I figli di Bearzot

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Per vincere domani

A vederlo da qui, il Calcio italiano sembra avere avuto due incarnazioni, che per comodità possiamo chiamare “in bianco e nero” e “a colori”. Dunque il calcio in bianco e nero è un mondo di leggende, sacrifici, uomini di poche parole dal destino spesso tragico, magliette a strisce strette e senza scritte, riprese accelerate. Il calcio a colori è un mondo di stelle e stelline, scritte ovunque, indossatori di scarpe, spot di telefoni, risse in campo e sugli spalti, azioni al rallentatore. Al centro di questo grande cambio di paradigma, per un curioso accidente, c'è il Mundial del 1982, e la nazionale di Bearzot, coi suoi uomini che hanno un piede nel mondo antico e uno già in quello moderno, ma non appartengono davvero a nessuno dei due.

Aspettate, aspettate, non cliccate via. Non sono venuto qui a dirvi che il nostro mondiale è stato più bello del vostro; vorrei soltanto cercare di spiegare ai più giovani e ai più anziani che per noi, che eravamo al mondo da nemmeno dieci anni, fu qualcosa di diverso e irripetibile, né una saga in bianco e nero né una fiction a colori. Un romanzo, un incredibile romanzo, il primo vero romanzo che abbiamo visto consumarsi tra la tv e i giornali (quanti giornali! E che titoli! Me ne ricorderò sempre uno, che forse non era nemmeno in prima pagina, in un maiuscoletto che pugnalava il cuore: IL CAMERUN CI FA PAURA).

Vorrei spiegare che prima di tutti i grandi romanzi di formazione degli anni Ottanta, prima di Pat Morita che ti fa dare la cera e togliere la cera, prima di Rocky che spacca la legna, persino prima dei napoletani che sfidano a football gli yankees della base Nato e ovviamente si fanno massacrare, finché Bud “Bulldozer” Spencer non si rompe i coglioni ed entra in campo, prima che qualcuno dicesse “coniglio” a Michael J. Fox, insomma, prima di ogni cosa, ci fu quella nazionale pesante, che non riusciva a giocare contro la Polonia, non riusciva a battere il Perù; quella nazionale criticata da tutti che aveva paura del Camerun, quella nazionale passata al secondo turno per una pietosa differenza reti, quella nazionale che quando si ritrovò in un girone a tre con Brasile e Argentina fu data per spacciata dai nostri saggi padri.

Noi invece, non sapendo davvero nulla di calcio, che altro potevamo fare se non sperare, pregare, sognare che i potentissimi sudamericani si liquefacessero come nella Bibbia accade agli empi nemici di Israele. E così fu: il Dio della nostra infanzia ascoltò le querule preghiere dei suoi figli piccoli e quella nazionale, già vergogna delle italiche genti, si rialzò sferragliante come Mazinga prima che gli diano il colpo di grazia, e sconfisse l'Argentina di Maradona, trionfò sul Brasile di Zico e Falcao, passeggiò sulle spoglie della Germania di Muller e Rummenigge, e ci diede il primo vero lieto fine della nostra vita; non una semplice vittoria: una crescita, un riscatto. Lo avevamo sognato, ora il sogno era realtà. Ed era appropriato che i protagonisti di questa avventura avessero nomi bizzarri, da romanzo ungherese: Zoff, Bearzot (anche se poi chi segnava i gol portava cognomi più rassicuranti: Rossi, Tardelli).

L'allenatore, in particolare, fu immediatamente assunto nel nostro olimpo di nonni rassicuranti, con Pertini ed Enzo Ferrari (che per me a nove anni avevano davvero il volto intercambiabile): uomini saggi che tenevano dritto il timone, incuranti delle sconfitte passeggere, essi vegliavano sui nostri sonni e ovviavano ai disastri dei nostri genitori. Senza di loro, Gilles Villeneuve non sarebbe stato che un locale campione d'autoscontro. Erano loro ad aver pescato Paolo Rossi dal vortice del calcioscommesse; ad aver creduto in lui per quattro lunghe partite mentre si aggirava per l'area avversaria struggendosi nel tentativo di rammentarsi le regole del giuoco. E i nostri saggi padri lo fischiavano, maledicendo Bearzot e chi ce l'aveva mandato, e l'Argentina '78 era un'altra cosa, per tacer del Messico.

Come poteva non scattare l'immedesimazione, come potevamo non sentirci tutt'uno con quel Paolo Rossi timido, incapace, distrutto dalle critiche, che a un certo punto si sblocca e piazza tre gol ai brasiliani? Era ovvio che prima o poi sarebbe successo anche a noi: ci saremmo sbloccati. Avremmo spiccato il volo e superato in elevazione tutte le difficoltà. Non è escluso che da qualche parte, nella nostra testa, ci crediamo ancora: ci sbloccheremo prima o poi, la faremo vedere a tutti. Forse sarebbe bastato trovare un saggio maestro, un nonno partigiano, un Bearzot che credesse in noi.

Non ci furono sequel al romanzo: chiusa la copertina Bearzot tornò immediatamente un comune mortale, il selezionatore di nazionali mediocri, che non si qualificarono agli Europei e uscirono agli ottavi in Messico. Ci furono altri mondiali, e anche se non abbiamo mai smesso di tifare per gli azzurri, da qualche parte nel nostro cuore c'era come una resistenza, l'idea che nessuna fiaba sarebbe mai stata bella come quella di Bearzot. Magari piangemmo persino nel '90, quando la cavalcata trionfale di Baggio e Schillaci si schiantò sulla più bituminosa Argentina mai vista: piangemmo, ma qualcosa dentro di noi diceva meglio così, ci sta bene, abbiamo voluto vincere tutte le partite e ci siamo dimenticati che non c'è vera gloria senza sofferenza.

Soffrimmo di più per l'Italia di Sacchi, che in partenza poteva sembrare ancora più arrogante di quella di quattro anni prima, ma poi fu messa in ginocchio da infortuni e squalifiche che la resero un'armata brancaleone, trascinata di peso da Baggio fino al malinconico finale. In seguito i calciatori diventarono sempre meno simpatici, eppure avevano un modo di mettersi nei guai che ti costringeva a credere in loro, a sperare nel riscatto, a cercare nel fondo del nostro cuore il Dio delle vittorie assurde che avevamo pregato nel 1982. Persino l'europeo di Grecia diventò interessante soltanto quando Totti si fece cacciare, e Cassano scese in campo e segnò, ma Svezia e Danimarca fecero melina e allora pianse: sì, Cassano pianse. Due anni dopo, in pieno scandalo Moggi, era di nuovo una questione di riscatto: i nostri gladiatori pompati e tatuati dovevano dimostrare di essere professionisti all'altezza, e forse ce la fecero, ma poi.

Poi, l'ho scritto, almeno in me qualcosa si è rotto – qualcosa, credo, tra la testata di Zidane e la scenetta odiosa di Totti con la coppa in mano. Non riesco più ad appassionarmi, mi sembro una donna che vede ventidue idioti a spasso per un prato e cambia canale. Non capisco - se mai l'ho capito - che senso abbia far giocare miliardi di budget contro milioni di debiti, non riesco più a trovare motivi d'interesse. Non posso nemmeno dire che rimpiango il calcio che fu: se riguardo al Mundial dell'82 con gli occhi di oggi, mi rendo conto che fu una bella impresa, sì, ma come tante altre, nulla di davvero eccezionale: non ci voleva un genio a capire che quel Brasile non sapeva difendersi, e Bearzot probabilmente non era un genio.

L'unica cosa che mi porto dentro, alla quale non voglio rinunciare, è il mio concetto di vittoria, che è quello dei film degli anni Ottanta dove Rocky deve sempre prima andare al tappeto, sanguinare, vedere doppio, spaccare la legna, mettere la cera, togliere la cera... per vincere domani. Il mio concetto di vittoria è che la vittoria in sé non m'interessa. Non voglio essere il più forte, non trovo nessuna gloria nel nascere Maradona. Non ci sarebbe gloria nemmeno nel battere il Brasile, se prima non hai avuto paura del Camerun. Per me l'unica vittoria che abbia senso è la vittoria di Paolo Rossi, che sbeffeggiato dal mondo intero spicca il volo, supera due ciclopi brasiliani in elevazione e la mette dentro. Perciò mi troverete sempre coi perdenti: non perché mi piaccia perdere, ma perché sto aspettando l'unica vittoria che mi farebbe godere realmente: la vittoria di Davide su Golia, di Bearzot sui mostri del calcio, di Pertini sui fascisti i nazisti e i democristiani. Voi tifate pure per la vostra squadra miliardaria: mica vi giudico, e mi fareste un piacere se non giudicaste me. Siamo semplicemente diversi, abbiamo avuto educazioni diverse, ci siamo letti romanzi diversi negli anni in cui leggere i romanzi ci serviva davvero. Adesso per capirsi forse è tardi, voi state da una parte, io dall'altra, e non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento.
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Vizi italiani (1): gente volgare

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Scriverò meno parolacce
Scriverò meno parolacce
Scriverò meno parolacce

Davvero, non è per fare l’antisnob – che comunque sarebbe snob: io ricordo di essere stato felice, seriamente felice, appena Grosso segnò l’anno scorso. Parte della mia felicità derivava senza dubbio dal trovarmi in un’aula piena per metà di francesi, che per due ore ci avevano urlato nelle orecchie zizù, zizù (e una manciata di questi francesi ci toccò poi consolarla per lunghe ore, sempre per via del loro odiosoamato zizù, zizù). Ma non escludo per qualche minuto di essermi sentito davvero fiero di essere italiano, fiero di una nazionale senza molta classe ma con tanto carattere, e sudore, e scarponi, tutte caratteristiche che in fondo mi ritrovo.
Ricordo anche molto bene quando è finita: appena il pupone è salito sul palco della premiazione col tricolore a mo’ di foulard, come un tredicenne in gita scolastica. Insomma, è il momento più alto della tua carriera sportiva, è un momento di gioia per tutta la nazione, e tu fai il pagliaccio. Per conto mio la festa era terminata, e rovinata.

Se almeno Totti avesse avuto l’esclusiva della cafonaggine. Ma Gattuso, l’eroico Gattuso, invece di posare immediatamente per una statua di marmo da riprodurre e distribuire in tutte le piazze italiane, cominciava a bere e a dire sciocchezze ai giornalisti, estasiati. “Abbiamo avuto due coglioni grossi come una casa, nel senso che abbiamo lottato su tutti i palloni”. In mondovisione. In seguito avrebbe alluso a pratiche anali. Un bell’esempio per tutti i minorenni maschi d’Italia, ma del resto che cosa ti aspetti? Gattuso era allenato per l’occasione da un CT che a telecamere accese dava degli stronzi ai giornalisti.

Si fanno tanti confronti tra il 2006 e il 1982, il più delle volte giocando sui dati soggettivi: certo, nel 1982 mi divertivo anche solo a giocare a biglie sulla spiaggia, non c’è dubbio che stessi meglio, perciò viva Bearzot. Alcuni dati oggettivi però ci sono: quell’Italia segnava di più e non diceva le parolacce. Perlomeno non le diceva davanti ai microfoni, che per me fanno tutta la differenza.
Da emiliano, ho sviluppato una certa tolleranza per la bestemmia sul luogo di lavoro: ma quando parli ai microfoni, tu parli ai tuoi bambini. Non credo che Bruno Conti o Ciccio Graziani avessero uno spessore culturale superiore a quello di Totti o Gattuso, ma so che loro non avrebbero mai detto “abbiamo avuto due coglioni grossi come una casa”. Nel 1982 le parolacce avevano il loro posto, e il loro senso. Oggi no. Oggi sono abbellimenti retorici, per gente che si trova un microfono davanti e deve usare l’unica retorica che sa. “Non è per fare una leccata”, diceva Gattuso prima di fare un complimento a Del Piero. Coglioni, stronzi, leccate, vaffanculo: tutte parole vecchie, arcinote ben prima del 1982; la novità è che hanno tracimato. Si sentono in tv, in radio, sono il principale espediente usato dai registi italiani per far ridere il pubblico. Quel che è successo alla lingua italiana è che sono saltati i registri: quello basso e volgare ha contaminato tutti gli altri.

Gli inglesi non ne hanno un’idea. Gli inglesi sono convinti che Berlusconi abbia dato alla Thatcher della “gnocca” (l’Independent suggerisce di pronunciare “nyocca”), e questo basta per un articoletto di colore. In realtà Berlusconi ha detto persino di peggio: “Se fosse stata una bella 'gnocca' me la ricorderei ancora...” Invece, siccome la lady di ferro ha semplicemente piegato i laburisti, i sindacati e l’Argentina, Berlusconi fa un po’ fatica a ricordarsela. E uno se la dovrebbe prendere con Gattuso? Gattuso dice la parolaccia perché è l’unica cosa un po’ spiritosa che gli viene in mente, in fondo lui lavora coi piedi. Berlusconi invece lavora con la lingua, è un laureato, ha un intero impero editoriale che può scrivergli i discorsi, e puntualmente se ne esce con queste cose: la Thatcher non è una bella gnocca, Prodi dice stronzate, gli elettori non sono così coglioni da votare contro i loro interessi, eccetera. Senza dubbio Berlusconi ha qualche responsabilità nella degenerazione del lessico italiano, un fenomeno recente quanto lui. Ma non è senz’altro stato il primo. I due pionieri sono stati Bossi e Cossiga, anticipati forse da Pannella.

A questo punto – siccome qui non ci si accontenta del facile moralismo sulle parole volgari – bisogna spiegare cosa c’è, di così scandaloso, in questa tracimazione delle parolacce. Cosa ci perdiamo? Beh, per prima cosa ci perdiamo le parolacce. Sono preziose. Hanno un’energia rara, che deriva da un elemento (l’osceno) difficile da maneggiare. Ma come le monete, le parole soffrono l’inflazione. Ci fu un tempo in cui dare dello stronzo a qualcuno era quasi una maledizione biblica: come se l’obiettivo dell’insulto dovesse trasformarsi d'incanto in una colonnina di escremento solido. Ma se comincio a dare dello stronzo a chicchessia, il mondo non si popola di siffatte colonnine, al contrario: è la parola “stronzo” a sapere sempre meno di fece e sempre più di uomo. Alla fine oggi stronzo è quasi un complimento, nessuno pensa più che in principio trattavasi di materia fecale. Abbiamo guadagnato un sinonimo (abbastanza inutile) per “simpatica canaglia”, e abbiamo perso una parolaccia straordinariamente forte. Ecco un motivo per non dire più le parolacce: per salvarle dalla morte più grigia, la banalizzazione. Occorrerebbe invece lavorare in senso inverso: ridurre l'uso delle parole forti, salvarle per i momenti speciali. “Rogna”, in sé, non è nemmeno così volgare: ma quando Dante la piazza nel bel mezzo del Paradiso, sembra veramente che vengano giù i Santi.

Infine: la parolaccia è un limite del linguaggio. Se anche il lessico politico raggiunge quel limite, esaurisce tutte le sue possibilità (non a caso vi ricorrono spesso uomini politici anziani, che nulla più hanno da perdere). Di cosa parleremo negli spogliatoi e nelle caserme, quando gli onorevoli si saranno presi tutte le nostre parole sconce? Perciò abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente che la smetta di blandire il popolo con le battute da osteria, e se questa classe dirigente non c’è, ci arrangeremo con Veltroni, che questa cosa l’ha capita da tempo, almeno. L’ha capita meglio dei blogger, me compreso, che alla facile parolaccia indulgono.

E tuttavia, se da (cattivo) politico volentieri lancerei una campagna paternalista anti-parolaccia, da (cattivo) linguista sarei scettico sui risultati. Non è così che vanno le cose. Quando le parole tracimano, tracimano, non c’è niente da fare. Forse puoi convincere Gattuso a non dire più “coglioni” in conferenza stampa (e in effetti è incredibile che nessuno glielo abbia spiegato), ma non i bambini che ormai Gattuso lo hanno sentito. Direi che tutte le parolacce della mia generazione ormai sono state assorbite dal lessico tv. Come a dire che hanno smesso di essere parolacce, e che difficilmente i posteri le riconosceranno tali. I nostri sbadati lettori futuri troveranno estremamente formali le nostre dispute a base di “stronzo” e “vaffanculo”, esattamente come noi irridiamo gli antenati coi loro “perdindirina” e “Gesù Giuseppe e Maria”.
Non avete un’idea di quante parole d’uso comune o persino scientifico siano state, in un’altra epoca, parole sconce. La vagina era il fodero della spada, il glande era la ghianda: eufemismi piccanti da non pronunciare davanti a una signora. In fondo la volgarità è una porta del linguaggio, da cui entra il materiale grezzo che nel corso dei secoli l’erosione dell’uso trasforma in parola comune. Mettersi davanti alla porta è un gesto abbastanza stupido. E allora?
E allora vaffanculo. Forse vale la pena di sdoganarle tutte, ripeterle fino alla noia, finché non perdano quell’infinitesimale residuo di simpatica volgarità che trattengono ancora. Quando saranno parole come le altre, Berlusconi non avrà nemmeno più interesse a pronunciarle.
E nel frattempo ci sarà sempre, in uno spogliatoio o in un campeggio, qualche oscuro geniale ragazzino pronto a inventare sconcezze nuove. Perché ce n’è bisogno. Basta che non tracimino subito: la lingua ha i suoi tempi.
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- campioni

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Una vita da Gattuso

I meri fatti sono questi: Zidane ha perso la testa e Trezeguet ha preso una traversa.
Il risultato, indiscutibile, e' che siamo Campioni del Mondo. Tutti cinquanta milioni e rotti quanti siamo. Campioni. Ce lo meritiamo? Non troppo. Lo meritavano i francesi? Men che meno. C'era il rigore? No (ma ce n'era un altro nel secondo tempo). C'era il fuorigioco sul gol annullato? Non lo so, qui tutti hanno urlato e non si e' capito niente.
Cos'ha detto Materazzi a Zidane? In francese si dice provo'. Se la pazzia di Zidane potra' insegnare a milioni di piccole pesti francesi a non reagire alle provo', tanto meglio. Noi dopo Baggio abbiamo imparato a tirare i rigori.

Antropologia spicciola: i francesi (studenti) urlano piu' degli italiani, ma urlano solo nei momenti piu' intensi. Hanno un Dio: Zizou. E vari idoli: Henry, Barthez, e via scendendo. Quando Zizou impazzisce, restano gelati. Non glielo perdoneranno mai. Ancora tra quarant'anni spiegheranno ai loro figli che la finale l'ha persa lui.
(Non e' cosi' vero.
Negli ultimi dieci minuti, con un uomo in piu', il centrocampo italiano non riusciva a spingere. Ma la difesa teneva. Zidane avrebbe pascolato fino al 120', e poi avrebbe segnato il suo bel rigore. Ma Trezeguet avrebbe preso la traversa ugualmente).

Per contro, gli italiani commentano le azioni. Non hanno nessun Dio a cui raccomandarsi, ma soltanto calciatori che potrebbero sempre dare un po' di piu'. Dai Zambrotta, dai Gattuso, spingi Pirlo, non far cazzate Materazzi, e dove cazzo e' Totti, e' sceso in campo o no? La nazionale si critica fino all'ultimo minuto secondo.

Questo forse manca ai francesi: un po' di sano senso critico. Zidane ne avrebbe avuto bisogno. Ma e' antropologia da due soldi.

Come ci si sente a vincere per un soffio, all'ultimo minuto, lo sappiamo gia'. Di sicuro avremmo preferito vincere come i nostri genitori. Tre botte al Brasile, due alla Polonia, tre alla Germania. Quella era gente seria. Noi siamo quelli che siamo, e si sa.
Siamo, per dirla con una parola che vuol dir tutto e niente, berlusconiani. Dove "Berlusconi" ormai e' un concetto che col povero S. B. non ha niente a che fare. Ma il tormentone di quest'anno, dal Caimano in poi, e' stato questo: Berlusconi ha vinto, siamo tutti figli suoi.

Siamo immaturi e un po' ignoranti. Tatuati e pasticcioni. Abbiamo prosperato in un clima moralmente discutibile, dove gli arbitri finivano chiusi negli spogliatoi e noi credevamo che fosse ok. Abbiamo peccato di parole, di opere, e soprattutto di omissioni. Ci sarebbe piaciuto essere persone piu' serie, ma alla fine non siamo altro che noi.

D'altro canto, non siamo necessariamente peggio degli altri. E siccome saremo ancora noi, per molti anni, tantovale farvelo vedere: se c'e' bisogno lottiamo, su ogni pallone, se c'e' bisogno mandiamo a casa i padroni di casa, e neanche gli armadi d'ebano francesi ci fanno paura.
Non siamo Dei, siamo terzinacci. Ma neanche voi siete Dei, mettetevelo in testa. Noi siamo campioni perche' non crediamo piu' a nessun intervento divino, di manager o arbitro o centravanti miracolato. Crediamo solo in noi stessi, e anche poco.

C'e' questa vecchia idea asfissiante, questa riduzione della Storia d'Italia ai minimi termini, per cui gli anni di piombo finiscono al Santiago Bernabeu. Di vero c'e' questo: negli anni Ottanta ci siamo tutti un po' montati la testa. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre capacita', e stiamo ancora pagando.

Succedera' di nuovo? Io spero di no. Vorrei che questa vittoria avesse un sapore diverso. Il riscatto per una generazione che ha fatto melina per troppo tempo. Che viveva di illusioni e rimediava solo figuracce (2002 e 2004).
E' una generazione che non mi sta simpatica, ma alla fine e' la mia. Sono io. Non posso mica inventarmi diverso da quel che sono. Sono come tutti voi, uno che e' cresciuto un po' troppo lentamente. In ogni caso sono cresciuto, e adesso si tratta di farvela vedere. Si tratta di lavorare, tutto qua. Non c'e' nessun regista miracoloso a cui passar la palla. Da qui in poi stacco, senno' divento Ligabue.
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- italian stallions

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("Italian stallions" era il titolone in prima pagina sull'inserto sportivo del New Haven Register; e devo dire che non ce n'e' uno simile sui francesi stamattina).

Ma insomma questa World Cup la guardano, gli americani. Perche'? Cosa ci trovano? E' l'unico sport in cui non sono obbligati a vincere: pure, si sciroppano partitacce di nazioni esotiche come Ucraina o Portogallo; mandano giu' serafici l'umiliazione di farsi buttare fuori da Ghana o Boemia; non si smuovono dal video, anche se nessuno segna per due ore, una cosa impensabile in qualsiasi altro sport. Perche'?

Ebbene, sentite un po' questa. Gli americani guardano il soccer perche' e' divertente. Proprio cosi'.

E' divertente - l'avreste mai detto? - addirittura fa ridere. Quando un CT disperato getta uno straccio nel secchio, loro si mettono a ridere. Quando l'ennesimo centrocampista si butta giu' dolorante per un contatto, il volto contorto in una maschera tragica (e il 90%, va detto, sono in maglia azzurra), loro si sganasciano. Quando Grosso si mette le mani nei capelli, disperato per un calcio in uno stinco, si sbudellano. Gattuso, poi, fa ridere solo a guardarlo.

Davvero, non si rendono affatto conto della gravita' della cosa. Quando infine Grosso segna, e la diretta per un attimo mostra un'immagine del Circo Massimo che s'infiamma, loro ridono a crepapelle. Non gli passa per la mente il fatto che da qualche parte nello stesso mondo ottanta milioni di tedeschi hanno cominciato a soffrire e cinquanta milioni di italiani hanno le palpitazioni. Non sanno quanti padri di famiglia tedesca stiano seriamente pensando di cambiare localita' balneare per l'agosto, onde evitare l'irridente bagnino romagnolo. Ne' concepiscono il dramma schizofrenico del bagnino romagnolo, che sogna da 24 anni l'umiliazione del crucco, ma nel frattempo teme di non rivederlo per un'intera estate. Non ne sanno niente, loro.

Per loro e' un gioco, in cui nessuno segna quasi mai, ma quando qualcuno segna poi e' finita. E' divertente questa cosa, che il pallone non si puo' toccare con le mani. Le strattonate, i fischi, i tuffi. I portieroni coi loro guantoni.

E l'Europa tutto intorno, che trattiene il sospiro, e' uno spasso.
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The passion of the Hrist

Evviva l'Italia, evviva la Bulgaria, che ci ha fatto dono del Pippero…

Oggi si gioca contro la Bulgaria, e nell'aria sento il ben noto profumo di complotto, ma mi togliete una curiosità?
È da dieci anni che io mi domando una cosa.

USA '94, semifinale Bulgaria-Italia. La prima squadra è la rivelazione del torneo, ai quarti ha mandato a casa i campioni del mondo tedeschi, ma tutto sommato si tratta di Hristo Stoichkov più dieci onesti session men. La seconda, dopo una serie incredibile di espulsioni e infortuni, è un'armata Brancaleone che ormai fa perfino tenerezza, e tra espulsioni e infortuni si trascina di fase in fase soprattutto grazie all'abilità di Baggio a segnare negli ultimi minuti. Voi la ricordate, quella partita? Onestamente.

(USA '94 è vittima di una grande rimozione collettiva. Baresi in lacrime, Zola espulso per aver toccato la palla coi piedi in area, Maradona che sembra volerti entrare in casa e mangiarti, Maradona che esce dal campo mano nella mano con un'infermiera addetta alle urine, e già sente che lo stanno accompagnando al patibolo. Tanti brutti ricordi, ma alla fine sembra ridursi tutto a Baggio che sbaglia un rigore).

Insomma, vi ricordate Italia-Bulgaria del 1994? Vi ricordate che a metà del secondo tempo, con l'Italia vincente per uno o due a zero, il CT bulgaro sostituì, tra tutti, proprio Hristo Stoichkov? Dico a voi, spostatevi per una volta dalla vostra panchina virtuale dell'Italia; provatevi a sedere su quella della Bulgaria. Siete bulgari, ok? Non c'è niente di male, ma nel mondo siete famosi per: gli yogurt, il mistero delle voci di Elio e le Storie Tese, il voto all'unanimità, e per aver tentato di ammazzare un Papa polacco (che non è nemmeno vero). E per Hristo Stoichkov. Uno dei calciatori più forti d'Europa, del mondo di sempre. Vi ha portato ai Mondiali americani a spese della Francia. Ha ancora qualche possibilità di portarvi in finale. Contro il Brasile. Una finale Brasile-Bulgaria, v'immaginate? Beh, a questo punto voi cosa fate? Mandate in panchina Hristo Stoichkov. No, dico. Vi sembra una cosa normale?

Stava male? Non mi sembra che stesse male. Ma io, da CT bulgaro, lo avrei tenuto in campo anche su un piede solo. Cosa facevo, lo risparmiavo per la finale terzo-quarto posto? (nella finale terzo-quarto, i bulgari furono sepolti dalla Svezia).

Adesso, non è che io sia un avido lettore di stampa sportiva, ma non ho mai trovato una spiegazione razionale per quella sostituzione. Faccio appello a chi passa di qui, ce n'è sempre qualcuno più informato di me (sul calcio, ce ne sono parecchi di più informati di me). Voi ricordate l'episodio? Ricordate come lo presentò la stampa? Ricordate se qualche giornalista gridò al complotto? Io ho un bel da cercare, non me ne ricordo. Come se si potesse complottare solo ai danni dell'Italia, mai in favore. Inverosimile – anche solo per la legge dei grandi numeri.

E se non fu complotto, riuscite a trovare qualche altra spiegazione razionale? Se sì, vi ringrazio. È imbarazzante, con tutti i problemi che ci sono al mondo, avere anche una sola cellula del cervello che continua a farsi una domanda stupida dal 1994.

Servizi segreti bulgari… e italiani, via
Sentite come pompa il Pippero!
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Ma quando cresci

A un certo punto i calciatori hanno smesso d'invecchiare. Si vede perfino dalle foto. O è un'impressione mia?

Ho qui davanti un almanacco Panini del 1984, con Bruno Conti in copertina. Bruno Conti, per me, è un uomo. È sempre stato un uomo. Mi costa fatica ammettere che quando vinse la Coppa del Mondo aveva la mia età. Riguardandolo, mi accorgo della muscolatura notevole, e dell'addome che sporge lievemente: negli anni Ottanta era ancora un attributo mascolino. E mi sembra un uomo, maturo e affidabile.

In fondo è una questione di punti di vista. Io guardo il mondo da un punto in movimento (anche voi, del resto). Attraverso il mondo precipitando, ma in mancanza d'attrito ho l'impressione di galleggiare fermo, mentre il mondo mi precipita intorno. E le cose più vicine appaiono distorte, una specie di effetto Doppler. A un certo punto la figura del calciatore si è distorta, è passata da eterno adulto (mio padre…) a eterno ragazzo, bambinone, pupo. Quando è successo? Provo a guardarmi indietro. Paolo Maldini.

Paolo Maldini, in effetti, sembrava non crescere mai. Il Tom Cruise, il Michael J. Fox del calcio italiano: quando comincerà ad assomigliare a un adulto? (Se ci rifletto bene, mi accorgo che gli sto chiedendo di invecchiare prima di me, di precipitare più alla svelta). Accanto a lui giocava Franco Baresi, l'ultimo grande adulto. Forse la generazione di mio padre finisce con Baresi (Franco), la mia comincia con Maldini (Paolo). E forse anche la mia è già finita. Da qualche anno in qua i calciatori mi sembrano tutti bambocci.

D'altro canto, non devo neanche dare eccessivo peso alla mia soggettività. Può darsi che siano davvero un po' tutti bambocci. Troppi soldi troppo presto, e un modello di giovanilismo estenuato, perché il calcio è marketing e il marketing punta tutto sul grande target giovanile. L'orecchino, il tatuaggino, l'acconciatura carina… e poi questi addomi concavi, questo nuovo modello di mascolinità fortemente innaturale (gli antropologi di domani guarderanno alle copertine di Men's Health come noi guardiamo le foto delle donne africane che si allungano il collo coi collari o gli aborigeni che si allungano labbra o lobi delle orecchie: "che strani gusti… mah… era la loro cultura").

Tutto questo non mi piace, non mi è mai piaciuto, sin dal primo momento, dal primo spot orientato su di me. Così guardo indietro, ai campioni del Mondo. Quelli sì che erano uomini. Giganti. Poi arriva Gigi Riva e mi scuote un po' di certezze.

Riva è una figura mitica per me, di quelle scolpite nel bianco e nero. Ieri, in un'intervista alla radio che non riesco a lincare, ha detto che Totti ha sbagliato, sì, ma che lui sa quanto le marcature a uomo possano essere esasperanti (il giornalista ricorda che Riva è il solo calciatore a essersi fratturato due gambe in maglia azzurra). Che Totti ha sbagliato, ma ai suoi tempi avrebbe spesso voluto prendere i suoi marcatori a rivoltellate. Che è giusto che Totti paghi, ma ai suoi tempi al fischio finale si metteva a rincorrere i suoi mastini, "e quattro o cinque li ho anche presi, non lo dico per vantarmi". Che non dobbiamo mitizzare la sua generazione, non era affatto più matura di questa. Sottointeso: quel che è cambiato davvero è la prova video.

La prova video. L'ossessione della diretta. Una telecamera fissa su Totti per 90 minuti. Un reality show su Totti. E quanto assomigliano ai calciatori bambinoni, i protagonisti dei reality show. Anche loro tengono stretta la pancia, portano orecchini e treccine, sembrano in grado di reggere lo stress della diretta, finché, prima o poi, sbroccano. Sono lì apposta per sbroccare, d'altra parte. È per questo che li guardiamo.

Bene, ho trovato il colpevole perfetto: il Grande Fratello. La ripresa televisiva moderna, invasiva e pervasiva, che ci rende tutti più patinati e più immaturi. È colpa sua se non vinceremo mai la Coppa del Mondo dei nostri papà (e nemmeno gli Europei). I nostri genitori probabilmente non erano dei santi, né dei campioni di eleganza: ma quando posavano per una foto si presentavano eleganti e ben pettinati. Così anche in campo, dove si picchiavano con meno complimenti di noi: ma il montaggio, compiacente, filtrava e ci restituiva un'immagine di uomini adulti e responsabili. Ma oggi la telecamera sempre in diretta restituisce ogni vaffa, ogni sputo. Tira fuori il peggio da ognuno di noi, perché è quel peggio che ci piace guardare. O no?

O forse no. È difficile descrivere la realtà mentre si precipita. Ma tante filippiche sul bel tempo che fu, si potrebbero riassumere in una sola frase: perdonatemi, sto invecchiando. I calciatori sono tutti più giovani di me, adesso. Non posso che trattarli da ragazzini. E mi dispiace per Totti, davvero. È dura rovinarsi una carriera per dieci minuti di follia.

Del resto i tempi cambiano, le mode si adeguano, e anche la tendenza del pupone irresponsabile potrebbe avere i giorni contati. La "mia generazione" si è ritrovata le strade e le case piene di telecamere, e non ha saputo fare di meglio che salutare con la manina, sputare e mettersi le dita nel naso. La prossima generazione troverà un modo di eludere anche questo controllo. Reagirà, crescerà, in modi e forme che io non posso nemmeno immaginare, e forse nemmeno capirò. Continuerò a precipitare brontolando che non ci sono più i calciatori di una volta, quelli che vinsero il Mundial.

(Ma se i puponi, nelle loro divise attillate, stringessero i denti e andassero avanti, sarei così felice di essermi sbagliato).
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'lei non sa chi sono io!'.      'infatti'.Cinque o sei motivi per incassare con stile

Ammesso e persino concesso che di complotto si sia trattato, Madame, penso converrai che noi vittime potevamo incassare con più stile. Non sto parlando del gioco di Trapattoni, ma dei cronisti e commentatori che da due giorni non fanno che insistere su questo punto: "se la fifa è una mafia, perché non ne facciamo parte?" Da questo punto di vista non potrei scrivere qualcosa di più giusto e divertente di Zucconi (anche perché lui lo pagano). Mi sarebbe piaciuto che qualcuno almeno intonasse un piagnisteo sulla morale del gioco, sulla trasparenza dei bei tempi andati, che magari non ci sono mai stati, ma almeno ai ragazzini bisognerebbe raccontare che una volta le squadre vincevano lealmente, no?

Insomma, non dico la morale, ma perfino il moralismo è morto. Il mondiale è un palio di Siena dove la corruzione fa parte della competizione, Carraro è il dodicesimo uomo, che non ha saputo giocare la sua partita nelle tribune d'onore e ai ricevimenti che contano, per cui va licenziato a furor di popolo.
Per quanto mi riguarda, l'eliminazione non mi secca un granché. Convinto come sono che tutta la saggezza del mondo consista nella capacità della volpe di parlar male dell'uva che non riesce a raccogliere, avevo già preparato cinque o sei argomenti per dimostrare che Anzi, È Molto Meglio Così, e li ripassavo l'altro ieri in attesa del golden goal.
Ecco qui:

– Meglio perdere con la Corea che con un'antipatica squadra blasonata, tipo Francia o Inghilterra o Germania, che quando poi vai all'estero ti sfottono (prova a spiegargli che è un complotto degli arbitri, loro che non hanno avuto Piazza Fontana Ustica e Gladio ti daranno del paranoide).

– Perdere contro gli arbitri ci permette di fingere ancora per quattro anni di avere una grande squadra che gioca un grande calcio. Alè, l'illusione continua.

– O invece, al contrario, l'ennesima sconfitta ci costringerà a prendere atto che il nostro è un calcio malato, come diceva il tale.

– E poi tutto sommato, a me questi calciatori italiani in tutina aderente (Coco incappucciato sembrava decisamente un preservativo) non stanno tanto simpatici. Non è solo un fatto di stipendi: sì, guadagneranno un po' di più di un deputato, ma creano senz'altro più indotto e più felicità della maggior parte dei parlamentari. No, è una questione di stile. Non mi piace l'italiano che rappresentano, abbronzato, ben rasato, palestrato, pubblicizza le n i k e, esce con le veline, in ritiro fonde la playstation. Scusate se insisto sul concetto, ma a me piaceva Paolo Rossi, sembrava un mucchietto d'ossa gracili e si alzava più in alto dei brasiliani per segnare di testa. Se non avessi visto lui forse non avrei mai toccato un pallone. L'idea che i muscoli non siano tutto, e che tutti giorni si rimetta la palla al centro e si possano riscattare i propri errori. Rossi veniva da una squalifica, era un modello di riscatto. Vieri, scusatemi, al massimo è un modello di p u t t a n i e r e.

– E non scordiamo la politica, eh? Berlusconi si sarebbe preso tutto il merito. Qualcuno ricorda anche che, statisticamente, un mondiale perso anticipa una crisi di governo. (Bisognerebbe avere l'onestà di ricordare che i mondiali li abbiamo persi quasi tutti, e che i governi ci cadono in media ogni uno-due anni).

-- Così magari ricominceremo a leggere qualcosa di serio sui giornali. Ieri la strage di Gerusalemme (19 ragazzi morti) sul Resto del Carlino era a pagina 21.

– E magari per un po' non sentiremo più l'Inno di Mameli. Devo dire che stavolta si è passato il segno, soprattutto con le giovani generazioni. Mia madre mi riporta che i bambini lo cantano spontaneamente alla scuola materna, compresa la strofa di Balilla, e poi quel bel ritornello, "siam pronti alla morte". Quanto a me, la mia terza l'ultimo giorno di scuola me lo cantò all'unisono in tono di insubordinazione perché non li portavo fuori. Al che io risposi: 1. Se erano pronti alla morte, erano in grado anche di passare gli ultimi cinquanta minuti in aula a parlare dell'esame di licenza. 2. Sembravano proprio una bella classe di balilla idioti e desiderosi di andare a crepare per gli interessi altrui, ero molto deluso. Forse ho esagerato, ma cavolo, era l'ultimo giorno. Poi al tema d'italiano un ragazzo si portò un tricolore e a un certo punto ci s'involtolò dentro. Gli portava fortuna, secondo lui.

A proposito, devo fare ammenda per le mie previsioni e i miei calcoli sballati. Su questo blog di cazzate ne ho scritte molte senza che nessuno me le facesse notare, ma la scorsa settimana ho sbagliato a calcolare una differenza reti e mi avete scritto in cinque. Ragazzi, onestamente ci sono cose più importanti nella vita. Perché, ammesso e persino concesso che di complotto si sia trattato, Madame, penso converrai che ci son complotti ben più gravi da denunciare oggigiorno. Per esempio…
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A casa con sei punti?

"Ma come, dico, è l'undici giugno, beccano un terrorista arabo con una bomba nucleare, c'è il congresso della Fao, la Bossi-Fini, il Polo perde a Verona, Jan è a Gaza e non dà notizie di sé, il Movimento è in crisi e lei mette su un pezzo sul calcio? Ma non si vergogna?"
Un po' sì.

Ho fatto un paio di calcoli e ho scoperto uno scenario tanto beffardo da essere quasi desiderabile – tanto si sa quel che valgono i miei auspici, no? – E allora mettiamo che domani l'Italia spinga con Vieri, Totti, Inzaghi e quanti altri, ma non riesca ad andare più in là dell'Uno a Zero. È plausibile: dopo tutto il Messico è ancora a porte inviolate.
E mettiamo che intanto la ciurma croata riesca ad insaccare… oh, non tante, appena un paio di reti: anche questo è più che plausibile: l'Ecuador ormai non ha più motivazioni (del resto era scarso anche quando le aveva).

Bene, il Messico resterebbe a sei punti, e con tre reti fatte e una subita si qualificherebbe. Massimo rispetto.
Anche la Croazia andrebbe a sei, ma con quattro reti fatte e due subite. E l'Italia? Anche l'Italia, esattamente, sei punti, quattro reti fatte, due subite (e due annullate, ma non contano più). Stessi gol fatti, stessi gol subiti, passa la squadra vincitrice nel confronto diretto, e cioè, come ben sappiamo, la Croazia.
E l'Italia andrebbe a casa. Con sei punti. Il doppio di quelli che fece nel primo girone del 1982 (mondiale vinto) e nel 1994 (mondiale perso in finale ai rigori). Insomma, andrebbe a casa per una beffa del destino, della matematica, del guardialinee. Ma con onore.

Il mondiale intanto continuerebbe, dispensando il suo oppio ad altri popoli: Bekham segnerebbe altri rigori per l'orgoglio britannico, Pochettino farebbe dimenticare agli argentini che non gli funziona più il bancomat, Ronaldo farebbe dimenticare ai brasiliani che il bancomat non l'hanno mai avuto. Ma noi italiani saremmo, per un po', fuori pericolo. Ricominceremmo a preoccuparci dei terroristi arabi con le bombe atomiche, di Gaza, della Fao, del Movimento. Per dire, la ragazza involtolata nel tricolore che dopo la vittoria con l'Ecuador disse alla telecamera: "vittorie così ci fanno sentire fieri di essere italiani" andrebbe a cercarsi qualche motivo un po' più serio, per sentirsi fiera. E per un po' anche l'Inno avrebbe finito di stressarci.

Ma allo stesso tempo, ci ritireremmo con la sensazione che non abbiamo perso. Come quando ci eliminano ai rigori: non è sconfitta, è il Destino, ma noi restiamo i migliori del mondo.
Questa è una convinzione che nessuna sconfitta riesce a toglierci: siamo i migliori. Che importa se i titolari delle nostre squadre sono per metà stranieri. Che importa se comunque queste nostre squadre non vincono nulla. Noi siamo e restiamo i migliori e il nostro campionato è il più bello del mondo.
Questo mi fa pensare a quel romanzo di Fenoglio, "Primavera di bellezza", dove si racconta del giorno in cui l'Italia entra in guerra, e nelle piazze risuona il proclama di Mussolini, e c'è un tale in una piazza che dice: "la Francia è già spacciata, all'Inghilterra do tre mesi". Non mi ricordo se siano tre mesi o più, ma ricordo che i bombardamenti iniziano quasi subito, e solo allora si scopre che l'Italia è senza contraerea.
Allo stesso modo, oggi, l'Italia è senza difesa: basta un infortunio di Nesta e si prende due gol pasticciati in contropiede: Maldini è il monumento di sé stesso, e in quanto monumento non è che si muova un granché. Poi naturalmente tutti a dar contro a quel difensivista di Trapattoni, che forse è l'unico italiano a rendersi conto che non siamo venuti da un altro pianeta, siamo una squadra come le altre.

Ecco, una eliminazione a sei punti ci impedirebbe ancora una volta di fare i conti con la realtà. Il nostro calcio è in crisi, metà delle squadre di serie A non avrebbero i soldi per iscriversi, la bolla delle pay tv è scoppiata miseramente. Le squadre più importanti, che in teoria dovrebbero essere il fiore all'occhiello di grandi gruppi economici, in realtà si finanziano con la speculazione, essendosi quotate in borsa: ovviamente, il valore delle loro azioni non ha nulla a che vedere con l'economia reale. Una volta pagavamo gli stranieri perché giocavano meglio: oggi in realtà li prendiamo perché costano meno dei nostri. Insomma, forse il nostro forse è il campionato più bello del Terzo Mondo.
Ma se domani ci mandassero a casa con sei punti, sapremmo chi è il colpevole. Il guardialinee. L'arbitro. Il regolamento. Trapattoni che non schiera cinque punte. Carraro che non veglia sui misfatti della Fifa. Tutti questi nemici del bel calcio italiano.
E tra quattro anni saremmo pronti a scommettere tutto di nuova sulla nostra nazionale, la favorita di sempre. Forza Italia. La Francia è già spacciata. All'Inghilterra do ancora due rigori.
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Continua da ieri (Nel frattempo l'Ecuador si è rivelata poca cosa, buona a vincere solo a 2000 metri d'altezza. Ma facciam finta di niente):

...C'è bisogno di ricordare come andò a finire? Non ce la ricordiamo tutti, la partita più tragica, più brutta che abbiamo mai visto? Quando l'Italia prese il suo primo gol con l'Argentina, perse ogni qualità. Non era abituata a un avversario capace di replicare. Schillaci non trovò il gol. Tutti andarono in confusione. L'arbitro fece durare il secondo tempo un'ora intera: nemmeno lui sembrava rassegnarsi all'idea di un'Italia non vincente. Ma l'Italia non vinse più: perse ai rigori. E mi sembra di non averla ancora mandata giù. Come: avevamo lo squadrone più forte, avevamo dominato l'Austria, la Cecoslovacchia, l'Uruguay… Ripensandoci: non è stato più giusto così? quel gran squadrone in realtà aveva dominato qualche squadretta, sembrava dover vincere per procura il suo mondiale fatto in casa, come l'Inghilterra nel '66. Mentre quell'inguardabile Argentina, sconfiggendo il Brasile e poi l'Italia, aveva ripetuto a suo modo la fiaba della piccola squadra sola contro tutti, anzi, Maradona solo contro tutti, che piange all'olimpico dopo aver rovinato la festa di milioni di persone. Per la cronaca, il mondiale lo vinse la Germania. (Questo non se lo ricordano in tanti).

Italia-Brasile, nell''82, e Italia-Argentina, nel '90, sono i due shock che hanno formato il carattere del commentatore sportivo italiano – in un Paese dove i commentatori sportivi sono almeno quaranta milioni. La tendenza all'autodenigrazione, per esempio, deriva da lì: nel 1982 parlammo male dell'Italia e vinse i mondiali, nel 1990 non facevamo che parlare di come fosse forte e li perse. Da allora crocifiggere il CT e la formazione è diventato un vero rito scaramantico, e ne sa qualcosa Sacchi. Per inciso, quattro anni dopo l'Italia fece di tutto per rispettare il copione dell'Ottantadue, con una fase iniziale se possibile ancor più disastrosa. Anzi, forse il romanzo più ricco di colpi di scena della nostra nazionale è proprio USA '94, ma ha il grosso torto di finire male. Perciò di solito ci si ricorda soltanto che Baggio sbagliò il rigore, senza ricordare che fu solo Baggio a portarci fin lì. Da lì in poi la storia non cambia: l'Italia deve giocare male prima di dimostrare che può vincere. Partì male nel '98, giocò malissimo negli europei di due anni fa.

Ma appunto: l'Italia deve giocare male. Se non altro, per rendersi simpatica. Oggi che i calciatori sono dei divi in tutine aderenti, così diversi da quegli operai dell''82, oggi che posano nudi e abbronzati, hanno una sola possibilità di rendersi più umani: perdere, pareggiare, o almeno giocare male. Se oggi prenderanno una batosta dall'Ecuador, domani saremo tutti con loro. Ma stamattina, è ancora un po' difficile. Sono ancora i rappresentanti di quell'Italia caciarona che pretende di essere sempre favorita, di avere le squadre con tutti i più grandi giocatori stranieri, e che alla prima vittoria suona il clacson e si bagna nelle fontane, perché siamo i più forti del mondo. Quell'Italia stravincente che ci siamo immaginati di essere nell''82 e nessuno ce lo ha più levato dalla testa. Mentre io preferirei tifare per una squadra tra tante, che si arrabatta tra tante e dopo mille difficoltà si ritrova in finale. (Forza Italia, comunque).
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Vincere sì, ma soffrendo

Va bene, siamo tutti contenti perché la Francia ha preso un gol dal Senegal nella partita inaugurale, e in più anche stavolta l'Italia è tra le favorite. Io onestamente non me ne intendo, ma a questo punto un pronostico voglio farlo: e dico che la Francia andrà lontano, mentre l'Italia oggi potrebbe benissimo pareggiare o perdere, anzi, forse sarebbe meglio così.
Non sto remando contro: tifo Italia, come tutti. Non è una questione politica, Berlusconi non c'entra nulla, o forse sì. È una storia lunga e complicata che adesso cercherò di raccontare.

Parte da quando ero piccolo, e non sapevo di vivere nella quinta potenza mondiale: nessuno me l'aveva insegnato a scuola perché probabilmente nessuno lo sapeva. Dando uno sguardo al mappamondo era molto chiaro come l'Italia, che pure aveva un passato importante, gli antichi romani, ecc., era solo una penisola tra tante, assai meno visibile del Cile, poniamo, o dell'Arabia Saudita, per non parlare del Canada e di quell'altra nazione talmente grande da permettersi di chiamarsi con un nome lunghissimo: U n i o n e d e l l e R e p u b b l i c h e S o c i a l i s t e S o v i e t i c h e.

D'un tratto tutto cambiò, forse perché cominciavo a capire il telegiornale, o forse perché, in un pomeriggio del luglio 1982 la nostra nazionale vinse 3 a 2 contro il Brasile, con tre gol di Paolo Rossi. Quei giocatori italiani di vent'anni fa, dai nomi leggendari, in realtà fino a quel momento erano stati molto criticati, dai giornalisti giù giù sino al più umile cameriere di Bar dello Sport. Era una squadretta difensivista e smorta, che aveva rimediato tre mediocri pareggi con Polonia, Peru e… Camerun (ricordo un funebre titolo della Gazzetta: IL CAMERUN CI FA PAURA). Ad ogni modi una squadra tra tante, destinata a essere macellata tra i grandi nomi del torneo: Argentina e Brasile, per esempio.

Poi, all'improvviso, accadde qualcosa che ricordiamo tutti: la stessa squadretta, senza nulla cambiare, sconfisse Argentina e Brasile, e da quel momento fu a tutti chiaro che avrebbe vinto il mondiale, e infatti lo vinse, e vent'anni da allora mi sembra di che non abbiamo smesso di festeggiare quella vittoria inattesa, indiscutibile, che metteva la nostra penisola sopra a tante altre figure del mappamondo. Da quel momento il calcio, fino ad allora passione tutto sommato innocua, diventò una mania. La gazzetta dello sport incominciò a vendere più del corriere della sera, anche d'estate, e siccome d'estate non succedeva niente, i presidenti cominciarono a far parlare di sé comprando tutti i stranieri che trovavano sul mercato. Il nostro campionato divenne Il Più Bello Del Mondo, perché ci giocavano Zico e Maradona. Coincidenza, proprio negli stessi anni i nostri governanti cominciarono a dirci che sì, d'accordo, la mafia, la corruzione, il mezzogiorno, però malgrado tutto eravamo pur sempre la quinta potenza economica del mondo: i nostri alleati iniziarono a invitarci al G7, Craxi si mise a fare la voce grossa, e così via.

Però attenzione, io non sto dando la colpa a Paolo Rossi, che tornato al calcio dopo un anno di squalifica, tutti davano per cotto e mandò a casa i brasiliani con tre goal: la colpa è nostra, gli italiani hanno ogni tanto questi sussulti di grandeur. Ma la vittoria in Spagna è qualcosa di più: per me è sempre stato il simbolo della riscossa, dell'ottimismo della volontà, del "tu-mi-credi-finito-e-adesso-te-la-faccio-vedere". Ho un debole per le vittorie sofferte, per quel 3 a 2 che l'anno dopo il Torino inferse alla Juventus segnando tre gol in due minuti. Secondo me tutte le vittorie dovrebbero essere sofferte, altrimenti non vale.

Otto anni dopo (dopo una figuraccia in Messico che nessuno rammenta) tutto il mondo fu ospite dell'Italia-quinta-potenza, in un campionato del mondo che non sembrava poter essere vinto da altri. La squadra, intanto, era fortissima, poteva permettersi il lusso di non far giocare Vialli. C'era l'uomo del destino, un tale Schillaci che come lo mettevi su segnava, e partita dopo partita gli avversari iniziavano a scansarlo terrorizzati. C'era una difesa imbattibile, Zenga non prese un gol in cinque partite, record. E soprattutto non c'erano avversari: la Germania era il solito squadrone tutto muscoli, il Brasile stava sperimentando un nuovo ruolo, il difensore, e soprattutto, l'Argentina era inguardabile, figuratevi che aveva perso la partita inaugurale uno a zero col… col Camerun! Tutto il mondo aveva riso di lei.

C'è bisogno di ricordare come andò a finire? (il resto domani)
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