buona, ma sembra addirittura che ci sia un progresso.

Sarà che ormai ne ho viste tante: pornostar in parlamento, tastieristi da balera al Viminale, ex giovani fascisti in Campidoglio, Bondi ministro alla cultura; e poi ho visto Scajola (Scajola soprattutto sarà difficile da spiegare ai nipotini). Ma per quanto mi sforzi non riesco a vedere Grillo e il *suo* movimento come una minaccia alla democrazia, perlomeno alla democrazia che ancora ci possiamo permettere in questa primavera 2012. Sì, è populista; sì, è un confusionario apocalittico. Ma siamo sopravvissuti a Bossi e a Berlusconi: con tutti i suoi difetti Grillo mi sembra meno pericoloso e soprattutto meno avido; allo stesso modo mi sembra una buona notizia che un po' dei sostenitori delusi di Lega e PDL stiano passando al Movimento Cinque Stelle. Altri elettori Grillo li recupererà all'astensionismo, il che è una ulteriore buona notizia; altri ancora li prenderà dal PD e dalla sinistra, ma è una sfida che PD e sinistra devono saper raccogliere.

Il grillismo non è un fulmine a ciel sereno come ci piace rappresentarlo in questi giorni. Così come la Lega diventò in breve tempo il partito più anziano della Seconda Repubblica, il M5S è praticamente coetaneo del PD ed è più anziano del già moribondo PdL (continua sull'Unita.it, H1t#124).

L’estate del Vaffanculo Day fu la stessa in cui Veltroni lanciò la sua candidatura alle primarie. Ancora prima erano nati i MeetUp, sorti intorno al blog che Grillo cura dal 2005, due legislature fa. Al Quirinale c’era Ciampi, il candidato del centrosinistra era Prodi, quello della sinistra Bertinotti, ma Grillo era già più o meno lo stesso Grillo e gridava più o meno allo stesso modo, cambiando qualche volta idea (legittimamente: solo ai cretini non succede) ma non il tono, che alla fine è la cosa più importante. Tra i tanti accostamenti storici, da Caio Gracco a Bossi, quello che il M5S si merita meno è probabilmente quello con l’effimero Uomo Qualunque di Giannini. Malgrado sia nato in rete, come altri fenomeni degli ultimi anni (Onda viola, Indignados) il M5S è riuscito a darsi un’organizzazione anche sul territorio, o perlomeno in alcuni territori più ricettivi di altri.
La differenza l’ha fatta proprio il non-leader, la figura carismatica che gli altri movimenti orgogliosamente rifiutavano. Anche da un punto di vista economico. Già ai tempi del Vaffanculo Day Grillo era sostanzialmente un leader politico: l’unico in Italia capace di far pagare un biglietto a chi veniva ad assistere a un suo comizio. Nessuno ha mai pagato per ascoltare Berlusconi, magari viceversa. Per questo quando dice che non si candiderà mai io stranamente gli credo. La parte del tribuno non gli è solo più congeniale, ma è probabilmente anche più fruttifera. I rimborsi elettorali si possono dimezzare o anche cancellare, ma l’indotto di libri e dvd nessuno glielo tocca e bisogna riconoscere che se lo sta sudando, non sta fermo un attimo.
Grillo è stato bravo, diciamolo ogni tanto. Tra i pochi in Italia a non avere nessun timore reverenziale per il mezzo televisivo, forse proprio perché da lì veniva, e ne conosceva i punti di forza ma anche i limiti, Grillo ha capito che star fuori dal circuito dei talk nel lungo termine gli avrebbe reso il servizio migliore: mentre gli altri battibeccavano senza costrutto lui si è rifatto una verginità. È stato abile a non trasformare sé e i suoi sostenitori in macchiette: ambientalisti ma non fricchettoni, antiberlusconiani ma senza farne un feticcio, dalla parte dei disoccupati ma anche dei poveri imprenditori costretti a chiuder bottega. Può sembrare una sintesi impossibile, ma se è per questo, in certi giorni, anche il PD. Ha intercettato gli elettori verdi che in Italia non hanno mai avuto un leader non dico carismatico, ma credibile; ha traghettato qualche postcomunista deluso dal postcomunismo, qualche antiberlusconiano perplesso dalla svolta di Veltroni; è stato ricettivo, il concetto di Casta non l’ha inventato lui ma lo ha rilanciato con prontezza. Da qualche tempo si tratta di rilevare i delusi di PdL e Lega: Grillo ha argomenti anche per loro, è scettico sulla cittadinanza ai migranti, vuole rilanciare la produzione interna anche se non sa come si fa, ma siamo onesti: non lo sa nessuno.
E la democrazia interna? Senz’altro il M5S ha qualche problema di democrazia interna, ma guardiamoci attorno: l’altro giorno l’UDC si è sciolto, pare sia nato il Partito della Nazione. Chi lo ha annunciato? Pierferdinando Casini. Chi era Casini nell’UDC, il segretario? No. Il presidente? No. Un giorno lo ha fondato e qualche anno dopo lo ha sciolto, e l’intendenza seguirà. Quanto al PdL, non perdiamo neanche tempo a parlarne. La Lega non fa un congresso federale da dieci anni. Di Pietro non so se li faccia o no – l’IdV, volevo dire l’IdV, a volte mi confondo. Chi accusa Grillo di trattare il suo movimento ancora come un padre padrone preferisce non vedere che per la media dei partiti politici italiani Grillo è un padre fin troppo tollerante: quando il figlio crescerà e metterà un piede in parlamento probabilmente litigheranno, è nella natura delle cose. Si fa molta più fatica a immaginare l’IdV che litiga con Di Pietro: quanto alla Lega, per trinciare il cordone ombelicale col clan Bossi ci sono voluti trent’anni.
Io non ho intenzione di votare il M5S, almeno in tempi brevi. Raramente mi trovo d’accordo con quello che dice Grillo, e in generale non mi piace il suo tono, che alla fine è la cosa più importante. Quando dice che l’Italia non può più permettersi l’euro, mi domando se davvero è convinto che possiamo permetterci di uscirne. Ma almeno sta parlando di euro, e non di tutte le priorità farlocche con cui Berlusconi e Bossi ci hanno fatto perdere tempo in questi anni, le toghe rosse e i ministeri al nord. Io non sono euroscettico, ma trovo assolutamente comprensibile che qualcuno oggi lo sia: ci sono partiti euroscettici in tutti i parlamenti d’Europa. Si tratta di batterli: di convincere gli italiani che l’euro è stato davvero una buona idea, che senza di esso saremmo rimasti stritolati. Grillo è un populista, ma almeno punta le dita su problemi veri, e non sui mondi artificiali che ci hanno incantato per vent’anni, case della libertà o Padanie libere. Considerarlo un sintomo della degenerazione della politica mi sembra ingiusto: la politica era già degenerata da un bel po’, il grillismo al confronto mi sembra una febbre benigna. Ci sta facendo bene. Faccio un esempio.
Una settimana fa Alfano, Bersani e Casini dichiararono come un sol uomo che i rimborsi elettorali non si toccavano. La febbre grillina è scoppiata allora: il M5S nei sondaggi schizzò oltre il 10%. Quattro giorni fa Bersani ha proposto di dimezzare subito i rimborsi. Forse la cosa si poteva gestire un po’ meglio, ma quel che conta è il risultato: il PD ha cambiato rotta. C’è voluto Grillo. Non male, per un comico che sette anni fa ha aperto un blog. http://leonardo.blogspot.com
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Perché non avete orecchie

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25 aprile - San Marco evangelista (primo secolo)

Un profeta grida nel deserto e battezza i peccatori nelle acque del Giordano; tra di loro vi è un nuovo giocane predicatore, che dopo una quarantena nel deserto si mette a proclamare una buona novella, attraverso parabole enigmatiche e profezie di sventura. Gli va meglio con le guarigioni miracolose: usa sistemi un po' singolari, (fango, sputi), ma tutto sommato funzionano. Un paio di volte si ritrova a dover moltiplicare pani e pesci per le folle che si radunano ad ascoltarlo. Quel che dice però non è sempre chiaro, nemmeno ai dodici collaboratori più stretti, che a volte hanno troppa soggezione per chiedere spiegazioni. In seguito il predicatore viene accusato di sedizione, arrestato e fatto uccidere. Ma il terzo giorno le donne trovano nel sepolcro, al posto del corpo, un ragazzo vestito di bianco che parla di resurrezione, e scappano impaurite. Questo è in sostanza il Vangelo di Marco, che se non si trovasse mimetizzato in mezzo agli altri risulterebbe un testo abbastanza inquietante: c'è un Gesù senza Natale e senza Pasqua, sempre un po' arrabbiato perché la gente non capisce. Alla fine di diversi episodi, miracoli o parabole, c'è quel classico versetto alla Marco, come “E si meravigliava per la loro incredulità”, “Chi ha orecchie per intendere intenda”. Solo i bambini lo smuovono un po' dal suo sempiterno cipiglio (“a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”). Insomma è un tizio burbero, con un cuore che lascia vedere solo a sprazzi:
Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse:“Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia”.
L'episodio c'è anche in Matteo, dove Gesù concede anche un complimento (“Donna, davvero grande è la tua fede!”). In Marco si limita a dire “va'”, e poi passa ad altro. Non è così difficile mettersi nei panni degli apostoli, sempre timidi e vagamente terrorizzati, “stupiti in sé stessi” “Essi però non comprendevano, e avevano timore a chiedere spiegazioni”. Marco è l'evangelista del leone, e il suo Gesù sembra davvero un re leone nella gabbia di un'umanità che non lo capisce. “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” (9,19). L'unico Vangelo che suggerisce al lettore che Cristo sulla terra abbia avuto fretta di andarsene.

Ragioni per cui amo Wikipedia.
È anche il più breve: nessuna genealogia, nessuna storia sull'infanzia di Gesù (al punto da far sorgere più di un sospetto di adozionismo: Gesù diventerebbe figlio di Dio solo col battesimo nel Giordano, quando si sente una voce dal cielo dire “Tu sei il Figlio mio prediletto”). All'inizio non era inclusa nemmeno – cosa più sorprendente – un'apparizione di Gesù risorto: solo questo ragazzo vestito di bianco che dice alle donne “Non abbiate paura, Gesù è risorto, andate a dire a Pietro che vi precede in Galilea”. Al che le donne scappano terrorizzate “e non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. La versione più antica finisce così: non molto promettente, per il testo fondativo di una religione. Del resto, se le donne non l'hanno detto a nessuno, come facciamo a saperlo? Logica e sintassi greca dell'ultima frase ci lasciano il sospetto che esistesse un seguito, andato perduto quasi subito e rimpiazzato a volte con un solo versetto, a volte con una paginetta che è quella che di solito troviamo nelle nostre traduzioni. In questo finale Gesù appare di nuovo a Maria di Magdala, che lo dice agli apostoli (“Ma essi non vollero credere”), poi a due di loro (ma gli altri “non vollero credere”) e alla fine a tutti gli undici a tavola “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore”. Il finale lungo probabilmente non è di Marco, ma come si vede è coerente con il suo protagonista: neanche una parola gentile (Ehi, che piacere ritrovarvi, scusate se vi ho fatto prendere paura con questa cosa della passione e morte...) Del resto Cristo è un re, poche smancerie. (Continua sul Post)
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Con infinita cura e sospensione

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(Da Schegge di Liberazione, 2011)

Nell’inverno del 1945 sulle Langhe i partigiani in servizio attivo sono ridotti a poche unità. Sulla sua collina Johnny è rimasto solo: l’ultimo amico arrestato in un rastrellamento, l’ultima sigaretta già da un pezzo fumata, calpestata e rimpianta.
Si sedette e rilassò nella più facile e sciolta posizione; poi iniziò la cerca, col più fino e sensibile delle dita, di tutti i resti di tabacco in ogni tasca e per minuti estrasse e cavò segmentini ed atomi di tabacco, misti a briciole di antico pane e fili di stoffa. Aveva ora in un palmo quanto bastava per una sigaretta [...] Poi cercò la carta. La carta di giornale sarebbe andata egregiamente, ma i giornali erano merce sconosciuta nella fattoria. Girò, frugò, rovistò e trovò infine un vecchio opuscolo, aggrinzito e ingiallito dal tempo, di agricoltura e masseria. Ne strappò un foglio e cominciò a torchiare. Era nuovo a questo lavoro, ma da quando partigiano s’era fatto avvezzo ed abile ad una quantità di nuove opere ed imprese. Lavorandoci con infinita cura e sospensione, si rese conto di quanto le sue mani si fossero fatte grossolane e inadatte a questi lavori. Se gli veniva discretamente modellata ad un capo, restava un caos all’altro, e ad un certo momento tutto il tabacco gli sfuggì a terra dalla carta aperta.
Una febbre lo prese e lo squassò, forzosamente si allontanò dal naufragio del tabacco e si disse ad alta voce: «Non perder la testa, Johnny. Non perder la testa, non è assolutamente niente. Del resto, non avevo nemmeno il fiammifero per accenderla»
(Opere, vol. I, p. 840).
Dopo la presa di Forlì, nel novembre precedente, il generale Alexander aveva annunciato alla radio che ai partigiani conveniva coprirsi: di Liberazione si sarebbe riparlato in primavera. Molti prendono il suo annuncio per quello che non è, un perentorio invito a mettersi in letargo e attendere tempi migliori. L’inverno sarà in effetti durissimo. Anche nei territori che durante l’estate erano stati temporaneamente liberati qualcuno si pente di avere fornito ospitalità e sostegno ai partigiani, sperando in una liberazione rapida ed esponendo le proprie famiglie alle rappresaglie di repubblichini e nazisti. «Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo» spiega a Johnny un mugnaio. «Ma al disgelo gli Alleati si rimuoveranno e daranno il colpo, quello buono. E vinceranno senza voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, ne converrai.» Johnny ne conviene, ma resiste: sarà “l’ultimo dei passeri”, come urla uscendo nella tormenta (e vergognandosene subito), il partigiano che non andrà in letargo. Nel lungo inverno combatterà contro fame, freddo, epidemie, solitudine, nostalgia di casa, astinenza da tabacco.

Qualche anno dopo, l’ex partigiano Beppe Fenoglio dirige un’azienda vinicola. Il tempo libero lo dedica allo studio e alla traduzione dei suoi autori preferiti (inglesi e classici) e alla scrittura. In quegli anni la guerra sembra aver dato a tutti un romanzo da raccontare.
Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta. Passava veloce accanto a mia madre e a me [...]. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere.
Scriveva ininterrottamente per ore
. (Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1995, p. 120).
Fenoglio non crede che il suo romanzo sia migliore di quello di molti altri. All’inizio non è nemmeno sicuro di avere un romanzo. La sua prima raccolta di racconti piace più a Calvino che a lui.

La Malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione, ma debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento d’un vizio. Eppure la constatazione di non esser riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore. (Opere, vol. III, p. 201).
Il libro crescerà, lentamente, una sera dopo l’altra, una sigaretta dopo l’altra. Forse per cercare uno stile più suo, o tentare un impossibile distacco da una materia troppo scopertamente autobiografica, Fenoglio inizia a scriverlo in inglese, per passare in seconda stesura a uno strano italiano, ancora sporco di anglismi ma secco, nobile eppur maldestro, come un Cesare o un Livio tradotto alla benemeglio da uno studente ginnasiale – e in fin dei conti quale lingua migliore per l’epica dei partigiani di Badoglio? Non è solo un problema di stile: il libro è l’ennesimo memoriale di guerra, genere ormai inflazionato. Per di più, indulge in episodi che nessuno appare ansioso di condividere – l’esperienza dell’autore nell’esercito regio, prima e dopo il 25 luglio; non omette la vergogna dell’otto settembre; descrive partigiani comunisti e badogliani come antieroi volonterosi, ma prigionieri di una mentalità strategica sbagliata. L’esperienza per altri gloriosa della repubblica di Alba viene descritta impietosamente come un catastrofico errore tattico, che preclude alla rotta dell’autunno ’44: poche settimane dopo Johnny si ritrova solo sulla sua collina, a mettere insieme tremando una sigaretta che non può accendere.

Mentre il romanzo gli cresce davanti, mentre pesta sulla macchina da scrivere e tossisce, Fenoglio si rende probabilmente conto di quanto poco tutto questo sia commerciabile. Un romanzo che si concede la stessa severa ironia nei confronti dei maestri di mistica fascista e dei comandanti partigiani (a volte del resto si tratta delle stesse persone). Un libro sulla provincia senza nessuna concessione al vernacolare, dove mugnai e contadine parlano come personaggi di Omero. Un libro in cui i partigiani non fanno che commettere errori, sparare quando devono scappare, scappare quando devono sparare (ma in generale si scappa molto più di quanto si spari). Prima che scrittore Fenoglio è un uomo pratico. Con Einaudi non ci prova nemmeno. Manda invece una stesura a Garzanti. Gli rispondono proponendogli un taglio drastico: far morire il personaggio subito dopo l’otto settembre, concentrandosi sull’esperienza di Johnny nell’esercito regio, nei giorni cruciali dell’armistizio. Quanto alla guerra partigiana… a Garzanti non interessa. È un po’ come proporre a Melville di far affondare il Pequod appena salpato da Nantucket, ma Fenoglio non si considera certo un Melville. Piuttosto un mercante di vini, e scrittore di quart’ordine, e gli editori hanno senz’altro più fiuto di lui.
Il breve romanzo uscirà nel 1959 col titolo Primavera di Bellezza, senza destare particolare attenzione di pubblico e critica.

Il vero libro è quello che rimane negli scartafacci di Fenoglio, una poltiglia inestricabile di italiano classicheggiante e inglese miltoniano. Ma nel 1959 Fenoglio non sa di essere un bravo scrittore: è abbastanza persuaso del contrario. L’abitudine a pensare in miltonese e tradurre in un italiano marziale e senza tempo la vive più come un limite che come una risorsa espressiva. Eppure qualcosa in lui resiste. Dopo avere ucciso il suo alterego all’inizio della guerra antifascista, Fenoglio lo resuscita, e si rimette a lavorare sul rovente materiale della guerriglia nelle Langhe. Fa in tempo a uccidere Johnny una seconda volta, stavolta alla fine del gennaio ’45, nel primo conflitto a fuoco dell’anno nuovo (la parte finale, in cui negli ultimi mesi di guerra segue le truppe inglesi come interprete, viene accantonata senza essere tradotta in italiano).
Vuole farne un altro libro; forse ha riconosciuto nello scartafaccio il suo libro migliore. Ma non ha più tempo: si arrende al cancro ai polmoni nell’inverno del 1963. Aveva 41 anni. Lo scartafaccio finisce nelle mani dei filologi, che ci litigheranno per qualche anno senza riuscire, a tutt’oggi, a pubblicarne una versione completa e coerente.
Quello che trovate oggi sugli scaffali si chiama Il partigiano Johnny (il titolo glielo diede il primo curatore). È privo della prima parte (l’esperienza militare di Johnny fino all’otto settembre), dell’ultima (le avventure di Johnny come interprete degli inglesi), e di tanti altri episodi importanti, eliminati da Fenoglio nel tentativo di trasformare il libro di una vita in quello che sarebbe piaciuto agli editori, e magari anche ai lettori, un romanzo breve.

Fenoglio aveva chiesto di riposare ad Alba, al riparo dal vento cattivo di quella langa che Johnny aveva difeso da solo per un inverno intero, quando gli stessi abitanti gli suggerivano di farla finita, tornare a casa, non restare ultimo passero sul ramo. «Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e di partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello» (Opere, vol. III, p. 200).

I suoi brani sono citati dall’edizione critica Einaudi in cinque volumi, a cura di Maria Corti, oggi fuori commercio.
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Megalomartire

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23 aprile - San Giorgio, cavaliere (III secolo).

San Giorgio un giorno s'è stufato, di ammazzare draghi e salvare fanciulle che poi alla fine si sposano sempre con coltivatori diretti e fanno tre bambini. San Giorgio di Portogallo. Di Ferrara. San Giorgio di San Giorgio a Cremano. Un giorno ha spento la sveglia ed è rimasto a letto, lo ha chiamato la segretaria verso le 8.05.

“Cavaliere, tutto bene?”
“Insomma”.
“Cavaliere lei forse non si ricorda ma stamattina avevamo un appuntamento per le otto, c'è un drago nel Polesine, una dozzina di fonti da bonificare, e inoltre...”
“Il drago nel Polesine, ricordo benissimo”.
“Cavaliere c'è qualcosa che non va?”
“Sono un po' depresso Teresa”.
“Si mette in mutua? In aspettativa? Cavaliere mi scusi eh, ma io a quest'ora lo devo sapere, se devo chiamare un supplente...”
“Sì, ecco, chiamate Demetrio”.
“Cavaliere, Demetrio è morto”.
Clic.

San Giorgio di Lituania. Di Catalogna. Di Reggio di Calabria. Un giorno si è stufato e basta. Hai voglia a dire la vocazione. Cos'è poi questa famosa vocazione? Siamo bambini di campagna, ci sbucciamo i ginocchi sulla ghiaia, un giorno arriva la fanfara: arruolati nella cavalleria! Girerai il mondo! Ucciderai i draghi, salverai le fanciulle! Bivaccherai sulle vette più alte!

“Si suona la chitarra nei bivacchi?”
“Prima si ammazzano i draghi, poi si suona la chitarra”.
“Cosa sono i draghi?”
“Sono bestie cattive sputafuoco, minacciano le nobili fanciulle, quando sono giovani guizzano un po' ma li trafiggi facile”.

Allora, tanto per cominciare non è vero che sputano fuoco. Forse una volta, sicuramente nelle favole. È un modo romantico di nascondere la prosaica verità, ovvero che i draghi hanno un alito pestilenziale, se sbuffano sai di fogna per tre settimane. Sono bestie anfibie ma non si lavano, anzi sporcano dappertutto, si installano in un fiume e ci fanno la palude. E gli escrementi, quando ti arruolano non ti parlano mai degli escrementi. Tonnellate da smaltire, e mai – mai – mai! una sola pentola d'oro. Al limite qualche minorenne impaurita e incrostata dai liquami che non ti dice grazie. Giorgio cova il dubbio che alle tizie il drago sotto sotto piaccia. Coi genitori non lo ammetteranno mai, ma... È quel tipo di mostro virile che si fa strada nel parcheggio delle scuole medie con un sei marce scoppiettante, il maschio alfa, le ragazzine fiutano il testosterone e la morchia, una cosa che fa ribrezzo. Giorgio certe mattine sotto l'elmo vorrebbe portare la mascherina, si è anche informato, pare non si possa.

“Che figura ci facciamo con gli utenti”.
“Sono allergico al polline”.
“Tu sei San Giorgio, il Megalomartire”.
“Ma infatti, sono già morto di choc anafilattico sotto Diocleziano”.
“Sei morto almeno tre volte”.
“Ecco, appunto, adesso anche basta, grazie”.

San Giorgio di Georgia, Caucaso. San Giorgio di Georgia, USA. San Giorgio in Campobasso. Non è che rivanghi così spesso i vecchi tempi. Quando i draghi erano verdi e non marron, e sprigionavano una deliziosa fiammella al sentor di diavolina, te la ricordi Demetrio l'odore della diavolina a Champorcher -

“Giorgio, la devi smettere di parlarne con me. Io sono morto, non sta bene”.
“Come sarebbe a dire che sei morto, scusa, quando sarebbe successa questa cosa”.
(continua sul Post...)
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Dio è sempre 1 + di te

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21 aprile - Sant'Anselmo d'Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).


Dunque, c'è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c'è? Lo hai visto?” E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l'ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l'ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. “Bene”.

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra i due blocchi controllati dalle superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po' scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c'è? Lo hai visto?”
E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l'ho visto, Dio non c'è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello che...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l'ho visto non l'ho visto!”
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l'inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l'ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d'Aosta, che non è che c'entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull'esistenza di Dio. L'universo che abbiamo in mente, da cinquant'anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c'è, è un po' più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava un po' interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? (Continua sul Post...)
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Ce la meritiamo.

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Quando ero un ragazzino non c'era solo la DC - che già di per sé era una disgrazia di ragguardevoli proporzioni - soprattutto c'era la sensazione che la DC ci sarebbe sempre stata. Sempre. Quando ero un ragazzino al limite si poteva sperare in una DC più moderna, in una DC meno cattolica (ma tutto sommato era già meno cattolica di quelle di adesso), un una DC tre gradi più a sinistra, due mezze latitudini più a nord, questo era tutto. Una DC disposta ogni tanto a farsi governare da un laico. Una DC più efficiente. Una DC un po' meno ladra, una DC non esageratamente mafiosa, questo per dire era l'orizzonte di speranza della generazione di mio padre. Che odiava Andreotti e votava la DC. Perché i veri nemici di Andreotti erano nella DC, pensava lui, ed effettivamente in quegli anni la cosa aveva un senso (in seguito chi per un motivo, chi per un altro, sono quasi tutti morti, i nemici di Andreotti).

Poi ci sono stati degli sviluppi imprevisti, inutile adesso mettersi qui a raccontare tutto da capo. No, sul serio, forse è davvero inutile. Guarda infatti dove siamo arrivati, il Partito della Nazione e tutto quanto.

Siamo arrivati al punto in cui non solo c'è la DC, più centrale che mai; ma c'è anche la sensazione che questa nuova DC sia un sofferto punto d'arrivo, al punto che perfino io mi scovo a pensare boh, mal che vada c'è pur sempre la DC - e mio padre mi ride in faccia dallo specchio. Ai suoi tempi la DC sembrava un dato naturale, ineliminabile, ma oggi forse è peggio.

Perché oggi è ormai chiaro a tutti che se la DC c'è, se dopo tanto tempo non abbiamo trovato niente di meglio che reinventarla, è proprio perché noi, la DC, ce la meritiamo.
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Il leghista di bronzo più perenne

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Lo so che probabilmente non è né il luogo né il momento, ma in fondo all'Unità mi hanno sempre lasciato scrivere tutto quello che volevo, e stamattina voglio scrivere qualcosa che mai avrei immaginato: un elogio a Matteo Salvini, leghista infaticabile.

E dire che di tutti i leghisti era quello che a pelle sopportavo di meno. Forse perché suo coetaneo, ero portato a sottostimarne la consistenza. Mi indisponeva soprattutto quel suo eterno corruccio da malmaturo, provato e riprovato allo specchio: quella smorfia da camionista incazzato al bar, lui che in realtà veniva da un liceo classico e che probabilmente capiva più il greco antico che certi dialetti bergamaschi. Quando era europarlamentare davo per scontato che non riuscisse a capire dove si trovava e perché: amavo immaginare lui e il suo collaboratore Franco-fratello-di-Umberto Bossi che vagavano per Bruxelles senza riuscire a decifrare la mappa bilingue della metro, con grande scorno dell'Europa delle Regioni. Tutti pregiudizi, i miei, tutti parti dell'invidia. C'è voluta una congiuntura mondiale, il crollo del berlusconismo e l'esaurimento del bossismo, perché me ne accorgessi. Del resto è nella tempesta che si vedono i veri capitani, e Matteo Salvini questo è, un capitano coraggioso che non lascerà la Lega finché non sarà salva l'ultima donna, l'ultimo bambino, e poi calerà a picco con lei - ma non è detto.

Non è affatto detto. Gli ultimi sondaggi, vatti a fidare, dicono che regge sul sette per cento. Davvero niente male per un partito terremotato. Le ragioni della tenuta le hanno messe per iscritto in tanti: la Lega ha uno zoccolo duro, la Lega ha sempre un piede nell'antipolitica, la Lega non si è sporcata col governo Monti eccetera. La Lega, aggiungo io, può contare su cavalli di razza come Salvini, che in questi giorni in tv ci sta mettendo la faccia senza mollare, non indietreggiando davanti al ridicolo, regalando al suo partito performance assolute come quella di ieri da Giletti... (continua sull'Unità, H1t#123, speriam bene).

Gothenburg_Wreck

Elogio del leghista Salvini










Di fronte al tiro incrociato di qualunquisti e governativi, Salvini si è messo in faccia la solita smorfia e ha tirato dritto coi suoi soliti slogan, ormai dei mantra, ma perdio, funzionano. I-Leghisti-Che-Sbagliano-Pagano-Due-Volte. Cosa significhi non si sa, per ora non ha pagato niente nessuno, ma ormai quando lo dice ci credo anch’io. Congeliamo-La-Rata-Dei-Finanziamenti, una cosa tecnicamente impossibile, ma nessuno in sala osa farlo presente. La grande sceneggiata di Bergamo, nel suo racconto, è già Storia, è già Mito: una sala della Pallacorda, un soviet supremo, una cerimonia di purificazione, solo i leghisti sono capaci di spazzare via lo sporco dai loro vertici; forse perché solo i leghisti sanno dove si comprano ancora le vecchie scope di saggina (geniali! Per favore, politici italiani, licenziate tutti i comunicatori che vi tengono aggiornati gli inutili profili twitter, e assumete il leghista che ha avuto l’idea di sprayare la Ruota delle Alpi sulla scopa di saggina).
Mentre capitan Salvini lotta con tutte le sue forze sul ponte mediatico, in cabina di comando regna il caos. Il padre annebbiato del Trota blatera di complotti e minaccia di portarsi via il simbolo (sai che perdita: i leghisti un simbolo se lo reinventano in tre settimane, non sarebbe la prima volta). Maroni gongola troppo per tenere in mano il timone, Tosi sta già calando le scialuppe ché non si sa mai. In futuro sapremo se liquidare come unico capro espiatorio una signora che è al fianco di Bossi da sempre, e che sa tutto di tutti, sarà stata la manovra geniale che a prima vista non sembra. Forse alla fine la Lega colerà a picco, perché in realtà di manovratori capaci non ne ha molti. Ma sul piano della comunicazione, giù il cappello: c’è tantissimo da imparare.
Ieri da Giletti c’era anche un’esponente del PD a fare da sfondo all’eroico Salvini. Non importa quale; non ha fatto una figura altrettanto memorabile e non era nemmeno previsto che la facesse. Nemmeno il Veltroni dei giorni migliori, nemmeno un redivivo Berlinguer riuscirebbero ad apparire convincenti in questo momento, se l’ordine di scuderia è difendere i rimborsi elettorali a pioggia e la riformina proposta di concerto con UDC e PDL. Onore a chi ci prova, ma davvero l’impresa è impossibile. Tanto che ci si domanda se ne valga la pena.
Va bene, non facciamo i qualunquisti. La storia la sappiamo. Il PD non è un partito azienda, né un movimento d’opinione; è un partito di quadri, che non vivono solo della parola di Dio o di Bersani. La contrapposizione ventennale con Berlusconi non consentiva di andare per il sottile in materia di finanziamenti: il nemico era un tycoon, bisognava arrangiarsi. Ma c’era modo e modo, e Lusi probabilmente non è stato l’unico ad approfittarne. È andata così: però è inconcepibile che quella faccia di bronzo di Matteo Salvini dia lezioni al PD. È imbarazzante che Renzo Bossi, dimettendosi, mostri la via a Filippo Penati. Non è una questione di correttezza, non è una questione morale: è una pura e semplice questione di comunicazione. Quelli hanno scialato molto più di noi, ma ne stanno uscendo a testa alta, o perlomeno ci provano. Il PD è l’unico partito che si faceva controllare i bilanci, e in questi giorni si sta presentando come il difensore dei privilegi della casta partitocratica. C’è qualcosa che non va. Forse ci manca qualche faccia tosta, ma tosta veramente. Come quella di un Salvini. http://leonardo.blogspot.com
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Scopa ciula scopa

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La scopa di Damocle

A questo punto della settimana magari vi siete un po' rotti di ascoltare discorsi sui malvagi leader leghisti disonesti che hanno deluso i militanti innocenti, i fieri attivisti che ce l'hanno ancora duro e puro. Vi va di sentire un'altra campana, magari un po' stonata come certe squille lombarde dal battacchio fesso? Ecco, secondo me la questione morale leghista non esiste. Secondo me ai militanti leghisti non gliene è mai fregato niente che un Bossi o una Mauro o un eventuale Calderoli s'intascassero qualche rimborso o qualche mazzetta qua e là. Niente. Meno che zero. Io la penso così, anche perché l'alternativa è ritenerli tutti imbecilli, gli Elmi, dal primo all'ultimo: non dico che non ce ne siano in discreta percentuale, in fondo in molti distretti dell'Alta Italia è un prodotto tipico; ma tutti ciula, tutti mona, i leghisti, no.

Eppure è un po' quello che in questi giorni si lascia intendere: vuoi per semplificazione giornalistica, vuoi per razzismo, vuoi perché talvolta agli stessi leghisti conviene recitare la parte dei tramortiti (guarda per esempio Bossi che alibi perfetto si è trovato). E così è da due settimane che ci raccontiamo che all'improvviso si è scoperto che la Lega ruba, ooooh! Siamo nati ieri, ci siamo dimenticati della CrediEuroNord, dell'Enimont, di qualsiasi pendenza giudiziaria di Bossi & co. Siamo nel 1992, stiamo tutti risparmiando le monetine per poi tirarle a Bettino Craxi. E facciamo finta di non ricordare che anche con Craxi andò così: tutti sapevano, tutti lasciavano fare, finché ad un tratto tutti si stancarono, tutti cascarono dal pero. Ma Craxi non cadde perché rubava. Aveva rubato per tanti anni e la gente ci scherzava su: alcuni persino orgogliosi dello stile che ci metteva, del decisionismo sbarazzino con cui ci sifonava. Craxi cadde perché a un certo punto gli italiani si resero conto che come ladro aveva fatto il suo tempo, che non era più un fattore di rinnovamento; il muro di Berlino era caduto e si voleva provare l'alternanza tra ladri di schieramenti diversi; magari controllandosi a vicenda avrebbero rubato meno, chi lo sa! Proviamo! E Craxi non voleva, Craxi diceva agli italiani non votate il referendum, andate al mare, Craxi da ladro internazionale e innovativo era all'improvviso diventato un reazionario brigante borbonico, e a questo Ghino di Tacco retrivo gli italiani dissero no! Al mare vacci tu. E non tornare più. Certo, la magistratura diede una mano, ma a volte, senza offendere, la magistratura italiana assume le movenze di quel tipo di bestia che prima di attaccare controlla che la preda sia già moribonda. Con Craxi andò così. Con Forlani andò così. Con Berlusconi no, Berlusconi moribondo non lo è nemmeno adesso. Con Bossi e il cerchio magico, invece...

La notizia non è che siano ladri. O pensate che il leghista fino a due settimane fa considerasse Renzo Bossi un infaticabile lavoratore e un brillante studente, fiore della meritocrazia insubre? Il leghista non è un abitante della luna, il leghista in fin dei conti è un italiano. Un arci-italiano, che in quanto tale tende a fottere lo Stato nella misura delle sue possibilità: se ha una fabbrica evade, se ha un'attività non fattura, se non ha niente si arrangia a non pagare le multe, l'importante è fottere qualcosa alla collettività. Uno così fino a sei mesi fa secondo voi si poneva il problema della dichiarazione dei redditi della famiglia Bossi? Che i Bossi suggessero risorse dello Stato era quasi doveroso, un ossequio allo spirito antistatalista e anarcoide del movimento. E se il senatur cominciava a essere troppo suonato per fregare, che almeno fregasse il figlio! E la moglie! E la badante! Quello che è successo negli ultimi sei mesi non è un'improvvisa riscoperta dell'insussistente etica leghista. Semplicemente, dall'ultimo raduno di Pontida in poi, i militanti si sono resi conto che Bossi è alla frutta. Fisicamente, non moralmente. Le avvisaglie si erano avute con la surreale avventura dei ministeri a Monza - intendiamoci, all'inizio la storia poteva avere un senso: nel momento in cui si scopriva il bluff del federalismo fiscale, bisognava trovare un diversivo, alzare l'asticciola delle rivendicazioni localiste, e quindi perché non spostare qualche ministero. Il problema è che invece di trasformare la richiesta in un semplice slogan, magari da portare in campagna elettorale, i leghisti quelle sedi le hanno volute aprire davvero: si sono visti un bluff da soli, indizio lampante di scarsa lucidità. Poi Pontida, il leader che raglia cose incomprensibili, un supplizio. Infine, lo scorso inverno, la figuraccia con Maroni, prima dichiarato indesiderato e poi frettolosamente recuperato. A questo punto la base aveva tutti gli elementi per formulare un giudizio preciso: mancava una scusa per liquidare il cerchio magico, e questo tipo di scuse in Italia la magistratura te le trova sempre, con un tempismo che a volta fa paura. Perché alla fine rubano tutti: però, in un qualche modo, quelli che rubano di più o più sfacciatamente, e che finiscono nei guai, sono quasi sempre i politici decotti.

Viene il sospetto che questa assurda legge, i rimborsi elettorali forfettari a fondo perduto, ce la siamo scritta così proprio per questo. Così siamo sicuri che rubano tutti: così, quando ci stanchiamo di uno o di un altro, la scusa per liquidarlo la troviamo in mezza giornata. Di sicuro è uno che ruba: se non ruba lui, ruba la sua compagna; o il figlio, o il tesoriere, qualcuno nei pressi che ruba c'è sempre: come potrebbe essere altrimenti, abbiamo innaffiato soldi dappertutto. I nostri rappresentanti hanno carta bianca: se non vogliono rendicontare le spese, pazienza: in compenso sanno di avere tutti una spada di Damocle placcata 24k sulle loro teste. Appena ci annoiano, appena ci infastidiscono, appena ci convincono di non essere più interessanti nemmeno per un siparietto a Ballarò, zac, sei un ladro, fuori dai piedi. E per una mezza giornata ci sentiamo anche dei severi censori, con la nostra brava ramazza in mano. Mandrie di ciula, questo siamo. Leghisti o no - non è un prerequisito necessario, no.
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Quel che non si può più dire, tanto ormai

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Intorno alla poesia di Günter Grass il dibattito mondiale si è inviluppato in una specie di ciclone. Si discute animatamente sui trascorsi nazisti di Günter Grass, sull'antisemitismo vero e presunto di Grass, sui meriti e sulle responsabilità di Grass, sulle reazioni più o meno razionali dei politici e dei letterati israeliani all'intervento di Grass, sull'opportunità di ritirare il premio Nobel a Grass, insomma si parla di tutto... meno che del contenuto della poesia di Grass. Come se di tutto il dibattito il testo che lo ha scatenato fosse l'oggetto meno interessante. Se ne sta nell'occhio del ciclone e non lo legge più nessuno. Peraltro almeno qui da noi c'è un problema di traduzione, che rende i ragionamenti di Grass più arzigogolati di quanto probabilmente non suonino in originale. Detto questo, non è escluso che una reazione del genere sia esattamente quello che Grass si aspettava. La stessa poesia sembra fatta apposta per stimolare un dibattito centrifugo: la maggior parte dei lettori (sempre più distratti, su internet soprattutto) perde l'attenzione molto prima di arrivare al nocciolo di quel che Grass ritene "debba esser detto": e in effetti sul finale Grass ha in mente una proposta concreta, ma non è di quella che si discute in giro. Si discute dei trascorsi di Grass diciassettenne nelle SS. Sul fatto che Israele lo dichiari persona non grata, tra l'altro in base a una legge che permette di impedire l'ingresso a chi abbia aderito al nazismo (la stessa norma si potrebbe applicare anche a papa Ratzinger, coi suoi trascorsi nella Gioventù Hitleriana?) Insomma tutto il dibattito di questi giorni ruota intorno a un gigantesco argumentum ad hominem: non si discute più di tanto delle idee di Grass, ma del fatto che sia Grass ad averle. Per molti israeliani, ma persino per i socialdemocratici tedeschi, sarebbe meglio che non le avesse: non su questo argomento.

Che l'opinione pubblica israeliana possa nutrire diffidenza per un intellettuale che ha impiegato mezzo secolo a riconoscere i suoi trascorsi nazisti, mi sembra del tutto comprensibile. (Continua sull'Unità, H1t#122).

Che Netanyahu possa speculare su questa diffidenza durante una campagna elettorale in fondo ci sta, e non è certo la cosa più criticabile che ha fatto in questi anni Netanyahu. Magari qui in Italia se ne potrebbe parlare con più calma, visto che non siamo in campagna elettorale e Ahmadinejad non minaccia di toglierci dalla cartina. Scopriremmo così che quel che propone Grass non ha veramente nulla di nuovo o eccezionale: sono le normali richieste che potrebbe fare un intellettuale socialdemocratico, se avesse ancora voglia di parlare di queste cose, appunto. La Germania, secondo Grass, non dovrebbe fornire un sommergibile di ultima generazione a Israele, che potrebbe impiegarlo per un attacco missilistico all’Iran. Più in generale, nella penultima strofa Grass propone che gli impianti nucleari israeliani e iraniani siano messi sotto il controllo di un ente internazionale. Nulla di sconvolgente: esiste un trattato di non proliferazione nucleare, e Israele non l’ha sottoscritto. Per Grass evidentemente dovrebbe farlo (per voi no?), e consentire che la controversia con l’Iran sia affidata ad un’autorità sopra le parti. La soluzione proposta può apparire un po’ irrealistica, specie dopo che l’11 settembre ha messo in crisi una certa idea di multilateralismo; ma è antisemita? Non mi pare, non lo so, ma se lo dice uno che era antisemita a 17 anni forse sì.
Viene il dubbio che Grass lo abbia fatto apposta, che anche a lui più che la proliferazione nucleare interessi la reazione prevista e prevedibile a quel che scrive. Nei primi versi si vedono i bagliori dell’antica fiamma dell’intellettuale engagé, quello del J’accuse, dell’”Io so”, quello che non sa trattenersi di fronte al passaggio dell’imperatore nudo, certe cose sono evidenti, devono essere dette e pazienza se poi la folla lo lincerà. Poi però il ritmo rallenta, assume un andamento sornione: l’autore se la prende comoda, si domanda perché scrive quel che sta scrivendo, perché ha aspettato tanto a scriverlo, ne approfitta per rammentare le sue colpe indelebili… e intanto sa benissimo che il rilevatore di antisemitismo di molti lettori sta già ticchettando intensamente. Sia loro che i loro avversari si attendono un’invettiva finale che non arriva, anzi le proposte finali sono piuttosto modeste. Una poesia-trabocchetto che magari non aiuta a risolvere la questione israelo-iraniana, ma che ci mostra come funziona oggi la battaglia delle idee.
Non funziona. Perlomeno su Israele, non c’è più nessun vero dibattito, non c’è nessuno scambio di idee, ammesso che le idee ancora ci siano. O Israele è un criminale, o chi lo critica è antisemita, in mezzo non c’è nessuna opinione pubblica da conquistare, l’opinione pubblica si è annoiata e parla d’altro. L’arma non convenzionale in questo caso non è l’ordigno nucleare, ma appunto l’argomentum ad hominem: chiunque parla di Israele o è un agente della propaganda ebraica o è un antisemita: anche se non scrive cose antisemite di sicuro le ha scritte da giovane, oppure le avrà scritte un suo amico o suo nonno. Prendi un blog, per esempio: puoi usarlo per parlare di qualsiasi cosa, ma se ti metti a discutere di Israele, e di Palestina, e di Iran, sai che si fermeranno a commentare soltanto i troll. Sono argomenti interessanti, e drammatici, e attuali; e non c’è nessun motivo al mondo per cui la minaccia di un conflitto atomico a poche migliaia di chilometri di distanza non dovrebbe farci discutere, tirandoci fuori anche la rabbia, la paura, la partigianeria quando c’è. È vero che discutere non risolve, ma sarebbe pur sempre un segno che siamo reattivi, che sappiamo che c’è un problema, e ne discutiamo. Invece no, non ne discutiamo più: ogni fazione conta i suoi morti e li rinfaccia agli avversari; nei momenti in cui morti per fortuna non ce ne sono, si strologa su sciocchezze come le dimensioni del naso di Fiamma Nirenstein. Del resto ormai si sa, scambiare opinioni con quelli che la pensano come noi è inutile, con quelli che la pensano diversa è frustrante.
Forse Grass voleva semplicemente farcelo notare. (Poi, certo, vendere sommergibili a una nazione che non ha firmato il trattato di non proliferazione non mi sembra il massimo, ma forse sono antisemita io, o lo ero in una vita precedente). http://leonardo.blogspot.com
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Scherzando col Magog sbagliato

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[Il prezzo si legge intero e ampliato qui] Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos'è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C'è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post...)
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