Questa canzone fa impazzire i fascisti?

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C'è una canzone di Bruno Lauzi su una balalaika che nelle steppe si annoia a suonare sempre le solite fredde canzoni e alla fine riesce a convincere un suo amico Flauto ad assumerla nell'orchestra Bolscioi. Come a Balalaika riesca questa opera di convincimento, Lauzi non lo spiega, siccome è una canzone per bambini; ma da lì in poi pende sulla protagonista come un sospetto di scarsa serietà che le strofe successive non dissolvono. Una volta approdata su un palcoscenico internazionale, Balalaika non tarda a perdere la testa per un Mandolino che se la porta a Napoli: addio Bolscioi, addio mie steppe.

La musica ovviamente segue l'evoluzione della storia, senza neanche troppo affaticarsi: balalaike e mandolino non è che suonino tanto diversi. Che è forse il motivo per cui i russi, con la loro pur straordinaria cultura musicale, appena riuscirono a captare sulla tv sovietica il Festival di Sanremo impazzirono. È come se la melodia italiana fosse kryptonite per loro. Ma la musica russa, agli italiani, che effetto faceva?

Il ragazzo nicchiava, una fiera, tarchiata e grinning figura. Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò «Fischia il vento, infuria la bufera» nella versione russa, con una splendida voce di basso. Tutti erano calamitati a quel podio, anche gli azzurri, anche i civili, ad onta della oscura, istintiva ripugnanza per quella canzone così genuinamente, tremendamente russa. Ora il coro rosso la riprendeva, con una esasperazione fisica e vocale che risuonava come ciò che voleva essere ed intendere, la provocazione e la riduzione dei badogliani. L’antagonismo era al suo acme sotto il sole, il sudore si profondeva dalle nuche squadrate dei cantori. 


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Poi il coro si spense per risorgere immediatamente in un selvaggio applauso, cui si mischiò un selvaggio sibilare degli azzurri, ma come un puro contributo a quell’ubriacante clamore. Qualche badogliano propose di contrattaccare con una loro propria canzone, ma gli azzurri, anche la truppa, erano troppo nonchalants e poi quale canzone potevano opporre, con un minimo di parità, a quel travolgente e loro proprio canto rosso? Disse Johnny ad Ettore che aveva ritrovato appena fuori della cintura rossa: – Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone. 
(Fenoglio, Johnny).

Nell'estate '44 Johnny nelle Langhe ascolta ancora i partigiani della Garibaldi cantare Katyusha in russo. A cento km di distanza, nel savonese, la canzone ha già un suo testo in italiano, opera del comandante partigiano Felice Cascione. La canzone l'aveva portata dalla Russia un effettivo del Genio Pontieri, Giacomo Sibilla. Sulla musica che Sibilia aveva sentito cantare nelle retrovie dai ragazzi e dalle ragazze russe, Cascione aveva riadattato un testo scritto pochi mesi prima, quando ancora studiava medicina a Bologna. Il vento, la bufera, le scarpe rotte, tutto l'apparente realismo della composizione, Cascione lo stava immaginando, né avrebbe avuto molto tempo per goderselo: in febbraio era già morto in un conflitto a fuoco.



Per una meravigliosa coincidenza, la lirica russa comincia con un'immagine primaverile ("Meli e peri erano in fiore") e quella italiana col furore dell'inverno: fischia il vento, infuria la bufera. L'originale è una canzone d'amore, a modo suo: Katyusha è un'eroina tanto quanto il bel soldato, lui custodirà la patria tanto quanto lei custodirà il suo amore (il che è altrettanto eroico, evidentemente), insomma, tutti facciano il loro dovere e la vittoria non tarderà. Il che non impediva alle ragazze russe di cantarla agli italiani nelle retrovie. Fischia il vento sfoggia un romanticismo completamente diverso: il fiero partigiano è votato alla morte, non ha donne a casa che lo aspettano o comunque non deve pensarci, il che lo rende tremendamente sexy: ma le donne devono contentarsi di donargli un sospir. 

Fischia il vento è molto più cattiva dell'originale, e in effetti se da bambino il nonno ti faceva sentire la versione italiana, quando ascolti certe versioni orchestrali russe ci resti di sasso a scoprire che l'inno della Garibaldi, in madrepatria, è una specie di Fin che la barca va. È un fantastico equivoco: un alpino ascolta una languida canzone d'amore stalinista e la porta in Italia dove le stesse note, le stesse arcane sillabe sembrano talmente minacciose da far impazzire i fascisti al primo ascolto. Balalaika e mandolino magari non sono fatti per capirsi, ma in amore è anche bello fraintendersi.
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Con infinita cura e sospensione

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(Da Schegge di Liberazione, 2011)

Nell’inverno del 1945 sulle Langhe i partigiani in servizio attivo sono ridotti a poche unità. Sulla sua collina Johnny è rimasto solo: l’ultimo amico arrestato in un rastrellamento, l’ultima sigaretta già da un pezzo fumata, calpestata e rimpianta.
Si sedette e rilassò nella più facile e sciolta posizione; poi iniziò la cerca, col più fino e sensibile delle dita, di tutti i resti di tabacco in ogni tasca e per minuti estrasse e cavò segmentini ed atomi di tabacco, misti a briciole di antico pane e fili di stoffa. Aveva ora in un palmo quanto bastava per una sigaretta [...] Poi cercò la carta. La carta di giornale sarebbe andata egregiamente, ma i giornali erano merce sconosciuta nella fattoria. Girò, frugò, rovistò e trovò infine un vecchio opuscolo, aggrinzito e ingiallito dal tempo, di agricoltura e masseria. Ne strappò un foglio e cominciò a torchiare. Era nuovo a questo lavoro, ma da quando partigiano s’era fatto avvezzo ed abile ad una quantità di nuove opere ed imprese. Lavorandoci con infinita cura e sospensione, si rese conto di quanto le sue mani si fossero fatte grossolane e inadatte a questi lavori. Se gli veniva discretamente modellata ad un capo, restava un caos all’altro, e ad un certo momento tutto il tabacco gli sfuggì a terra dalla carta aperta.
Una febbre lo prese e lo squassò, forzosamente si allontanò dal naufragio del tabacco e si disse ad alta voce: «Non perder la testa, Johnny. Non perder la testa, non è assolutamente niente. Del resto, non avevo nemmeno il fiammifero per accenderla»
(Opere, vol. I, p. 840).
Dopo la presa di Forlì, nel novembre precedente, il generale Alexander aveva annunciato alla radio che ai partigiani conveniva coprirsi: di Liberazione si sarebbe riparlato in primavera. Molti prendono il suo annuncio per quello che non è, un perentorio invito a mettersi in letargo e attendere tempi migliori. L’inverno sarà in effetti durissimo. Anche nei territori che durante l’estate erano stati temporaneamente liberati qualcuno si pente di avere fornito ospitalità e sostegno ai partigiani, sperando in una liberazione rapida ed esponendo le proprie famiglie alle rappresaglie di repubblichini e nazisti. «Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo» spiega a Johnny un mugnaio. «Ma al disgelo gli Alleati si rimuoveranno e daranno il colpo, quello buono. E vinceranno senza voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, ne converrai.» Johnny ne conviene, ma resiste: sarà “l’ultimo dei passeri”, come urla uscendo nella tormenta (e vergognandosene subito), il partigiano che non andrà in letargo. Nel lungo inverno combatterà contro fame, freddo, epidemie, solitudine, nostalgia di casa, astinenza da tabacco.

Qualche anno dopo, l’ex partigiano Beppe Fenoglio dirige un’azienda vinicola. Il tempo libero lo dedica allo studio e alla traduzione dei suoi autori preferiti (inglesi e classici) e alla scrittura. In quegli anni la guerra sembra aver dato a tutti un romanzo da raccontare.
Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta. Passava veloce accanto a mia madre e a me [...]. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere.
Scriveva ininterrottamente per ore
. (Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1995, p. 120).
Fenoglio non crede che il suo romanzo sia migliore di quello di molti altri. All’inizio non è nemmeno sicuro di avere un romanzo. La sua prima raccolta di racconti piace più a Calvino che a lui.

La Malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione, ma debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento d’un vizio. Eppure la constatazione di non esser riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore. (Opere, vol. III, p. 201).
Il libro crescerà, lentamente, una sera dopo l’altra, una sigaretta dopo l’altra. Forse per cercare uno stile più suo, o tentare un impossibile distacco da una materia troppo scopertamente autobiografica, Fenoglio inizia a scriverlo in inglese, per passare in seconda stesura a uno strano italiano, ancora sporco di anglismi ma secco, nobile eppur maldestro, come un Cesare o un Livio tradotto alla benemeglio da uno studente ginnasiale – e in fin dei conti quale lingua migliore per l’epica dei partigiani di Badoglio? Non è solo un problema di stile: il libro è l’ennesimo memoriale di guerra, genere ormai inflazionato. Per di più, indulge in episodi che nessuno appare ansioso di condividere – l’esperienza dell’autore nell’esercito regio, prima e dopo il 25 luglio; non omette la vergogna dell’otto settembre; descrive partigiani comunisti e badogliani come antieroi volonterosi, ma prigionieri di una mentalità strategica sbagliata. L’esperienza per altri gloriosa della repubblica di Alba viene descritta impietosamente come un catastrofico errore tattico, che preclude alla rotta dell’autunno ’44: poche settimane dopo Johnny si ritrova solo sulla sua collina, a mettere insieme tremando una sigaretta che non può accendere.

Mentre il romanzo gli cresce davanti, mentre pesta sulla macchina da scrivere e tossisce, Fenoglio si rende probabilmente conto di quanto poco tutto questo sia commerciabile. Un romanzo che si concede la stessa severa ironia nei confronti dei maestri di mistica fascista e dei comandanti partigiani (a volte del resto si tratta delle stesse persone). Un libro sulla provincia senza nessuna concessione al vernacolare, dove mugnai e contadine parlano come personaggi di Omero. Un libro in cui i partigiani non fanno che commettere errori, sparare quando devono scappare, scappare quando devono sparare (ma in generale si scappa molto più di quanto si spari). Prima che scrittore Fenoglio è un uomo pratico. Con Einaudi non ci prova nemmeno. Manda invece una stesura a Garzanti. Gli rispondono proponendogli un taglio drastico: far morire il personaggio subito dopo l’otto settembre, concentrandosi sull’esperienza di Johnny nell’esercito regio, nei giorni cruciali dell’armistizio. Quanto alla guerra partigiana… a Garzanti non interessa. È un po’ come proporre a Melville di far affondare il Pequod appena salpato da Nantucket, ma Fenoglio non si considera certo un Melville. Piuttosto un mercante di vini, e scrittore di quart’ordine, e gli editori hanno senz’altro più fiuto di lui.
Il breve romanzo uscirà nel 1959 col titolo Primavera di Bellezza, senza destare particolare attenzione di pubblico e critica.

Il vero libro è quello che rimane negli scartafacci di Fenoglio, una poltiglia inestricabile di italiano classicheggiante e inglese miltoniano. Ma nel 1959 Fenoglio non sa di essere un bravo scrittore: è abbastanza persuaso del contrario. L’abitudine a pensare in miltonese e tradurre in un italiano marziale e senza tempo la vive più come un limite che come una risorsa espressiva. Eppure qualcosa in lui resiste. Dopo avere ucciso il suo alterego all’inizio della guerra antifascista, Fenoglio lo resuscita, e si rimette a lavorare sul rovente materiale della guerriglia nelle Langhe. Fa in tempo a uccidere Johnny una seconda volta, stavolta alla fine del gennaio ’45, nel primo conflitto a fuoco dell’anno nuovo (la parte finale, in cui negli ultimi mesi di guerra segue le truppe inglesi come interprete, viene accantonata senza essere tradotta in italiano).
Vuole farne un altro libro; forse ha riconosciuto nello scartafaccio il suo libro migliore. Ma non ha più tempo: si arrende al cancro ai polmoni nell’inverno del 1963. Aveva 41 anni. Lo scartafaccio finisce nelle mani dei filologi, che ci litigheranno per qualche anno senza riuscire, a tutt’oggi, a pubblicarne una versione completa e coerente.
Quello che trovate oggi sugli scaffali si chiama Il partigiano Johnny (il titolo glielo diede il primo curatore). È privo della prima parte (l’esperienza militare di Johnny fino all’otto settembre), dell’ultima (le avventure di Johnny come interprete degli inglesi), e di tanti altri episodi importanti, eliminati da Fenoglio nel tentativo di trasformare il libro di una vita in quello che sarebbe piaciuto agli editori, e magari anche ai lettori, un romanzo breve.

Fenoglio aveva chiesto di riposare ad Alba, al riparo dal vento cattivo di quella langa che Johnny aveva difeso da solo per un inverno intero, quando gli stessi abitanti gli suggerivano di farla finita, tornare a casa, non restare ultimo passero sul ramo. «Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e di partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello» (Opere, vol. III, p. 200).

I suoi brani sono citati dall’edizione critica Einaudi in cinque volumi, a cura di Maria Corti, oggi fuori commercio.
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A casa con sei punti?

"Ma come, dico, è l'undici giugno, beccano un terrorista arabo con una bomba nucleare, c'è il congresso della Fao, la Bossi-Fini, il Polo perde a Verona, Jan è a Gaza e non dà notizie di sé, il Movimento è in crisi e lei mette su un pezzo sul calcio? Ma non si vergogna?"
Un po' sì.

Ho fatto un paio di calcoli e ho scoperto uno scenario tanto beffardo da essere quasi desiderabile – tanto si sa quel che valgono i miei auspici, no? – E allora mettiamo che domani l'Italia spinga con Vieri, Totti, Inzaghi e quanti altri, ma non riesca ad andare più in là dell'Uno a Zero. È plausibile: dopo tutto il Messico è ancora a porte inviolate.
E mettiamo che intanto la ciurma croata riesca ad insaccare… oh, non tante, appena un paio di reti: anche questo è più che plausibile: l'Ecuador ormai non ha più motivazioni (del resto era scarso anche quando le aveva).

Bene, il Messico resterebbe a sei punti, e con tre reti fatte e una subita si qualificherebbe. Massimo rispetto.
Anche la Croazia andrebbe a sei, ma con quattro reti fatte e due subite. E l'Italia? Anche l'Italia, esattamente, sei punti, quattro reti fatte, due subite (e due annullate, ma non contano più). Stessi gol fatti, stessi gol subiti, passa la squadra vincitrice nel confronto diretto, e cioè, come ben sappiamo, la Croazia.
E l'Italia andrebbe a casa. Con sei punti. Il doppio di quelli che fece nel primo girone del 1982 (mondiale vinto) e nel 1994 (mondiale perso in finale ai rigori). Insomma, andrebbe a casa per una beffa del destino, della matematica, del guardialinee. Ma con onore.

Il mondiale intanto continuerebbe, dispensando il suo oppio ad altri popoli: Bekham segnerebbe altri rigori per l'orgoglio britannico, Pochettino farebbe dimenticare agli argentini che non gli funziona più il bancomat, Ronaldo farebbe dimenticare ai brasiliani che il bancomat non l'hanno mai avuto. Ma noi italiani saremmo, per un po', fuori pericolo. Ricominceremmo a preoccuparci dei terroristi arabi con le bombe atomiche, di Gaza, della Fao, del Movimento. Per dire, la ragazza involtolata nel tricolore che dopo la vittoria con l'Ecuador disse alla telecamera: "vittorie così ci fanno sentire fieri di essere italiani" andrebbe a cercarsi qualche motivo un po' più serio, per sentirsi fiera. E per un po' anche l'Inno avrebbe finito di stressarci.

Ma allo stesso tempo, ci ritireremmo con la sensazione che non abbiamo perso. Come quando ci eliminano ai rigori: non è sconfitta, è il Destino, ma noi restiamo i migliori del mondo.
Questa è una convinzione che nessuna sconfitta riesce a toglierci: siamo i migliori. Che importa se i titolari delle nostre squadre sono per metà stranieri. Che importa se comunque queste nostre squadre non vincono nulla. Noi siamo e restiamo i migliori e il nostro campionato è il più bello del mondo.
Questo mi fa pensare a quel romanzo di Fenoglio, "Primavera di bellezza", dove si racconta del giorno in cui l'Italia entra in guerra, e nelle piazze risuona il proclama di Mussolini, e c'è un tale in una piazza che dice: "la Francia è già spacciata, all'Inghilterra do tre mesi". Non mi ricordo se siano tre mesi o più, ma ricordo che i bombardamenti iniziano quasi subito, e solo allora si scopre che l'Italia è senza contraerea.
Allo stesso modo, oggi, l'Italia è senza difesa: basta un infortunio di Nesta e si prende due gol pasticciati in contropiede: Maldini è il monumento di sé stesso, e in quanto monumento non è che si muova un granché. Poi naturalmente tutti a dar contro a quel difensivista di Trapattoni, che forse è l'unico italiano a rendersi conto che non siamo venuti da un altro pianeta, siamo una squadra come le altre.

Ecco, una eliminazione a sei punti ci impedirebbe ancora una volta di fare i conti con la realtà. Il nostro calcio è in crisi, metà delle squadre di serie A non avrebbero i soldi per iscriversi, la bolla delle pay tv è scoppiata miseramente. Le squadre più importanti, che in teoria dovrebbero essere il fiore all'occhiello di grandi gruppi economici, in realtà si finanziano con la speculazione, essendosi quotate in borsa: ovviamente, il valore delle loro azioni non ha nulla a che vedere con l'economia reale. Una volta pagavamo gli stranieri perché giocavano meglio: oggi in realtà li prendiamo perché costano meno dei nostri. Insomma, forse il nostro forse è il campionato più bello del Terzo Mondo.
Ma se domani ci mandassero a casa con sei punti, sapremmo chi è il colpevole. Il guardialinee. L'arbitro. Il regolamento. Trapattoni che non schiera cinque punte. Carraro che non veglia sui misfatti della Fifa. Tutti questi nemici del bel calcio italiano.
E tra quattro anni saremmo pronti a scommettere tutto di nuova sulla nostra nazionale, la favorita di sempre. Forza Italia. La Francia è già spacciata. All'Inghilterra do ancora due rigori.
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