Il cardinale e la patata (e la peste)

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4 novembre - San Carlo Borromeo, cardinale e vescovo di Milano

San Carlo scampa all’attentato (Giovanni Battista della Rovere, detto il Fiammenghino).

Nella notte del 26 ottobre 1569, mentre è assorto in preghiera nella cappella dell'arcivescovado, Carlo Borromeo ode un improvviso fragore, e sente all'improvviso una percossa in un osso del filo della schiena. Qualcuno ha appena cercato di ammazzarlo con un colpo di archibugio alle spalle: eppure il medico subito accorso non trova nessuna ferita. Le decine di testimoni presenti alla scena non sono in grado di fermare il tizio vestito di nero che, di tutti i luoghi pubblici in cui si poteva appostare, ha scelto quel piccolo luogo raccolto, la tana del lupo. C'è da dire che gli archibugi del sedicesimo secolo non sono precisi come i fucili che abbiamo in mente noi; che caricarli è un'impresa complicata e rumorosa, tanto quanto è difficile prendere la mira in un'oscurità appena attenuata dalle candele; e tuttavia per mancare da così vicino le possenti spalle del cardinale ci voleva davvero un colpo di sfortuna, o se preferite un miracolo. Il trentunenne Borromeo era alto un metro e ottanta, un discreto armadione in un secolo di comodini. Fino a quel momento lo avevano chiamato santo solo i beghini del suo nutrito entourage; da lì in poi i milanesi cominciarono a crederci. Direi, ma posso sbagliare, che il Borromeo sia il primo santo scampato a un attentato con arma da fuoco, cinque secoli prima di Wojtyla. Se ancora oggi non siamo sicuri dei mandanti di Ali Ağca, figuriamoci quante certezze possiamo avere su un attentato di 500 anni fa, in un periodo in cui tutte le inchieste erano falsate dall'abitudine a torturare i sospetti finché non confermavano le tesi dell'accusa. Chi poteva desiderare la morte di Carlo Borromeo?

Un po' tutti. I protestanti italiani rifugiati in Isvizzera, a cui il cardinale - che chiamavano "Lupo Borromeo" - dava una caccia spietata, bruciandone un po' a ogni cosiddetta visita pastorale. Gli abitanti della Valle delle streghe, nei Grigioni, purificata con un rogo collettivo in cui il suo luogotenente ne gettò tra le fiamme almeno undici. I canonici di Santa Maria alla Scala, che per difendere le prerogative reali si erano appena difesi da un attacco dei fedelissimi del cardinale sguainando le spade. Il governatore spagnolo, il primo dei tre che il Borromeo esasperò, scavalcandoli in continuazione, scomunicandoli di tanto in tanto, forte degli amici a Roma e a Madrid. Gli ebrei di Milano, per i quali, prima di espellerli dalla città, il Cardinale aveva proposto un sistema di riconoscimento molto avanti coi tempi, un contrassegno giallo da portare dappertutto. I milanesi qualunque, a cui il Cardinale aveva tolto una gran quantità di divertimenti anche innocui, come sbirciare le ragazze in chiesa, dividendo le navate con alti paraventi. Qualche altro cardinale senza scrupolo, ansioso di fare un po' di spazio tra i più probabili candidati al Sacro Soglio. A pensarci bene, ci poteva essere la fila quella sera in arcivescovado per sparare alle possenti spalle del cardinale. Di tutti i possibili attentatori, però, quelli che avevano più da perdere - e da far guadagnare alla Curia - erano gli Umiliati (continua sul Post...)

Nati durante una delle periodiche ondate di intransigenza morale che movimentano il medioevo, più o meno nello stesso periodo di francescani e i domenicani, gli Umiliati in fatto di moralità e ortodossia non avevano lezioni da prendere né da questi, né dai nuovi arrivati del secolo, i neri gesuiti tanto cari al cardinale. A differenza degli ordini mendicanti gli Umiliati avevano deciso di vivere del frutto del loro lavoro; si erano trovati una nicchia piuttosto redditizia nella filiera della lavorazione della lana, e da secoli si erano trasformati in una struttura cooperativa imbattibile, ramificata in tutta la Lombardia. Un’altra caratteristica piuttosto originale – che inorridiva l’orgogliosa misoginia del cardinale – era la promiscuità: Umiliati e Umiliate lavoravano assieme, vivendo negli stessi conventi. Ciononostante non si riusciva a incastrarli in nessuno scandalo a sfondo sessuale: si sposavano, avevano figli, umiliati e lavoratori anch’essi. Crescevano, si moltiplicavano, fatturavano… non è che sotto sotto erano un po’ protestanti? Max Weber era molto in là da venire, ma il pregiudizio cattolico contro chi vive del frutto del proprio lavoro invece di scroccare prebende era già abbastanza forte, sicché dai e dai un modo di dichiararli eretici e incamerarne i beni Borromeo lo avrebbe trovato: l’archibugiata gli facilitò enormemente le cose. Bastò trovare un corvo che attribuisse l’attentato a Gerolamo Donati detto il Farina, un umiliato di Mombello, e a tre complici che, opportunamente torturati da uno specialista inviato dal Papa, monsignor Menichino, confessarono di aver congegnato il diabolico piano e furono di lì a breve giustiziati. Prima di essere impiccato, al Farina fu tagliata la mano destra, “sacrilega et parricida”. Ma questi erano dettagli, effetti speciali da offrire alla plebe: quel che importava davvero è che in dieci mesi scarsi il Borromeo era riuscito a sciogliere un potente ordine religioso, e incamerarne i beni (quelli che si salvarono dal saccheggio). Mai una schioppettata era stata tanto provvidenziale. Neanche i più accaniti detrattori, e si è visto che San Carlo ne ebbe tanti, osa mettere a verbale l’ipotesi che quel colpo il cardinale se lo sia fatto tirare a salve, con comodo, praticamente in casa sua, tra decine di testimoni oculari che avrebbero confermato qualsiasi sua versione. Per quanto determinato ai limiti della spietatezza, il Borromeo non sembra avere la profondità machiavellica di uno stratega della tensione. Era uno che sapeva trarre profitto delle situazioni, questo sì.


L’altra faccia del Sancarlone (è sempre la stessa faccia, ma vista dall’interno).


Come molti alti prelati, il Borromeo era secondogenito. Nei resoconti biografici il fratello maggiore Federico rischia sempre di passare per un coglione. Diciamo che Federico (da non confondere dal più giovane cugino Federigo, quello dei Promessi sposi) non fece in tempo a realizzare le proprie potenzialità, mentre già a vent’anni il fratellino lo esautorava di fatto, contrastando in vece sua l’occupazione spagnola della rocca di Arona, proprietà di famiglia. Chi dei due fosse l’eminenza grigia era insomma già chiarissimo quando nel ’59 lo zio Giovan Angelo Medici viene eletto papa col nome di Pio IV. Entrambi, tuttavia, vengono immediatamente chiamati a Roma a godere della cuccagna. Federico si sposa quasi subito con la duchessa d’Urbino; al secondogenito, fresco di laurea in diritto, tocca invece come d’uso la carriera ecclesiastica: viene praticamente nominato cardinale prima ancora di essere ordinato sacerdote. Non lo era ancora diventato nel 1562, quando la dolce vita si interrompe bruscamente: il fratello muore di una banalissima febbre, lasciando una vedova diciottenne che, a detta di tutti i parenti e i sodali, a questo punto dovrebbe risposarsi con Carlo. Lo stesso papa sembra considerarla la situazione più logica, salvo che Carlo proprio non vuole. Più che la responsabilità di portare avanti la famiglia, più che la perdita di un collegio cardinalizio e del bel zuccotto di porpora, è forse la duchessa diciottenne a bloccarlo. Per tutta la vita si vanterà di non avere mai rivolto la parola a una donna in assenza di testimoni. Cominciò a digiunare, per quanto gli permetteva il fisico non esile; smise di ostentare le proprie ricchezze, licenziò ottanta servitori in una botta, creando probabilmente una crisi occupazionale. Fece il possibile per dimostrare di avere la stoffa da santo, e in pochi mesi la spuntò: nel 1563 lo zio papa lo consacrò definitivamente cardinale e prete. Aveva 26 anni, e in nome dello zio stava portando a termine i lavori del Concilio di Trento.



Ciao Carlo, controriformami questa!

Il Borromeo per la verità fece qualcosa di più che aprire e chiudere le ultime sessioni: le mise in pratica. In particolare la penultima, che rafforzava i privilegi (ma anche i doveri) dei vescovi e istituiva la pratica delle visite pastorali. Non era la prima volta che la Chiesa romana si dava nuove regole chiare e definite; non era la prima volta che regole del genere rimanevano lettera morta. Ma una volta terminati i lavori, il Borromeo si ricordò che lo zio lo aveva nominato arcivescovo di Milano. Era un titolo come tanti, come principe di Galles per Carlo, nessuno si aspetta che lui viva davvero in Galles, e nessuno si aspettava che il nipotino del Papa a Milano ci andasse davvero. Erano decenni che la città campava senza un arcivescovo stanziale, e nessuno sembrava lamentarsene. Ma Carlo aveva capito che il suo posto era là, in quella metropoli padana che in venti secoli non è mai riuscita a essere capitale di niente di definito, e che ogni tanto forse per ripicca riscopre un’anima arcigna, teocratica. All’opposto di Roma, che si era fatta cattolica per continuare a essere in un qualche modo il capo dell’universo mondo, per Milano tornare a Dio significa chiudersi al mondo e riscoprire in profondità sé stessa, nelle vecchie ossa dei suoi martiri misteriosi, Gervasio e Protasio, tornare agli anni di gloria in cui Ambrogio regnava e non faceva entrare nemmeno l’imperatore Teodosio. Un santo non poteva regnare a Roma, a Milano sì. A Milano Carlo Borromeo arriva nel ’65: forse la prima cosa che vede è un’incisione oscena che campeggia su porta Tosa (oggi Vittoria), una donna che lo accoglie a gambe divaricate: una prostituta? La moglie di Federico Barbarossa ritratta a pube rasato per spregio? Le leggende si sprecano, l’unica cosa certa la scoprì il Borromeo ordinandone l’immediata rimozione: era stata scolpita su una pietra tombale romana. A essere deposto col fregio della Tosa è tutto un medioevo carnascialesco e beffardo, che la Controriforma sta mettendo definitivamente in cantina. Il cardinale castissimo si adopera affinché preti frati e religiose osservino finalmente, se non la castità, almeno il celibato; introduce le grate perforate nei confessionali, innalza barriere tra navate maschili e femminili nelle chiese, fa il possibile per contrastare balli, giuochi a carte e a pallone; più volte mostra di ignorare la separazione tra Stato e Chiesa, incarcerando chi gli pare, per esempio con l’accusa di adulterio e concubinato; e in mezzo a tutto ciò si conquista la fiducia di milanesi e brianzoli, donando a piene mani quello che nel frattempo rosicchiava da qualcun altro – dagli Umiliati, per esempio.



In giro per Milano, sotto un cielo sempre nero.

La peste di Milano è l’esempio più efficace della difficoltà che abbiamo, a cinque secoli di distanza, a dare un’immagine coerente di San Carlo. Siamo prigionieri di due narrazioni di parte: per i beghini, anche di spessore, Carlo diede in quell’occasione la dimostrazione di cosa deve fare un uomo di Chiesa e un vescovo in particolare: donare e donarsi, sprezzante dei rischi personali, con abnegazione ma anche con organizzazione, gestendo gli aiuti e sostituendosi allo Stato che in certe situazioni, guarda caso, non c’è mai, chissà perché. Ma per fortuna c’è la Chiesa, per fortuna c’è Carlo che provvede. È quella che i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.

Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.

Avrete senz’altro riconosciuto don Lisander. Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.

Quando con l’inasprirsi della carestia tutte le famiglie abbienti, già gravate da pesantissime imposte, si dissanguano per sfamare migliaia di miserabili affluiti a Milano dalle inaridite campagne, l’esentasse san Carlo, l’uomo più ricco della città, volta la schiena all’esterrefatto messo comunale incaricato della colletta, che bruscamente riaccompagnato alla porta dai valletti arcivescovili, annota sulla lista tramandataci, fittissima di nomi e cifre, sotto il nome di Carlo Borromeo: “Non diè del suo“. (Da un’opera assai più oscura, ma non priva di interesse, e soprattutto di riferimenti bibliografici)



“Polpettine e patatine croccanti”.


Carlo Borromeo morì a quarantasei anni (1584) durante una visita pastorale intorno al suo lago Maggiore. I digiuni, lo stress per gli impegni e i viaggi continui, erano riusciti dove l’archibugio aveva fallito. Canonizzarlo fu relativamente semplice, ma durante il processo vennero fuori miracoli piuttosto bizzarri. Uno è troppo buffo per non essere apocrifo: Carlo avrebbe guarito una ragazza da un dolore alla mammella succhiandone il latte. Dove è facile intendere come il vero miracolo per lui fosse toccare una tetta: la repulsione per le forme femminili faceva già parte della sua leggenda. Carlo muore relativamente giovane, prima di potersi mettere in discussione, ma anche prima di essere corrotto dal potere, prima di accettare viaggi premio ai tropici e ammettere abbinamenti arditi nel suo guardaroba. I milanesi lo ricorderanno sempre per quella peste in cui a un certo punto nell’ospedale mancarono i lenzuoli bianchi e lui offrì quel che gli era rimasto: e per un po’ i malati dormirono in panni color porpora, prerogativa cardinalizia.

Essendo vissuto nei cinque decenni centrali del sedicesimo secolo, proprio quando la pianta fa il suo timido ingresso tra le coltivazioni europee, il pur frugale Carlo Borromeo non ha mai mangiato una patata in vita sua. Tre e secoli e mezzo dopo la sua morte, nei dintorni di una chiesetta a lui intitolata, in via Lecco 18, un rosticciere ha l’idea non del tutto originale di friggere, tra le altre cose, delle patate in sottili sfoglie. Distribuite ai forni della zona, le “patatine croccanti” diventano presto una specialità richiestissima. Dopo quattro anni, per far fronte alla domanda, il forno deve spostarsi, mantenendo però l’antica denominazione “San Carlo”. Ecco risolto l’enigma che tormentava i lettori non milanesi sin dall’inizio di questo lungo pezzo. Sì, perché, non ce ne vogliano gli abitanti dell’inclito capoluogo, nel resto del mondo di rito non ambrosiano San-Carlo è essenzialmente il nome di un sacchetto di patatine fritte, che certo, ha rovinato l’appetito di milioni di bambini, ma non ha mai mandato al rogo o alla forca nessuno. Sic transit gloria coeli – voi comunque che preferireste? Dare il nome a una patata o a una peste?
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Repubblica e l'internet che non c'è

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Scene da un futuro anteriore.

Ieri ho fatto una cosa che faccio sempre più di rado: ho comprato la Repubblica di carta. Ero in cerca di approcci provinciali al dibattito sull'accorpamento delle province, e so che in questo la Rep non mi delude mai; per esempio stavolta c'era una paginata dedicata a personaggi illustri a cui veniva chiesto di dire qualcosa di campanilistico, un pisano è riuscito a dire che i livornesi sono i migliori amici dell'uomo, roba così. Sullo sfondo c'è la più grande (e drastica) risistemazione delle entità amministrative locali in Italia, però a Repubblica hanno deciso che è solo una rissa a chi ha il campanile più lungo, e non c'è verso di uscirne. Ne parliamo un'altra volta.

Ieri ho comprato la Repubblica di carta. È una cosa che faccio sempre più di rado, perché - banalmente - su internet trovo quasi tutto quello che mi serve. Forse proprio perché non la compro più spesso riesco a notare le differenze, come con gli amici che smetti di vedere tutti i giorni. Ecco, rispetto a qualche mese fa, credo che a Repubblica stiano sviluppando un'ossessione per internet. Non siamo ancora al livello dell'ossessione televisiva che dilagò su tutti i quotidiani nazionali negli anni '90, quando si parlava per pagine e pagine di quello che era successo in tv la sera prima; però la direzione mi sembra quella. Per dire, la prima cosa che ieri si leggeva in alto a sinistra era: "YouTube" (no, in realtà si leggeva "La cultura", ma era un titoletto: e sotto il sottotitolo: "YouTube anni '70").

Dici: che c'è di male a parlare di internet? Non c'è niente di male, tanto più che effettivamente un sacco di cose ormai succede su internet. Il problema è l'ossessione. L'ossessione ti spinge a vedere anche cose che non succedono, su un internet che non c'è. Ieri su Repubblica, a pagina 3, si leggevano le seguenti, incredibili righe:

Il fortino di Casaleggio vanta il supporto di almeno dieci internauti capaci di un indice klout superiore a 75 (indice che valuta da 1 a 100 la capacità di influenza sui social network). Vuol dire che ciascuno di quei dieci "megafoni" è in grado di contattare, influenzare, condizionare almeno 100 mila persone, centomila elettori. Dunque un milione, giusto per capire di che numeri parliamo. E di quanto il virtuale stia acquisendo nel giro di poche settimane peso politico reale, si stia trasformando in consensi e in voti.

Non saprei neanche da dove iniziare. Ammetto di non essere andato a controllare chi siano i dieci internauti casaleggiani con un indice superiore a 75, dal momento che considero l'indice klout una simpatica scemenza, come tante su internet, che non misura certo il tuo grado di influenza - o meglio, qualche cosa la misurerà, per esempio se fai una grossa cazzata on line e tutti ne parlano, il tuo indice klut aumenta. Sarebbe interessante cercare di capire come funziona klout, che senso abbia klout, se valga la pena di misurare qualsiasi cosa con i parametri di klout, ma non ho tempo e vorrei che passasse un messaggio semplice: caro Carmelo Lopapa, chi ti ha detto che con 75 punti klout riesci a "contattare, influenzare, condizionare almeno 100mila persone" ti stava prendendo per il culo, ok? Ma di brutto. Non è che già che c'era ti ha venduto una certa fontana barocca a Roma, posizione centralissima, sei sicuro? In ogni caso, se ci fossero anche dieci persone in Italia in grado di influenzare 100mila persone scribacchiando cosine su internet, messe assieme non farebbero un milione. Non è così che funziona. È un po' come dire che siccome in Italia siamo 60 milioni, e abbiamo tutti avuto un papà e una mamma, allora i nostri genitori erano 120 milioni. Non si fanno queste moltiplicazioni nelle scienze sociali. Casaleggio avrà pure i suoi influencer, e loro avranno pure qualche decina di migliaia di utenti nel loro parco buoi: però non hanno dieci parchi buoi diversi, ne hanno uno solo. Vale un milione di voti? Non so, non credo, d'altro canto su scala nazionale un milione di voti non è nemmeno un granché. Ma se davvero il fortino di Casaleggio ha questa potenza di fuoco, mi spieghi perché Grillo, che ha un'età, continua a fare campagna con la cosa meno virtuale e internettiana che esista, il suo corpo? Che bisogno c'era di farsi lo stretto a nuoto, e di comiziare piazza per piazza, il tutto per tirar su nemmeno 300.000 voti? Non poteva mandare avanti i suoi dieci uomini d'oro?

Ma chi è che continua a spacciare la bufala di Casaleggio eminenza dell'internet, giusto perché gestisce il blog di Beppe Grillo? Lopapa, ma lo sai che in questo momento Casaleggio e Grillo sono il principale ostacolo all'evoluzione internettistica del Movimento 5 Stelle, dove c'è un sacco di gente che vorrebbe passare a una piattaforma digitale più decente? Dai, a noi puoi dircelo, chi è che ti ha evangelizzato su Klout? Ahimè, il pezzo prosegue così:

Il deputato Pd Mario Adinolfi - tra i più attenti osservatori e frequentatori del web -

Ahi.

Nell'inserto culturale poi c'è una paginata di Deaglio dedicata interamente a un tumblr (davvero bello e interessante). In effetti potrebbe anche essere una novità assoluta, un momento storico, la prima volta che un tumblr va su Repubblica. Conta poco che dalle nostre parti ormai Tumblr sia percepito una cosa simpatica ma un po' vecchiotta, diciamo, quasi modernariato. Su Repubblica ne parlano come di una nuova dimensione della fisica, qualcosa che non può nemmeno essere immaginato, per cui ogni espressione verbale deve rimanere nel vago, nell'approssimativo. "È una sorta di sito", dice l'occhiello: chissà poi perché, una sorta. Deaglio in realtà riesce a definirlo con una certa precisione: "per intenderci, è una specie di blog, però fatto solo di immagini e di un breve testo"; dovendo definire il 90% dei tumblr che conosco, non sarei altrettanto sintetico e preciso. Mi rimane il dubbio che molti lettori di Repubblica nemmeno sappiano cosa sia un blog, e forse lo stesso dubbio deve avere assalito Deaglio o il titolista, che a un certo punto hanno deciso di farla più semplice e paragonare il tumblr a youTube. Perché? Non è chiaro, salvo che youtube lo sanno più o meno tutti cos'è. La paginata si intitola infatti METTI YOUTUBE NEGLI ANNI '70, e forse è semplicemente un paraculissimo tentativo di attirare i lettori ventenni (youtube) e i cinquantenni (anni settanta!), un po' come in Notte prima degli esami qualcuno ha pensato di mettere Vaporidis con Venditti e ha fatto il botto.

Il problema semmai sono quelli come me, che di fronte a un titolo così vanno in confusione e restano per cinque minuti a pensare: ma in che senso? Youtube? Negli anni Settanta? Ma c'è un sacco di '70 su Youtube. O vuole dire un'altra cosa? Youtube+Settanta uguale a? Uguale a? Trovato! TecheTecheTe'! No, aspetta, parla di un tumblr. Ma ci sono dei video? No. E allora perché dice che è youtube se invece è un tumblr? Ecco, mentre un emisfero del cervello continua a farsi 'ste domande cretine, l'altro sta leggendo un pezzo di Deaglio che sembra costruito con avanzi di testi di Battiato:

Anche se è solo un piccolo esperimento (per ora), si tratta della distruzione di vecchie categorie interpretative, della loro frantumazione e della loro riproposizione, come tante palline di mercurio, in un movimento non organizzato. Un vecchio brodo culturale, che se ne stava dimenticato in un’ampolla, ma che però costituiva il Sacro Testo della nostra interpretazione degli eventi, viene agitato e versato sulla tovaglia. Sporca, certo, come un blog o un primordiale YouTube; ma, proprio per questo, ti obbliga ad intervenire. Crea un caos, che necessita di risposte. Decostruisce, frantuma, è acefalo come solo può esserlo la cronaca, ma ha un grande dono. È storia, non solo vera, ma soprattutto viva. E se questa è un’operazione a posteriori aiuta però ad immaginare come ora leggiamo il presente, immersi in un collage di immagini, testi, video dove cronologia e causalità sono scomparse.

Anche qui, boh. Deaglio, non so bene come dirtelo, è un tumblr. Un tumblr molto superiore alla media, ma comunque è un tumblr. La cosa più normale del mondo, ormai. E comunque l'abitudine a postare schizzi randomizzati di brodo culturale del nostro passato recente esisteva prima di tumblr, è uno dei motivi per cui certi mattoidi aprivano siti nei preistorici anni Novanta. Dopodiché, l'emozione di trovarsi davanti lacerti di un passato condiviso, e la sorpresa di trovarli molto diversi dal passato conservato nei ricordi, è una cosa che capisco benissimo. Ma con tutto il rispetto, internet è piena di posti così; la cosa veramente nuova è che ne hai finalmente trovato uno, e magari ci hai passato una notte intera: benvenuto! Sei uno di noi!

In un vecchissimo romanzo Urania, L'occhio del purgatorio, un pittore soffriva di una sindrome che non gli consentiva più di vedere gli oggetti nel loro presente, ma solo in un futuro che accelerava sempre più: dopo qualche tempo vedeva solo scheletri al posto delle persone, solo macerie al posto delle case, eccetera. L'unico sistema per vedere le cose intorno a sé era scattare fotografie: le vedeva già invecchiate, ingiallite, ma erano le uniche immagini del presente che riusciva a percepire. Ecco, se compro Repubblica ormai ci trovo qualcosa del genere: mi parlano del mondo in cui vivo, un mondo in cui ci sono i social network, c'è youtube, ci sono anche i tumblr, insomma ci sono anch'io... ma tutto è stranamente ingiallito, virato seppia, come se Wells fosse arrivato qui con la sua Macchina del Tempo vittoriana, avesse scattato una foto, e dopo un secolo io vedessi la foto su un tumblr. Un futuro anteriore.
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Tredici mesi in paradiso

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Santi agiografati per nazionalità
1° novembre - Tutti i Santi

Oggi, come ben sapete, è la festa di tutti i santi, in cui, secondo la più genuina tradizione italiana ci si lamenta del fatto che Halloween non sia una tradizione italiana. Poi uno va a vedere e scopre che distribuivamo dolci e intagliavamo le zucche fin dal medioevo. Ne abbiamo parlato già l'anno scorso, non vorrei ripetermi troppo. Il primo novembre è anche l'ovvio onomastico di questo blog, che a tutti i santi è dedicato: quale occasione migliore per fare un bilancio dei primi tredici mesi assieme?

Per prima cosa: grazie. Grazie ai redattori del Post, per l'ospitalità e la sollecitudine; al direttore che mi ha lasciato praticamente carta bianca, senza sapere dove sarebbe andata a parare la cosa, visto che all'inizio non lo sapevo bene neanch'io. Ma soprattutto grazie a voi lettori, mi è più comodo dirvelo oggi che non vi è possibile rispondere nei commenti: grazie, siete matti, grazie. Non so esattamente quanti siate, magari non tantissimi, ma siete veramente affettuosi ed entusiasti, in un modo che a volte m'imbarazza. Non so se si è capito, ma chi scrive queste storie non è esattamente un esperto, anche se sperava di farsi una cultura strada facendo, ma poi è stato un anno difficile, urla di bambini nel cuore della notte, e poi la crisi, le cavallette, il terremoto... vi meritavate un agiografo migliore. Più professionale, diciamo. Magari col tempo, con l'impegno. E ora vediamo il consuntivo.

In 13 mesi (400 giorni, più o meno) ho scritto 70 pezzi. Pensavo meno. 69 sono stati dedicati a ricorrenze del calendario cattolico, uno a Steve Jobs (ci entrerà, ma è ancora un po' presto). Considerato che la Madonna si è presa da sola quattro pezzi (Rosario, Loreto, Fatima e Assunta, e non siamo neanche a metà), in tutto abbiamo ospitato 11089 santi, più un numero imprecisato di neonati fatti ammazzare da Erode. Se dal conto togliamo anche le diecimila leggendarie vergini di Orsola, e i 25 compagni di Paolo Miki (loro purtroppo realmente esistiti, e realmente crocefissi), si raggiunge la più ragionevole cifra di 64 santi (62 santi e due beati): 17 donne, 46 uomini, un pezzo di legno. Su 17 donne, cinque si chiamavano Maria, tre Teresa; tra i maschi il nome più frequente è Giovanni (4 se contiamo anche Francesco d'Assisi, che sul certificato di battesimo si chiamava così: e mi è sfuggito il Battista). Sono ovviamente pochi rispetto alle migliaia che ormai popolano il martirologio romano. Ma il vero guaio è che sono anche mal distribuiti (continua sul Post...)
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Vuoi più bene a Sallusti o a Wikipedia?

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Well Done, Colombus!

Il primo post mai pubblicato su questo blog, quasi 12 anni fa, era un appello contro un progetto di legge-bavaglio. Non esisteva ancora l'espressione, legge-bavaglio, ma esisteva già il concetto e anche un certo allarmismo di fondo. In seguito credo non sia passato un anno senza un progetto di legge-bavaglio che ci costringesse a chiedere aiuto, e che quasi sempre all'ultimo momento veniva scongiurato, più che dai nostri risibili sforzi, dall'improvviso apparir del buonsenso. Come se a un certo punto da qualche parte in parlamento ci fosse una specie di imbuto, un filtro, qualcuno che si legge tutte le leggi strane che stanno per andare al Quirinale,  scuote la testa e dice "ma siete scemi?". Forse esiste davvero un personaggio così, anche se è difficile pensare che l'abbia votato qualcuno. Forse è un usciere.

Comunque io a un certo punto mi sono stancato e non protesto più: al limite quando mi denunceranno sul serio, chiuderò il blog, e finalmente avrà una risposta la domanda che mi arrovella da anni, ovvero: può l'internet italiana fare a meno di me? Credo di sì, ma non ho mai verificato, capite, e quindi il dubbio che tutto possa andare in malora nel giro di una settimana un po' serpeggia. No, scherzo.

Invece Wikipedia, ecco, lei non dovrebbe scherzare. Se davvero la comunità italiana di Wiki ritiene che la nuova legge salva-Sallusti sia una concreta minaccia, forse bisognerebbe trarre le conseguenze e chiudere tutto. Fine. Lo dico non soltanto con la morte nel cuore, ma anche con una punta di panico, perché ormai senza wikipedia non riesco nemmeno a ricordarmi non dico l'anno dell'editto di Tessalonica, ma quello in cui sono nato io. Ma proprio per questo credo sia la cosa giusta da fare. Ricordo ancora lo sbigottimento di quel paio di giorni in cui it.wikipedia andò giù, sempre per protestare contro una legge-bavaglio che non passò. Ecco. Stavolta proporrei una cosa più drastica. Una bella pagina 404 e pedalare. Dopodiché, sarebbe molto interessante vedere cosa succede.

Per prima cosa, i giornalisti. Vediamo cosa riescono a fare i giornalisti senza la wikipedia italiana. Vediamo al primo coccodrillo illustre, alla prima emergenza di qualche tipo. Vediamo se riescono ancora a sbrigarsela senza l'enciclopedia on line, una volta ce la facevano, vediamo.

Vediamo come se la cavano quelli che dovevano assolutamente salvare il collega Sallusti, perché non esiste, assolutamente, che un direttore responsabile che non verifica le falsità infamanti scritte da un giornalista radiato dall'albo sul suo quotidiano, e che in seguito si rifiuta di rettificarle, e quando lo portano in tribunale non paga nemmeno un avvocato decente, e quando lo condannano rifiuta la multa e l'assegnazione ai servizi sociali, e viceversa fa pressione per andare in galera il più presto possibile... non esiste che uno così vada in galera, è un sopruso, un affronto alla categoria, insomma bisogna fare una legge al più presto per impedire a un direttore responsabile che si rifiuta di rettificare le infamie scritte da un giornalista radiato dall'albo di andare in galera; vediamo come si trovano il giorno dopo, un giorno in cui Sallusti sarà libero, e wikipedia non sarà più on line (che poi non si capisce perché per salvare Sallusti in galera ci dobbiamo andare noi che non prendiamo stipendi da direttori responsabili, ma vabbe').

Magari non avranno nessuna difficoltà e continueranno a scrivere pezzi bene informati, come hanno sempre fatto. Magari a furia di copiarsi a vicenda tra quotidiani e agenzie daranno vita a un nuovo network di condivisione, un nuovo grumo di conoscenza che prima non esisteva, qualcosa di assolutamente inedito! E allora ne sarà valsa la pena. Ma nel frattempo, noi?

Beh, è persino banale. Nel frattempo noi consulteremo la wiki inglese. E le altre. Ma soprattutto quella inglese. Non troveremo esattamente tutto quello che c'era in quella italiana, ma col tempo riusciremo ad allargarla un po', ad adattarla alle nostre peninsulari esigenze. Nel frattempo, con ogni probabilità, il nostro inglese sarà molto migliorato. L'abitudine a usarlo ogni volta che ci serve una nozione ci renderà progressivamente naturale l'adoperarlo anche tra noi, e a quel punto cominceremo a scrivere - finalmente! - anche i nostri post in inglese. Da quel momento per la legge italiana saranno quasi invisibili, e il problema sarà risolto. Insomma, il modo per evitare questa e le prossime leggi bavaglio promosse dal parlamento italiano è semplice (ancorché un po' doloroso): basta uccidere la lingua italiana. Come lo chiamano, gli albionici, un espediente un po' rozzo, ai limiti della violenza, ma efficace? Ce l'ho sul tip of my tongue, si dice... Egg of Columbus, that's it. Bye.
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La colpa di Renzi

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Schuld have been right.

Volendo io scrivere il pezzo antirenziano della settimana, pescando tra i cento mille spunti che il buon Renzi lascia dietro di sé, potrei far presente che a Radio KissKiss ha appena detto che vedrebbe bene un nuovo inno del PD scritto dai Muse. Ma è così facile che forse è una trappola, per cui ritorno a un reportage dal camper della scorsa settimana dove, dissimulato in mezzo a due o tre marche di merendine che Renzi sgranocchia un po' per fame un po' perché fa giovane (pringles-tarallucci-tuc, e magari fosse product placement, magari), compare una parola tedesca che, come molte parole tedesche, mi causa brividi in certe zone precise della schiena: Schuld.
Un fallimento che nasce a mio avviso per due ragioni. La prima è che se la Seconda Repubblica è finita così è perché c'è stata una certa sinistra che in tutti questi anni non ha saputo combattere con le giuste armi Silvio Berlusconi: e se l'Italia che vediamo oggi si ritrova in queste condizioni la colpa va divisa in parti uguali tra chi ha governato e chi non è riuscito a creare le alternative al cattivo governo. La seconda ragione riguarda invece un fallimento elementare. La generazione di cui fa parte l'attuale classe dirigente del Pd è infatti la generazione che ci ha portato ad avere il debito pubblico che ci ritroviamo oggi. E in questo senso, per me, la parola 'debito' va intesa come la intendono i tedeschi, come un'unica parola - schuld - che significa contemporaneamente debito e colpa. Ecco. Per me è una colpa di tutta la classe dirigente di centrodestra e di centrosinistra quella di aver costretto il paese a spendere ogni anno per gli interessi del debito pubblico più soldi di quanti se ne spendono per la scuola e per il welfare, e insomma più di quanti se ne spendono per dare un futuro ai nostri figli e ai nostri nonni. Per questo noi ci presentiamo alle primarie senza dover portare alcuna giustificazione e senza aver bisogno di spiegare, come invece devono fare i miei avversari, perché il paese che qualcuno da vent'anni promette di rimettere a posto è da vent'anni che non viene mai rimesso a posto. E non ditemi che la colpa è solo di Berlusconi, suvvia, perché se non ricordo male negli ultimi vent'anni al potere in Italia c'è stato anche qualcun altro. O mi sbaglio?"
Non sbaglia: negli ultimi vent'anni, al governo, c'è stato Amato ('93: manovra da 92.000 miliardi), Dini ('95, con maggioranza bipartisan), Prodi ('96-97), D'Alema, ('98-99) di nuovo Amato ('00), di nuovo Prodi ('06-07 con una maggioranza risicatissima). È abbastanza semplice, ancorché un po' brigoso, mostrare come tutti questi governi - in particolare quelli di Prodi e Amato - cercarono di risanare la situazione, ottenendo anche discreti risultati, pur dovendo nel frattempo contrastare il fuoco di fila mediatico di un signore che possedeva metà dell'etere televisivo e chiamava i suoi fedeli a insorgere contro l'oppressione fiscale. Comunque, anche se questi signori qualcosa riuscirono a fare, per Renzi non sconfissero Berlusconi (ed è vero), quindi "la colpa va divisa in parti uguali". Dice proprio "colpa", e lo ripete più volte. Non dice "responsabilità", o "conseguenza degli errori". Sceglie di usare la parola "colpa", che in tedesco si può tradurre Schuld, che vuol dire anche "debito".

(A me resta poi la curiosità di capire quali siano le "giuste armi" che la sinistra doveva e non ha usato contro Berlusconi: mi viene subito da pensare a una bella legge sul conflitto di interessi, argomento che non mi sembra appassioni Renzi. Non ho neanche capito in che modo pensa di sconfiggerlo adesso, visto che Berlusconi è ancora qui che inquina il dibattito politico, con o senza effetti sullo spread, un'emergenza democratica ambulante: sul serio, qualche idea? Batterlo in piacioneria? Ad es., si potrebbe andare in una radio giovane e attizzare i giovani con nomi di gruppi giovani. Qualcuno nello staff ha ascoltato una radio giovane negli ultimi dieci anni? No, accidenti, ci hanno tutti l'ipod e non hanno idea, i Muse hanno appena compiuto vent'anni di attività).

La parola colpa mi ha fatto tornare in mente quel che Monti diceva a Obama a proposito dei tedeschi: non dei loro rappresentanti politici, ma della loro opinione pubblica, che secondo Monti considera ancora l'economia «come un ramo della filosofia morale». Monti è un uomo d'altri tempi, lo si capisce anche da citazioni così. Se lo dovessi tradurre in duemilaedodiciese, direi che i tedeschi sono ancora prigionieri di una narrazione in cui i buoni risultati economici sono la ricompensa per essersi comportati bene in passato: in sostanza la favoletta della Formica e la cicala, peraltro nemmeno nella versione di Rodari dove alla fine la cicala viene ammessa nel consesso cooperativo delle formiche e integrata nel soviet dei musicisti e degli operatori dello spettacolo; no, proprio nella favola originale in cui la cicala muore di freddo, così impara. I tedeschi, gli europei del nord in generale, in una favola del genere si trovano confortevoli; i loro leader non hanno alcun interesse a far presente i notevoli benefici che i loro formicai hanno tratto dall'euro, e i rischi oggettivi che ora corrono le loro banche se le cicale vanno in bancarotta. Da un punto di vista elettorale continua a pagare di più questo luteranismo un po' cialtrone per cui i PIGS non stanno che espiando i loro peccati. Le loro colpe. I loro debiti. Schulden. 

È una mentalità che in alta Italia conosciamo bene: invece di porsi concretamente il problema di avviare un qualche tipo di economia funzionante al sud, da un certo punto in poi il nostro ceto dirigente-imprenditoriale ha deciso che il sud doveva espiare i suoi peccati. Per accettare una narrazione del genere bisognava tapparsi occhi e orecchie (si vendevano foulard verdi all'uopo); fingere che il meridione non avesse dato al nord mercati e forza lavoro; era una prospettiva illusoria e condannata al fallimento, ma intanto faceva vincere le elezioni, e quindi ok. Il leghismo in questo momento ha qualche difficoltà, ma intanto l'Europa sta soffrendo dello stesso male. Una mentalità retriva, nel senso originale della parola: di fronte a un problema che si presenta adesso, qui, invece di ragionare sugli sviluppi futuri, ci si ferma a guardare indietro, agli errori dei padri e dei padri dei padri. Dobbiamo espiare.

Renzi, per essere onesti, non dice questo. In un certo senso dice il contrario: voi dovete espiare, noi no perché non c'eravamo (equidem natus non eram, dice l'agnellino nell'altra favola). Eravamo giovani, ascoltavamo i... i Muse. Però lo schema di colpa ed espiazione è lo stesso: Renzi non esce della narrazione. Tante volte si è accreditato come blairiano (una volta o l'altra bisognerebbe anche capire perché proprio Blair, ben più muffo dei Muse a saperlo annusare), ma qui si mostra piuttosto merkeliano. Non si tratta di impostare un paradigma nuovo, ma di accettare che i Debiti sono Colpe, purché sia chiaro che le Colpe non devono ricadere sui Figli. La scommessa insomma è quella di offrire qualche vecchio politico sconfitto come vittima sacrificale. Naturalmente non è così che vanno le cose, ma Renzi probabilmente lo sa. Però sa anche che si possono vincere elezioni, a volte, raccontando favole così.
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Vai avanti tu

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Sembra passata un'eternità, eppure il vecchietto che oggi ha vivacizzato un piovoso sabato pomeriggio col suo nostalgico show di proclami e recriminazioni, un anno fa era ancora presidente del Consiglio dei Ministri. La sola idea dà un po' la vertigine: quante cose sono successe nel frattempo. Troppe. Certi anni passano lisci, altri ti danno davvero la sensazione di invecchiare.

Proprio un anno fa a Bruxelles, al termine di un vertice a 27 dell'Unione Europea, l'allora presidente francese Sarkozy e la cancelliera Merkel concedevano una conferenza stampa congiunta. Quando una giornalista chiese loro se si fidavano delle rassicurazioni sulla situazione italiana offerte dal presidente Berlusconi, i due invece di rispondere immediatamente si guardarono, e sorrisero. Poi Sarkozy si decise a rispondere, e confermò la fiducia nei confronti delle istituzioni italiane. Non nominò Berlusconi. Per molti fu il vero segno della fine: l'Europa si fidava dell'Italia, ma non poteva trattenersi dal ridere di Berlusconi, che le ultime vicende erotico-giudiziarie avevano reso definitivamente impresentabile. A quel punto le dimissioni erano ormai una formalità, Napolitano ne stava già probabilmente discutendo con il non ancora senatore a vita Mario Monti.

Sull'episodio è tornato Berlusconi nella sua conferenza-fiume, vagamente gheddafiana, accusando la Merkel e Sarkozy di avere assassinato la sua credibilità internazionale coi loro "sorrisetti". Di tante accuse a vanvera forse questa è la più rivelatrice (continua sull'Unita.it H1t#151).

Un anno fa il Popolo della Libertà aveva preso per buona la versione ufficiale di Sarkozy: non c’era stato nessun “sorrisetto”, ma un semplice scambio di sguardi imbarazzato tra due governanti che non sapevano a chi toccasse rispondere. Intanto, però, mentre Sarkozy guardava sorridente la Merkel, e la Merkel per un attimo rimaneva di ghiaccio, la platea dei giornalisti si era messa a ridere. La vera risata liberatoria, quella che seppellì definitivamente la carriera di statista di Berlusconi, non fu quella dei governanti, ma quella dei giornalisti (una bella differenza con quelli che ancora oggi a Roma si uniscono deferenti agli applausi della sua claque).
Riguardando il video, a un anno di distanza, continuo a pensare che la versione ufficiale sia anche quella corretta: Sarkozy e la Merkel non volevano ridere di Berlusconi. Erano solo incerti su chi dovesse rispondere: Sarkozy con la sua mimica voleva invitare la collega, lei forse non aveva ancora finito di ascoltare la traduzione in cuffia. Non ha comunque la minima importanza il fatto che presidente e cancelliere abbiano o no deriso pubblicamente Berlusconi: quel che importa è che questa derisione sia subito stata interpretata da tutti – giornalisti e pubblico – come assolutamente verosimile. Fu dal fondo della sala che partì il messaggio decisivo: il re era nudo. Sarkozy e la Merkel non fecero nulla per avallarlo. Nei secondi successivi Sarkozy fece viceversa il possibile per restare serio, sottoponendo a una certa tensione i muscoli facciali. Il Berlusconi che oggi li accusa si mette una volta di più contro l’evidenza dei fatti: non risero di lui, era lui a essere ridicolo.
Questo scollamento dalla realtà fino a un anno fa non ci stupiva. Berlusconi era uno di famiglia, invecchiato con noi: da anni lo prendevamo per matto, ma forse avevamo bisogno di un anno di pausa per renderci conto, come gli stranieri, di quanto fosse peggiorato davvero. La maschera grottesca che si è presentata oggi in tv non aveva altro da difendere che i propri interessi. Niente di nuovo: ma una volta almeno sapeva condirli con una retorica efficace, di uomo che conosce gli italiani e sa cosa vogliono. Invece il Berlusconi che abbiamo sentito oggi non ci capisce più. È convinto che il suo elettore medio non faccia la spesa perché terrorizzato dalle retate della Guardia di Finanza a Cortina o in Sardegna. Forse crede davvero che la paura di essere intercettati mentre sparliamo dei nostri amici ci impedisca di telefonare liberamente come un tempo. Non sa, non può sapere che ormai passiamo il tempo a sparlarci alle spalle su facebook. È restato ai cd-rom, Ghedini ne ha uno da regalare a tutti i giornalisti interessati. Molti di quei giornalisti non usano un cd-rom da anni, forse non hanno più nemmeno il lettore sui loro aggeggi portatili. Vivono – viviamo – in un altro mondo ormai. Un mondo tutt’altro che semplice, che ai vecchi tempi del folle Berlusconi guarda quasi con nostalgia. http://leonardo.blogspot.com
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Berlusconi ha vinto

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Delenda MMXII
Mi sono sempre chiesto se questa paginetta on line sarebbe sopravvissuta alla carriera politica di Silvio Berlusconi. Da come si stanno mettendo le cose in questi giorni, sembrerebbe di sì. Se ora non mi metto a brindare e a far trenini, è per due ragioni: primo, magari non è successo niente. Questi annunci e strombazzamenti sono solo pretattica. Se dopodomani SB vede un paio di sondaggi in cui il PdL continua a scendere, ci mette mezz'ora a organizzare un altro teatrino in cui scende in campo per le primarie perché è la Gente che glielo chiede. E per tre giorni avremo tutti parlato di nulla, come qualche mese fa.

Il secondo motivo è che ha vinto lui. Non so se qualcuno lo abbia scritto in questi giorni (purtroppo non sto leggendo molto), ma è un'osservazione persino banale. Si ritira invitto, come i grandi campioni. Secondo me non era un grande campione, ma la Storia mi sta dando torto. Non è che abbia vinto tutte le battaglie: qualcuna l'ha pure pareggiata, fu in particolare un professore reggiano a dargli un insospettabile filo da torcere, però alla fine conta il risultato e il risultato è davanti a tutti. SB scese in politica per salvare la sua azienda, e la sua azienda è ancora qui che condiziona l'intero mercato, ormai una balena spiaggiata ma per quindici anni si è tenuta illegalmente delle frequenze da cui non avrebbe potuto trasmettere. SB è sceso in politica per non andare in galera, e non ci è andato. Il resto è un dettaglio, ad es. la malora economica e culturale della repubblica italiana negli ultimi vent'anni: un piccolo effetto collaterale. SB è sceso in politica per difendere i suoi interessi, e ci è riuscito abbondantemente. Occorre dargliene atto, il che mi costa un po'.

Non mi consola l'essere stato uno di quelli che lo hanno considerato un nemico della democrazia sin dall'inizio, e di non aver mai smesso di pensarlo e di scriverlo, per quanto banale e ridondante stesse diventando il concetto: non mi consola scoprire dopo quindici anni che la pensavano come me anche Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini, e altri disgustosi voltagabbana che trovo molto più esecrabili di lui, che anzi (posso dirlo adesso), mi sta pure un po' simpatico, come certi ragazzini irresponsabili che non puoi rimproverare se ti rovinano un giocattolo: lo sapevi dall'inizio che distruggono tutto quello che trovano, sono fatti così: e a uno fatto così abbiamo fatto giocare con la repubblica per tutti questi anni. Silvio Berlusconi, semplicemente, non avrebbe mai potuto candidarsi per le elezioni politiche nel 1994, in quanto vincolato con lo Stato "per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica": decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957. Oscar Luigi Scalfaro, che era presidente nel '94 e che pure gode una fama di antiberlusconiano di ferro, ha la sua parte di responsabilità per aver consentito che un'azienda monopolista diventasse un partito. E la sua parte di responsabilità ce l'hanno i dirigenti progressisti di allora che lasciarono fare, tra cui Massimo D'Alema: fosse stato anche l'unico errore da lui commesso nella sua lunga carriera, è più che sufficiente per orientarne il giudizio dei posteri - quelli a cui fregherà qualcosa delle nostre faccende, speriamo non tanti.

Col tempo Berlusconi è diventato tante altre cose - a un certo punto sembrava essere diventato tutte le cose, che non ci fosse un aspetto negativo delle nostre esistenze che non fosse in un qualche modo definibile come una forma di berlusconismo. La retorica del "berlusconiano che è in me" la capisco benissimo e mi ci sono molto esercitato, ma spero non fino al punto di non riconoscere più la differenza tra la metafora e la cosa in sé. Voglio dire che il fatto che esista un berlusconismo culturale, che non finisce certo oggi, non ci deve distogliere dal fatto che esiste ancora un Silvio Berlusconi fisico, per quanto acciaccato, che continua a far soldi con un'azienda che si è conquistata illegalmente una fetta di mercato ai danni dei concorrenti e degli utenti (noi). Combattiamo il berlusconi che è in noi, d'accordo: ma combattiamo anche quel criminale che è fuori di noi, e che ha occupato per quindici anni le nostre frequenze con le sue scemenze, il nostro parlamento coi suoi lacché e, negli ultimi anni, con gli equini a cui non trovava altre stalle. E invece niente, l'ha fatta franca nel '93 e ce la farà anche stavolta, con la scusa che ormai i problemi sono ben altri e che smantellare Cologno non conviene a nessuno. Ci ha fregato 15 anni di democrazia ma va bene così, un bel precedente per i prossimi industriali a cui venga voglia di lavarsi il culo nei nostri emicicli istituzionali.

Il giorno in cui Berlusconi si ritira senza mai essere stato sconfitto, senza mai essere stato cacciato con la forza, è un giorno triste. Mi pare di aver scritto troppe volte che levarcelo dai piedi non avrebbe risolto nulla, ma che non avremmo mai cominciato a risolvere nulla finché non ce lo fossimo levato dai piedi. Ebbene, è ancora lì: ha ancora interessi da difendere, tanti prestanome da mandare in parlamento, un carrozzone di primarie da montare. La strategia credo sia ancora quella di provare a strappare un 20% e poi farlo pesare: se Casini e compagnia non sono vincolati, andiamo verso un'altra legislatura movimentata, con rischi di ribaltoni, compravendita di parlamentari eccetera. Insomma, non è finito un bel niente. Credo che ci sia un solo modo di finirla.

Occorre perseguirlo, non per quelle due o trecento infrazioni che non è riuscito a depenalizzare mentre (non) abitava a Palazzo Chigi, ma per il complesso della sua carriera politica, di cui bisogna riconoscere il carattere criminale. Occorre accusarlo, come merita, di alto tradimento: sequestrargli le proprietà di famiglia, insomma, per farla breve

- Infatti senatore il tempo stringe

Sì, insomma dicevo per farla breve bisogna distruggere Cologno. Grazie.
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Il paradosso delle braghe (del PD)

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Ieri Alessandro Gilioli, giornalista che stimo e che negli ultimi anni è diventato il punto di riferimento di un'area di sinistra comprensibilmente scontenta di come stanno andando le cose, ha sciolto la riserva e ha spiegato che non voterà per l'alleanza Pd-Sel (a dire il vero bisognerebbe dire Pd-Sel-Psi, ma mi rifiuto di considerare il Psi come qualcosa che esista).

Di motivi per non votare Pd-Sel, chiunque vinca le primarie, ce ne sono comunque tanti e non sto a contarli; mi interessa quello presentato da Gilioli, perché la sua rinuncia mi sembra la riedizione di un paradosso noto ma sempre affascinante: Gilioli ha letto la carta d'intenti e ha scoperto che c'è già, nero su bianco, un "accordo di legislatura con le forze del centro liberale", insomma Casini. Lui però Casini non lo vuole votare (come dargli torto) e quindi non vota nemmeno Pd-Sel. Come dargli torto.

Non glielo do. Anch'io preferirei, come lui, una coalizione (meglio ancora un partito) a vocazione maggioritaria, che vinca le elezioni e non cerchi i voti di nessun centrista infido. Purtroppo per ora i numeri non ci sono. Magari si sbagliano tutti i sondaggi, però Pd-Sel non ci arriva al cinquanta per cento, neanche ora che la campagna per le primarie sta entrando nel vivo. Sì, lo so, bisognava essere più coraggiosi, trovare sintesi inedite, conquistare i giovani ecc. ecc... però per ora le cose stanno così, al 50 non si arriva. A quel punto un accordo coi centristi rimane l'unica possibilità per non finire di nuovo all'opposizione e regalare altri cinque anni a una destra che veramente non se li merita, e chissà cosa ci combinerebbe. Questo i rappresentanti del Pd lo dicono da mesi, e lo scrivono nella Carta d'intenti affinché sia chiaro e sottoscritto da tutti gli alleati.

Quelli che invece non sono scritti, non sono decisi, sono i termini di un effettivo accordo con Casini e compagnia: non c'è scritto da nessuna parte che cercare un accordo con loro significhi calare le braghe. Il potere contrattuale che avranno il Pd e Sel dipende esattamente dal numero di seggi che avranno conquistato alle elezioni: se ne avranno pochi, dovranno concedere molto (e forse Casini comunque non accetterà, magari a destra trova di meglio); se ne avranno molti, dovranno concedere meno; se putacaso dovessero arrivare alla maggioranza - insciallah! ma una maggioranza vera, non quella disperata del Prodi 2006-07 - di un accordo coi centristi non ci sarebbe più bisogno. Banalmente: più voti prendiamo, meno la braga caliamo. Gilioli però non ci vuole votare, perché nella carta d'intenti abbiamo previsto l'eventualità di calarla, di quanto non si sa, però di calarla. Il paradosso è che più gente lo seguirà - e molta gente lo seguirà - più la braga, purtroppo, calerà. Pd e Sel vinceranno di misura, per avere un minimo di stabilità dovranno pietire il sostegno di Casini, quello chiederà e otterrà ministeri importanti, e Gilioli scriverà che ce l'aveva detto. Profezie che si autoavverano.

Il modo in cui Gilioli e altri usano il loro diritto di voto, la loro effettiva frazione di sovranità, continuo a trovarlo dopo tanti anni affascinante. Per protestare contro un eventualità (un accordo Pd-Sel-UdC) finiscono per creare le condizioni affinché questa eventualità si realizzi. È come se il voto avesse due componenti, una polemica e una aritmetica, e quella aritmetica non fosse così importante. L'importante è poter dichiarare che non hai votato per X; il fatto che aritmeticamente il tuo voto o il tuo non-voto abbia ottenuto il risultato preciso che volevi evitare (X è al governo) è per molti italiani irrilevante. Come se la croce sulla scheda elettorale fosse un atto di fede (da reclamare in pubblico), e non un piccolo atto performativo che oggettivamente indebolisce o rafforza un partito invece che un altro. Mi domando se non c'entri anche stavolta la scarsa cultura scientifica, ma ho paura di risultare ossessionante e la pianto qui.

Quanto a me, io continuo a pensare che la democrazia sia un gioco non particolarmente divertente, ma molto semplice: ho un voto, e l'unico modo efficace di usarlo è indirizzarlo al partito più vicino alle mie posizioni. Senza essere troppo, come si dice adesso, choosy. È veramente una banale questione di aritmetica: se non vuoi che governi X, vota Y. Facile. Bello proprio no, bello non si può dire, ma secondo me è facile. Però non passa. Boh.
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Il fungo comunicativo

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Sabbiolino va in prigione 

Abbiamo ormai capito (e ringrazio fuor d'ironia chi ce lo ha spiegato) che i membri della Commissione Grandi Rischi non sono stati condannati a sei anni per non avere previsto un terremoto - ci mancherebbe - ma per aver sbagliato le forme e le modalità della comunicazione alla cittadinanza. Siccome capita anche a me talvolta di comunicare, e non vorrei mai andare in galera, a questo punto mi sono chiesto come si fa ad azzeccare un messaggio che in sostanza dica: "non c'è motivo razionale per dormire fuori di casa ma fate pure". Discutendone su twitter con Anna Meldolesi, Luca Sofri ha messo assieme e tradotto un esempio di comunicazione corretta e professionale, opera di Peter Sandman, uno "specialista della comunicazione del rischio". Lo copio e incollo perché secondo me merita una riflessione.
Non ci sono basi scientifiche per concludere che la probabilità che avvenga un forte terremoto sia più alta dopo queste scosse piuttosto che in altri momenti. Ma allo stesso tempo non ci sono nemmeno prove scientifiche che dimostrano che il forte terremoto non ci sarà. Probabilmente prima o poi qui ci sarà un altro forte terremoto, ma noi, semplicemente, non possiamo predire quando avverrà (o quando non avverrà). Ci dispiace poter offrire alla gente così poca assistenza ma la verità è che non siamo in grado di stabilire se lo sciame sismico debba essere motivo di preoccupazione oppure no. Normalmente, gli sciami sismici non sono seguiti da terremoti violenti. Ma “normalmente” non vuol dire “sempre”. Possiamo sicuramente capire perché molte persone di questa comunità si sentano più sicure a lasciare le loro case quando cominciano le scosse e non abbiamo prove scientifiche che dicano che farlo sia una sciocchezza.
Mi sembra un bel messaggio, professionale e onesto. Fingiamo dunque che Sandman sia un membro della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile Italiana (chiamiamolo Sabbiolino), immaginiamo che dopo la riunione del 31 marzo esca dalla sala e reciti ai giornalisti questo messaggio. Secondo voi non finisce alla sbarra per omicidio colposo, in Italia? Spero di sbagliarmi, ma temo purtroppo che sì, Sabbiolino si beccherebbe anche lui i sei anni per aver  detto cose che, almeno nella prima parte del messaggio, avevano sostenuto anche gli altri membri della Commissione. Magari si erano espressi in modo più freddo, meno comunicativo, ma la sostanza è questa: non ci sono basi scientifiche per dire che sta arrivando la scossa forte. Fine. La scossa è poi arrivata, trecento persone sono morte, il giudice ha condannato la Commissione per omicidio colposo.

L'unico dubbio me lo fa venire l'ultima frase, che ho evidenziato. In quella frase è lecito leggere una garbata condiscendenza verso chi, in assenza di basi scientifiche voleva lasciare la propria casa: non possiamo scientificamente dirvi che sia una sciocchezza. Questo, lo concedo, è molto più professionale che brindare col Montepulciano davanti a una telecamera, come fece il portavoce della Protezione. Ma è l'ultima frase di un lungo comunicato, che le redazioni di quotidiani e tv locali avrebbero mutilato. Il titolo lo avrebbero fatto con la prima parte: SCOSSE ALL'AQUILA: GLI SCIENZIATI NON PREVEDONO UN FORTE SISMA. Oppure.

Oppure, per esigenze di drammatizzazione, avrebbero potuto fare l'inverso: mutilare la lunga prima parte, e dare risalto soltanto alla frase evidenziata. SCOSSE ALL'AQUILA: PER GLI SCIENZIATI "NON È UNA SCIOCCHEZZA" LASCIARE LE CASE. In questo modo si sarebbero effettivamente salvate molte vite, visto che la scossa forte poi c'è stata. Ma se non ci fosse stata (come era statisticamente più probabile)? Se non ci fosse stata, probabilmente lo stesso magistrato avrebbe portato alla sbarra Sabbiolino e compagni per procurato allarme: come si permettono questi esperti di gettare nel panico la popolazione dando informazioni distorte, peraltro non suffragate da evidenze scientifiche? Non solo non sanno comunicare in modo professionale, ma sono pure cattivi scienziati, ecc. ecc.

Anch'io sono convinto che all'Aquila (e non solo là) ci sia stato un problema di comunicazione. Se ritengo ingiusto farlo pagare agli scienziati, non è soltanto per il fatto che erano scienziati e non comunicatori professionisti. Secondo me non c'è professionalità che tenga, di fronte alla distorsione a cui sono sottoposte le notizia - tutte le notizie - sui media italiani. Il problema insomma è a monte, e non credo nemmeno che sia del tutto imputabile agli stessi operatori dell'informazione. Ancora più a monte ci siamo noi italiani, che non leggiamo più - che non sappiamo più leggere. La dichiarazione del signor Sabbiolino sarà anche professionale, ma è troppo lunga per la nostra soglia di attenzione. O leggiamo le prime cinque righe - e decidiamo che ci sta dicendo che non ci sarà un terremoto, quindi restiamo a dormire nel sottotetto - o ci sintonizziamo solo sulle ultime cinque, e a quel punto restiamo in tenda per tre mesi (non è un'esagerazione).

Ma nella maggior parte dei casi non leggiamo affatto. Nella maggior parte dei casi diamo retta a un conoscente che ha sentito, in tv, un servizio dove un tizio intervistava i passanti riguardo alla dichiarazione di uno scienziato che aveva detto che fuggire di casa non è una pazzia. È come se ogni singola notizia, ogni fatto in senso stretto, sprofondasse immediatamente in un fondale sabbioso, sollevando la sabbia in una specie di fungo che diventa subito più interessante e comunicativo del fatto in sé. Il fatto in sé scompare. È una cosa che possiamo notare tutti i giorni. Una settimana fa il ministro Profumo ha presentato un Ddl in cui si proponeva di aumentare l'orario (di lezione?) dei docenti da 18 a 24 ore settimanali. In seguito ha riconosciuto che un aumento del genere va contrattato, ma nel frattempo si è alzato un polverone di commenti indignati o entusiasti che impediscono al povero insegnante di capire esattamente se la notizia sussista o no: ci sono ancora sul tavolo queste 24 ore o non ci sono più? Giuro, non si capisce. E quelli che meno capiscono spesso sono quelli che possono accedere a internet: dove trovano tantissimi detriti spostati dall'entusiasmo e dall'indignazione, e poche informazioni in senso stretto. Risalire alle fonti non è solo un'abitudine che hanno in pochi: ormai è un'abilità che si conquista e si può perdere. Credo lo sappia benissimo Sofri, che dirige un quotidiano on line che ha un certo successo perché cerca di dar conto di ciò  che in teoria è scritto ovunque, e in pratica è ovunque sommerso dai detriti, dalle polemiche, dalle opinioni.

Ai primi di giugno, al mio paese, bastava stazionare a un incrocio con una pettorina e un casco antinfortunistico perché la gente si fermasse a chiederti informazioni sul terremoto: non quello già avvenuto, ma quello che doveva arrivare, perché in tv avevano detto che doveva arrivare. In tv, per quanto ne so, non dissero mai qualcosa del genere, nemmeno il più caciarone dei tg ne ebbe il coraggio. Tutti i tg però avevano dato sbrigativamente conto di un comunicato della Commissione che non escludeva il riattivarsi di una faglia (il che non si può escludere nemmeno stanotte e in generale mai). Il solito fungo aveva poi fatto il resto, e la gente fuggiva al mare perché aveva sentito parlare di una scossa imminente in tv. La sensazione di trovarsi all'improvviso investito dalla tribù smarrita del carisma di uno sciamano, semplicemente perché leggi Tersiscio e conosci un paio di nozioni concrete sul fracking o su un deposito di gas, è molto meno divertente di quanto non sembri da fuori. Anche perché alla fine alla gente non è che interessi più di tanto il fracking o la faglia: se si fermava a chiederti qualcosa, nove volte su dieci voleva sapere la stessa cosa che pretendeva dalla Commissione: posso tornare a dormire a casa o no? E non ha nessuna importanza che la sequenza stia calando secondo la legge di Omori: ancora oggi, se dici a qualcuno di tornare pure a dormire nel suo letto - e stanotte si riattiva la faglia - tu sei imputabile per omicidio colposo. Perché non sai comunicare bene. L'unica cosa è smettere di comunicare, come credo gli scienziati italiani dovrebbero fare. Ci pensino i giudici, al prossimo terremoto, a informare la popolazione in modo professionale e corretto. Almeno se sbagliano loro non vanno in galera.

Io ho una teoria su come siano andate le cose all'Aquila, che non riuscirò mai a provare e forse è meglio così: credo che la riunione del 31 abbia creato un fungo mediatico che la maggior parte degli aquilani ha decifrato come "no panic, state a casa". Non credo che abbia senso incolpare gli scienziati di averlo sollevato, perché si sarebbe sollevato comunque, qualsiasi cosa avessero detto. Mi ha fatto molto riflettere una cosa che ho letto su questo pezzo di Nature dell'anno scorso: all'Aquila c'era chi leggeva i quotidiani e consultava internet, e chi continuava a fare alla vecchia maniera. I tradizionalisti quella sera hanno dormito fuori. I beneinformati hanno dato un'occhiata alle news e hanno deciso di restare dentro. Le tradizioni ancestrali si sono mostrate più efficaci di internet. Non è una buona notizia: non solo perché facciamo fatica a trovare le informazioni su internet, ma anche perché ci stiamo dimenticando le vecchie tradizioni ancestrali. Ce ne andiamo brancolando nel buio, di buono c'è che possiamo sempre trovare qualcuno a cui dare la colpa, e un giudice che ci dia ragione.
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Se non crei panico sei un omicida

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Nel giugno scorso la Commissione Grandi Rischi - la stessa di cui si parla oggi a causa della controversa sentenza dell'Aquila - finì nell'occhio del ciclone per avere lasciato intendere, in un documento ufficiale, l'eventualità di un'altra forte scossa nella bassa emiliana. In questa zona, dove migliaia di persone e attività stavano cercando di riprendersi dall'incubo di fine maggio, la Commissione fu accusata senza mezzi termini di disfattismo. In realtà (ne diedi conto su questo blog) il documento non conteneva nessuna previsione; si limitava a indicare la zona più a rischio "nel caso di una ripresa dell’attività sismica nell’area già interessata dalla sequenza in corso". Quella che circolava sui quotidiani e nel passaparola tra bar e tendopoli era una non-notizia: stava per arrivare un'altra scossa forte, lo avevano detto gli scienziati. Che gli scienziati avessero in realtà scritto tutt'altro era ormai un dettaglio. La scossa forte non è poi arrivata - anche se lo sciame prosegue - e le accuse di allarmismo ingiustificato nei confronti della Commissione sono cadute nell'oblio, come succede sempre nei casi di profezia non riuscita. Se viceversa una scossa fosse arrivata, i membri della Commissione sarebbero stati portati sugli altari per una previsione che in realtà non avevano mai fatto (continua sull'Unita.it, H1t#150).

Così vanno le cose in Italia, un Paese che ha un rapporto complicato con la scienza. A scuola la studiamo poco, in compenso la veneriamo, come veneravamo prima di lei gli dei che ha sostituito. Non abbiamo la minima idea di come funzioni, ma ci fidiamo ciecamente di lei: è un libro con tutte le risposte, basta saperlo aprire alla pagina giusta. Quando scopriamo che non è così, che alcune pagine sono ancora vuote o lacunose, ci scandalizziamo. L’idea che i terremoti non si possano prevedere come gli acquazzoni tuttora ci destabilizza: sempre in giugno Grillo si domandava a cosa servissero i sismologi coi loro sismografi, visto che non sanno dare i giusti consigli alla popolazione. I sismologi, dal canto loro, si trovano in una situazione senza via d’uscita: in presenza di uno sciame sismico non possono certo escludere l’eventualità di una scossa catastrofica. Al massimo possono ricordare che è un’eventualità statisticamente limitata. Se poi la catastrofe, in barba alle statistiche, si avvera, verranno accusati di avere minimizzato il rischio e condannati per omicidio colposo (è il caso dell’Aquila); se invece non arriva, come nel giugno scorso, qualche cittadino, qualche industriale danneggiato dal panico potrebbe denunciarli per procurato allarme. Cosa resta a loro da fare?
Cambiare mestiere, probabilmente. Inutile ribadire che né all’Aquila né in Emilia la Commissione poteva prevedere il tempo e il luogo esatto di una scossa; inutile lamentarsi del fatto che le comunicazioni degli esperti vengano sistematicamente fraintese e distorte. Forse quella che manca tra gli italiani e gli scienziati è una lingua comune. Eppure il verbale della famigerata riunione del 31 marzo 2009 sembra abbastanza chiaro: i membri della Commissione non escludevano “‘in maniera assoluta” che potesse verificarsi un sisma distruttivo come quello del 1703, e tuttavia lo consideravano improbabile, dal momento che le scosse pur numerose registrate fino a quel momento non avevano nessun carattere precursore. Ma quello è il contenuto tecnico della riunione, quello che non interessa più nessuno. Se tutti i membri della Commissione ieri sono stati condannati per omicidio colposo è per un contenuto mediatico, qualcosa che nel verbale della riunione non c’era – ma che forse c’era sui titoli dei quotidiani locali l’indomani mattina, e senz’altro è rimasto nella memoria collettiva degli aquilani: un invito a dormire tranquilli nelle proprie case. Gli scienziati non scrissero questo, ma forse giornalisti e cittadini volevano sentirselo dire. La distorsione del messaggio fu probabilmente causata anche dalla polemica tra il capo della Protezione Civile Bertolaso e Giampaolo Giuliani, dalla necessità di prendere le distanze dal sismologo-fai-da-te che pochi giorni con le sue previsioni a base di radon aveva spaventato inutilmente gli abitanti di Sulmona. E tuttavia a pagare per ora non sono né Bertolaso né Giuliani, bensì degli esperti che fecero semplicemente il loro mestiere, senza prevedere o minimizzare nulla.
Il 28 gennaio del 2012, in seguito ad alcuni eventi sismici di lieve intensità in Valpadana, la Commissione diramò un breve comunicato in cui si paventava “la possibile riattivazione di strutture che in passato hanno generato terremoti di maggiori dimensioni (magnitudo 6 e oltre)”. La Commissione chiedeva pertanto “di curare in modo particolare l’aspetto della comunicazione in tutte le fasi del terremoto – prima, durante e dopo – in modo da trasmettere un messaggio coerente e conseguente alla popolazione e alle autorità”. Forse la maggiore attenzione della Commissione nei confronti della comunicazione, della necessità di un “messaggio coerente e conseguente”, è dovuta alla brutta esperienza dell’Aquila. Può darsi che gli incontri di prevenzione organizzati nei mesi successivi nelle scuole emiliane abbiano dato qualche frutto: senz’altro le migliaia di studenti che il mattino del 29 maggio evacuarono decine di scuole senza nessun grosso incidente sono la migliore dimostrazione che una politica di prevenzione, in Italia, è possibile. Certo, tra esperti e cittadini bisogna capirsi, e non sempre c’è la volontà (politica, culturale) di farlo. Da semi-terremotato posso testimoniare che la tentazione pre-moderna di prendersela con gli scienziati, di sacrificarli alla prima previsione fraintesa o errata, è ancora fortissima. http://leonardo.blogspot.com
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