Orientarsi tra le nuvole

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Cloud Atlas (Andy e Lana Wachowski, Tom Tykwer, 2011).

Hugo Weaving, avete presente? No. L'agente Smith, il cattivo di Matrix, precisamente, ecco, non è stato formattato, ma ha infettato la memoria fissa di quattro secoli. È diventato un negriero sudista nell'Ottocento, ma anche un killer californiano negli anni Settanta, e una sadica infermiera in un ospizio scozzese nel 2012. Condanna a morte i cloni che a NeoSeul, nel 2144, non vogliono più servire ai tavoli

Siamo nei mari del sud. Ma anche a Edimburgo nel 1936. Halle Berry, nel 1973, sta lavorando a un'inchiesta su una centrale nucleare malfunzionante, e invece dell'ingegnere Jack Lemmon incontra l'ingegnere Tom Hanks che però muore in circostanze misteriose ma è in circolazione 40 anni dopo sotto forma di scrittore burino che lancia i critici dai grattacieli. Siamo a Neo Seul nel 2144, i cloni servono ai tavoli. Siamo alle Hawaii, in un futuro alla Mad Max ma sempre con Tom Hanks e Halle Berry, quanto mi mancavano quelle preistorie all'ombra di rottami tecnologici, perché non ne fanno più? Perché non ne fanno di più? Siamo di nuovo nel 2012, e prima di andare a vedere Cloud Atlas dobbiamo verificare di avere tre ore e di essere gli spettatori adatti. Altrimenti rischiamo di addormentarci o innervosirci molto, e scrivere recensioni che ci sarebbe da buttarci dai grattacieli. Amare i film di fantascienza o d'azione non è una garanzia: metà del film non è ambientato nel futuro, non ci sono sparatorie ma compositori omosessuali disperati, pensionati in fuga dall'ospizio, ciurme ubriache. Io credo comunque di aver messo a punto il test ideale per Capire Se Sei Lo Spettatore Adatto. Una sola domanda, semplicissima, di quattro lettere: Lost?

No, sul serio, se ti dico Lost, come reagisci? Non ti piaceva, non lo hai mai visto? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti piaceva finché non è diventato una baracconata? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti è piaciuto quasi fino alla fine, ti sei bevuto con piacere anche le puntate ambientate nel Seicento o in Mesopotamia, non hai cambiato canale neanche quando personaggi invisibili hanno ordinato di spostare l'isola di qua e di là nel tempo e nello spazio? e mentre lo guardavi imploravi dio, ma più spesso gli sceneggiatori, di dare un ordine, un filo, un senso a ogni cosa? Forse sei lo spettatore adatto a Cloud Atlas. Non dico che ti piacerà come Lost - è troppo breve per dare quella forma di dipendenza - ma non ti deluderà nemmeno come le ultimissime puntate di Lost, quelle in cui gli sceneggiatori gridano: "Guardate i personaggi!" e intanto scappano con la grana. Per quanto ambizioso, con la sua struttura a sei piani, e non sempre definito nei dettagli, L'Atlante delle Nuvole non lascia alla fine quel senso dolciastro di fregatura. Un senso ce l'ha, una direzione dove andare a parare era prevista.

In certi momenti guardare Cloud Atlas è come sfogliare in piedi un fumetto in libreria (continua su +eventi): se non vi è mai capitato, forse è meglio che giriate alla larga. Se invece siete di quelli che cominciano a sfogliare per vedere se la storia vale la pena; a cui capita di trovarsi nel giro di pochi secondi immersi in una mezza dozzina di mondi diversi, genealogie di eroi che si incontrano e scontrano, roba da perdersi, ma stranamente non vi perdete, anzi riuscite a seguire tutto e dopo un po' la storia è finita, e state già dando un'occhiata per vedere se c'è un secondo volume; se siete quel tipo di lettori, varrà la pena anche dare un'occhiata a Cloud Atlas. Ci vuole una certa abilità, per seguire trame che si snodano rapide e tutt'altro che lineari - ma anche una gran disponibilità a farsela raccontare da affabulatori non convenzionali. Vale la pena giusto per ottenere la conferma: i Wachowski sono fumettisti. È da lì che vengono, forse è lì che dovrebbero tornare, dove gli unici limiti alla fantasia sono le chine e gli inchiostri e il formato delle tavole. Fare cinema dev'essere frustrante, quando dare forma a una semplice idea può costare milioni di dollari e gli spettatori pretendono di capire tutto alla prima visione.  Mi ricordo un personaggio di Matrix 3 che a un certo punto lo dice proprio in faccia a Morpheus: "Mi dispiace che non ci sia una spiegazione semplice per questo". Un modo educato per dire Hollywood fottiti.

 

Cloud Atlas in effetti non è passato per Hollywood, lo chiamano "film indipendente" anche se c'è un cast un po' stagionato ma da grandi occasioni (Hugh Grant, Susan Sarandon, Jim Broadbent, Jim Sturgess, Zhou Xun nuda) ed è costato cento milioni di dollari. In realtà è un blockbuster - però tedesco: il primo kolossal della cinematografia federale tedesca. Tre episodi su sei non sono girati dai Wachowski (che avevano comprato i diritti del libro dopo che Natalia Portman lo aveva fatto leggere a Lana sul set di V per Vendetta) ma da Tom Tykwer, il regista di Lola corre e Profumo, che per non far notare troppo la differenza mette una pistola in mano a Hugo Weaving e poi gli fa inseguire i buoni per le strade di San Francisco e per un attimo sembra che Matrix abbia infettato Starsky e Hutch. Però non è un film pretenzioso. O meglio. Una volta accettata l'ambiziosissima pretesa iniziale - offrire in tre ore la versione cinematografica di un romanzo ambientato in sei luoghi e tempi diversi - Tykwer e i Wachowski non si fanno prendere da nessuna ansia esplicativa, riducono gli spiegoni al minimo necessario, e portano a casa un film che possiamo guardarci d'un fiato anche se per due ore non abbiamo la minima idea di dove andrà a parare. La differenza, come in Lost, la fanno i personaggi (e gli interpreti): per quanto poco li vediamo sulla scena, ci affezioniamo abbastanza presto e restiamo fino alla fine curiosi del loro destino. Un sacco di cose ovviamente sfuggono, tanti dettagli meriterebbero una seconda visione, o addirittura il recupero del libro: però bisogna ammettere che date le condizioni di partenza gli autori sono stati onesti, si capisce che hanno tagliato tante cose e hanno privilegiato l'azione sulla filosofia. Non era scontato.

 

I Wachowski, a ogni film che scrivono, fondano una religione. Con Matrix riuscirono a riportare in voga la gnosi, non accadeva da una ventina di secoli. V per vendetta ha fatto arrabbiare Alan Moore (autore del fumetto originale) ma ha fornito ad anonymous e grillini una specie di manifesto, ideologicamente ambiguo quanto basta per trovarci tutto e il contrario di tutto. Quando ho visto il trailer di Cloud Atlas mi sono detto: l'hanno fatto di nuovo, stavolta hanno scoperto la metempsicosi. Bisogna dire che avevo appena visto the Master, dove la reincarnazione è una favola per spillare denaro alle vecchie ereditiere: ma anche ai nerd - e Dianetics nacque nei circoli di appassionati di fantascienza, non scordiamocelo - ecco, i nerd che dieci anni fa si bevevano la filosofia gnostica di Matrix mi sembrano pronti per cominciare a immaginare le loro vite precedenti e future: sono a quello snodo esistenziale e anagrafico in cui l'insofferenza per il proprio destino, se coltivata, può trasformarsi in allucinazione. Se c'era qualcuno in grado di piazzare a milioni di gonzi un film mistico sulla reincarnazione, quelli erano i Wachowski. Ma non l'hanno fatto; gli interessava di più raccontare una bella storia, anzi sei. L'argomento metempsicosi è liquidato con qualche battuta (ogni tanto due personaggi si domandano se non si sono già visti), e soprattutto è delegato ai trucchi e ai parrucchi. Che sono l'aspetto più discutibile del film: non solo perché se nell'episodio coreano monti gli occhi a mandorla sul faccione di Weaving qualche associazione antirazzista protesta formalmente, ma perché nell'episodio dell'ospizio ce lo troviamo truccato da infermiera e mi dispiace tanto, ma non è credibile: come il Tom Hanks scrittore pugile o Zhou Xun fanciulla del west, precipitiamo a livelli filodrammatici ed è un peccato. Ma alla fine è un peccato veniale perché chi rimane a vedere Cloud Atlas ha sospeso gran parte della sua incredulità: ha la stessa voglia di immergersi nella storia del ragazzino che sfoglia fumetti in piedi, o dei bambini intorno al fuoco, che chiedono una storia al vecchio del villaggio. Con tutta la sua complessità stratificata, con la sua filosofia di fondo che si può sintetizzare in Volemose Bene, Cloud Atlas non smette neanche per un istante di essere una favola per bambini che hanno voglia di stare alzati e di viaggiare un po' tra i mondi. Se ne avete voglia; in caso contrario, tenetevi decisamente alla larga da Cloud Atlas.

 

Cloud Atlas a Cuneo non c'è, in compenso dilaga in provincia: Al Cityplex di Alba (ore 21), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21 e 22, in quest'ultimo caso uscite all'una), al Vittoria di Bra (ore 21), al Bertola di Mondovì (ore 21), all'Italia di Saluzzo (ore 21) e al Cinecittà di Savigliano. Tenete conto che dura tre ore.

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I volenterosi coglioni di Berl.

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Quasi sette anni fa - qualcuno se ne ricorderà - Silvio Berlusconi movimentò gli ultimi giorni di campagna elettorale dichiarando che avrebbe vinto perché gli italiani non potevano essere in maggioranza "così coglioni da votare contro i loro interessi". Quel che successe a quel punto illustra bene il funzionamento paradossale del berlusconismo; non fu Forza Italia o la Lega a riprendere la frase e a trasformarla in uno slogan, ma i militanti di centrosinistra, nel tentativo di rovesciarla in senso ironico. Le iniziative di qualche blog (i social network erano ancora pochissimo diffusi) avrebbero avuto comunque un'eco piuttosto ridotta, se Repubblica-Kataweb non avesse deciso di dare un risalto nazionale alla "rabbia sul web" nata dal "tam tam on line", lanciando una petizione e pubblicando gli autoscatti dei lettori che si autodenunciavano ("io sono un coglione"). Le elezioni Berlusconi le perse per un soffio - in un certo senso le pareggiò - ma se si considerano i sondaggi di partenza, la campagna del 2006 fu uno dei suoi più notevoli risultati politici; probabilmente l'episodio dei coglioni non fu determinante, ma ci ricorda le regole del gioco. Mentre avversari (e anche alcuni alleati) convergono verso il centro, nella speranza di attirare gli indecisi, Berlusconi cerca di motivare i suoi elettori esponendosi allo sdegno degli avversari, accreditandosi come la vittima dell'ostilità comunista, giustizialista, eccetera eccetera (continua sull'Unita.it, H1t#161).

L’atteggiamento provocatorio (oggi che siamo tutti su internet potremmo definirlo trolling) gli riesce tanto più congeniale quanto più è istintivo; Berlusconi non ha bisogno di un tavolo di spin-doctors per definire “coglioni” gli elettori di sinistra, o consigliare un otorino a Lilli Gruber, o un ruolo di kapò a un europarlamentare. Sono cose che gli vengono naturali; le dicesse un altro, geleremmo di imbarazzo; le dice lui, ed è una festa per tutti. Non vediamo l’ora di propagarle via twitter o facebook, non vediamo l’ora di condividerle e riderci su. Questo tipo di attenzione scandalizzata è esattamente quello che va cercando, senz’altro con più affanno che in passato. La principale differenza, oltre all’età che si fa sentire, è il presenzialismo televisivo: Berlusconi aveva sempre mantenuto una certa distanza dai talk-show, anche in contesti per lui confortevoli come da Vespa si era sempre fatto organizzare dei monologhi, annessa claque e attrezzi di scena (la lavagna, il contratto con gli italiani). Ora che non può più permettersi di mandare avanti i portavoce, è ragionevole immaginare un’impennata di gaffes e provocazioni – confusamente lo sappiamo tutti, che B. è solo all’inizio, che le “giudichesse comuniste” sono un semplice antipasto. Lo sappiamo e siamo ansiosi che si scateni stasera da Santoro: senonché, che altro potrebbe dire o fare Berlusconi, che non abbia già fatto o detto negli ultimi vent’anni? Un Mussolini statista? Già fatto. Un Obama abbronzato? Fatto. Si è già paragonato a Cristo? Sì. D’altro canto è prerogativa degli artisti riuscire sempre a stupire, ed è ragionevole immaginare che ci riuscirà, e che i titoli più grandi dei giornali di venerdì saranno per lui. Dopodiché, dipenderà anche da quanto siamo coglioni. http://leonardo.blogspot.com
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Come cinguettare in campagna

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Ormai ci siamo, la campagna elettorale sta per iniziare. Tra poco conosceremo i candidati, e a quel punto succederanno cose diverse dal solito. Per esempio, cosa sarà di Twitter? Un mezzo semplice, gratuito, modernissimo, alla portata di tutti: potranno resistere, migliaia di candidati in tutt'Italia, alla tentazione di conquistare un po' di elettori sul social network più sintetico e in voga, lanciando slogan, sperimentando salacissime battute, cercando il dialogo con i follower? Temo proprio di no. Insomma, stanno per aprirsi le cataratte del ridicolo. Bisogna fare qualcosa, qualcosa che non sia necessariamente prepararsi i popcorn. E così, cari aspiranti parlamentari, ecco il mio Decalogo per Cinguettare in Campagna Elettorale Senza prendersi troppe beccate e schizzi di guano. Chi sono io per fare un decalogo? Non ha la minima importanza, sono uno che usa un po' twitter per i fatti suoi come chiunque. Per cui vedi all'art. 1.

1. Qualsiasi espertone voglia prenderti dei soldi per insegnarti a usare twitter ti vuole rifilare un pacco. Non hai speso soldi per imparare ad andare in bicicletta, ce la puoi fare anche con twitter. Tutto quello che ti scriverò qui sotto è orribilmente ovvio.

2. Twitter, in sé, non sposta un voto. Non lo farà. È inutile che cerchi di sembrare interessante, divertente, appassionato, quel che vuoi. E se ci provi per parecchio tempo, ti farai male del male da solo. Infatti, se vai all'art. 3 scopri che

3. Uno degli scopi principali di Twitter è far perdere del tempo a gente che, evidentemente, questo tempo da perdere ce l'ha. Magari anche tu ce l'hai, però tra due mesi si vota, rifletti bene. Porteresti a riparare la tua auto da un meccanico che è su twitter continuamente? Voteresti un tizio che twitta compulsivamente? No, e faresti bene. Per cui: hai già un profilo su twitter, e lo usi per cazzeggio? Chiudilo, sospendilo, metti un cartello che dica pressapoco "sono impegnato a vincere le elezioni e salvare l'Italia, ci vediamo tra un po'". Fa' vedere che non hai tutto questo tempo da perdere, in amore e su twitter vince chi fugge.

4. D'altro canto twitter costa infinitamente meno di un lancio d'agenzia, e quindi, se non hai un profilo ufficiale da candidato, forse è il caso di aprirlo. Per scriverci le stesse cose che dichiareresti ai giornali. E qui arriviamo al vero problema: cosa dichiareresti ai giornali? Che ti ha fatto ridere il tweet del candidato Sarcazzo che non conosce l'0rtografia? Non sei un vitellone al bar, magari lo eri il mese scorso; adesso sei un candidato alla Camera dei Deputati o al Senato della Repubblica, hai comprato almeno una cravatta? Comportarsi bene su twitter costa anche meno (continua sull'Unita.it, H1t#160).

5. Ma cosa li scrivi a fare gli slogan su twitter, sei un deficiente? Per lo stesso motivo per cui non si mettono i manifesti col tuo bel faccione nel punto in cui sei statisticamente sicuro che ci cacherà un cane, non si mettono gli slogan su twitter, dove si possono rimediare soltanto sberleffi e parodie. Tanto comunque non sposti un voto, ma almeno mostri di capire la differenza tra un social network e una bacheca pubblicitaria, magari un elettore su centomila apprezzerà che non interrompi il suo flusso di news e chiacchiere di amici con degli spot pubblicitari; e butta via.
6. E quindi cosa scriverai? Dichiarazioni ufficiali, di quelle assolutamente necessarie. Poche. Brevi. Senza repliche. Agenda degli impegni: nessuno verrà a sentirti a Buco di Sotto perché lo ha letto su twitter, ma almeno sapranno che ti stai dando da fare. E se hai un discorso più lungo e complesso da fare?
7. Se hai un discorso più lungo e complesso da fare, twitter non è il posto adatto. Non fare come i bimbominchia e Veltroni che fanno i tweet a puntate, riflettici bene: hai mai letto un tweet a puntate? Chi si legge i tweet a puntate? Metti il tuo discorso lungo su un blog e linkalo con un titolo interessante su twitter facebook e anche google plus, crepi l’avarizia. Se il titolo è interessante la gente cliccherà e leggerà. Se non sai scrivere titoli interessanti, affitta qualcuno bravo con i soldi che hai risparmiato mandando a quel paese il tizio che voleva farsi pagare per spiegarti come si va in bicicletta o su twitter.
8. Altri replicheranno. Se non è Napolitano Obama o Elvis Presley, ignorali. Tutti i discorsi sul medium orizzontale, lasciali ai gonzi che commentano beppegrillo.it (e Grillo, giustamente, non gli risponde). Nessun social network è veramente orizzontale e tu non hai proprio tempo per rispondere al primo che passa. Hai un lavoro da fare, una missione. Ti fermi solo un attimo per lasciare un avviso con le cose che stai facendo, e te ne vai. La gente ha diritto di prenderti in giro, tu hai il dovere di pensare a cose più importanti. Se non sai gestire  il dibattito lascia perdere twitter, o fallo scrivere a un collaboratore che sappia gestirlo.
9. Si stima che un candidato al parlamento della Repubblica un minimo di 140 caratteri senza errori di ortografia punteggiatura e sintassi dovrebbe riuscire a buttarli giù – Monti non ce l’ha fatta, ma quelli sono bocconiani, mica si può pretendere. Comunque un errore può scappare a tutti: si cancella e si riscrive. Se è passato troppo tempo, amen, la gente ti prenderà in giro: vedi al punto 8. Fregatene; se ti chiederanno conto della cosa risponderai che non sei bravo a trovare gli apostrofi col tablet, forse che importa qualcosa a qualcuno? Hai di meglio da fare che trovare gli apostrofi sui tablet, vivaddio.
10. I cancelletti (#), solo se lo ritieni necessario e sempre con la condiscendenza con cui balleresti la macarena alla festa di compleanno di tua figlia di sette anni. Se non hai capito di cosa sto parlando lascia pure perdere, tanto la possibilità che qualcuno rintracci il tuo fondamentale tweet tra un milione usando il cancelletto è inferiore a quella di conquistare dei voti su twitter, per cui vedi all’articolo 2.
Ecco qui. A dire il vero è parecchia roba, forse è un po’ complicata da ricordare. Ma se vuoi si può sintetizzare così: hai presente Mario Adinolfi? Ecco, il contrario.
E ora vai, giovane candidato (ma anche vecchio), twitter è tuo. Sarai un po’ noioso, non avrai molti follower, non farai molti danni, e alla fine della fiera prenderai gli stessi voti che avresti preso senza. Con qualche figuraccia in meno, sputaci su. http://leonardo.blogspot.com
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Puoi vivere senza the Master?

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The Master (Paul Thomas Anderson, 2012)

Freddy è un reduce che porta a spasso per gli Stati Uniti del dopoguerra i suoi traumi e la sua passione per i distillati non convenzionali (manda giù il solvente come fosse acqua). L'incontro con Lancaster Dodd, uno scrittore che sta fondando una religione, gli offre una possibilità di riscatto - a meno che il Master non lo stia semplicemente usando come cavia per i suoi esperimenti sul controllo delle menti più impressionabili. Gennaio, diciamocelo subito, sta diventando un mese impossibile per chi si ostina a mettere da parte quei sette, quattordici, ventotto euro da investire in biglietti al cinema. Forse è colpa dei cinepanettoni (è sempre colpa dei cinepanettoni) e della loro logica di occupazione massiccia delle sale durante le feste; l'impressione è che i gestori e i distributori italiani abbiano deciso di organizzare una specie di festival su scala nazionale. C'è una mezza dozzina di titoli imperdibili e altri tre o quattro che promettono bene (e quando mantengono sono sempre le sorprese migliori). Qualcuno per forza ce lo perderemo; ci consoleremo pensando che prima o poi lo recupereremo al videonoleggio - cosa che in molti casi ci dimenticheremo di fare perché siamo già indietro con questa o quella serie imperdibile e poi in realtà la sera siamo distrutti e tutto quello che desideriamo è sonnecchiare davanti a qualcuno che litiga da Floris o Santoro. Quindi passiamo senza indugio alla domanda cruciale: vale la pena di investire parte del proprio budget cinematografico nell'ultimo pluripremiato film di Paul Thomas Anderson, che come praticamente tutti i film di P.T. Anderson da Magnolia in poi (passando per il Petroliere) è già considerato un capolavoro? Dunque. Dipende.

Io, per esempio, ci andrei senz'altro, ma non so se faccio testo, ho una fissa per le religioni e una devozione per Philip Seymour Hoffman - per inciso posso capire i suoi devoti nel film, chi non aderirebbe a una religione fondata da Philip S. Hoffman nella sua versione gioviale e buffoncella? I cinefili non possono senz'altro perdersi il primo film girato in 65 millimetri in quasi vent'anni - sempre ammesso che trovino una sala che lo proietta in quel formato - però un cinefilo mica sta ad aspettare che gliene parli io, di The Master, un film che non ha preso il Leone d'Oro soltanto perché non si può dare allo stesso film a cui si dà la Coppa Volpi per il migliore protagonista, e non si poteva non dare la Volpi ex-aequo a Hoffman e Joaquin Phoenix. Per i profani The Master è semplicemente un film dalla fotografia stupenda, con due attori al massimo della forma. Entrambi avevano già avuto una possibilità di vincere un Oscar interpretando un biopic; peccato che sia successo nello stesso anno 2005, quando il Capote di Hofmann soffiò la statuetta al Johnny Cash di Walk the Line. Per cui se vi piace vedere attori in gara, è senz'altro il vostro film; c'è quasi da vergognarsi pensando a quanto ci stanno dando dentro per gente che se ne sta a guardarli sgranocchiando popcorn. Joaquin Phoenix sembra che sia andato in guerra davvero, ha la schiena deformata da una scoliosi e parla muovendo un solo lato del volto, come Popeye. Sul serio, dopo averlo visto torni a casa e la prima cosa che fai è cercare notizie su internet perché hai paura che non stia bene (continua su +eventi!)

In effetti negli ultimi anni ha fatto dei numeri interessanti Phoenix (ormai lo si può chiamare col cognome, non c’è più la necessità di rimarcare che non è il suo povero fratello). A un certo punto ha messo in giro la voce che si ritirava dal cinema per darsi al rap; si è fatto crescere la barba ed è andato da Letterman a fare scena muta masticando gomma, alla fine il conduttore lo ha salutato dicendo: “È un peccato che tu non abbia potuto essere con noi stasera”. In realtà Phoenix stava semplicemente promozionando il suo film in lavorazione, I’m still here, in cui impersona sé stesso molto spesso nudo mentre sniffa, ordina puttane al telefono, e a un certo punto qualcuno gli caga addosso mentre dorme (non l’ho visto). E poi per due anni non ha fatto più film, e ora arriva con questo, e che razza di film. Il suo Freddy fa paura, non lo vorresti mai sul tuo lato del marciapiede. Non c’è un solo fotogramma in cui appare in cui non hai paura che stia per fare qualcosa di orribile, ti riduci a sperare che si stia soltanto masturbando nei pantaloni. In realtà non sbrocca così spesso, ma che ansia che fa. Ed è il protagonista. Immedesimarsi in lui significa ammettere che non c’è una figura del test di Rorschach che non ti ricordi qualche organo genitale al lavoro; non è una cosa per cui tutti pagheremmo un biglietto, credo. Per dire, se siete al primo appuntamento magari provate Tornatore.

Ci fosse almeno qualche altro personaggio positivo, ma accidenti, non ce n’è. Intorno a Lancaster Dodd, lo scrittore pulp che sta fondando una setta, c’è il consueto codazzo di adoratori gregari e fulminati. La moglie (una stupenda Amy Adams in stato interessante) è la più antipatica di tutti. In effetti è forse il film più povero di personaggi positivi che io abbia visto, nel Petroliere c’era almeno un figlio che cercava di amare il patrigno, qui è tutto un concerto di fanatici maniaci e truffatori. Ti sorprendi ad aspettare che sullo schermo torni il Master perché lui, con tutte le sue teorie improvvisate alla bene e meglio, i suoi sermoni da predicatore da strapazzo… almeno è un tizio simpatico, a cui piace ridere e sperimentare cose nuove: bersi un distillato di trielina? Perché no, wow, è uno spasso, fammene ancora. E poi è Philip Seymour Hoffman, io lo seguirei dovunque; se venisse a dirmi dai rapiniamo la gioielleria dei nostri genitori, io con Philip ci andrei. Ma mettiamo che siate dei puristi, e che non andiate pazzi per i film doppiati: ecco, forse vale la pena di aspettare il dvd, ci sono almeno due scene fondamentali in cui Hoffman canta, e sono convinto che l’Hoffman originale non sia patetico come il doppiatore – ridicolo sì, patetico no, non so se mi sono spiegato. Per inciso, “trillion” in italiano significa “bilione”, non “trilione” come dicono i doppiatori. Vabbe’ che differenza farà direte voi? tre zeri di differenza, un trilione italiano è un milione di trillions inglesi. E la parola non è proprio lì per caso. 

C’è infatti la questione di scientology, che è uno dei motivi per cui the Master ha fatto tanto discutere (e quindi ha incassato molto bene, per un film d’autore). Per quanto regista e produzione abbiano ribadito che non è un film su Ron Hubbard, Anderson non ha veramente fatto molti tentativi per stornare i sospetti. Freddy conosce Lancaster su una nave, dove il Master riesce a concentrarsi sul suo lavoro evitando le polemiche (e le indagini federali). Hubbard rimase anni per mare, nominandosi commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Le tecniche di audit sviluppate da Lancaster sembrano molto simili a quelle di Dianetics o Scientology. La mitologia, le parole d’ordine… le anime che migrano di corpo in corpo per bilioni (non trilioni) di anni, sono concetti abbastanza familiari. E soprattutto, anche la più influente e carismatica delle mogli di Hubbard si chiamava Mary Sue. Manco il nome ha cambiato Anderson, allora dillo che cerchi rogna.

Non è chiaro se sia stata la questione Scientology a rendere difficile la produzione del film, con la Universal che a un certo punto si è tirata indietro.  Negli USA Scientology è ufficialmente considerata una religione, e va trattata con rispetto: se è meglio non fare film su Maometto, perché farli su Hubbard? Sappiamo che nel maggio dell’anno scorso Anderson ha voluto mostrare il film a Tom Cruise, che con lui vinse un Oscar per Magnolia. A Cruise il film non è piaciuto, soprattutto nel punto in cui il figlio primogenito liquida i discorsi del padre con una battuta: Non vedi che si sta inventando tutto? Anche il primogenito di Hubbard era scettico sulle teorie del padre. Giunse a cambiarsi il cognome, e si rifece vivo solo quando fu ora di reclamare un pezzo d’eredità. Insomma, è un film che parla veramente di Scientology. Ma se l’argomento vi incuriosisce, se vorreste capirne di più sulla storia di uno scrittore di fantascienza di serie B che fonda una religione (e una multinazionale del controllo pardon, autocontrollo delle menti), the Master rischia di deludervi: Scientology è solo un ingrediente, piccantissimo ma è solo uno di tanti. O forse il risultato finale, per quanto ottimo, risente delle difficoltà di percorso: Anderson ha rimesso le mani più volte nello script nel tentativo di ottenere qualcosa di finanziabile, e un po’ si sente. The Master è uno di quei film che ti fanno venire voglia di leggere il libro, perché sei sicuro che nel libro ci sia qualcosa di più esteso e profondo, magari qualche pensiero messo per iscritto che davanti allo schermo ti tocca immaginare di fronte a quei due faccioni magnetici ed esplosivi. Peccato che stavolta il libro non ci sia: the Master è una sceneggiatura originale (qui in una versione piuttosto diversa) in cui Anderson ha mescolato ingredienti originali e potenzialmente tossici: Dianetics, ma anche Steinbeck, e i ricordi di guerra di un grande caratterista, Jason Robards (l’anziano padre di Magnolia), una tensione forse edipica forse omoerotica forse tutte e due, e tante altre cose sullo sfondo difficili da distinguere. Il risultato sembra meno robusto del Petroliere, e forse non reggerebbe senza quei due giganti a tenere su tutto. Ma forse sono semplicemente deluso perché ho sviluppato una venerazione per Hoffman, e vorrei che qualcuno finalmente scrivesse un film maestoso tutto su di lui, un Quarto Potere per capirci. Secondo me se lo merita, e Ron Hubbard poteva essere il soggetto migliore, e Anderson l’autore giusto. Invece il regista aveva in mente un altro film – un film bellissimo. Ma se vi aspettavate anche voi l’epopea di un magnetico contafrottole interplanetario, rischiate di restare un po’ delusi.

The Master è al Cinema Monviso di Cuneo. Sbrigatevi, non si sa quanto lo terranno, e la prossima settimana ne escono tanti altri imperdibili. Buona visione (e buon Anno).
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I diavoli in Angela

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4 gennaio - Beata Angela da Foligno, mistica, maestra dei teologi, autolesionista

[Si legge completo qui].

(ATTENZIONE: dettagli repellenti. Poi non dire che non ve lo si era detto).

Dietro a ogni santa di successo c'è sempre un frate. La coppia folignate Arnaldo-Angela somiglia molto a quella, più famosa, formata da Caterina da Siena e Raimondo da Capua. Anche Arnaldo, come Raimondo, all'inizio non immagina nemmeno di essersi imbattuto in una santa: la prima volta che assiste a una crisi ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un'isterica. Sta accompagnando una comitiva di pellegrini alla basilica di Assisi, e all'improvviso quella lontana cugina si accuccia vicino alla porta della chiesa superiore e si mette a urlare Amore Perché M'Abbandoni? Una pazza, insomma, ed è pure sua parente. Angela sta urlando così perché ha improvvisamente perso la connessione con lo Spirito Santo, che l'aveva sorretta durante tutto il viaggio. Sulla scena accorrono altri frati, cominciano a fare domande, ma chi è questa, la conosci? C'è da sprofondare dalla vergogna. Questa è l'ultima volta che la porto. "Mai più in avvenire osasse metter piede in Assisi".

Più tardi alla vergogna per la figuraccia subentra la vergogna per averla saputa aiutare. Se si comporta così, è probabilmente posseduta da qualche spirito maligno: non è suo dovere indagare? Decide di sottoporre Angela a un rigoroso interrogatorio. La cugina si sottomette volentieri, ma le sue risposte sono così interessanti che Arnaldo smette di fare domande e la lascia parlare a briglie sempre più sciolte. Man mano che procede nelle sedute, il frate si convince di avere trovato una mistica di prim'ordine. Quando le rilegge un suo primo abbozzo, lei lo respinge come oscuro, ma soprattutto "privo di gusto": nel frattempo in paese la gente comincia a mormorare, guarda quel frate come le sta sempre attaccato. Le sue trascrizioni, frettolose e furtive, diventeranno il Liber, uno dei capolavori della mistica medievale. La mistica medievale è però piuttosto noiosa, così Angela da Foligno su internet è per lo più citata per quelle due o tre pratiche veramente hard che ha confessato al suo padre spirituale o ai destinatari delle sue lettere. Col rischio di farla apparire ancora più estrema di quanto non fosse: per esempio, non è esattamente vero, come ho letto più di una volta, che leccasse le ferite dei lebbrosi. Una volta, è vero, mentre stava pulendo le ferite putrefatte, bevve l'acqua sporca della bacinella (non fate così io ve l'avevo detto che si andava sul repellente; e siete ancora in tempo); a un certo punto sentì di avere ingoiato un pezzetto di carne, ma, per quanto volesse ingoiarlo, non ne fu in grado. E poi c'è la questione dei carboni ardenti nella vagina (IO VE L'AVEVO DETTO). In uno dei tanti periodi in cui si sentiva torturata e tentata da demoni, Angela ricorse anche a questo diversivo, ma Arnaldo glielo proibì.

Per queste e per altre aberrazioni, Angela può sembrare il personaggio ideale di un pamphlet anticattolico e antireligioso in generale, come ce n'è un po' dappertutto in rete. Anche qui non è che siamo esattamente su Avvenire; e però mi sembra che le cose siano un po' più complesse. Nei pamphlet la fanciulla vivrebbe libera e felice, ma viene costretta da torve famiglie a rinchiudersi in un convento. Non è esattamente il caso di Angela, che semmai era stata costretta a maritarsi, e che aveva avuto più di un figlio. Quando morirono, Angela (già quarantenne) "provò consolazione": finalmente il suo cuore era libero di donarsi a Dio. Nei pamphlet la religione ufficiale inocula nei fanciulli quei sensi di colpa che poi germineranno in masochismo e altre patologie; nel caso di Angela, che non sembrava vergognarsi di aver provato sollievo alla morte dell'intera famiglia, la religione ufficiale non incoraggiò e nemmeno autorizzò gli eccessi masochistici; cercò per quanto poteva di capire cosa stava succedendo alla povera suora. Frate Arnaldo non poteva certo inventarsi la psicanalisi da solo, anche se il caso effettivamente meritava. Fece del suo meglio, a rischio di mettersi nei guai. Era un frate spirituale a cavallo per Due e Trecento: il problema per lui si poneva nei termini: "Santa o posseduta?" Se era posseduta, si poteva ancora guarire. Se invece era una santa, andava incoraggiata (continua sul Post...)
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Buon anno col prepuzio o senza

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1° gennaio - Circoncisione di Gesù.

Fingiamo di lavorare in una cancelleria un trentun dicembre del millequattrocentoquarantanove - quasi millequattrocentocinquanta. Il vostro principe si sposa e voi dovete mandare biglietti di inviti a tutte le corti d'Europa. La data - il primo marzo - dovrebbe corrispondere in tutto il continente; non è ancora arrivata la riforma gregoriana a complicare le cose. Ma l'anno qual è? Eh. Dipende.

Se scrivete a qualche signore di Firenze, o a un pari d'Inghilterra, è ancora il primo marzo del '49: da loro il capodanno si festeggia il venticinque marzo. In fondo ha un senso, visto che gli anni si celebrano dalla nascita di Cristo, e per i cristiani la vita comincia col concepimento... Se però invitate anche qualche dignitario di altre città toscane, come Pisa, attenzione: da loro è già il primo marzo 1450. Pure a Pisa capodanno è il 25 marzo, ma dell'anno prima: anche questo se ci pensate ha un senso, se Gesù nasce il 25 dicembre, deve essere concepito nove mesi prima, non tre mesi dopo. Anche per i veneziani sarà già il 1450, non potete sbagliare: loro festeggiano il capodanno proprio quel giorno lì, il primo marzo. Per i bizantini, i pugliesi e i sardi invece è ancora il '49, e continuerà a essere il '49 fino ad agosto - e anche questo, se ci pensate, ha un senso, anzi forse nel torrido mediterraneo è la cosa che ha più senso di tutte: l'anno vero comincia il primo settembre. In Spagna è già il '50, con loro tutto sommato non si sbaglia mai, basta ricordare che l'anno comincia una settimana prima, il 25 dicembre. Il vero problema è se scrivete ai reali di Francia. In Francia infatti gli anni si contano dalla Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore, e anche questo potrebbe avrebbe un senso (ma non bisognerebbe detrarre 33 anni al computo?) non fosse per la complicazione che ogni anno la Pasqua cade in un giorno diverso. Che razza di casino. Perché? Possibile che per arrivare a sincronizzare i capodanni dell'Europa Occidentale abbiamo dovuto aspettare fino al Settecento? Come potevano resistere i nostri antenati, a tutta questa confusione e incertezza?

Resistevano benissimo. Avevano altre priorità: la maggior parte di loro nasceva viveva e moriva nello stesso luogo; la necessità di intendersi con i forestieri su curiosità come la numerazione dell'anno in corso non li toccava. Siamo noi a vivere l'ossessione della simultaneità, a sentirci obbligati a festeggiare tutti negli stessi giorni se non negli stessi minuti e secondi, con dirette sincronizzate da orologi atomici. L'incubo dell'Anno Mille come ce lo racconta Carducci, con le folle terrorizzate dall'arrivo del primo gennaio manco fosse l'apocalisse maya, "raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accosciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne’ chiostri", è una bufala ottocentesca: la maggior parte degli europei non aveva la minima idea di che anno fosse. Era il tot anno dalla nascita del tal re o imperatore o papa o figlio maschio o vacca da latte; per sapere quanti anni fossero passati dalla nascita di Gesù bisognava chiedere al prete, lui teneva il conto. Forse.

Comunque già alla fine del Seicento la diffusione del nuovo calendario gregoriano portò la maggior parte delle corti europee a uniformarsi (Venezia si arrese soltanto un secolo dopo, con Napoleone) e adottare il calendario che comincia il primo gennaio, secondo quello che è chiamato "stile della circoncisione". Infatti se assumiamo che Gesù sia nato il 25 dicembre, il primo gennaio è il giorno in cui secondo la legge ebraica sarebbe stato circonciso. Dunque noi non contiamo gli anni dalla nascita di Gesù (25/12) né dalla sua procreazione/incarnazione (25/3), ma dal momento in cui è diventato a tutti gli effetti un ebreo. Il primo gennaio è poi diventato ben presto anche il giorno della festa di Maria madre di Dio, ma il sospetto è che sia stato un espediente per dissimulare una verità ovvia quanto imbarazzante: Gesù era un ebreo. Circonciso.

I cristiani invece non sono circoncisi - la maggioranza, almeno (continua sul Post, buon anno a tutti col prepuzio o senza, e anche chi il pene proprio non ce l'ha. Che non è che si perdano 'sta gran cosa, diciamocelo).
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A proposito il blog è morto

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In azzurro il 2012, in arancione il 2011.

Consuntivo 2012

Sono contento che sia finito, è stato un anno difficile. Controintuitivamente, considerati gli impegni professionali, le responsabilità famigliari, le calamità naturali, è stato un anno in cui ho scritto molto. Molto anche per i miei standard, che sono già patologici. Questo bisogna sempre ricordarlo, perché siamo a fine 2012, internet ormai è diventato lo spazio tra un social network e un altro; i messaggi brevi stanno soppiantando i video che avevano soppiantato i pezzi lunghi; in questa fase un tizio che scrive duecento post lunghi all'anno, una media di due ogni tre giorni, è fuori da qualsiasi statistica, e quindi le sue statistiche sono una mera curiosità.

Se questo piccolo sito fosse un'impresa, questo consuntivo non sarebbe un bel momento. Cari dipendenti, continuiamo a produrre di più (post) e a ottenere meno (accessi). Gli accessi in particolare credo siano almeno tre anni che continuano ad andare giù, nel 2012 di un 15% rispetto all'anno precedente, che succede? Niente, è finita la moda dei blog e la gente ha smesso di scriverci sopra. Quasi tutti i blog con cui ci si lincava nel 2002 sono chiusi. Il traffico tra un blog e l'altro si è quasi ridotto a zero. Negli anni ruggenti veicolava ben più del 15% degli accessi, così magari il problema è tutto qua. Oppure scrivo più cazzate, già l'anno scorso mi ricordo che qualcuno avanzò questa ipotesi. Non è che io non l'abbia presa in considerazione; è solo che la correlazione più cazzate = meno accessi resta tutta da dimostrare. Stiamo qua a porci problemi di stile e contenuto e magari semplicemente google mi ha tolto una frazione di ranking sicché mi arrivano meno utenti nottambuli in cerca di foto di Di Caprio, va' a sapere.

In realtà sta cambiando tutto. Fino a qualche anno fa l'utente-tipo di un blog come questo era un abitudinario, che passava regolarmente 3-4 volte alla settimana, oppure si abbonava ai feed, e poi si leggeva tutto, o quasi. Questi utenti-tipo esistono ancora, però sono in diminuzione; il che dimostra la loro sanità mentale perché sul serio, non ha senso leggere tutto quello che scrivo io. Ogni tanto ne trovo ancora qualcuno che mi dice: ti ho letto per dieci anni, ma adesso non ce la faccio più. Come se il problema fosse che hanno smesso, a me sembra incredibile che siano durati per dieci anni. Io non ce la farei a leggere le opinioni di un tizio per dieci anni. Poi cosa vi aspettate, di andare ancora d'accordo con me? Vi è mai capitato di andare d'accordo con uno per dieci anni? Ma neanche con la mamma. Io per dire il tizio che scriveva i miei post nel 2003 non lo seguirei, anzi scapperei lontano. In effetti questo tipo di lettori-aficionados sta diminuendo, e chi scappa non viene rimpiazzato. C'è un gap generazionale, questo è un blog leggibile credo fino ai nati nell'ottantacinque, chi arriva dopo secondo me vede soltanto una lunga serie di incomprensibili segni neri tra un'immagine e un'altra.

Invece il nuovo lettore-tipo è un tizio che sta perlopiù su facebook, o su twitter, o su altri social più esotici, e tra un messaggio e una partita a farmville magari si ritrova in bacheca un link che sembra interessante: clicca e si ritrova qui. Questo potrebbe spiegare perché, se diminuiscono gli accessi, in compenso aumentano i picchi, ovvero quei momenti in cui molti utenti arrivano sul blog, attirati da un titolo o dal contenuto di un pezzo. Tanto che i pezzi più cliccati del 2012 sono anche quelli più cliccati del biennio 2011-2012.

07/mag/2012, 146 commenti
05/giu/2012, 34 commenti

16/ott/2012, 88 commenti


04/mar/2012, 64 commenti
18/gen/2012, 35 commenti


Poi se vogliamo parlare di qualità parliamone, è calata. Grazie tante che è calata, praticamente ormai questo è un blog che si scrive in sonnambula. Mi capita sempre più spesso di visitarlo con curiosità, trovare un pezzo (magari quello in cima) e mettermi a leggere perché non ho la minima idea di dove vada a parare, l'ho finito in trance alle tre del mattino e non mi ricordo come.

Poi ci sono altri fattori, per esempio: su 230 pezzi, 60 sono agiografie per il Post, che stanno andando bene (sul Post) e hanno trovato un loro nucleo di lettori fedeli che ringrazio, mentre invece su questo blog non se le filano in tantissimi. E ci sono anche quei 50 pezzi per l'Unità, anche loro concepiti per un pubblico un po' diverso. Forse il problema è che questo sito sta rapidamente cambiando la sua identità: fino a tutto l'anno scorso era ancora un blog vero e proprio, con uno stile vario ma riconoscibile. Negli ultimi mesi è diventata la bacheca personale di uno che scrive in tanti posti (tant'è che c'è gente che si lamenta: ma come, anche qui, ma basta). Lo so che era più bello prima. Tutto era più bello prima, però dopo dieci anni e più bisognava anche cercare di fare qualcos'altro, darsi degli obiettivi.

Non è neanche una questione di soldi, che sono sempre veramente pochi, così pochi che discuterne, oltre che ineducato, è persino ridicolo. Il 2012 è stato l'anno dell'arrivo in Italia dell'Huffington Post, che peraltro io leggo poco e anche voi; ma non importa: importa la filosofia che l'HuffPo sottende, e che si può sintetizzare in "scrivi gratis e ringrazia". Io non ce l'ho con chi scrive gratis, ci mancherebbe altro. Non credo che la produzione di opinioni gratis su internet possa abbattere il giornalismo, quello vero, fatto di inchieste sul campo. Sono ancora il primo a meravigliarmi che alcune mie opinioni, in determinati contesti, possano avere un prezzo. Non è una questione di soldi, è un tentativo di sembrare, dopo tanti anni, un po' professionale in quello che faccio. Mi pare che ancora non ci siamo. Però la strada è questa.

È stato un anno complicato, in cui ho scoperto che in situazioni di forte stress la mia risposta è chiudermi in casa e scrivere di più. Ho anche pubblicato una specie di libro, mi sembra già passato un secolo, ho paura a rileggerlo. L'anno prossimo dovrei continuare con i santi, aggiungere un po' di recensioni sui generis, invocare la distruzione di Cologno un paio di volte al mese, e altre cose che francamente non lo so, inventerò. Ma se vedete che scrivo poco non preoccupatevi, vuol dire che magari ho trovato un altro modo di star bene. Un grazie a tutti quelli che sono passati di qui e che ripasseranno, con moderazione mi raccomando.
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ll partito flottante

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Non c'è dubbio che queste primarie parlamentari del PD non siano le migliori primarie organizzabili dal migliore dei partiti possibili. Non c'è dubbio che il fine settimana sia uno dei più scomodi che si potevano trovare per gli elettori; non c'è dubbio che il poco tempo a disposizione abbia scoraggiato l'iniziativa di molti outsider a cui magari sarebbe bastata una settimana in più per sondare il terreno, raccogliere le firme, presentarsi al pubblico con un programma innovativo. Non c'è dubbio che una consultazione d'emergenza come questa non possa che rafforzare l'apparato, quella famosa struttura che è un punto di forza del PD ma è anche la cosa più criticata, e in certi casi davvero più criticabile del PD: il fatto che tra un sussulto e l'altro della società civile, tra un'ondata e l'altra di indignazione collettiva, nel PD ci sia gente che politica la fa tutti i giorni, la fa di mestiere, e se c'è da candidarsi ha già i manifesti pronti, uno staff pronto, eccetera.

Non c'è dubbio, insomma, che se pensavate che le primarie dovessero rappresentare una sfida della società liquida all'apparato, ecco, avete sbagliato partito, sbagliato anno, sbagliato tutto: niente di tragico, se avete bisogno di roba liquida ce n'è dappertutto, guardatevi in giro, sceglietevi il vostro partito liquido e non prendetevela con quella povera île flottante che è il PD. Non c'è dubbio che nel prossimo parlamento continueranno a sedere personaggi semisconosciuti che se fossero stati un po' più conosciuti probabilmente non sarebbero stati eletti, e alcuni di questi continueranno a essere esponenti del PD. Non c'è dubbio che i bersaniani partivano avvantaggiati, in generale chi è in vantaggio tende a essere avvantaggiato, prendetevela con La Palisse. Non c'è dubbio che una consultazione così frettolosa, quasi un colpo di mano, rischi di alienare la minoranza interna, già un po' demoralizzata dalla sconfitta pur onorevolissima di Renzi. Insomma dubbi proprio non ce n'è. O forse uno: se ci fosse stato più tempo per organizzarsi, per coinvolgere, per battibeccare, i vertici del PD sarebbero stati così lesti ad accettare l'idea quasi rivoluzionaria delle primarie? Ma più che un dubbio è un'insinuazione. No, il dubbio vero è uno solo: in una situazione del genere, con l'apparato che colonizza le primarie e le usa per legittimarsi, vale lo stesso la pena di andare a votare? Per gente che se non è sconosciuta è fin troppo conosciuta?

Secondo me sì, ma non sono sicuro del perché. Votare, si sa, è sempre un paradosso. Penso che chiunque abbia a cuore le primarie, chiunque sia convinto che siano il metodo giusto per riformare i partiti (io non ne sono convintissimo, ma ne parliamo un'altra volta) non si possa fare scappare l'occasione. Non c'è dubbio che non sia l'occasione migliore, ma è un precedente. I precedenti sono importanti: se queste primarie andranno male, sarà più difficile rifarne in futuro. Potrei anche approfittarne per spendere qualche parola in difesa dell'apparato, che negli anni non sempre è riuscito a mantenersi sopra la soglia della decenza, ma alla fine ci ha lasciato un partito in grado di organizzarsi nell'emergenza e provare a vincere. Ma difendere un'idea di politica come professione, al giorno d'oggi, è roba da bastian contrari persino più bastiani e più contrari di me. Del resto temo che non farò in tempo a votare, domani, ma non ha tantissima importanza il mio voto singolo. Mi piacerebbe però che votasse tanta gente, e che il PD - questo PD senza dubbio non perfetto, senza dubbio perfettibile, vincesse le elezioni. Dopodiché si può discutere di tutto. Ma almeno proviamo a vincere, proviamo a vedere cosa succede. Dopo tanti anni per me è ancora una questione di curiosità: cosa succede se per una volta tocca a noi? Ci è già successo e si è capito che non succede nulla di meraviglioso, anzi. Però ci riproverei.
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San Tecnico Martire

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San Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, tecnico e martire (1118-1170)

[Si legge completo qui]

Otford è un graziosa cittadina del Kent con un lieve difetto: non vi cantano gli usignoli. Anche prima che si disboscasse per far passare l'autostrada M26, a Otford di usignoli non ce n'è, o se ce n'è stanno zitti. Gli abitanti dicono che è colpa di San Thomas arcivescovo, o meglio: è colpa degli usignoli che cantavano troppo una notte che l'arcivescovo voleva pregare in santa pace: così li ha zittiti per sempre. In questo episodio, ovviamente apocrifo, c'è tutto il carattere di Thomas. Anche a Francesco d'Assisi, di una generazione più giovane, è attribuita la facoltà di silenziare gli uccelli: lo stile però è tutto diverso, Francesco tratta le rondini di Alviano da sorelle, gli usignoli di Otford per Thomas sono semplici seccatori. Francesco è il santo più amato, Thomas di recente ha partecipato a un controverso sondaggio sul "peggiore personaggio storico britannico" classificandosi secondo dietro a Jack lo Squartatore, il che è un'autentica ingiustizia: Becket non ha mai fatto a pezzi nessuno, semmai lui è stato fatto a pezzi, e dal suo sacrificio ci hanno guadagnato in tanti; e adesso lo snobbano.

L'ipotesi è che il vago sentimento di antipatia che circonda il più venerato santo inglese dipenda un po' dal fatto che Thomas è quello che oggi diremmo un tecnico: uno che chiami perché faccia un lavoro e lo faccia bene, e non t'interessa se nella sua intimità veste un cilicio o zittisce per sempre gli usignoli. Abbiamo tutti bisogno di tecnici, ma li odiamo. Forse perché intuiamo di essere totalmente in loro potere. Malediciamo gli idraulici, gli elettrauto li vorremmo morti, per loro fortuna non abbiamo cavalieri al nostro servizio che realizzino le nostre minacce. Thomas non fu altrettanto fortunato.

Suo padre era un mercante normanno che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra conquistata di fresco. Aveva amici nobili che avevano insegnato a Thomas a cacciare col falcone e altre menate aristocratiche cui non seppe rinunciare anche quando vestì l'abito di arcivescovo. L'amico più importante, l'abate Teobaldo di Bec, lo indirizzò agli studi, e lo prese al suo servizio quando gli affari del padre andarono male. Thomas aveva abbandonato l'università di Parigi dopo un anno, ma proseguì gli studi a Bologna e Auxerre. Nel frattempo Teobaldo era diventato arcivescovo di Canterbury, ovvero primate d'Inghilterra: colui cui spettava incoronare i re, per intenderci. A trentasei anni Thomas divenne il suo arcidiacono. A trentasette il re Enrico II, su consiglio di Teobaldo, lo nominò suo cancelliere. Fino a quel momento Thomas era stato un tecnico di diritto canonico: al re però serviva tutt'altro, un primo ministro che riuscisse a farsi pagare le tasse da tutti, compresi i grandi proprietari. E persino, sì, la Chiesa: anche da lei Enrico II pretendeva un tributo, lo so, è immaginabile, sono barbare usanze medievali che comunque il cancelliere Thomas assecondò. Il canonico dell'arcivescovo cambiò casacca e divenne un vero mastino laicista, uno strenuo difensore delle prerogative del regno. Forse è per questo che è arrivato secondo solo dietro a Jack the Ripper? Macché, questo è solo l'inizio. Sei anni dopo l'arcivescovo Teobaldo muore. Enrico II a quel punto ha una gran voglia di mettere al suo posto l'arcidiacono Thomas. Questi rifiuta più volte, e non lo fa per modestia - carattere che nessun cronisti gli attribuisce - in realtà conosce troppo bene sia Canterbury sia il re per non capire che il conflitto d'interessi lo stritolerà. Grazie, no, gli risponde: "Perderei la benevolenza di vostra maestà, e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare". Fu nientemeno che il Papa Alessandro III a sbloccare la situazione: conosceva Thomas e si fidava di lui. Oltre ad avere necessità del sostegno di un re: mezza Europa non lo riconosceva e Federico Barbarossa lo aveva rimpiazzato con un antipapa.

Alessandro comunque aveva visto giusto. Cambiata l'ennesima casacca, Thomas diventò un geloso difensore delle prerogative ecclesiastiche, tanto quanto prima era stato uno zelante difensore delle prerogative regie. Era evidentemente un tecnico, uno che di mestiere difendeva le prerogative del migliore offerente. Non significa necessariamente che fosse un uomo arido. Tra i vari incarichi che ricoprì, fu anche una specie di babysitter per il re: allevò per qualche anno il suo primogenito Enrico il Giovane, che tanto avrebbe desiderato diventare Enrico III, invano. Sembra che il Giovane abbia dichiarato di avere ricevuto da Thomas più affetto paterno in un giorno che dal suo vero padre in tutta la vita (continua sul Post).
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Il pane e le rose e il single malt

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La parte degli angeli (The Angels' Share), Ken Loach, 2012

Una volta, mille estati fa, all'officina di mio padre si fermò un camionista scozzese con un Tir in panne. Il rosso dei capelli proseguiva sul collo scottato. In un qualche modo riuscì a farsi capire dai miei - il mio inglese scolastico non fu di molto aiuto - e in capo a un paio di giorni se ne ripartì. Di lui rimase soltanto un bottiglione di un litro e mezzo di una cosa mai vista, un liquido arancio-ruggine, dimenticato nel nostri frigo - o forse lo aveva scambiato con del vino bianco credendo di farci anche un favore. La misteriosa sigla sull'etichetta ("IRN-BRU") sembrava alludere più a reagenti chimici che a una bibita frizzante. Ciononostante io e mio fratello provammo ad assaggiarla. Il primo sorso fugò ogni dubbio: era un reagente chimico. Oppure un crodino zuccherato. In ogni caso - decretammo dopo aver svuotato il litro e mezzo - era imbevibile.

Novecento estati più tardi mi ritrovai in Scozia immerso tra insegne che dicevano tutte IRN-BRU, IRN-BRU, sembrava che tutti fossero fieri di farti sapere che lì ti servivano il crodino zuccherato. Ne parlai con i miei ospiti e scoprii che il "ferro fermentato" (iron brew) non conteneva davvero ferro, macché, appena uno zerovirgolazero di citrato ferrico di ammonio... ed era la seconda bibita nazionale. "Tu ovviamente immagini qual è la prima".
"Veramente no qual è?"
"Lo scotch".

 Racconto questa storiellina per venire incontro allo spettatore italiano, che nell'ultimo film di Ken Loach sentirà parlare di costosissimi whisky pregiati. Per la verità cosa sia un whisky lo sappiamo più o meno tutti. Ma in un paio di scene i protagonisti si attaccano a dei bottiglioni di irn-bru: ecco, quella roba mi sa che la maggior parte degli spettatori qui da noi non l'ha mai vista né assaggiata. E invece è importante, ai fini della trama, sapere di che si tratta: che ha più o meno lo stesso colore di un nobile single malt, ma non potrebbe avere un sapore più diverso: è un bibitone dolciastro e plebeo, roba da camionisti arsi dal sole. Ed è tuttavia scozzesissimo, più scozzese dei kilt turistici che i personaggi indossano per mimetizzarsi mentre vanno verso le highlands a fare il colpo della vita in autostop. Credo che uno spettatore scozzese, di fronte al solo pensiero di un malt mill travasato in una bottiglia di... stop, non voglio raccontare la trama. Però secondo me, se non sai cos'è l'irn-bru, ti perdi un po' del divertimento (che continua su +eventi!)


Un altro prodotto britannico che invece conosciamo in tutto il mondo è il cinema di Ken Loach. Un po' prevedibile, come è giusto che sia dopo vent'anni senza grosse pause: in una periferia disagiata (quella di Glasgow è la più disagiata del Regno Unito), uno o più proletari operai o disoccupati (la seconda) vittima dell'ingiustizia sociale (una faida famigliare) lotta per riscattarsi. Ce la farà? Dipende tutto da Paul Laverty, che da 15 anni scrive le sceneggiature dei film di Loach. Se Laverty è di buon umore magari sì, ce la fa. Ma se sia una commedia o una tragedia non lo capisci mai fino agli ultimi cinque minuti. Se l'avanzo di galera riuscirà a rifarsi una vita dipende dal suo impegno, dalla determinazione a salvare la sua famiglia... ma anche e soprattutto dalla fortuna, non siamo mica a Hollywood.

Insomma è il solito Ken Loach? Sì. Cioè. Dipende molto dalla nostra disponibilità a stupirci. Persino chi apprezza Loach ormai non ha veramente voglia che Loach gli proponga qualcosa di troppo diverso. Loach deve fare Loach, deve dare voce a quella massa di proletari e sub- ormai esclusi dalla rappresentazione televisiva e cinematografica. Deve farci vedere gli oggetti di uso comune del Regno Unito in tutta la loro straordinaria bruttezza, per esempio: gli infissi. Un film di Loach lo riconosci dagli infissi, sono sempre orribili. Ci sono gli infissi orribili in questo film? Altroché. Però... c'è anche il whisky. Provate a rispondere senza barare, senza guardare la trama: come ve l'immaginate l'approccio di Ken Loach al whisky? È un prodotto di lusso, che richiede un lungo e facoltoso apprendistato per essere consumato consapevolmente. Ken Loach viceversa sembra più un tizio da irn-bru: i suoi film non hanno nulla di aristocratico; non serve per apprezzarli nessuna particolare educazione al medium cinematografico; raccontano storie semplici e lasciano in bocca un retrogusto ferroso e dolciastro.

Spero che nessuno si offenda se paragono Loach a una bibita frizzante: mi viene in mente Andy Warhol quando esaltava la democrazia di un'altra bibita ("Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone"). Tutti i film di Loach-Laverty sono più o meno uguali, tutti sono onesti, nessuno è un capolavoro. E allora tutto ti aspetteresti da loro tranne un film sul whisky in cui una botte di single malt da un milione di sterline non è descritta come un feticcio borghese, o un simbolo dell'aristocrazia, e l'invecchiamento non è una metafora del processo di accumulazione del Capitale. Se il cinema di Loach fosse semplicemente un compitino ideologico, come alcuni pensano, del whisky non si potrebbe parlare che così. Ma il cinema di Loach è per prima cosa un cinema di persone: e a una di queste persone, un bulletto di periferia incastrato in una faida infinita, capita la fortuna di avere il talento, il "naso" per il whisky. Che è tutt'altro che un feticcio, addirittura può diventare uno strumento di redenzione, ma in generale è trattato da Loach con il rispetto che si deve alle cose importanti, la famiglia il lavoro o il calcio. Il re dei degustatori è ritratto come un nobile saggio, la sua parola non è da mettere in discussione. Non è la solita tiritera sul pane e le rose, non nascerà nessun movimento per distribuire alcolici di pregio nelle periferie disagiate: Laverty si inventa un'occasione di riscatto individuale, sta al protagonista cogliere o no l'occasione, e se vuole coglierla davvero - questo è interessante - dovrà infrangere la legge. Qualcuno ha ricordato la saga dei soliti ignoti, ma questi ultimi rimediavano al massimo un piatto di pasta e ceci.

Se ci aspettavamo la solita lezioncina, potremmo anche sentirci a disagio: i personaggi saranno anche vittime della società, ma sono soprattutto quattro idioti senza arte né parte. Ce ne accorgiamo sin dalle prime scene, quando li vediamo in piedi davanti al giudice che li manda ai servizi sociali ed è perfino troppo buono. Questi rubano, bevono, picchiano senza sapere il perché. A portare un po' di luce, un po' di senso nella loro esistenza sarà il loro capocantiere, un appassionato di whisky che decide di iniziarli all'arte della degustazione. Il loro modo di riscattarsi sarà... organizzare una rapina. È inevitabile tifare per loro, ma la lezione qual è? A un certo punto una comparsa dice che è importante dare una occasione alle persone. Potrebbe essere la morale del film, ma se dai a un ladruncolo il senso del whisky, non si metterà semplicemente a rubare il whisky? Sì, ma nel farlo dimostrerà almeno un po' di sana progettualità. Insomma, è il solito film di Loach, ma è molto più ambiguo del solito, e meno ideologico di come me lo aspettavo. Forse dovrei smetterla di aspettarmi delle cose dai film, non sono lattine di bibite, non puoi sempre dare per scontato il sapore.

(La parte degli angeli è al cinema Fiamma di Cuneo. Buona visione!)
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