Striscia, il futuro
18-11-2012, 02:03guerra, invettive, Israele-Palestina, manifestaiolismi, medio oriente, scuolaPermalink
La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l'esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L'importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c'era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po' il mordente.
Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all'inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall'altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall'altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.
Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c'è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d'istituto non capirebbe. Quindi che si fa.
Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant'anni avevi risolto un po' di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l'essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po' scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant'anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell'alimentazione e nell'igiene. Soltanto un po', come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.
Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto... ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia - ma in Europa in generale - è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c'entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.
E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente - quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell'Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po', ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?
Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all'inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall'altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall'altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.
Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c'è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d'istituto non capirebbe. Quindi che si fa.
Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant'anni avevi risolto un po' di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l'essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po' scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant'anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell'alimentazione e nell'igiene. Soltanto un po', come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.
Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto... ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia - ma in Europa in generale - è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c'entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.
E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente - quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell'Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po', ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?
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Renzi e il volontariato obbligatorio
16-11-2012, 12:29ho una teoria, obiezioni (di coscienza), primarie 2012, RenziPermalink
Sarebbe bello se, tra tanti temi dibattuti in queste ore alla Leopolda, Renzi o chi per lui volesse dire finalmente qualche parola più chiara sul Servizio Civile. Sarebbe bello perché fin qui ne ha parlato in molti modi: sul programma si legge di un servizio europeo "su base volontaria", mentre ultimamente nei comizi Renzi ha detto che lo vorrebbe obbligatorio, a livello europeo. Però durante il dibattito su Sky ne ha parlato come di un sogno, e in effetti non sembra molto realizzabile nei tempi brevi, dal momento che nessun grande Paese in Europa prevede per i suoi cittadini un obbligo di questo tipo.
Qualche giorno fa, però, a chi gli domandava un parere sull'insegnamento dell'Inno di Mameli nelle scuole, Renzi ha affermato che "se vogliamo creare senso di appartenenza, identità e comunità non c'e' che una strada: il servizio civile obbligatorio. Magari solo per tre mesi. Ma obbligatorio, per donne e per uomini. Lì sì che si fa l'Italia''. Insomma, almeno in quel caso sembrava avere in mente una dimensione più nazionale che europea. A questo punto però forse si fa prima a domandarglielo direttamente: Renzi, che servizio vuoi? Lo vuoi obbligatorio o volontario? Lo vuoi italiano (subito) o europeo (molto dopo)? E da dove le prenderemmo le risorse? Perché a occhio forzare tutti i maggiorenni a tre o sei mesi di lavori socialmente utili sarebbe un impegno mica da ridere. Può darsi che in tempi medio-lunghi si riveli un risparmio, ma qualche spesa strutturale sarebbe necessaria.
Diamo per scontato alcune cose (che in realtà scontate non sono): probabilmente gli studenti universitari potrebbero chiedere il rinvio, come ai vecchi tempi della naja. Poi, una volta laureati, invece di gettarsi immediatamente nel mercato del lavoro (che si spera non resterà sempre così asfittico) dovranno aspettare una cartolina per qualche mese, e perdere qualche altro mese senza riuscire a portare a casa (quale casa?) qualche soldo. È lecito immaginare che gli stipendi sarebbero molto bassi (come ai vecchi tempi del servizio sostitutivo della naja), sotto il livello dell'autosufficienza. Probabilmente Renzi non prevede di dover fornire un alloggio a tutti, e quindi in sostanza la cosa si traduce in una tassa per le famiglie, a cui toccherebbe mantenere i figli per i tre o sei mesi necessari. A questo si potrebbe obiettare che tanto succede già così, i figli stanno in casa fino ai trent'anni, tre o sei mesi non fanno nessuna differenza. Sì: diciamo che non costituiscono nessun passo avanti verso l'autosufficienza.
In questi giorni ne ho discusso con qualche ex obiettore (continua sull'unita.it, H1t#153).
Qualche giorno fa, però, a chi gli domandava un parere sull'insegnamento dell'Inno di Mameli nelle scuole, Renzi ha affermato che "se vogliamo creare senso di appartenenza, identità e comunità non c'e' che una strada: il servizio civile obbligatorio. Magari solo per tre mesi. Ma obbligatorio, per donne e per uomini. Lì sì che si fa l'Italia''. Insomma, almeno in quel caso sembrava avere in mente una dimensione più nazionale che europea. A questo punto però forse si fa prima a domandarglielo direttamente: Renzi, che servizio vuoi? Lo vuoi obbligatorio o volontario? Lo vuoi italiano (subito) o europeo (molto dopo)? E da dove le prenderemmo le risorse? Perché a occhio forzare tutti i maggiorenni a tre o sei mesi di lavori socialmente utili sarebbe un impegno mica da ridere. Può darsi che in tempi medio-lunghi si riveli un risparmio, ma qualche spesa strutturale sarebbe necessaria.
Diamo per scontato alcune cose (che in realtà scontate non sono): probabilmente gli studenti universitari potrebbero chiedere il rinvio, come ai vecchi tempi della naja. Poi, una volta laureati, invece di gettarsi immediatamente nel mercato del lavoro (che si spera non resterà sempre così asfittico) dovranno aspettare una cartolina per qualche mese, e perdere qualche altro mese senza riuscire a portare a casa (quale casa?) qualche soldo. È lecito immaginare che gli stipendi sarebbero molto bassi (come ai vecchi tempi del servizio sostitutivo della naja), sotto il livello dell'autosufficienza. Probabilmente Renzi non prevede di dover fornire un alloggio a tutti, e quindi in sostanza la cosa si traduce in una tassa per le famiglie, a cui toccherebbe mantenere i figli per i tre o sei mesi necessari. A questo si potrebbe obiettare che tanto succede già così, i figli stanno in casa fino ai trent'anni, tre o sei mesi non fanno nessuna differenza. Sì: diciamo che non costituiscono nessun passo avanti verso l'autosufficienza.
In questi giorni ne ho discusso con qualche ex obiettore (continua sull'unita.it, H1t#153).
In questi giorni ne ho discusso con qualche ex obiettore, che ricordava con piacere il proprio servizio civile (anch’io ho nostalgia del mio), come un’esperienza formativa che in certi casi è stato il primo nucleo di una competenza professionale. Tutto bellissimo, ma non stiamo parlando di quel servizio civile lì.
Stiamo parlando di una leva obbligatoria, di tre o sei mesi, che i giovani subirebbero passivamente, perché obbligati. E quindi, se vogliamo immaginare qualcosa di paragonabile, dobbiamo pensare allo scarsissimo entusiasmo con cui i nostri coetanei partivano per la naja – ecco, magari il servizio obbligatorio risulterà più utile e interessante che passare due mesi di addestramento e dieci a grattarsi in caserma – però non pensate nemmeno per un istante che masse di neodiplomati o neolaureati lo andranno a fare con entusiasmo. Lo dice la parola: obbligatorio.
Chi fino al 2004 sceglieva di lavorare in ospedale o in casa di cura, piuttosto di finire in caserma, aveva una motivazione, che si traduceva (non sempre) in impegno personale. Non è il caso dei futuri “volontari obbligati”, a cui non si chiede nessuna motivazione, e non si minaccia nemmeno lo spauracchio della caserma. Alcuni di loro magari scopriranno che sono portati per il socio-assistenziale, il para-medico, l’associazionismo ecc. La maggior parte no: saranno una massa de-qualificata che verrà destinata a svolgere mansioni che nessun altro farebbe quasi gratis. Si creeranno competenze? Può darsi, ma non è detto che siano assorbite da quello stesso mercato in cui saranno immessi centinaia di migliaia di ragazzi ogni tre o sei mesi. Manodopera pochissimo qualificata, ma magari qualche casa di cura, qualche associazione, deciderà di avvalersene e di assumere un professionista in meno.
A trarne immediato beneficio saranno le associazioni convenzionate con lo Stato, che rinverdiranno i fasti degli anni Novanta, quando potevano contare sul lavoro (sottopagatissimo) degli obiettori di coscienza. E in effetti per ora l’unico effetto misurabile delle parole di Renzi è stata l’entusiastica adesione del mondo del volontariato, che il Servizio Civile Obbligatorio lo chiede da anni a ogni interlocutore politico. Qui magari ci sarebbe da discutere sul senso di un “volontariato” che reclama il suo diritto ad arrivare dove lo Stato non riesce (secondo il tanto sbandierato principio della sussidiarietà), e che per farlo chiede allo Stato di assumere tutti i diciottenni o i neolaureati per tre o sei mesi, a spese nostre. Ma questa discussione toccherebbe forse ai sostenitori di Renzi che si considerano ancora liberali. http://leonardo.blogspot.com
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L'Aspesi inesplosa
14-11-2012, 02:22cinema, ebraismo, essere donna oggi, giornalisti, IslamPermalink
Questa è la storia di un putiferio che non è scoppiato. Credevo che sarebbe successo, e mi sbagliavo. È una buona notizia dopotutto.
Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un'orda di polemiche. Nell'articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l'Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l'emozione che "le libere donne laiche italiane" potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt'altro che laiche, tutt'altro che libere. Donne la cui vita consiste in "casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare [...]"
No. Anzi. L'unico riferimento all'Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l'Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:
Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt'altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po' invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall'apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall'allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell'orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.
Dove si capisce tra l'altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia "Holly", una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov'è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po' paura.
Ma forse non c'è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.
O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l'ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L'importante è che non sia in nome di Allah.
Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un'orda di polemiche. Nell'articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l'Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l'emozione che "le libere donne laiche italiane" potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt'altro che laiche, tutt'altro che libere. Donne la cui vita consiste in "casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare [...]"
da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera.Ecco, andando a vedere questo film, le libere donne laiche italiane (secondo la Aspesi) resteranno sedotte e turbate, di fronte a "un'oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce".
Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia [...]Io il film ovviamente non l'ho visto, ma dell'Aspesi mi fido. Posso immaginare che un film del genere abbia il pregio di descrivere dall'interno situazioni che non solo non capiamo, ma più spesso ci vantiamo di non capire. Non trovo così scandaloso che una donna occidentale, libera, laica, possa trovare il tempo per andare al cinema a lasciarsi sedurre da un'oasi di reclusione; dopotutto qualche anno fa uscì un film sul monachesimo maschile che, almeno dalle recensioni, risultava altrettanto seducente, e allora in fondo perché una donna non potrebbe lasciarsi affascinante da qualcosa del genere? al limite ci si potrebbe chiedere se lo stesso diritto di andare al cinema e lasciarsi sedurre da modelli diversi lo abbiano anche le donne segregate di cui parla il film; domanda retorica da cui partirebbe la solita polemica a base di santanché e corani e le magliette antimaomettane. Ecco, appunto. Dove sono le santanché coi corani e le magliette? Io me li aspettavo già in edicola al lunedì. Niente. È anche vero che c'era il dibattito sulle primarie, il maltempo, il caso Petraeus. Però, accidenti, almeno il Giornale se la poteva un po' prendere, con questa Aspesi affascinata dalle donne segregate, no?
No. Anzi. L'unico riferimento all'Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l'Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:
Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt'altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po' invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall'apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall'allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell'orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.
Dove si capisce tra l'altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia "Holly", una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov'è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po' paura.
Ma forse non c'è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.
O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l'ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L'importante è che non sia in nome di Allah.
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Votate Renzi girerete l'Europa lavorerete gratis
13-11-2012, 01:30l'eurointraprendente, obiezioni (di coscienza), RenziPermalinkHa detto Obbligatorio!
Sommerso tra centinaia di altre cose uscite fuori nel dibattito (un bel dibattito), che a quest'ora sono già state sviscerate e analizzate, c'è un riferimento di Renzi al Servizio Civile Obbligatorio. Non so se qualcun altro l'avrà notato e ne parlerà, allora ci provo io.
Il Servizio Civile Obbligatorio, potrei dire da qui in poi SCO, ma vorrei che si sentisse bene la parola Obbligatorio, è un'idea incredibile, nel senso originale della parola: non ci si crede. Ogni volta che Renzi la tira fuori - non è la prima e non è la seconda - qualche suo estimatore viene a lamentarsi dicendo che abbiamo capito male, Renzi non può veramente aver detto che vuole un Servizio Civile Obbligatorio. Ragazzi non so che farci; è vero che all'inizio nel programma non c'era scritto (se è per questo non c'è scritto nemmeno adesso: io qui all'articolo 2 comma b5 continuo a leggere "su base volontaria"), però da qualche tempo in qua lui sta dicendo "obbligatorio". Anche stasera ha proprio detto "obbligatorio"; nessuno glielo chiedeva, lo ha proprio voluto dire lui, "obbligatorio". Il che se ci pensate è curioso, perché a prima vista non è una parola tirata fuori a un dibattito che ti faccia conquistare dei voti, "obbligatorio". Si tratta di passare sei o più mesi da qualche parte a fare lavori socialmente utili (espressione ormai sinistramente associata a sentenze di condanna), per un salario largamente inferiore a quello che fisserebbe il mercato. E si tratta di farlo perché sei obbligato dallo Stato. Da cui una serie di considerazioni:
1. Ma sul serio ne stiamo a discutere?
2. Ma Renzi fa così con altri punti del suo programma - cioè li cambia in corso d'opera e non se ne accorge nessuno? Non sarebbe il caso di vigilare?
3. I liberali che sostengono Renzi non hanno proprio niente niente da obiettare?
4. La dimensione europea. Sarebbero sei mesi in giro per l'Europa, il che la potrebbe rendere la proposta un po' più appetibile per un sacco di gente che in Europa vorrebbe andarci - anche se forse pensano più a lavare i piatti in un ristorante di Soho che all'infermeria di un consultorio nella profonda provincia ungherese. Qualcosa del genere esiste già, da un sacco di tempo (l'ho fatto pure io, nel secolo scorso), si chiama "Servizio Volontario Europeo". Secondo il programma di Renzi è una "proposta avanzata da Daniel Cohn-Bendit e da Ulrich Beck" - sì, ma obbligatorio o (come diceva il programma) "su base volontaria"? Sospetto la seconda: come fai a rendere una cosa del genere obbligatoria in tutta l'Unione Europea? Ma anche solo in tre o quattro Paesi, dai - come fai? Mi sembra una proposta fortemente utopica, salvo che di solito le utopie promettono pace uguaglianza fraternità - questa per ora è un'utopia che promette solo tanto lavoro obbligatorio. In effetti Renzi stasera ha detto che lo sogna per suo figlio - ecco, d'accordo, Renzi, mandaci prima il tuo, e vediamo come va.
5. Quand'è esattamente che Renzi ha smesso di dire "su base volontaria"? E perché ha smesso? Che interesse può avere a parlare di una cosa irrealizzabile, ma anche intuitivamente poco appetibile per i giovani, come un Servizio Civile Obbligatorio? Non si sa. Io ho trovato per la prima volta la parola (Obbligatorio) in un pezzo di Riccardo Bonacina, storico direttore di Vita, punto di riferimento di un'ampia area del cosiddetto Terzo Settore o Non profit (c'è CL? C'è anche un po' di mondo CL, ma sarebbe riduttivo e fuorviante parlare solo di CL). Si trattava né più né meno che dell'endorsement di Bonacina a Renzi, non è una mia interpretazione, è proprio il titolo del pezzo.
A questo punto forse vale la pena di fare un passo indietro. C'era, tanto tempo fa, il Servizio Militare Obbligatorio (maschile). Chi non lo voleva fare andava in galera - la prima obiezione di coscienza consisteva in questo (i primi a praticarlo, nel secondo dopoguerra, furono testimoni di Geova e protestanti). Negli anni Settanta fu istituito un servizio civile, che però durava il doppio:due anni di vita in luogo di uno (errata corrige: venti mesi). Questa forma di discriminazione fu dichiarata illegale nel 1989 da una sentenza della Corte Costituzionale, che portò il Servizio Civile a 12 mesi; da lì in poi l'obiezione di coscienza divenne rapidamente un fenomeno di massa, che forse contribuì a scardinare l'istituto dell'esercito di leva. Ma prima che entrambi i servizi fossero chiusi (1/1/2005), centinaia di migliaia di giovani si ritrovarono a lavorare, per dodici mesi e poi solo dieci mesi, in Onlus socio-assistenziali di vario tipo. Che di conseguenza esplosero. Si conquistarono bacini di utenza ai quali prima non immaginavano nemmeno di poter accedere. Fu un momento esaltante, quello a cavallo tra Novanta e Duemila, in cui il Forum del Terzo Settore dettava condizioni a Prodi o D'Alema. È lecito pensare che i dirigenti di molte Onlus l'abbiano vissuto con un'euforia un po' eccessiva, senza accorgersi che una parte non piccola della loro potenza di fuoco si basava sul lavoro di migliaia di ragazzi pagati (una miseria) dallo Stato. Gente che era lì, il più delle volte, perché non voleva andare a militare. Più che legittimo: darsi da fare su un'ambulanza civile non è necessariamente più vile che sparacchiare su un poligono di tiro. Però il boom del volontariato a metà anni Novanta poteva durare soltanto se si continuava a mettere i ragazzini di fronte alla scelta secca: esercito o onlus? Quando fu smantellato il primo - non so se per convenienza elettorale o semplicemente perché non aveva più senso - entrarono in crisi anche i secondi. Riuscirono a comunque a spuntare un cinque per mille, ma non era la stessa cosa.
Questo forse può spiegare la cocente nostalgia di Bonacina & co. per i bei tempi del servizio civile di massa. Bei tempi che potrebbero tornare, se solo qualche politico riuscisse a infilare una proposta del genere in un programma... ecco, Renzi ci ha provato. Non è proprio la stessa cosa, sul programma c'era scritto "su base volontaria", però... ragazzi non so che farci; stasera Renzi lo ha proprio detto: "Obbligatorio".
6. Ci crede davvero Renzi? Secondo me non ci crede davvero. Un conto è promettere una cosa a una lobby, un conto è mettersi a riflettere anche solo per mezz'ora sulla sua fattibilità. Dove le trovi le risorse per mantenere sei mesi tutti, tutti i giovani e le giovani italiane? Sono gli stessi che in questi giorni magari patiscono freddo perché qualche comune sta già tagliando per il riscaldamento delle scuole. Dove li trovi i soldi? A ogni buon conto si potrà sempre dire che è una proposta che va portata a Strasburgo e au revoir. Insomma l'unica notizia è che a Renzi i voti del Terzo Settore interessano. Gli interessano tanto da infilare in un dibattito tv la mortifera espressione "Servizio Civile Obbligatorio". Chi era interessato a capire ha capito, gli altri probabilmente erano su twitter ad analizzare il colore della cravatta.
7. Un'ultima considerazione. Chi è stato il genio che ha vietato il voto ai sedicenni? Io vorrei sinceramente che alle primarie votassero tutti i sedicenni, se potessi li costringerei. Purché prima del voto fossero informati che c'è un candidato, Matteo Renzi, che qualora eletto si batterà con ogni sua forza per obbligarli a lavorare sei mesi praticamente gratis. Largo ai giovani.
Sommerso tra centinaia di altre cose uscite fuori nel dibattito (un bel dibattito), che a quest'ora sono già state sviscerate e analizzate, c'è un riferimento di Renzi al Servizio Civile Obbligatorio. Non so se qualcun altro l'avrà notato e ne parlerà, allora ci provo io.
Il Servizio Civile Obbligatorio, potrei dire da qui in poi SCO, ma vorrei che si sentisse bene la parola Obbligatorio, è un'idea incredibile, nel senso originale della parola: non ci si crede. Ogni volta che Renzi la tira fuori - non è la prima e non è la seconda - qualche suo estimatore viene a lamentarsi dicendo che abbiamo capito male, Renzi non può veramente aver detto che vuole un Servizio Civile Obbligatorio. Ragazzi non so che farci; è vero che all'inizio nel programma non c'era scritto (se è per questo non c'è scritto nemmeno adesso: io qui all'articolo 2 comma b5 continuo a leggere "su base volontaria"), però da qualche tempo in qua lui sta dicendo "obbligatorio". Anche stasera ha proprio detto "obbligatorio"; nessuno glielo chiedeva, lo ha proprio voluto dire lui, "obbligatorio". Il che se ci pensate è curioso, perché a prima vista non è una parola tirata fuori a un dibattito che ti faccia conquistare dei voti, "obbligatorio". Si tratta di passare sei o più mesi da qualche parte a fare lavori socialmente utili (espressione ormai sinistramente associata a sentenze di condanna), per un salario largamente inferiore a quello che fisserebbe il mercato. E si tratta di farlo perché sei obbligato dallo Stato. Da cui una serie di considerazioni:
1. Ma sul serio ne stiamo a discutere?
2. Ma Renzi fa così con altri punti del suo programma - cioè li cambia in corso d'opera e non se ne accorge nessuno? Non sarebbe il caso di vigilare?
3. I liberali che sostengono Renzi non hanno proprio niente niente da obiettare?
4. La dimensione europea. Sarebbero sei mesi in giro per l'Europa, il che la potrebbe rendere la proposta un po' più appetibile per un sacco di gente che in Europa vorrebbe andarci - anche se forse pensano più a lavare i piatti in un ristorante di Soho che all'infermeria di un consultorio nella profonda provincia ungherese. Qualcosa del genere esiste già, da un sacco di tempo (l'ho fatto pure io, nel secolo scorso), si chiama "Servizio Volontario Europeo". Secondo il programma di Renzi è una "proposta avanzata da Daniel Cohn-Bendit e da Ulrich Beck" - sì, ma obbligatorio o (come diceva il programma) "su base volontaria"? Sospetto la seconda: come fai a rendere una cosa del genere obbligatoria in tutta l'Unione Europea? Ma anche solo in tre o quattro Paesi, dai - come fai? Mi sembra una proposta fortemente utopica, salvo che di solito le utopie promettono pace uguaglianza fraternità - questa per ora è un'utopia che promette solo tanto lavoro obbligatorio. In effetti Renzi stasera ha detto che lo sogna per suo figlio - ecco, d'accordo, Renzi, mandaci prima il tuo, e vediamo come va.
5. Quand'è esattamente che Renzi ha smesso di dire "su base volontaria"? E perché ha smesso? Che interesse può avere a parlare di una cosa irrealizzabile, ma anche intuitivamente poco appetibile per i giovani, come un Servizio Civile Obbligatorio? Non si sa. Io ho trovato per la prima volta la parola (Obbligatorio) in un pezzo di Riccardo Bonacina, storico direttore di Vita, punto di riferimento di un'ampia area del cosiddetto Terzo Settore o Non profit (c'è CL? C'è anche un po' di mondo CL, ma sarebbe riduttivo e fuorviante parlare solo di CL). Si trattava né più né meno che dell'endorsement di Bonacina a Renzi, non è una mia interpretazione, è proprio il titolo del pezzo.
Mi ha destato una certa sorpresa ed emozione sentire che tra qualità di Milano Renzi ha messo al primo posto il suo essere capitale del volontariato e dell’economia sociale, da cui l’affermazione “Non possiamo non ripartire che da quello che i cittadini mettono in campo senza oneri per lo Stato. La loro capacità donativa, associativa, l’autorganizzarsi per rispondere ai bisogni loro e degli altri. Dobbiamo almeno non intralciare questo, dobbiamo favorirlo. per esempio stabilizzando il 5 per mille rendendolo un quadro certo ed efficiente. Dobbiamo puntare a un servizio civile europeo e obbligatorio che sia una vera leva civica che aiuti il nascere degli Stati Uniti d’Europa”. A chi iera sera (avendo Renzi citato VITA e salutato) e stamattina mi ha chiesto se il mio era un endorsment per Renzi, ho risposto (e rispondo qui) che è vero piuttosto il contrario, che è Renzi ad aver fatto endorsement (già nell’incontro in redazione e alla Leopolda un anno fa) con i temi che più ci stanno a cuore.In Italia facciamo ancora fatica a parlare di lobbying, sembra sempre che si tratti di un'attività demoniaca, quando invece è una cosa normalissima che si svolge alla luce del sole: basta aver voglia di rivolgere un'occhiata. Insomma Renzi con le Onlus è un po' che ci parla, e ha individuato i due temi che "più stanno a cuore" di queste associazioni: il cinque per mille e il lavoro gratis, pardon, il servizio civile europeo e obbligatorio. Che fatto in Europa sarebbe bellissimo, ma nell'attesa di convincere 18enni finlandesi e slovacchi a farsi sei mesi in un'ambulanza a Comacchio, forse potrebbe partire su base nazionale? Non si sa, non lo dicono.
A questo punto forse vale la pena di fare un passo indietro. C'era, tanto tempo fa, il Servizio Militare Obbligatorio (maschile). Chi non lo voleva fare andava in galera - la prima obiezione di coscienza consisteva in questo (i primi a praticarlo, nel secondo dopoguerra, furono testimoni di Geova e protestanti). Negli anni Settanta fu istituito un servizio civile, che però durava il doppio:
Questo forse può spiegare la cocente nostalgia di Bonacina & co. per i bei tempi del servizio civile di massa. Bei tempi che potrebbero tornare, se solo qualche politico riuscisse a infilare una proposta del genere in un programma... ecco, Renzi ci ha provato. Non è proprio la stessa cosa, sul programma c'era scritto "su base volontaria", però... ragazzi non so che farci; stasera Renzi lo ha proprio detto: "Obbligatorio".
6. Ci crede davvero Renzi? Secondo me non ci crede davvero. Un conto è promettere una cosa a una lobby, un conto è mettersi a riflettere anche solo per mezz'ora sulla sua fattibilità. Dove le trovi le risorse per mantenere sei mesi tutti, tutti i giovani e le giovani italiane? Sono gli stessi che in questi giorni magari patiscono freddo perché qualche comune sta già tagliando per il riscaldamento delle scuole. Dove li trovi i soldi? A ogni buon conto si potrà sempre dire che è una proposta che va portata a Strasburgo e au revoir. Insomma l'unica notizia è che a Renzi i voti del Terzo Settore interessano. Gli interessano tanto da infilare in un dibattito tv la mortifera espressione "Servizio Civile Obbligatorio". Chi era interessato a capire ha capito, gli altri probabilmente erano su twitter ad analizzare il colore della cravatta.
7. Un'ultima considerazione. Chi è stato il genio che ha vietato il voto ai sedicenni? Io vorrei sinceramente che alle primarie votassero tutti i sedicenni, se potessi li costringerei. Purché prima del voto fossero informati che c'è un candidato, Matteo Renzi, che qualora eletto si batterà con ogni sua forza per obbligarli a lavorare sei mesi praticamente gratis. Largo ai giovani.
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L'estate che non c'è
11-11-2012, 11:38Francia, santiPermalink[Questo pezzo si legge completo qui].
11 novembre - San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico
L'estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po' dovunque ormai, Indian Summer. L'estate indiana, già, ma di che indiani si parla?
È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l'espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant'anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l'aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane. Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l'aggettivo "indiano" veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di "falso". Quest'ultima spiegazione, per quanto un po' razzista, risulta più semplice e risolverebbe anche la coincidenza per cui dall'altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata "zingara". In molti altri Paesi slavi è "l'estate delle vecchie" o "delle donne" (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell'anno potevano rilassarsi un po'; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le "donne" siano l'"indiano" di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un'estate di tre giorni, come dire un'estate da donne (continua sul Post...)
11 novembre - San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico
L'estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po' dovunque ormai, Indian Summer. L'estate indiana, già, ma di che indiani si parla?
È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l'espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant'anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l'aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane. Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l'aggettivo "indiano" veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di "falso". Quest'ultima spiegazione, per quanto un po' razzista, risulta più semplice e risolverebbe anche la coincidenza per cui dall'altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata "zingara". In molti altri Paesi slavi è "l'estate delle vecchie" o "delle donne" (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell'anno potevano rilassarsi un po'; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le "donne" siano l'"indiano" di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un'estate di tre giorni, come dire un'estate da donne (continua sul Post...)
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Renzi non è Blair (magari è meglio)
10-11-2012, 00:45manifestaiolismi, Pd, RenziPermalink
Cinque motivi per cui non possiamo proprio dirci blairiani, (grazie, stavolta no).
Che poi magari chissà, il blairismo di Renzi potrebbe essere anche un concetto interessante, se
Che poi magari chissà, il blairismo di Renzi potrebbe essere anche un concetto interessante, se
- non venisse quindici anni in ritardo (facciamo dieci, dai, cinque anni di scarto con l'ora di Londra è fisiologico).
- in questi quindici anni non ci fossero stati cucinati numerosi blairismi all'amatriciana, che Renzi forse non ricorda: il più clamoroso, col senno del poi, era il blairismo dalemiano a cavallo del 2000. C'era tutta una corrente di dalemiani-più-dalemiani di D'Alema, quelli che facevano capo al Riformista, che usavano i fondi per l'editoria per spiegare a me precario di Stato che avrei dovuto essere più intraprendente. Il loro capo era talmente british che fumava la pipa. Ecco, forse è una questione di imprinting all'incontrario: per voi Blair sarà stato tante cose belle, cool Britannia e le Spice Girls, ma a me ogni volta che qualcuno blaitera viene in mente la pipa di Polito e questo è il motivo per cui non posso dirmi blairiano.
Poi a un certo punto ci fu quello strano fenomeno di inversione, per cui i dalemiani smisero di essere la destra del partito e i veltroniani dal correntone schizzarono a destra, per cui a rimettersi a blaiterare già fuori tempo massimo fu il leader del PD. Questo blairismo fu poi eclissato dall'obamismo (era il 2008!) ma ancora nel 2009 Veltroni riuscì a mettere la prima firma su un manifesto che chiedeva la nomina di Blair alla presidenza del consiglio europeo, un'idea così traboccante sensatezza e sensibilità che poteva solo venire al Foglio. (No ma pensateci ogni tanto, che abbiamo avuto un leader del PD che aderiva alle petizioni di Giuliano Ferrara. Dai, il peggio è comunque passato).
- In questi quindici anni, se c'è stato un momento in cui la base del centrosinistra italiano (non il vertice, la base), si è mostrata compatta, è stato forse il momento dell'opposizione alla guerra in Iraq. Una guerra che Blair si impegnò a scatenare, spergiurando sull'esistenza di armi di distruzione di massa che nessuno ha mai trovato. Queste forse sono solo vecchie storie, che interessano ai vecchi.
E forse no. C'è una generazione di militanti e simpatizzanti di centrosinistra che può avere oscillato tra Bertinotti e Bersani, tra Veltroni e Vendola, e magari anche tra Marino e Renzi, ma sulla guerra in Iraq ha sempre avuto una sola opinione, che poi si è rivelata quella giusta: Blair era disposto a mentire ai suoi elettori e ai suoi alleati pur di ottenere quello che la sua elevata coscienza riteneva giusto: un'altra guerra in medio oriente. Per queste persone, e sono una fetta non trascurabile dell'elettorato del centrosinistra, Tony non è il giovane avvocato che strappa la candidatura a Gordon Brown e caccia il thatcherismo da Downing Street nel '97: per noi Blair è il bugiardo guerrafondaio del 2003, un periodo in cui andava molto forte dividere il mondo in cattivi bombardabili e buoni bombardieri. Blair bombardò molto e se ne vanta ancora: che ora Renzi lo possa ritirare fuori così, come una bella giacca anni Novanta quasi mai messa, quasi nuova, quasi vintage, sbalordisce un po'. Va bene rompere col passato, ma a me le grandi manifestazioni del 2003 sembrano l'altro ieri.
- Se per "Blair" si intende semplicemente "unico caso in cui un leader europeo di un partito di sinistra vince conquistando voti a destra", beh, è un caso che va molto ridimensionato, tenendo anche conto dell'astensione, che negli anni di Blair aumentò molto.
- Ma in realtà di che stiamo parlando? Cioè non ha senso, il 2012 non è il 1997, l'Italia non è la Gran Bretagna, e soprattutto, davvero, Renzi non è Blair (io spero sia meglio). Se uno vuole i dettagli c'è questo lungo pezzo di Andrea Romano che si concentra sulla fase cruciale dell'invenzione del New Labour. Ne isolo soltanto uno: in quel processo di costruzione di un leader, Blair prese in prestito tante cose da molte persone, recepì consigli e istanze, com'è giusto che sia, ma ci mise anche qualcosa di profondamente suo: un "impasto di certezze laiche e convinzioni non negoziabili", lo chiama Romano, che gli permetteva di non farsi "alcuna remora a toccare i tasti del «bene» e del «male»".
Ora sbaglierò, ma questa tensione etica, questa serena convinzione di essere un emissario del Bene chiamato da qualche autorità superiore a non negoziare col Male, forse non fu l'elemento che gli permise di vincere le elezioni, ma gli consentì una volta insediato di dichiarare più guerre di tutti i primi ministri della storia britannica (e la storia britannica è molto lunga). Di poche persone è lecito diffidare come degli avvocati del Bene. La buona notizia è che Renzi non è così: almeno, non mi pare proprio che sia così: nei suoi discorsi e nei suoi interventi leggo tante ricette per rottamare, semplificare, tagliare, ringiovanire, tanto sfoggio di cosiddetto senso pratico che ho già sentito sia nelle piazze grilline che nei bar leghisti (ma anche un po' alle feste dell'unità); non percepisco però nessuna radicalità etica, nessun Bene con la B, e per quanto mi riguarda è molto meglio così. Forse è la differenza tra un tranquillo cattolico italiano e un criptocattolico nella patria di Maria la Sanguinaria.
In ogni caso non ce lo vedo proprio Matteo Renzi a inventarsi scuse per dichiarare una guerra a uno Stato-canaglia: il paragone con Blair, non provenisse da Renzi stesso, lo respingerei come un'offesa: ditegliene di ogni, dite che è inesperto e gigione, che a furia di cercare voti fuori li sta perdendo dentro, ma non paragonatelo a un fanatico inventore di guerre. Non se lo merita.
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E se Grillo avesse rrrrrrrrrrr
08-11-2012, 00:35Beppe Grillo, cattiva politica, tvPermalink
Io trovo abbastanza ignobile il modo in cui Grillo ha trattato la consigliera comunale del M5S che ha osato presenziare a un talk show, e squallidi i colleghi che la stanno emarginando. Tutto sommato condivido le osservazioni di Scalfari che sul carisma ancora molto televisivo di Grillo sembra aver capito più cose dei giovinastri che sul suo quotidiano si fanno infinocchiare da klout e altri gingilli. Grillo diserta i talk show proprio come anni fa li evitava Berlusconi: entrambi hanno goduto (e Grillo gode ancora) di una rendita di posizione nel nostro immaginario. Sono due facce, due personaggi che conosciamo già, non hanno bisogno di vendersi a Porta a Porta. Se decidono di andare in tv, sono nella posizione di dettare le condizioni: non hanno nessuna esigenza di accettare un contraddittorio, qualcuno che per piaggeria o esigenza di share accetterà di mandare in onda i loro video preregistrati ci sarà sempre.
Il discorso cambia, ovviamente, per gli altri esponenti del M5S. Per loro andare in tv (in un momento come questo, poi, in cui la gente è alla ricerca spasmodica di volti nuovi) è un'opportunità importante. Magari tra qualche mese alcuni di loro saranno in Parlamento, davanti a un bivio: restare con Grillo, seguirlo perinde ac cadaver, restituendo stipendio e gettoni di presenza o... trovare un'altra strada, più remunerativa, che consenta loro di partecipare a una maggioranza, magari recuperando uno strapuntino, un sottosegretariato? Alcuni sceglieranno di restare col capo in anonimato e in miseria: altri tradiranno, è nella natura delle cose. Per Grillo e Casaleggio si tratta di scegliere gli elementi meno forniti di ambizione e individualità. Su questo la prova video non sbaglia mai. Se tu hai voglia di farti vedere, se hai un'individualità forte da mostrare, il video se ne accorge, il video la svela. Ecco, di queste persone Grillo e Casaleggio al momento non hanno bisogno. È difficile dar loro torto, se ci si mette nella loro prospettiva: hanno bisogno di anonimi che non vedano altra Via al di fuori del MoVimento. Io però vado oltre e mi chiedo se Grillo non abbia anche ragione in generale. Cioè, perché un politico deve andare a un talk show? Per farsi vedere, ovvio. Ma funziona?
Funziona, altroché, parlamenti regioni e comuni sono pieni di gente che si è fatta riconoscere durante un battibecco televisivo. Il caso della Polverini, catapultata dall'anonimato di una sigla sindacale semisconosciuta alla presidenza della regione Lazio grazie a un'assidua presenza a Ballarò, è uno tra tanti. Quindi sì, i talk funzionano. Selezionano una classe dirigente e la presentano al vaglio dei telespettatori-elettori. Che poi questa classe dirigente sia quella di cui ha bisogno l'Italia, beh, anche qui il caso Polverini è indicativo. Non c'era nessun motivo al mondo per cui una tizia brava a piazzare due o tre interventi a Ballarò dovesse essere anche competente in un ruolo delicato come quello di presidente della regione Lazio, e infatti non lo era. Ma da quando è così? Da quand'è che i talk show ci formano la classe dirigente? Ci ricordiamo tutti di quando Porta a Porta divenne "la terza camera". Ma qualcuno si ricorda chi ha cominciato? Perché negli anni '80, per dire, non era così. Le tribune politiche erano dirette grigie e istituzionali. Passa qualche anno, e la politica diventa spettacolo in seconda serata. Poi addirittura in prima.
Potrei sbagliarmi, ma all'inizio di tutto ci fu Samarcanda. Non era ancora esattamente un talk, ma la costruzione di certi personaggi (Santoro su tutti, anche Santoro ha fatto politica poi) è cominciata lì. La vera chiave di volta però potrebbe essere stata quel talk che faceva Gad Lerner nei teatri, nei tumultuosi primi anni Novanta, Milano, Italia: il programma che presentò i leghisti a tanta gente che a mangiare la polenta a Pontida non ci sarebbe mai andata. Insomma sembra proprio che il talk show come strumento di individuazione di una nuova classe dirigente sia nato proprio nel momento in cui cominciava quella cosa che chiamiamo per comodità Seconda Repubblica. Sarà una coincidenza?
Siamo abituati a pensare che la Seconda Repubblica nasca col videomessaggio di Berlusconi agli italiani, ma quello non è stato piuttosto una specie di meteora, che fa un impatto enorme e lascia un cratere senza vita? Il sottobosco politico di cui Berlusconi si è circondato negli anni successivi, dov'è cresciuto? Come si è presentato agli italiani? Andando nei talk a litigare. Il fatto che Berlusconi non si unisse mai alle risse (salvo alcuni momenti memorabili ed eccezionali, ad es. le telefonate in diretta) contribuiva a creare quel distacco, netto, tra l'Unto e i suoi seguaci: lo stesso distacco che ancora oggi impedisce a qualsiasi notabile del PDL di avere il "quid", di essere un candidato veramente credibile. È tutta gente che gli italiani conoscono, ma, appunto, come li conoscono? Li hanno visti litigare nei talk. E litigando nei talk conquisti visibilità, non carisma. Il carisma, il quid, è una cosa che si nutre di distacco. Ce l'ha Berlusconi, ce l'ha Grillo, anche Renzi forse ne ha un po' ma ogni volta che si abbassa ad andare in tv secondo me ne perde.
Nel frattempo però i talk hanno conquistato una specie di egemonia; sembrano diventati luoghi istituzionali dove la politica si presenta ai cittadini. Ma sono luoghi efficienti? Mettiamola giù più semplice: voi da quand'è che non guardate un talk di politica tutto intero? Io da anni, ormai, e non mi sembra di essermi perso informazioni importanti sul dibattito politico in Italia. I talk sono spettacoli abbastanza mediocri, anche quando sono confezionati con professionalità; costano relativamente poco e offrono al loro pubblico di riferimento un prodotto riconoscibile e in un qualche modo rassicurante. Ma non succede quasi nulla, nei talk. Nulla che non si possa recuperare scorrendo qualche titolo e guardando qualche spezzone in cinque minuti la mattina seguente. Grillo non ha tutti i torti quando sostiene di poterne fare tranquillamente a meno.
Il discorso cambia, ovviamente, per gli altri esponenti del M5S. Per loro andare in tv (in un momento come questo, poi, in cui la gente è alla ricerca spasmodica di volti nuovi) è un'opportunità importante. Magari tra qualche mese alcuni di loro saranno in Parlamento, davanti a un bivio: restare con Grillo, seguirlo perinde ac cadaver, restituendo stipendio e gettoni di presenza o... trovare un'altra strada, più remunerativa, che consenta loro di partecipare a una maggioranza, magari recuperando uno strapuntino, un sottosegretariato? Alcuni sceglieranno di restare col capo in anonimato e in miseria: altri tradiranno, è nella natura delle cose. Per Grillo e Casaleggio si tratta di scegliere gli elementi meno forniti di ambizione e individualità. Su questo la prova video non sbaglia mai. Se tu hai voglia di farti vedere, se hai un'individualità forte da mostrare, il video se ne accorge, il video la svela. Ecco, di queste persone Grillo e Casaleggio al momento non hanno bisogno. È difficile dar loro torto, se ci si mette nella loro prospettiva: hanno bisogno di anonimi che non vedano altra Via al di fuori del MoVimento. Io però vado oltre e mi chiedo se Grillo non abbia anche ragione in generale. Cioè, perché un politico deve andare a un talk show? Per farsi vedere, ovvio. Ma funziona?
Funziona, altroché, parlamenti regioni e comuni sono pieni di gente che si è fatta riconoscere durante un battibecco televisivo. Il caso della Polverini, catapultata dall'anonimato di una sigla sindacale semisconosciuta alla presidenza della regione Lazio grazie a un'assidua presenza a Ballarò, è uno tra tanti. Quindi sì, i talk funzionano. Selezionano una classe dirigente e la presentano al vaglio dei telespettatori-elettori. Che poi questa classe dirigente sia quella di cui ha bisogno l'Italia, beh, anche qui il caso Polverini è indicativo. Non c'era nessun motivo al mondo per cui una tizia brava a piazzare due o tre interventi a Ballarò dovesse essere anche competente in un ruolo delicato come quello di presidente della regione Lazio, e infatti non lo era. Ma da quando è così? Da quand'è che i talk show ci formano la classe dirigente? Ci ricordiamo tutti di quando Porta a Porta divenne "la terza camera". Ma qualcuno si ricorda chi ha cominciato? Perché negli anni '80, per dire, non era così. Le tribune politiche erano dirette grigie e istituzionali. Passa qualche anno, e la politica diventa spettacolo in seconda serata. Poi addirittura in prima.
Potrei sbagliarmi, ma all'inizio di tutto ci fu Samarcanda. Non era ancora esattamente un talk, ma la costruzione di certi personaggi (Santoro su tutti, anche Santoro ha fatto politica poi) è cominciata lì. La vera chiave di volta però potrebbe essere stata quel talk che faceva Gad Lerner nei teatri, nei tumultuosi primi anni Novanta, Milano, Italia: il programma che presentò i leghisti a tanta gente che a mangiare la polenta a Pontida non ci sarebbe mai andata. Insomma sembra proprio che il talk show come strumento di individuazione di una nuova classe dirigente sia nato proprio nel momento in cui cominciava quella cosa che chiamiamo per comodità Seconda Repubblica. Sarà una coincidenza?
Siamo abituati a pensare che la Seconda Repubblica nasca col videomessaggio di Berlusconi agli italiani, ma quello non è stato piuttosto una specie di meteora, che fa un impatto enorme e lascia un cratere senza vita? Il sottobosco politico di cui Berlusconi si è circondato negli anni successivi, dov'è cresciuto? Come si è presentato agli italiani? Andando nei talk a litigare. Il fatto che Berlusconi non si unisse mai alle risse (salvo alcuni momenti memorabili ed eccezionali, ad es. le telefonate in diretta) contribuiva a creare quel distacco, netto, tra l'Unto e i suoi seguaci: lo stesso distacco che ancora oggi impedisce a qualsiasi notabile del PDL di avere il "quid", di essere un candidato veramente credibile. È tutta gente che gli italiani conoscono, ma, appunto, come li conoscono? Li hanno visti litigare nei talk. E litigando nei talk conquisti visibilità, non carisma. Il carisma, il quid, è una cosa che si nutre di distacco. Ce l'ha Berlusconi, ce l'ha Grillo, anche Renzi forse ne ha un po' ma ogni volta che si abbassa ad andare in tv secondo me ne perde.
Nel frattempo però i talk hanno conquistato una specie di egemonia; sembrano diventati luoghi istituzionali dove la politica si presenta ai cittadini. Ma sono luoghi efficienti? Mettiamola giù più semplice: voi da quand'è che non guardate un talk di politica tutto intero? Io da anni, ormai, e non mi sembra di essermi perso informazioni importanti sul dibattito politico in Italia. I talk sono spettacoli abbastanza mediocri, anche quando sono confezionati con professionalità; costano relativamente poco e offrono al loro pubblico di riferimento un prodotto riconoscibile e in un qualche modo rassicurante. Ma non succede quasi nulla, nei talk. Nulla che non si possa recuperare scorrendo qualche titolo e guardando qualche spezzone in cinque minuti la mattina seguente. Grillo non ha tutti i torti quando sostiene di poterne fare tranquillamente a meno.
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Astensione in the UK
07-11-2012, 01:19Americana, astensionisti maledetti, cattiva politica, ObamaPermalinkAffluenza in the USA (magari se clicchi si ingrandisce, chissà) |
L'abitudine a caricare il non-voto di un significato politico, di attribuirgli una componente di protesta, o addirittura potenzialità eversive, per cui se tanta gente non votasse si aprirebbero senz'altro i sigilli di qualche apocalisse o palingenesi rivoluzionaria, è una delle tante scemenze che inquinano il dibattito politico italiano. Altrove l'astensione è così poco considerata che nemmeno ne parlano: per fare un esempio un po' cialtrone (scusate, sono un po' stanco), giusto stasera cercavo il dato sull'affluenza alle elezioni britanniche del '97 e sulla pagina wiki inglese non c'era. Non è una distrazione, la pagina è ben fatta. Secondo me è proprio che a un lettore britannico dell'astensione non frega più di tanto: è una curiosità, non ha nessun significato politico.
Quel famoso dato sulle britanniche del '97 mi interessava perché in questa settimana è scattato (in modo molto goffo all'inizio, ma pazienza) un dibattito su Tony Blair, sul senso che possa avere evocare Tony Blair quindici anni dopo in un contesto così diverso come l'Italia. È chiaro che per Renzi rifarsi a Blair implica tutta una serie di cose, alcune sensate altre meno; tra queste l'idea di conquistare gli elettori allo schieramento avverso, con una campagna fresca a base di messaggi propositivi e facce giovani ecc. ecc.; cosa che tutti gli riconoscono. Il problema è che, appunto, nessuno si ricorda più dell'astensionismo. Che in quell'occasione fu piuttosto alto. Insomma, Blair seppe convincere tanti indecisi, ma anche no.
Se uno poi va a vedere al numero crudo dei voti, scopre (se ho capito bene; ma sono un po' stanco) che il New Labour rispetto a quello Old di cinque anni prima ne guadagnò, sì, ma due milioni. Mica tanti. Quel che veramente fece la differenza è che i Tories ne persero cinque, di milioni. I liberaldemocratici persero poco meno di un milione... basta, il resto sono più o meno bruscolini. Quindi dove andarono tutti i voti persi? Astensione. Ora, non voglio dire che Blair non convinse tanti ex elettori di Thatcher col suo entusiasmo e la sua faccia fresca e la sua idea molto precisina su cosa fosse il Bene e su come fosse esecrabile (e bombardabile) il Male; quello fu senz'altro un fattore. Un altro fattore fu che molti ex elettori di Thatcher erano disgustati dal suo successore Major e non andarono semplicemente a votare. Secondo me vale la pena di ricordarlo. Buona notte e forza Obama.
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Sotto il campanile c'è di più
06-11-2012, 01:28alta Italia, catastrofi, ho una teoria, provinciaPermalink
Siamo province.
Quando sui giornali sarà finita l'ennesima ondata di pezzi di colore sui livornesi che sfottono i pisani, sui brianzoli che non si rassegnano all'essere milanesi, sul dolore di Chieti per l'annessione a Pescara, eccetera, sarebbe bello finalmente leggere qualcosa di sensato sulla più grande e drastica opera di ridefinizione delle entità amministrative locali dall'Unità a oggi. Sarebbe bello riuscire a parlarne seriamente, dell'accorpamento delle province; sarebbe giusto leggere sui quotidiani qualche riflessione sensata su cosa significa diminuire gli enti provinciali e aumentarne la grandezza (e quindi anche il potere contrattuale?) Invece di leggere del sindaco di Prato che riceve i giornalisti sul gabinetto, delle diffidenze tra padovani e trevigiani eccetera.
Una provincia non è un campanile. La nuova riforma non impedirà certo a modenesi e reggiani di prendersi in giro, così come massesi e carraresi fanno da un secolo anche se molti sono convinti che siano un solo capoluogo. Forse la provincia è l'esatto contrario del campanile: il luogo in cui le esigenze dei centri si armonizzavano con quelle del territorio circostante. Le province sono state, dall'Unità a oggi, le maglie di un tessuto complesso, avvinto a un territorio eterogeneo. Non a caso le loro competenze riguardano quasi esclusivamente la tutela delle terre e delle acque (e delle strade, non meno importanti). La retorica populista che in questi anni ci ha voluto convincere che le province "non servono a niente" nasconde il nostro progressivo scollamento da un territorio che non capiamo, attirati come siamo dai Centri. Non lo vediamo nemmeno più, il territorio, dai finestrini di treni sempre più veloci; salvo spaventarci e indignarci quando lo stesso territorio si ribella, e frana o smotta. In quei casi ci accorgiamo che avrebbe dovuto essere amministrato meglio - ma da chi? (continua sull'Unita.it - H1t#152).
Quando sui giornali sarà finita l'ennesima ondata di pezzi di colore sui livornesi che sfottono i pisani, sui brianzoli che non si rassegnano all'essere milanesi, sul dolore di Chieti per l'annessione a Pescara, eccetera, sarebbe bello finalmente leggere qualcosa di sensato sulla più grande e drastica opera di ridefinizione delle entità amministrative locali dall'Unità a oggi. Sarebbe bello riuscire a parlarne seriamente, dell'accorpamento delle province; sarebbe giusto leggere sui quotidiani qualche riflessione sensata su cosa significa diminuire gli enti provinciali e aumentarne la grandezza (e quindi anche il potere contrattuale?) Invece di leggere del sindaco di Prato che riceve i giornalisti sul gabinetto, delle diffidenze tra padovani e trevigiani eccetera.
Una provincia non è un campanile. La nuova riforma non impedirà certo a modenesi e reggiani di prendersi in giro, così come massesi e carraresi fanno da un secolo anche se molti sono convinti che siano un solo capoluogo. Forse la provincia è l'esatto contrario del campanile: il luogo in cui le esigenze dei centri si armonizzavano con quelle del territorio circostante. Le province sono state, dall'Unità a oggi, le maglie di un tessuto complesso, avvinto a un territorio eterogeneo. Non a caso le loro competenze riguardano quasi esclusivamente la tutela delle terre e delle acque (e delle strade, non meno importanti). La retorica populista che in questi anni ci ha voluto convincere che le province "non servono a niente" nasconde il nostro progressivo scollamento da un territorio che non capiamo, attirati come siamo dai Centri. Non lo vediamo nemmeno più, il territorio, dai finestrini di treni sempre più veloci; salvo spaventarci e indignarci quando lo stesso territorio si ribella, e frana o smotta. In quei casi ci accorgiamo che avrebbe dovuto essere amministrato meglio - ma da chi? (continua sull'Unita.it - H1t#152).
Una provincia ben gestita è una provincia che ha una rete viaria efficiente; che conosce le necessità del suo territorio; sa dove rimboschire per evitare le frane a valle; sa dove intervenire per evitare le alluvioni; sa interpretare il pericolo sismico regolamentando l’edilizia di conseguenza. Tutto questo i comuni non lo possono fare: hanno un orizzonte più corto, ogni comunità vede solo il tratto di fiume che l’attraversa. Né possono farlo le regioni, enti troppo grandi, portati per forza di cose a privilegiare le esigenze dei centri più popolati (che portano più voti) e accantonare il resto. È ben triste che molti sedicenti federalisti italiani abbiano predicato, negli ultimi vent’anni, niente più che un accentramento a livello regionale, quasi un ritorno alle vecchie signorie e alle loro capitali, Torino Milano Venezia…
Che le province fossero troppe, che alcune fossero assolutamente inutili, è abbastanza indiscutibile. Un accorpamento era inevitabile, ma con che criteri? Che senso ha mettere assieme Lodi Cremona e Mantova, o Verona e Rovigo? Prendiamo quest’ultimo esempio. Unire a una grande provincia, come quella di Verona, un territorio molto diverso e assai meno popolato, come il Polesine, significa creare un ente geograficamente bizzarro come forse non si era mai visto, sulla carta d’Italia, dall’Unità in poi. Non è semplicemente la stranezza di una lingua di terra che va dal Lago di Garda al mare. La rappresentanza in consiglio non potrà che premiare i comuni della parte più popolosa; costoro, per quanto illuminati, se vogliono far fede agli impegni presi coi loro elettori (ed essere riconfermati) non potranno che anteporre gli interessi del territorio più abitato. È la democrazia, funziona così.
Ma non è detto che funzioni sempre bene. Ce ne accorgiamo quando un fiume straripa, e la cassa di espansione avrebbe dovuto essere costruita magari centinaia di chilometri più a monte. La regione avrebbe dovuto preoccuparsene, ma aveva altre priorità, legate a territori più popolati e più rappresentati in consiglio regionale. Non resterà che lamentarsi dell’emergenza che nessuno aveva previsto: e trovare da qualche parte i soldi per la ricostruzione. Se spenderemo più di quanto avevamo risparmiato accorpando una provincia, nessuno se ne accorgerà. Sono conti difficili, calcoli noiosi, non li farà nessuno.http://leonardo.blogspot.com
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Il cardinale e la patata (e la peste)
04-11-2012, 03:22cristianesimo, preti parlanti, santiPermalink4 novembre - San Carlo Borromeo, cardinale e vescovo di Milano
Nella notte del 26 ottobre 1569, mentre è assorto in preghiera nella cappella dell'arcivescovado, Carlo Borromeo ode un improvviso fragore, e sente all'improvviso una percossa in un osso del filo della schiena. Qualcuno ha appena cercato di ammazzarlo con un colpo di archibugio alle spalle: eppure il medico subito accorso non trova nessuna ferita. Le decine di testimoni presenti alla scena non sono in grado di fermare il tizio vestito di nero che, di tutti i luoghi pubblici in cui si poteva appostare, ha scelto quel piccolo luogo raccolto, la tana del lupo. C'è da dire che gli archibugi del sedicesimo secolo non sono precisi come i fucili che abbiamo in mente noi; che caricarli è un'impresa complicata e rumorosa, tanto quanto è difficile prendere la mira in un'oscurità appena attenuata dalle candele; e tuttavia per mancare da così vicino le possenti spalle del cardinale ci voleva davvero un colpo di sfortuna, o se preferite un miracolo. Il trentunenne Borromeo era alto un metro e ottanta, un discreto armadione in un secolo di comodini. Fino a quel momento lo avevano chiamato santo solo i beghini del suo nutrito entourage; da lì in poi i milanesi cominciarono a crederci. Direi, ma posso sbagliare, che il Borromeo sia il primo santo scampato a un attentato con arma da fuoco, cinque secoli prima di Wojtyla. Se ancora oggi non siamo sicuri dei mandanti di Ali Ağca, figuriamoci quante certezze possiamo avere su un attentato di 500 anni fa, in un periodo in cui tutte le inchieste erano falsate dall'abitudine a torturare i sospetti finché non confermavano le tesi dell'accusa. Chi poteva desiderare la morte di Carlo Borromeo?
Un po' tutti. I protestanti italiani rifugiati in Isvizzera, a cui il cardinale - che chiamavano "Lupo Borromeo" - dava una caccia spietata, bruciandone un po' a ogni cosiddetta visita pastorale. Gli abitanti della Valle delle streghe, nei Grigioni, purificata con un rogo collettivo in cui il suo luogotenente ne gettò tra le fiamme almeno undici. I canonici di Santa Maria alla Scala, che per difendere le prerogative reali si erano appena difesi da un attacco dei fedelissimi del cardinale sguainando le spade. Il governatore spagnolo, il primo dei tre che il Borromeo esasperò, scavalcandoli in continuazione, scomunicandoli di tanto in tanto, forte degli amici a Roma e a Madrid. Gli ebrei di Milano, per i quali, prima di espellerli dalla città, il Cardinale aveva proposto un sistema di riconoscimento molto avanti coi tempi, un contrassegno giallo da portare dappertutto. I milanesi qualunque, a cui il Cardinale aveva tolto una gran quantità di divertimenti anche innocui, come sbirciare le ragazze in chiesa, dividendo le navate con alti paraventi. Qualche altro cardinale senza scrupolo, ansioso di fare un po' di spazio tra i più probabili candidati al Sacro Soglio. A pensarci bene, ci poteva essere la fila quella sera in arcivescovado per sparare alle possenti spalle del cardinale. Di tutti i possibili attentatori, però, quelli che avevano più da perdere - e da far guadagnare alla Curia - erano gli Umiliati (continua sul Post...)
Nati durante una delle periodiche ondate di intransigenza morale che movimentano il medioevo, più o meno nello stesso periodo di francescani e i domenicani, gli Umiliati in fatto di moralità e ortodossia non avevano lezioni da prendere né da questi, né dai nuovi arrivati del secolo, i neri gesuiti tanto cari al cardinale. A differenza degli ordini mendicanti gli Umiliati avevano deciso di vivere del frutto del loro lavoro; si erano trovati una nicchia piuttosto redditizia nella filiera della lavorazione della lana, e da secoli si erano trasformati in una struttura cooperativa imbattibile, ramificata in tutta la Lombardia. Un’altra caratteristica piuttosto originale – che inorridiva l’orgogliosa misoginia del cardinale – era la promiscuità: Umiliati e Umiliate lavoravano assieme, vivendo negli stessi conventi. Ciononostante non si riusciva a incastrarli in nessuno scandalo a sfondo sessuale: si sposavano, avevano figli, umiliati e lavoratori anch’essi. Crescevano, si moltiplicavano, fatturavano… non è che sotto sotto erano un po’ protestanti? Max Weber era molto in là da venire, ma il pregiudizio cattolico contro chi vive del frutto del proprio lavoro invece di scroccare prebende era già abbastanza forte, sicché dai e dai un modo di dichiararli eretici e incamerarne i beni Borromeo lo avrebbe trovato: l’archibugiata gli facilitò enormemente le cose. Bastò trovare un corvo che attribuisse l’attentato a Gerolamo Donati detto il Farina, un umiliato di Mombello, e a tre complici che, opportunamente torturati da uno specialista inviato dal Papa, monsignor Menichino, confessarono di aver congegnato il diabolico piano e furono di lì a breve giustiziati. Prima di essere impiccato, al Farina fu tagliata la mano destra, “sacrilega et parricida”. Ma questi erano dettagli, effetti speciali da offrire alla plebe: quel che importava davvero è che in dieci mesi scarsi il Borromeo era riuscito a sciogliere un potente ordine religioso, e incamerarne i beni (quelli che si salvarono dal saccheggio). Mai una schioppettata era stata tanto provvidenziale. Neanche i più accaniti detrattori, e si è visto che San Carlo ne ebbe tanti, osa mettere a verbale l’ipotesi che quel colpo il cardinale se lo sia fatto tirare a salve, con comodo, praticamente in casa sua, tra decine di testimoni oculari che avrebbero confermato qualsiasi sua versione. Per quanto determinato ai limiti della spietatezza, il Borromeo non sembra avere la profondità machiavellica di uno stratega della tensione. Era uno che sapeva trarre profitto delle situazioni, questo sì.
Come molti alti prelati, il Borromeo era secondogenito. Nei resoconti biografici il fratello maggiore Federico rischia sempre di passare per un coglione. Diciamo che Federico (da non confondere dal più giovane cugino Federigo, quello dei Promessi sposi) non fece in tempo a realizzare le proprie potenzialità, mentre già a vent’anni il fratellino lo esautorava di fatto, contrastando in vece sua l’occupazione spagnola della rocca di Arona, proprietà di famiglia. Chi dei due fosse l’eminenza grigia era insomma già chiarissimo quando nel ’59 lo zio Giovan Angelo Medici viene eletto papa col nome di Pio IV. Entrambi, tuttavia, vengono immediatamente chiamati a Roma a godere della cuccagna. Federico si sposa quasi subito con la duchessa d’Urbino; al secondogenito, fresco di laurea in diritto, tocca invece come d’uso la carriera ecclesiastica: viene praticamente nominato cardinale prima ancora di essere ordinato sacerdote. Non lo era ancora diventato nel 1562, quando la dolce vita si interrompe bruscamente: il fratello muore di una banalissima febbre, lasciando una vedova diciottenne che, a detta di tutti i parenti e i sodali, a questo punto dovrebbe risposarsi con Carlo. Lo stesso papa sembra considerarla la situazione più logica, salvo che Carlo proprio non vuole. Più che la responsabilità di portare avanti la famiglia, più che la perdita di un collegio cardinalizio e del bel zuccotto di porpora, è forse la duchessa diciottenne a bloccarlo. Per tutta la vita si vanterà di non avere mai rivolto la parola a una donna in assenza di testimoni. Cominciò a digiunare, per quanto gli permetteva il fisico non esile; smise di ostentare le proprie ricchezze, licenziò ottanta servitori in una botta, creando probabilmente una crisi occupazionale. Fece il possibile per dimostrare di avere la stoffa da santo, e in pochi mesi la spuntò: nel 1563 lo zio papa lo consacrò definitivamente cardinale e prete. Aveva 26 anni, e in nome dello zio stava portando a termine i lavori del Concilio di Trento.
“Polpettine e patatine croccanti”.
Carlo Borromeo morì a quarantasei anni (1584) durante una visita pastorale intorno al suo lago Maggiore. I digiuni, lo stress per gli impegni e i viaggi continui, erano riusciti dove l’archibugio aveva fallito. Canonizzarlo fu relativamente semplice, ma durante il processo vennero fuori miracoli piuttosto bizzarri. Uno è troppo buffo per non essere apocrifo: Carlo avrebbe guarito una ragazza da un dolore alla mammella succhiandone il latte. Dove è facile intendere come il vero miracolo per lui fosse toccare una tetta: la repulsione per le forme femminili faceva già parte della sua leggenda. Carlo muore relativamente giovane, prima di potersi mettere in discussione, ma anche prima di essere corrotto dal potere, prima di accettare viaggi premio ai tropici e ammettere abbinamenti arditi nel suo guardaroba. I milanesi lo ricorderanno sempre per quella peste in cui a un certo punto nell’ospedale mancarono i lenzuoli bianchi e lui offrì quel che gli era rimasto: e per un po’ i malati dormirono in panni color porpora, prerogativa cardinalizia.
Essendo vissuto nei cinque decenni centrali del sedicesimo secolo, proprio quando la pianta fa il suo timido ingresso tra le coltivazioni europee, il pur frugale Carlo Borromeo non ha mai mangiato una patata in vita sua. Tre e secoli e mezzo dopo la sua morte, nei dintorni di una chiesetta a lui intitolata, in via Lecco 18, un rosticciere ha l’idea non del tutto originale di friggere, tra le altre cose, delle patate in sottili sfoglie. Distribuite ai forni della zona, le “patatine croccanti” diventano presto una specialità richiestissima. Dopo quattro anni, per far fronte alla domanda, il forno deve spostarsi, mantenendo però l’antica denominazione “San Carlo”. Ecco risolto l’enigma che tormentava i lettori non milanesi sin dall’inizio di questo lungo pezzo. Sì, perché, non ce ne vogliano gli abitanti dell’inclito capoluogo, nel resto del mondo di rito non ambrosiano San-Carlo è essenzialmente il nome di un sacchetto di patatine fritte, che certo, ha rovinato l’appetito di milioni di bambini, ma non ha mai mandato al rogo o alla forca nessuno. Sic transit gloria coeli – voi comunque che preferireste? Dare il nome a una patata o a una peste?
San Carlo scampa all’attentato (Giovanni Battista della Rovere, detto il Fiammenghino). |
Nella notte del 26 ottobre 1569, mentre è assorto in preghiera nella cappella dell'arcivescovado, Carlo Borromeo ode un improvviso fragore, e sente all'improvviso una percossa in un osso del filo della schiena. Qualcuno ha appena cercato di ammazzarlo con un colpo di archibugio alle spalle: eppure il medico subito accorso non trova nessuna ferita. Le decine di testimoni presenti alla scena non sono in grado di fermare il tizio vestito di nero che, di tutti i luoghi pubblici in cui si poteva appostare, ha scelto quel piccolo luogo raccolto, la tana del lupo. C'è da dire che gli archibugi del sedicesimo secolo non sono precisi come i fucili che abbiamo in mente noi; che caricarli è un'impresa complicata e rumorosa, tanto quanto è difficile prendere la mira in un'oscurità appena attenuata dalle candele; e tuttavia per mancare da così vicino le possenti spalle del cardinale ci voleva davvero un colpo di sfortuna, o se preferite un miracolo. Il trentunenne Borromeo era alto un metro e ottanta, un discreto armadione in un secolo di comodini. Fino a quel momento lo avevano chiamato santo solo i beghini del suo nutrito entourage; da lì in poi i milanesi cominciarono a crederci. Direi, ma posso sbagliare, che il Borromeo sia il primo santo scampato a un attentato con arma da fuoco, cinque secoli prima di Wojtyla. Se ancora oggi non siamo sicuri dei mandanti di Ali Ağca, figuriamoci quante certezze possiamo avere su un attentato di 500 anni fa, in un periodo in cui tutte le inchieste erano falsate dall'abitudine a torturare i sospetti finché non confermavano le tesi dell'accusa. Chi poteva desiderare la morte di Carlo Borromeo?
Un po' tutti. I protestanti italiani rifugiati in Isvizzera, a cui il cardinale - che chiamavano "Lupo Borromeo" - dava una caccia spietata, bruciandone un po' a ogni cosiddetta visita pastorale. Gli abitanti della Valle delle streghe, nei Grigioni, purificata con un rogo collettivo in cui il suo luogotenente ne gettò tra le fiamme almeno undici. I canonici di Santa Maria alla Scala, che per difendere le prerogative reali si erano appena difesi da un attacco dei fedelissimi del cardinale sguainando le spade. Il governatore spagnolo, il primo dei tre che il Borromeo esasperò, scavalcandoli in continuazione, scomunicandoli di tanto in tanto, forte degli amici a Roma e a Madrid. Gli ebrei di Milano, per i quali, prima di espellerli dalla città, il Cardinale aveva proposto un sistema di riconoscimento molto avanti coi tempi, un contrassegno giallo da portare dappertutto. I milanesi qualunque, a cui il Cardinale aveva tolto una gran quantità di divertimenti anche innocui, come sbirciare le ragazze in chiesa, dividendo le navate con alti paraventi. Qualche altro cardinale senza scrupolo, ansioso di fare un po' di spazio tra i più probabili candidati al Sacro Soglio. A pensarci bene, ci poteva essere la fila quella sera in arcivescovado per sparare alle possenti spalle del cardinale. Di tutti i possibili attentatori, però, quelli che avevano più da perdere - e da far guadagnare alla Curia - erano gli Umiliati (continua sul Post...)
L’altra faccia del Sancarlone (è sempre la stessa faccia, ma vista dall’interno).
Come molti alti prelati, il Borromeo era secondogenito. Nei resoconti biografici il fratello maggiore Federico rischia sempre di passare per un coglione. Diciamo che Federico (da non confondere dal più giovane cugino Federigo, quello dei Promessi sposi) non fece in tempo a realizzare le proprie potenzialità, mentre già a vent’anni il fratellino lo esautorava di fatto, contrastando in vece sua l’occupazione spagnola della rocca di Arona, proprietà di famiglia. Chi dei due fosse l’eminenza grigia era insomma già chiarissimo quando nel ’59 lo zio Giovan Angelo Medici viene eletto papa col nome di Pio IV. Entrambi, tuttavia, vengono immediatamente chiamati a Roma a godere della cuccagna. Federico si sposa quasi subito con la duchessa d’Urbino; al secondogenito, fresco di laurea in diritto, tocca invece come d’uso la carriera ecclesiastica: viene praticamente nominato cardinale prima ancora di essere ordinato sacerdote. Non lo era ancora diventato nel 1562, quando la dolce vita si interrompe bruscamente: il fratello muore di una banalissima febbre, lasciando una vedova diciottenne che, a detta di tutti i parenti e i sodali, a questo punto dovrebbe risposarsi con Carlo. Lo stesso papa sembra considerarla la situazione più logica, salvo che Carlo proprio non vuole. Più che la responsabilità di portare avanti la famiglia, più che la perdita di un collegio cardinalizio e del bel zuccotto di porpora, è forse la duchessa diciottenne a bloccarlo. Per tutta la vita si vanterà di non avere mai rivolto la parola a una donna in assenza di testimoni. Cominciò a digiunare, per quanto gli permetteva il fisico non esile; smise di ostentare le proprie ricchezze, licenziò ottanta servitori in una botta, creando probabilmente una crisi occupazionale. Fece il possibile per dimostrare di avere la stoffa da santo, e in pochi mesi la spuntò: nel 1563 lo zio papa lo consacrò definitivamente cardinale e prete. Aveva 26 anni, e in nome dello zio stava portando a termine i lavori del Concilio di Trento.
Ciao Carlo, controriformami questa!
Il Borromeo per la verità fece qualcosa di più che aprire e chiudere le ultime sessioni: le mise in pratica. In particolare la penultima, che rafforzava i privilegi (ma anche i doveri) dei vescovi e istituiva la pratica delle visite pastorali. Non era la prima volta che la Chiesa romana si dava nuove regole chiare e definite; non era la prima volta che regole del genere rimanevano lettera morta. Ma una volta terminati i lavori, il Borromeo si ricordò che lo zio lo aveva nominato arcivescovo di Milano. Era un titolo come tanti, come principe di Galles per Carlo, nessuno si aspetta che lui viva davvero in Galles, e nessuno si aspettava che il nipotino del Papa a Milano ci andasse davvero. Erano decenni che la città campava senza un arcivescovo stanziale, e nessuno sembrava lamentarsene. Ma Carlo aveva capito che il suo posto era là, in quella metropoli padana che in venti secoli non è mai riuscita a essere capitale di niente di definito, e che ogni tanto forse per ripicca riscopre un’anima arcigna, teocratica. All’opposto di Roma, che si era fatta cattolica per continuare a essere in un qualche modo il capo dell’universo mondo, per Milano tornare a Dio significa chiudersi al mondo e riscoprire in profondità sé stessa, nelle vecchie ossa dei suoi martiri misteriosi, Gervasio e Protasio, tornare agli anni di gloria in cui Ambrogio regnava e non faceva entrare nemmeno l’imperatore Teodosio. Un santo non poteva regnare a Roma, a Milano sì. A Milano Carlo Borromeo arriva nel ’65: forse la prima cosa che vede è un’incisione oscena che campeggia su porta Tosa (oggi Vittoria), una donna che lo accoglie a gambe divaricate: una prostituta? La moglie di Federico Barbarossa ritratta a pube rasato per spregio? Le leggende si sprecano, l’unica cosa certa la scoprì il Borromeo ordinandone l’immediata rimozione: era stata scolpita su una pietra tombale romana. A essere deposto col fregio della Tosa è tutto un medioevo carnascialesco e beffardo, che la Controriforma sta mettendo definitivamente in cantina. Il cardinale castissimo si adopera affinché preti frati e religiose osservino finalmente, se non la castità, almeno il celibato; introduce le grate perforate nei confessionali, innalza barriere tra navate maschili e femminili nelle chiese, fa il possibile per contrastare balli, giuochi a carte e a pallone; più volte mostra di ignorare la separazione tra Stato e Chiesa, incarcerando chi gli pare, per esempio con l’accusa di adulterio e concubinato; e in mezzo a tutto ciò si conquista la fiducia di milanesi e brianzoli, donando a piene mani quello che nel frattempo rosicchiava da qualcun altro – dagli Umiliati, per esempio.
In giro per Milano, sotto un cielo sempre nero.
La peste di Milano è l’esempio più efficace della difficoltà che abbiamo, a cinque secoli di distanza, a dare un’immagine coerente di San Carlo. Siamo prigionieri di due narrazioni di parte: per i beghini, anche di spessore, Carlo diede in quell’occasione la dimostrazione di cosa deve fare un uomo di Chiesa e un vescovo in particolare: donare e donarsi, sprezzante dei rischi personali, con abnegazione ma anche con organizzazione, gestendo gli aiuti e sostituendosi allo Stato che in certe situazioni, guarda caso, non c’è mai, chissà perché. Ma per fortuna c’è la Chiesa, per fortuna c’è Carlo che provvede. È quella che i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.
Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Avrete senz’altro riconosciuto don Lisander. Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.
Quando con l’inasprirsi della carestia tutte le famiglie abbienti, già gravate da pesantissime imposte, si dissanguano per sfamare migliaia di miserabili affluiti a Milano dalle inaridite campagne, l’esentasse san Carlo, l’uomo più ricco della città, volta la schiena all’esterrefatto messo comunale incaricato della colletta, che bruscamente riaccompagnato alla porta dai valletti arcivescovili, annota sulla lista tramandataci, fittissima di nomi e cifre, sotto il nome di Carlo Borromeo: “Non diè del suo“. (Da un’opera assai più oscura, ma non priva di interesse, e soprattutto di riferimenti bibliografici)
Il Borromeo per la verità fece qualcosa di più che aprire e chiudere le ultime sessioni: le mise in pratica. In particolare la penultima, che rafforzava i privilegi (ma anche i doveri) dei vescovi e istituiva la pratica delle visite pastorali. Non era la prima volta che la Chiesa romana si dava nuove regole chiare e definite; non era la prima volta che regole del genere rimanevano lettera morta. Ma una volta terminati i lavori, il Borromeo si ricordò che lo zio lo aveva nominato arcivescovo di Milano. Era un titolo come tanti, come principe di Galles per Carlo, nessuno si aspetta che lui viva davvero in Galles, e nessuno si aspettava che il nipotino del Papa a Milano ci andasse davvero. Erano decenni che la città campava senza un arcivescovo stanziale, e nessuno sembrava lamentarsene. Ma Carlo aveva capito che il suo posto era là, in quella metropoli padana che in venti secoli non è mai riuscita a essere capitale di niente di definito, e che ogni tanto forse per ripicca riscopre un’anima arcigna, teocratica. All’opposto di Roma, che si era fatta cattolica per continuare a essere in un qualche modo il capo dell’universo mondo, per Milano tornare a Dio significa chiudersi al mondo e riscoprire in profondità sé stessa, nelle vecchie ossa dei suoi martiri misteriosi, Gervasio e Protasio, tornare agli anni di gloria in cui Ambrogio regnava e non faceva entrare nemmeno l’imperatore Teodosio. Un santo non poteva regnare a Roma, a Milano sì. A Milano Carlo Borromeo arriva nel ’65: forse la prima cosa che vede è un’incisione oscena che campeggia su porta Tosa (oggi Vittoria), una donna che lo accoglie a gambe divaricate: una prostituta? La moglie di Federico Barbarossa ritratta a pube rasato per spregio? Le leggende si sprecano, l’unica cosa certa la scoprì il Borromeo ordinandone l’immediata rimozione: era stata scolpita su una pietra tombale romana. A essere deposto col fregio della Tosa è tutto un medioevo carnascialesco e beffardo, che la Controriforma sta mettendo definitivamente in cantina. Il cardinale castissimo si adopera affinché preti frati e religiose osservino finalmente, se non la castità, almeno il celibato; introduce le grate perforate nei confessionali, innalza barriere tra navate maschili e femminili nelle chiese, fa il possibile per contrastare balli, giuochi a carte e a pallone; più volte mostra di ignorare la separazione tra Stato e Chiesa, incarcerando chi gli pare, per esempio con l’accusa di adulterio e concubinato; e in mezzo a tutto ciò si conquista la fiducia di milanesi e brianzoli, donando a piene mani quello che nel frattempo rosicchiava da qualcun altro – dagli Umiliati, per esempio.
In giro per Milano, sotto un cielo sempre nero.
La peste di Milano è l’esempio più efficace della difficoltà che abbiamo, a cinque secoli di distanza, a dare un’immagine coerente di San Carlo. Siamo prigionieri di due narrazioni di parte: per i beghini, anche di spessore, Carlo diede in quell’occasione la dimostrazione di cosa deve fare un uomo di Chiesa e un vescovo in particolare: donare e donarsi, sprezzante dei rischi personali, con abnegazione ma anche con organizzazione, gestendo gli aiuti e sostituendosi allo Stato che in certe situazioni, guarda caso, non c’è mai, chissà perché. Ma per fortuna c’è la Chiesa, per fortuna c’è Carlo che provvede. È quella che i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.
Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Avrete senz’altro riconosciuto don Lisander. Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.
Quando con l’inasprirsi della carestia tutte le famiglie abbienti, già gravate da pesantissime imposte, si dissanguano per sfamare migliaia di miserabili affluiti a Milano dalle inaridite campagne, l’esentasse san Carlo, l’uomo più ricco della città, volta la schiena all’esterrefatto messo comunale incaricato della colletta, che bruscamente riaccompagnato alla porta dai valletti arcivescovili, annota sulla lista tramandataci, fittissima di nomi e cifre, sotto il nome di Carlo Borromeo: “Non diè del suo“. (Da un’opera assai più oscura, ma non priva di interesse, e soprattutto di riferimenti bibliografici)
“Polpettine e patatine croccanti”.
Carlo Borromeo morì a quarantasei anni (1584) durante una visita pastorale intorno al suo lago Maggiore. I digiuni, lo stress per gli impegni e i viaggi continui, erano riusciti dove l’archibugio aveva fallito. Canonizzarlo fu relativamente semplice, ma durante il processo vennero fuori miracoli piuttosto bizzarri. Uno è troppo buffo per non essere apocrifo: Carlo avrebbe guarito una ragazza da un dolore alla mammella succhiandone il latte. Dove è facile intendere come il vero miracolo per lui fosse toccare una tetta: la repulsione per le forme femminili faceva già parte della sua leggenda. Carlo muore relativamente giovane, prima di potersi mettere in discussione, ma anche prima di essere corrotto dal potere, prima di accettare viaggi premio ai tropici e ammettere abbinamenti arditi nel suo guardaroba. I milanesi lo ricorderanno sempre per quella peste in cui a un certo punto nell’ospedale mancarono i lenzuoli bianchi e lui offrì quel che gli era rimasto: e per un po’ i malati dormirono in panni color porpora, prerogativa cardinalizia.
Essendo vissuto nei cinque decenni centrali del sedicesimo secolo, proprio quando la pianta fa il suo timido ingresso tra le coltivazioni europee, il pur frugale Carlo Borromeo non ha mai mangiato una patata in vita sua. Tre e secoli e mezzo dopo la sua morte, nei dintorni di una chiesetta a lui intitolata, in via Lecco 18, un rosticciere ha l’idea non del tutto originale di friggere, tra le altre cose, delle patate in sottili sfoglie. Distribuite ai forni della zona, le “patatine croccanti” diventano presto una specialità richiestissima. Dopo quattro anni, per far fronte alla domanda, il forno deve spostarsi, mantenendo però l’antica denominazione “San Carlo”. Ecco risolto l’enigma che tormentava i lettori non milanesi sin dall’inizio di questo lungo pezzo. Sì, perché, non ce ne vogliano gli abitanti dell’inclito capoluogo, nel resto del mondo di rito non ambrosiano San-Carlo è essenzialmente il nome di un sacchetto di patatine fritte, che certo, ha rovinato l’appetito di milioni di bambini, ma non ha mai mandato al rogo o alla forca nessuno. Sic transit gloria coeli – voi comunque che preferireste? Dare il nome a una patata o a una peste?
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