I miei amici sono anemici
27-01-2013, 13:19poesia, santiPermalink“I miei amici sono anemici”, mi dici,
si sono messi ai margini
di foto con cornici.
Non pranzano con gli astici,
si arrangian con le alici;
la mensa sa di ospizio di Sant'Angela Merìci.
I tuoi amici sono cinici, ci dici,
hanno scialato rendite, non certo in dentifrici.
Non serve essere aruspici per trarne infausti auspici:
staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci.
I miei amici son quei tipici infelici
che han fatto studi classici e ne han tratto i benefici:
non san quadrare i circoli, né estrarne le radici,
proteggerli è un lavoro per Sant'Angela Merìci.
Ex amici, han messo via i berretti frigi,
i riccioli li rasano per non mostrarli grigi.
Li trovi in ferie a Lerici più spesso che a Parigi,
ma è molto meglio perderli, da’ retta alla Merìci.
Amici un dì magnifici, ma han chiuso i maglifici,
e senza più bonifici da etruschi o da fenici
han perso accesso agli attici, non flertan con le attrici
non sanno a chi votarsi più (non certo alla Merìci).
***
I tuoi amici, inurbati un cupi uffici,
arcigni e artati artefici di artritici artifici,
stanno twittando striduli a troiette traditrici;
ti prego, trasferisciti in Sant’Angela Merìci.
Che accolga tra le accolite, le sue benefattrici
la bimba a cui, proselita, con mani protettrici,
la scala verso l'indaco indicava da pendici
che sono competenza di Sant’Angela Merìci.
12 anni
25-01-2013, 16:04autoreferenziali, blog, italianistica, replichePermalinkIl pregevole blog lo Zibaldone
"Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo. Lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.
Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?
Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, balbettava... aveva crisi di panico nei luoghi affollati... al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica... Io quelli che fanno così... non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…
No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.
Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…
Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque? Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro.
Ma ve l'ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava... Entro in un'osteria e..."
Un Lincoln quasi Obama
24-01-2013, 19:3621tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, elezioni 2013, fb2020, ObamaPermalink"La bussola ti indica il nord, ma non ti mostra dove sono le paludi", dice più o meno Abraham Lincoln al leader radicale Thaddeus Stevens durante uno dei dialoghi che scandiscono il film. La frase sembra fatta apposta per essere citata, linkata, twittata all'infinito da un certo pubblico che temo sia quello che soprattutto Spielberg aveva in mente (dico "temo" perché ahimè, ne faccio parte): i progressisti moderati, liberal ma non troppo. Quelli che si incazzano con gli amici che votano Ingroia anche se su tanti argomenti starebbero molto più a sinistra di quanto starà mai qualsiasi Ingroia: la nostra bussola indica quel Nord, ma noi abbiamo anche una carta del territorio e sappiamo che in mezzo c'è un'enorme palude e che forse toccherà passare da Sud, attraversando Monti, forse addirittura Casini. Sono cose che succedono e ci fanno vergognare, ma di cosa, poi? Di avere cartine aggiornate?
Spielberg, come il migliore cinema americano, ha la bussola e ha la cartina: non dimentica il nobile ideale a cui tendere (l'abolizione della schiavitù) ma non si sottrae alla complessità del reale (bisogna comprar voti al Congresso uno scilipoti alla volta), anzi ci si tuffa con passione, restituendo agli spettatori una sintesi affascinante anche se, nel caso di Lincoln, più utile a discutere il presente che il passato a cui fa riferimento. Questo è un altro tratto tipico di Spielberg: se la Guerra dei Mondi parlava dell'11 settembre, Minority Report del Patriot Act, Lincoln potrebbe essere definito il primo biopic su Barack Obama. Tony Kushner, lo sceneggiatore di Angels in America e Munich, ha lavorato per più di tre anni, leggendosi scaffali di libri sul personaggio, per poi uscirsene con uno script in cui la first lady e la sua sarta nera (personaggio storico) assistono alle sedute del Congresso, una circostanza veramente poco probabile a metà Ottocento. Di fronte a invenzioni come queste, tanto più sleali quanto più il film sembra garantire la solita precisione filologica spielberghiana di Schindler's o del Soldato Ryan, il regista non ha trovato di meglio che affermare che una ricostruzione come Lincoln è da considerarsi "un sogno". La Storia americana ci mette gli arredi e i costumi, ma sotto barbette e giacche blu i protagonisti siamo sempre noi, sognanti noi stessi. All'inizio del film un pugno di soldati yankee bianchi e neri imbarazza Lincoln recitando un suo celebre discorso a memoria. Gli storici storcono il naso, i soldati della Guerra di Secessione erano perlopiù analfabeti ed è improbabile che cercassero sui giornali testi di discorsi scritti in piccolo per impararli nelle trincee, come i fans di Obama che li trovano su youtube. Ma nel sogno accadono queste cose: che i discorsi schiudano le porte e spezzino le catene, e che i cittadini le imparino a memoria per motivarsi mentre scannano i ribelli. Più tardi il film darà l'impressione di credere che un buon discorso a quattr'occhi di Abe "l'onesto" Lincoln a un deputato avversario possa riuscire dove non riesce l'offerta di incarichi e prebende. La parola è più forte della corruzione. Ci crediamo?
Gli americani ci credono, tanto che spesso si fanno governare dagli avvocati: dateci un podio, fateci leggere un’arringa, dicono gli avvocati Abe e Barack, e vi solleveremo il mondo (il fatto che sia Abe che Barack siano stati anche comandanti in capo, e il mondo lo abbiano cambiato più coi cannoni e i droni che con le chiacchiere, scivola in secondo piano). È una cosa di cui ci accorgiamo ogni volta che Obama fa un discorso ufficiale – qualche giorno fa per esempio ha giurato su un paio di bibbie per il re-insediamento, una formalità. Negli USA è anche uno spettacolo, Beyoncé ha cantato l’inno e tutti si sono arrabbiati perché era in playback, ma non è questo il punto. Il punto è che milioni di persone negli USA, nel mondo, persino in Italia, sono pronti a dare a un discorso formale un senso politico: c’è una diffusa convinzione che Obama cambi il mondo con le parole che dice, più con i droni che comanda. Alcuni si lamentano che in Italia non funzioni così: perché i nostri politici non fanno discorsi altrettanto belli e importanti? Tanto vale chiedersi perché non friggiamo il bacon e il baseball ci annoia, comunque dipende da fattori storici: la centralità del sermone nella cultura protestante, la diffidenza italiana per la retorica da cui il fascismo dovrebbe averci vaccinato, ma anche la difficoltà dell’italiano medio a mantenere l’attenzione per più di tre minuti, per cui delle infinite dirette di Santoro o Floris nelle conversazioni del giorno dopo resistono solo due o tre scambi di battute estemporanee.
Temo che uno spettatore italiano possa avere qualche difficoltà a capire cosa succede in Lincoln, un film dove Spielberg dà per scontate veramente troppe cose sul personaggio, il che non è da lui. A scuola non lo studiamo molto, gli anni intorno al 1860 sono già fin troppo ricchi di date e battaglie e trattati da memorizzare; già ci rammentiamo a malapena che i grigi sono gli schiavisti e i blu sono i buoni; ma il fatto per esempio che i Repubblicani siano per l’abolizione della schiavitù e i Democratici contrari ci fa girare la testa, sembra un mondo alla rovescia. Secondo una tendenza dei biopic moderni, il film preferisce concentrarsi su un periodo molto ristretto della vita del protagonista. Il risultato lo fa assomigliare, più che a un bell’affresco spielberghiano, al pilota di una miniserie televisiva di lusso, o se preferite a una season finale di West Wing in costume. L’episodio descritto risulta probabilmente sopravvalutato rispetto al contesto: si tratta della battaglia congressuale per far passare il Tredicesimo Emendamento, che abolisce formalmente la schiavitù su tutto il territorio dell’Unione. Se non fosse passato, gli Stati del Sud riammessi dopo la sconfitta avrebbero potuto reclamare gli schiavi che si erano emancipati durante la guerra, compresi quelli che avevano combattuto per anni con la giacca blu. Così almeno la pensa Lincoln, che come ogni politico è molto bravo a convincerci che la prossima battaglia è quella definitiva, quella più importante, quella da cui dipende il destino delle future generazioni. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Ma questo comunque è il Nord che la bussola addita a Lincoln per tutto il film, mentre si destreggia nelle paludi del Campidoglio proprio come fa Obama quando scende a compromessi col demonio per far passare la riforma sanitaria o superare il Fiscal Cliff. Barack può stare sereno, Abe fece di peggio: mentre un suo pool di maneggioni corteggiava i senatori democratici a scadenza di mandato, lui si permise di allungare di qualche mese la guerra con un Sud in ginocchio per evitare che la pace cambiasse gli equilibri del Congresso, gravandosi la nobile coscienza di qualche migliaio di ragazzini morti in più. Ma se la tua bussola ti mostra il Nord giusto, non c’è palude che ti possa insozzare. In Italia diciamo semplicemente “il fine giustifica i mezzi”, e non ci facciamo un film sopra: un po’ perché non siamo capaci di scrivere un procedurale, un po’ perché da noi i guerriglieri parlamentari sono visti con diffidenza, sia quando acquistano scilipoti un tanto al chilo sia quando si riducono a precettare senatori a vita in fin di vita. Un’altra cosa di cui diffidiamo sono i politici che si affidano troppo spesso alle battute, anche se quelle di Berlusconi non si possono neanche lontanamente paragonare alle storielle da avvocato messe in bocca allo straordinario Daniel Day-Lewis.
Ma insomma il film vuole farci pensare – il film ha un disperato bisogno di farci pensare – che un presidente che sappia quel che è giusto non deve risparmiarsi a ottenerlo da riottosi organismi democratici, anche con metodi ai limiti della decenza e della legalità (solo “ai limiti”: Lincoln tecnicamente non corrompe, offre solo incarichi federali; non mente al Congresso, racconta solo verità parziali). Siccome il film non parla d’altro (dieci secondi di battaglia, qualche grana famigliare tutto sommato dimenticabile), siamo autorizzati a pensare che la grandezza di Lincoln consista in questo suo machiavellismo etico. Non è vero: Lincoln è stato molto altro che il film ha deciso di non mostrarci. Un presidente di guerra, da principio recalcitrante, e poi determinato a intestarsi uno dei più sanguinosi massacri della storia dell’umanità, il primo conflitto industriale con le trincee, la dinamite e le armi a ripetizione. Ma Spielberg preferisce mostrarcelo sbigottito davanti alle fosse comuni, indeciso se graziare un disertore. Thaddeus Stevens, il memorabile personaggio interpretato da Tommy Lee Jones, può essere scambiato dallo spettatore inesperto per un radicale di ultraminoranza: viceversa, da esponente di spicco della corrente maggioritaria tra i Repubblicani, si stava avviando a diventare il “dittatore” del Congresso nei primi anni della ricostruzione post-bellica. Ricostruzione che fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori, forse anche a causa del radicalismo con cui Stevens e i suoi colleghi la portarono avanti. Il tentativo di imporre l’uguaglianza con le baionette federali portò alla nascita del Ku Klux Klan e alle leggi segregazioniste che per un altro secolo fecero degli afroamericani dei cittadini di serie B. Una palude che né Stevens né Lincoln avevano previsto. I due personaggi, pur simpatici e interpretati al meglio, non hanno la profondità di un autentico machiavelli come Oskar Schindler, ed è un peccato, soprattutto per l’impegno che ci ha messo anche stavolta Daniel Day-Lewis. Il suo Lincoln rimane un bravo avvocato e un simpatico conferenziere, con una vita privata non semplice e una vita pubblica sfibrante: un uomo leale, astuto, amabile eccetera eccetera, il presidente che molti americani vorrebbero, e infatti ce l’hanno.
Lincoln stasera è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (21:10), al Multisala Vittoria di Bra (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura due ore e mezza.
Le elezioni (più complicate) del secolo
21-01-2013, 17:32Berlusconi, elezioni 2013, ho una teoriaPermalinkSi sa che i partiti politici non possono soddisfare le esigenze di tutti, ma stavolta più che in passato sembra che nessun partito riesca a soddisfare le esigenze di nessuno. Tra le infinite magagne del porcellum c'è quella di aver creato i più inverosimili compagni di letto. Ingroia mette assieme sinistra extraparlamentare e giustizialisti; gli elettori di Vendola storcono il naso all'idea di andare col Pd; quelli del Pd storcono il naso all'idea di doversi poi associare a Monti; molti sostenitori di Monti si domandano che male hanno fatto per ritrovarsi con Casini e Fini, eccetera eccetera. Gli unici forse a non porsi tutti questi problemi sono gli elettori di Berlusconi, per i quali la scelta è relativamente facile: da una parte c'è il loro campione di sempre, dall'altra tutti i suoi nemici. Berlusconi sta risalendo nei sondaggi anche perché è l'unico a potersi permettere una campagna senza toni compromissori: non ha nessuna strana alleanza da dover spiegare ai suoi elettori, tanto più che il bacino a cui si rivolge apertamente è quello degli astensionisti: gente che o vota per lui o proprio non vota. Se i suoi calcoli sono giusti, se l'Italia è ancora quel Paese che ha capito e infinocchiato così bene negli ultimi vent'anni, forse ce la fa anche stavolta.
Perché la politica italiana è così complicata? (eh, chissà. Se ne parla sull'Unita.it, H1t#163).
Il Siegfried Nero
18-01-2013, 09:5421tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, razzismiPermalinkAlla vigilia della guerra Civile il dottor Schultz (un Christopher Waltz di nuovo divertentissimo) si aggira per il Sud praticando questo mestiere di recente invenzione, il cacciatore di taglie. Django è lo schiavo che ha liberato perché lo aiuti a identificare una banda di criminali. Ma Django (Jamie Foxx) non è un "negro" qualunque, uno come lui ne nasce una volta su diecimila. Ogni volta che lo buttano a terra, risorge in una versione più cool. Dopo l'orgia citazionista di Kill Bill in parecchi lo avevamo dato per perso, Quentin Tarantino, nella sua cineteca di vhs sbiadite: avrebbe frullato per sempre tutto quello che gli veniva in mente per un pubblico che comunque dimostrava di mandare giù qualunque cosa. Abbiamo dovuto ricrederci con Inglourious Basterds, dove il regista ha messo a punto il congegno che ritroviamo perfettamente oliato nella lunga parte centrale di questo film: un'estenuante trappola per gli spettatori, che in Django hanno ancora meno digressioni e siparietti per tirare il fiato - per salvare la sua principessa l'eroe scende in un inferno vero, un luogo dal quale non si risale senza aver venduto un po' d'anima, dove ci attende un luciferino Leonardo Di Caprio e il suo terribile schiavo-patrigno (Samuel L. Jackson, micidiale). Se in Basterds ci ritrovavamo per qualche minuto a vivere il dissidio e la vergogna di un padre di famiglia che per salvarsi tradisce gli ebrei che ha nascosto, in Django dobbiamo reggere la vista di fuggitivi sbranati senza tradire un sentimento. Tutto questo, per qualche strana alchimia che Tarantino ha raggiunto dopo anni in cui non sembrava nemmeno provarci, capita ai personaggi sullo schermo, ma capita anche a noi sulla poltrona. Siamo cavalieri senza paura ma con moltissime macchie, dobbiamo scegliere con chi stare e il più simpatico spara alle spalle di mestiere (continua su +eventi). Si scherza anche, si ride persino, ma sempre con la mano alla fondina e il dito sulla sicura.
Il soviet in provincia di Grosseto
16-01-2013, 03:13Emilia paranoica, memoria del 900, Modena, Mondo Carpi, preti parlanti, santiPermalinkLo so, lo so, ma Castellitto aveva già fatto sia don Milani che padre Pio. |
La chiesa di San Giacomo Roncole, dopo le scosse del 29 maggio scorso. Anche Fossoli è stata duramente colpita dal terremoto. |
Danilo, “Barile”. |
A differenza di altri preti rivoluzionari, che sotto la tonaca nascondevano una formazione classica persin troppo raffinata, Zeno non diede mai nella sua vita l’impressione di semplificare le sue idee per il volgo incolto: le idee di Zeno erano già semplici, e il volgo incolto era quello da cui proveniva lui, che aveva abbandonato la scuola a 14 anni, per poi vergognarsene. Quattro anni più tardi, arruolato alla Grande Guerra, sperimenta lo choc che gli cambia per sempre la vita. Niente bombardamenti: una semplice discussione di politica nelle retrovie con un compagno di branda, un amico anarchico. L’eloquenza di quest’ultimo lo annienta, lo umilia di fronte ai camerati. “Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi, sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio“. Perché non è riuscito a difendere le sue idee di bravo cattolico? Perché non è istruito, l’anarchico sì.
Al ritorno dal fronte Zeno informa il suo prete che ha intenzione di studiare teologia e diritto, da privatista. Le prime pagelle saranno agghiaccianti, ma Zeno è determinato: vuole diventare l’avvocato dei poveri. Riesce effettivamente a laurearsi alla Cattolica, ma poi preferisce farsi prete, convinto che i poveri si difendano meglio così. Nel ’31, durante la stessa cerimonia prende i voti e adotta il suo primo figlio, “Barile”, un giovane molto promettente ladro di polli che era andato a prelevare direttamente alla caserma dei Regi Carabinieri. Il primo di quattromila, dice la biografia ufficiale. Per tenere occupati i suoi piccoli apostoli, Zeno si affida alle sue passioni: il circo e il cinema. Trasforma gli orfani in saltimbanchi e affida loro la spericolata gestione delle sale parrocchiali. Gli porta fortuna la passione per i film americani, boicottati dal circuito delle sale ufficiali fasciste: noleggiarli costa poco, e le sale alla domenica sono sempre piene. A metà spettacolo i ragazzi accendono le luci e don Zeno fa la predica per quelli che a messa al mattino non c’erano, la maggior parte. Però chi a messa ci è venuto entra gratis: fuori dalla chiesa i Piccoli Apostoli ti timbrano il polso, come in disco.
A metà anni Trenta, nella Bassa modenese, i double feature dei Piccoli Apostoli, film+predica, sono lo show più trasgressivo consentito dal regime. Zeno riuscirebbe anche a guadagnarci, se non avesse una famiglia sempre più numerosa e se non reinvestisse parte del ricavato in una tipografia e in una bicicletta di corsa, poi in una moto, poi in una Balilla Torpedo, nel tentativo di simulare l’ubiquità in quello che ormai è un circuito alternativo, cinque sale diverse nel giro di 70 chilometri, in cui si proietta film americani introvabili altrove.
Un’altra cosa che ricordo di Nomadelfia è il religioso silenzio con cui il gruppo familiare assisteva alla trasmissione del telegiornale. “Religioso silenzio ” non è un modo di dire, era il medesimo che si sentiva durante le preghiere. Noi visitatori eravamo sorpresi dal fatto che i nostri coetanei guardassero i notiziari con tanta attenzione, e in breve scoprimmo che era una delle poche cose che si potevano guardare senza, come dire, censure. Perché a Nomadelfia quando ci sono stato c’era una sola antenna, in cima alla collina, che captava i programmi e alcuni (i notiziari) li ri-trasmetteva direttamente; tutti gli altri li filtrava, lasciando passare soltanto le cose, come dire, adatte. Era il secolo scorso, non esisteva ancora non dico il wi-fi ma nemmeno il protocollo http, magari adesso è tutto diverso. Anche se il sito di Nomadelfia dice che
L’uso della televisione è libero per quanto riguarda l’informazione, mentre si opera una scelta dei programmi visibili che sono trasmessi via cavo dalla emittente interna.
Siori e siore, i piccoli apostoli. |
Irene? |
"Fev dò mòcc!" |
Essendo nelle nostre mani anche la parrocchia di Fossoli, ci sarà facile aggregare alla erigenda parrocchia di Piccoli Apostoli soli; quel territorio che man mano ci occorrerà per crearvi le nostre borgate. Così avremo nella S. Madre Chiesa una prima parrocchia dove la legge di vita dei parrocchiani è la fraternità cristiana in tutti i settori della vita personale, famigliare, sociale: Nomadelfia (dove la fraternità è legge).
Sorgeranno le borgate, ognuna di esse sarà parrocchia alle dipendenze dell’Opera e finalmente una diocesi. In pochi anni, se le vie di Dio continuano di questo passo, saremo una diocesi dove non esistono né servi né padroni, ma soli fratelli in Cristo, tutti dediti all’apostolato nel mondo.
Tagliano il filo spinato per entrare. |
Le vie di Dio, non occorre sottolinearlo, presero alla svelta un’altra direzione: l’idea di una Diocesi-Kolchoz nella bassa modenese tramontò rapida quanto rapido aumentava il debito dell’Opera Piccoli Apostoli, perché gli emiliani erano ben lieti di prestare al buon Zeno quanto gli serviva, ma mica a fondo perduto, anzi con gli interessi. I debiti furono il modo in cui il sistema bocciò il progetto di don Zeno, ma per farlo sloggiare ci volle la Celere di Scelba. I minori furono dispersi negli orfanotrofi. Nel frattempo, grazie a una pia e generosissima donazione di Maria Giovanna Albertoni Pirelli, Nomadelfia aveva aperto una filiale in Maremma, un luogo dimenticato da Dio e dai lupi, nel quale i Piccoli Apostoli arrivarono come padri pellegrini in un nuovo continente: per due anni, mentre dissodavano e disboscavano, vissero nelle tende. Nasce in quel periodo l’equivoco tra “nomadi” e “nomadelfia”, che in realtà è l’accrocchio di due parole greche, “fraternità” e “legge”. Ma appunto, negli anni Cinquanta accettare la legge della fraternità poteva significare ritrovarsi a vivere come un beduino nella Toscana profonda. Per poter seguire i suoi don Zeno si era temporaneamente spretato, chiedendo e ottenendo la riduzione allo stato laicale.
Se ci ripenso mi vien fame. |
Ci spiegarono che in realtà non avevano mai giocato, “non era costume” che una ragazza giocasse. L’espressione sembrava arrivata diretta dagli anni Cinquanta come una cartolina bloccata in una fessura dell’ufficio postale per quarant’anni; ma del resto a Nomadelfia in provincia di Grosseto resistevano voci del dialetto modenese che in Emilia ormai si stavano perdendo, come “razdora”, ovvero reggitrice, colei che governa la casa, più mater familias che casalinga: il perno del gruppo familiare.
Lo sgombero di Fossoli fu la grande batosta della vita di don Zeno. Fino a quel momento lui e i suoi non avevano forse avuto percezione dell’ostilità del mondo esterno: in fondo non volevano fare nulla di male, soltanto abolire il denaro e le classi sociali. Anche quando la tensione col Vaticano si sarà allentata, e Giovanni XXIII consentirà a Zeno di ri-consacrarsi sacerdote, i nomadelfi esiteranno a mettere radici. Quando ci andai gran parte delle abitazioni erano ancora prefabbricati smontabili: è un popolo pronto a partire, gli è già successo. I sogni rivoluzionari di Zeno finiscono lì, nella difesa appassionata di quattro chilometri quadrati in provincia di Grosseto. Un popolo, dice lui, ma anche una proposta al mondo. I ragazzini studiano ancora da saltinbanchi, e durante l’estate Nomadelfia diventa un teatro tenda itinerante: a metà dello spettacolo c’è ancora il momento fisso della predica.
Gli apostoli a Fossoli |
Questa più o meno era la situazione quando ci andai, ed è passato davvero molto tempo; ma a leggere i documenti ufficiali in rete non noto nessuna novità. Mi riesce facile immaginare che Nomadelfia sia ancora lì, prefabbricata e sbattuta dal vento; che l’antenna trasmetta ancora quello che ritiene giusto trasmettere, che le madri più eminenti siano chiamate razdore. Può darsi che il comunismo non abbia niente che non vada, ma tende all’equilibrio, e se le cose vanno abbastanza bene le lascia come stanno: Nomadelfia quando ci andai mi sembrava un posto tutto sommato in pace con sé stesso, la foto di don Zeno (scomparso nel 1981) era appesa un po’ dappertutto insieme a quella di Giovanni Paolo II che l’anno prima aveva voluto visitare quel villaggetto pacificamente opposto a tutto il mondo. Il comunismo forse non ha niente che non va, il problema è quando ne esiste solo una piccola bolla in un universo capitalista che per sua natura non può star fermo, deve stravolgere tutto in continuazione. Occorre scoprire necessità diverse, esaudirle, rimanere insoddisfatti, cercare di diventare persone diverse, riuscirci, rimpiangere quelli che eravamo prima eccetera. L’idea che in questo vortice Nomadelfia resista tranquilla ha del miracoloso, ma non credo che sia quel tipo di miracolo che ti svolta una causa di beatificazione.
Io non sono stato in tantissimi posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato, e devo essere sincero: mi aspettavo qualcos’altro, chissà cosa. Un posto più aperto all’esterno, la versione stabile di quella bella compagnia in cui stavo crescendo in quel momento, in cui ragazzi e ragazze si davano del tu e giocavano a pallone. Il gruppo si è sciolto qualche anno più tardi quando i più grandi hanno cominciato a metter su famiglia: in questo Zeno aveva ragione, famiglie e comunità non vanno così d’accordo. Ogni tanto trovo i volantini degli spettacoli itineranti di Nomadelfia e mi viene tenerezza, mi domando se una cosa così fuori dal tempo non dovrebbe essere protetta, non so, dai beni culturali. Ma il più della volte non ci penso a Nomadelfia. Solo qualche volta tra dicembre e gennaio mi vedete alla coop che cerco il panforte in offerta speciale. È una cosa particolare quella tra il panforte e me, se ne apro uno posso mangiarlo intero, i miei familiari lo sanno e mi tollerano, ma ignorano lo choc che ci sta dietro, il momento cruciale della mia vita in cui il mio stomaco ha capito cos’era il comunismo e non gli è piaciuto, veramente, mi piacerebbe poter raccontare di sì ma la verità è che no, non mi piace il comunismo, preferisco le mandorle.
Ma sentiamo adesso la nostra amica stragista
14-01-2013, 17:40aborto, cristianesimo, preti parlanti, religioniPermalinkNon solo. A differenza di tanti banali esecutori, la Bonino non ha eseguito ordini che provenivano da qualche autorità superiore, ma tutti quegli omicidi li ha commessi in piena coscienza, rivendicandoli a testa alta, al punto di auto-accusarsi all'autorità costituita, quando abortire in Italia era illegale ma lei aveva già fondato il Centro di sterilizzazione e di informazione sull'aborto. In seguito abortire ha smesso di essere un reato, anche grazie a lei, ma i cattolici non hanno cambiato idea e non c'è nessun motivo al mondo per cui la debbano considerare con occhi diversi da quelli con cui la guardavano nel 1975: una lucida assassina seriale che non si è mai pentita, anzi che rifarebbe esattamente tutto. Per questo immaginarsi un prete che accolga Emma Bonino nella sua chiesa durante le esequie di Mariangela Melato, e che le ceda il microfono per un breve discorso, è una di quelle fantasie che possono venire soltanto a uno che in Italia ci venga di passaggio ogni tanto, e sia convinto che gli edifici coi campanili siano una cosa folkloristica gestita da impiegati comunali con buffi abiti tradizionali.
Chi in Italia viceversa ci abita davvero, e con gli italiani ci discute un po', persino coi preti, non è che possa sorprendersi più di tanto: sul serio, questa cosa dell'aborto=omicidio non è uno scherzo, una boutade che si dice ogni tanto per darsi un tono: non mi è mai capitato di sentire un cattolico che non ne sia convinto. Quelli che smettono di crederci di solito smettono anche di essere cattolici, perché da trenta, quarant'anni a questa parte l'opposizione a qualsiasi forma di aborto è diventata un cardine della dottrina pratica della chiesa. Sarebbe interessante discutere del perché sia successo questo, dato che nelle Scritture di aborto non si parla e anche i Padri della Chiesa per lo più se ne disinteressano; a mo' di curiosità si potrebbe ricordare che per secoli il filosofo ufficiale della Chiesa è stato Tommaso d'Aquino, per il quale la vita non aveva inizio col concepimento: sarebbe interessante e qui ogni tanto si tenta di farlo, ma oggi prevale la sorpresa per l'unanime sdegno con il quale si commenta la notizia: non hanno fatto parlare Emma Bonino in una chiesa! Ma perché, povera Emma, cos'avrà mai fatto di male. Ecco, a mo' di ripassino citerei il blog di un consigliere pidiellino del Lazio:
Se ogni politico nasconde qualche scheletro nell’armadio, Emma Bonino cela un cimitero di 10 mila bambini non nati e da lei spesso personalmente eliminati con una indifferenza orgogliosa e agghiaccianteSiete liberi di trovare la cosa assurda; ma di stupirvi francamente no. I cattolici queste cose le dicono a voce alta, da parecchio tempo: se non siete d'accordo magari non sposatevi in chiesa, e chiedete che il vostro corteo funebre non parta da una chiesa. Io in coscienza non ritengo che l'aborto sia equiparabile a un omicidio; non mi sono sposato in chiesa e quanto al mio corteo funebre chi ci sarà farà un po' come gli pare, io quel giorno avrò altri impegni. Ma scandalizzarsi del fatto che un'organizzazione privata (la Chiesa) non lasci parlare dai suoi microfoni una persona che ritiene sua feroce avversaria (Emma Bonino) è secondo me indizio di una certa confusione su cosa la Chiesa sia. Non è un ente governativo, non gestisce edifici pubblici, gli officianti non sono pubblici ufficiali; perlomeno non dovrebbero esserlo, e chi è laico dovrebbe preoccuparsi vivamente che nessuno faccia confusione. Proprio perché si ritiene che la Chiesa debba essere trattata come un soggetto privato, e che debba pagare tutte le sue tasse esattamente come qualsiasi altra organizzazione privata, senza trattamenti di favore. Gli edifici di culto appartengono ai preti: decidano loro chi è ben accetto e chi no, chi può parlare e chi no, esattamente come a casa nostra entra e parla solo chi invitiamo noi. E in cambio di questa riconosciuta autonomia, la libera Chiesa paghi al libero Stato tutte le sue tasse - comprese quelle che servono a finanziare consultori e a continuare l'opera intrapresa da Emma Bonino nel 1975: visto che nel frattempo anche grazie a lei noi cittadini italiani abbiamo deciso a maggioranza che abortire non è una colpa, non è un reato, e che si deve essere liberi di farlo nel modo meno doloroso possibile, senza le pompe da bicicletta che la Bonino era costretta a usare.
Dico un'ultima cosa. Proibendo a Emma Bonino di parlare, il prete le ha reso onore: ribadendo la coerenza della Chiesa, ha riconosciuto anche la coerenza dell'attivista pro-aborto. Molto più di tutti quelli che in queste ore si stanno stracciando le vesti non si capisce esattamente in base a quale sistema di valori, forse di un generico Volemosebbène che dovrebbe scattare ogni volta che muore qualcuno, e ci togliamo i nostri panni ideologici e ci abbracciamo tutti in un'unica grande chiesa da Che Guevara a madre Teresa. Vaffanculo, no, questa cosa non esiste: per i cattolici chi pratica gli aborti va all'inferno e ci resta. Tenetevelo un po' in mente, e fatevi seppellire di conseguenza.
C'è ancora qualcuno che ci fa i patti
14-01-2013, 02:14Berlusconi, ho una teoria, tvPermalinkPochi giorni prima Berlusconi e Lega si erano messi d'accordo per andare alle elezioni assieme: dopo aver promesso per tanti mesi ai suoi elettori che non sarebbe successo mai più, Maroni, a malincuore, ha dovuto accettare un'alleanza. Purché Berlusconi non fosse il candidato premier. Ieri sono usciti i bollini dei partiti e su quello del PdL c'era scritto, com'è naturale, BERLUSCONI PRESIDENTE. La morale di tutto questo è la solita.
Forse Berlusconi stavolta non vincerà, ma ce lo meriteremmo. Senz'altro se lo meriterebbe Santoro, e Maroni, e chiunque pensi che con Berlusconi si può scendere a patti. Non si fanno i patti con Berlusconi. A memoria d'uomo, non si ricorda un solo patto che Berlusconi abbia rispettato, da quello famoso con la Retequattro di Mondadori per dividersi le inserzioni pubblicitarie a partire da un lunedì (che eluse facendo lavorare i suoi collaboratori il fine settimana) alle ultime meno esaltanti stagioni in cui persino le olgettine si lamentano di promesse non esaudite. Il tizio è così, sappiamo tutti che è così, ma per un motivo o per un altro ogni tanto ci è utile convincerci che stavolta andrà diversamente, stavolta sapremo giostrarlo a nostro vantaggio. Come se tra bicamerali e inciuci e leggi elettorali non ci avesse sempre fregati tutti. Ma dopotutto Santoro può essere contento dello share, e Maroni adesso è comunque sicuro di salvare giunte e passare lo sbarramento. Insomma alla fine farsi fregare da Berlusconi conviene ancora a qualcuno. Di sicuro non a noi (continua sull'Unita.it H1t#162).
La scena cult
11-01-2013, 17:31cinema, coccodrilli, essere donna oggi, fb2020PermalinkIO FACCIO QUELLO CHE STRATACAZZOMMI PARE!
TROIA!
MA CHI TI CREDI DI ESSERE!
MAVAFFANCULO, VA'!
Che per carità, forse può essere davvero un modo divertente, intelligente, e soprattutto non snob (bisogna stare sempre attenti a non sembrare snob) di ricordare una grandissima attrice. Mariangela Melato fu Medea, lavorò con Ronconi e Visconti, però se ce la ricordiamo tutti per i film della Wertmüller un motivo ci sarà.
A questo punto viene in mente che quando compì ottant'anni l'altra grandissima, bravissima protagonista del cinema italiano di quegli anni, Monica Vitti, una delle prime cose che si vide in tv fu un montaggio di tutte le botte che aveva preso nelle commedie all'italiana. Botte tremende, con rumori che oggi userebbe soltanto Neri Parenti, ammesso che Parenti faccia ancora dei film, non so, magari ha smesso. Qualche ceffone con lo schiocco se lo prese anche la Melato, d'altronde la commedia all'italiana funzionava così: mostrava l'Italia per quel che era, un posto dove le donne finivano all'ospedale. Ci finiscono ancora adesso che i registi preferiscono mostrare altre cose, quindi forse le cose non sono così migliorate. Anche se, forse.
Forse il punto non è tanto che in Amore mio aiutami Alberto Sordi si vanti delle costole che è riuscito a incrinare alla moglie (anche se non è vero che mandò la controfigura Fiorella Mannoia in ospedale). O che Giannini in Travolti da un insolito destino violenti la sua datrice di lavoro. Il fatto è che entrambi i film sono congegnati in modo da stimolare la complicità dello spettatore - almeno dello spettatore maschio. Quando a metà del film Sordi chiude il pugno e decide di passare alle maniere forti, è come se quel pugno glielo piegasse telepaticamente lo spettatore, che ha visto la Vitti rendersi sempre più insopportabile e non la regge più, Quella lì ha scassato la minchia. Quando Giannini urla il suo proclama, siamo tutti con lui, finalmente qualcuno ha il coraggio di dire a voce alta cosa pensa delle insopportabili borghesi di Milano: troie. E scatta il cult. È lo stesso fenomeno che ha fatto sì che la frase più famosa degli ultimi trent'anni di cinema italiano (almeno in Italia) sia diventata La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca. Non è vero (d'altro canto chi l'ha mai vista, la corazzata in questione, da Fantozzi in poi nessuno ha sentito la necessità di verificare), ma dirlo era tantissimo liberatorio, e il sospetto è che i nostri padri andassero al cinema soprattutto a fare questo: a liberarsi. Un'esigenza tra il fisico e il morale che oggi si sfoga attraverso altre valvole, se siamo incazzati con Berlusconi o Monti o le donne fedifraghe e arroganti che non sanno stare al loro posto gliene diciamo quattro su twitter o facebook e poi stiamo subito meglio. Forse i cinema, quando erano pieni, erano pieni di gente che non avrebbe mai menato la moglie, ma che a vedere una donna menata, giustamente menata, si metteva di buon umore. Con l'alibi della commedia, del paradosso, della critica sociale eccetera.
È morta Mariangela Melato, e la scena a cui tutti pensano, la scena "cult", è quella in cui si sente dare della troia. Un ruolo come un altro in fin dei conti; e poi che senso ha prendersela, gli attori interpretano quello che la gente vuole. Si sarebbe probabilmente meritata film migliori, qualche ruolo meno macchiettistico, e un pubblico meno finto-progressista, meno intimamente devoto al culto del ceffone. Ma è un rimpianto senza senso, ognuno vive la vita che può, recita al meglio i copioni che la vita gli offre. Meglio di Mariangela Melato, qui da noi negli ultimi trenta o quarant'anni, poche. Forse nessuna.
Orientarsi tra le nuvole
11-01-2013, 07:07beatles, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, futurismiPermalinkHugo Weaving, avete presente? No. L'agente Smith, il cattivo di Matrix, precisamente, ecco, non è stato formattato, ma ha infettato la memoria fissa di quattro secoli. È diventato un negriero sudista nell'Ottocento, ma anche un killer californiano negli anni Settanta, e una sadica infermiera in un ospizio scozzese nel 2012. Condanna a morte i cloni che a NeoSeul, nel 2144, non vogliono più servire ai tavoli
Siamo nei mari del sud. Ma anche a Edimburgo nel 1936. Halle Berry, nel 1973, sta lavorando a un'inchiesta su una centrale nucleare malfunzionante, e invece dell'ingegnere Jack Lemmon incontra l'ingegnere Tom Hanks che però muore in circostanze misteriose ma è in circolazione 40 anni dopo sotto forma di scrittore burino che lancia i critici dai grattacieli. Siamo a Neo Seul nel 2144, i cloni servono ai tavoli. Siamo alle Hawaii, in un futuro alla Mad Max ma sempre con Tom Hanks e Halle Berry, quanto mi mancavano quelle preistorie all'ombra di rottami tecnologici, perché non ne fanno più? Perché non ne fanno di più? Siamo di nuovo nel 2012, e prima di andare a vedere Cloud Atlas dobbiamo verificare di avere tre ore e di essere gli spettatori adatti. Altrimenti rischiamo di addormentarci o innervosirci molto, e scrivere recensioni che ci sarebbe da buttarci dai grattacieli. Amare i film di fantascienza o d'azione non è una garanzia: metà del film non è ambientato nel futuro, non ci sono sparatorie ma compositori omosessuali disperati, pensionati in fuga dall'ospizio, ciurme ubriache. Io credo comunque di aver messo a punto il test ideale per Capire Se Sei Lo Spettatore Adatto. Una sola domanda, semplicissima, di quattro lettere: Lost?
No, sul serio, se ti dico Lost, come reagisci? Non ti piaceva, non lo hai mai visto? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti piaceva finché non è diventato una baracconata? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti è piaciuto quasi fino alla fine, ti sei bevuto con piacere anche le puntate ambientate nel Seicento o in Mesopotamia, non hai cambiato canale neanche quando personaggi invisibili hanno ordinato di spostare l'isola di qua e di là nel tempo e nello spazio? e mentre lo guardavi imploravi dio, ma più spesso gli sceneggiatori, di dare un ordine, un filo, un senso a ogni cosa? Forse sei lo spettatore adatto a Cloud Atlas. Non dico che ti piacerà come Lost - è troppo breve per dare quella forma di dipendenza - ma non ti deluderà nemmeno come le ultimissime puntate di Lost, quelle in cui gli sceneggiatori gridano: "Guardate i personaggi!" e intanto scappano con la grana. Per quanto ambizioso, con la sua struttura a sei piani, e non sempre definito nei dettagli, L'Atlante delle Nuvole non lascia alla fine quel senso dolciastro di fregatura. Un senso ce l'ha, una direzione dove andare a parare era prevista.
In certi momenti guardare Cloud Atlas è come sfogliare in piedi un fumetto in libreria (continua su +eventi): se non vi è mai capitato, forse è meglio che giriate alla larga. Se invece siete di quelli che cominciano a sfogliare per vedere se la storia vale la pena; a cui capita di trovarsi nel giro di pochi secondi immersi in una mezza dozzina di mondi diversi, genealogie di eroi che si incontrano e scontrano, roba da perdersi, ma stranamente non vi perdete, anzi riuscite a seguire tutto e dopo un po' la storia è finita, e state già dando un'occhiata per vedere se c'è un secondo volume; se siete quel tipo di lettori, varrà la pena anche dare un'occhiata a Cloud Atlas. Ci vuole una certa abilità, per seguire trame che si snodano rapide e tutt'altro che lineari - ma anche una gran disponibilità a farsela raccontare da affabulatori non convenzionali. Vale la pena giusto per ottenere la conferma: i Wachowski sono fumettisti. È da lì che vengono, forse è lì che dovrebbero tornare, dove gli unici limiti alla fantasia sono le chine e gli inchiostri e il formato delle tavole. Fare cinema dev'essere frustrante, quando dare forma a una semplice idea può costare milioni di dollari e gli spettatori pretendono di capire tutto alla prima visione. Mi ricordo un personaggio di Matrix 3 che a un certo punto lo dice proprio in faccia a Morpheus: "Mi dispiace che non ci sia una spiegazione semplice per questo". Un modo educato per dire Hollywood fottiti.
Cloud Atlas in effetti non è passato per Hollywood, lo chiamano "film indipendente" anche se c'è un cast un po' stagionato ma da grandi occasioni (Hugh Grant, Susan Sarandon, Jim Broadbent, Jim Sturgess, Zhou Xun nuda) ed è costato cento milioni di dollari. In realtà è un blockbuster - però tedesco: il primo kolossal della cinematografia federale tedesca. Tre episodi su sei non sono girati dai Wachowski (che avevano comprato i diritti del libro dopo che Natalia Portman lo aveva fatto leggere a Lana sul set di V per Vendetta) ma da Tom Tykwer, il regista di Lola corre e Profumo, che per non far notare troppo la differenza mette una pistola in mano a Hugo Weaving e poi gli fa inseguire i buoni per le strade di San Francisco e per un attimo sembra che Matrix abbia infettato Starsky e Hutch. Però non è un film pretenzioso. O meglio. Una volta accettata l'ambiziosissima pretesa iniziale - offrire in tre ore la versione cinematografica di un romanzo ambientato in sei luoghi e tempi diversi - Tykwer e i Wachowski non si fanno prendere da nessuna ansia esplicativa, riducono gli spiegoni al minimo necessario, e portano a casa un film che possiamo guardarci d'un fiato anche se per due ore non abbiamo la minima idea di dove andrà a parare. La differenza, come in Lost, la fanno i personaggi (e gli interpreti): per quanto poco li vediamo sulla scena, ci affezioniamo abbastanza presto e restiamo fino alla fine curiosi del loro destino. Un sacco di cose ovviamente sfuggono, tanti dettagli meriterebbero una seconda visione, o addirittura il recupero del libro: però bisogna ammettere che date le condizioni di partenza gli autori sono stati onesti, si capisce che hanno tagliato tante cose e hanno privilegiato l'azione sulla filosofia. Non era scontato.
I Wachowski, a ogni film che scrivono, fondano una religione. Con Matrix riuscirono a riportare in voga la gnosi, non accadeva da una ventina di secoli. V per vendetta ha fatto arrabbiare Alan Moore (autore del fumetto originale) ma ha fornito ad anonymous e grillini una specie di manifesto, ideologicamente ambiguo quanto basta per trovarci tutto e il contrario di tutto. Quando ho visto il trailer di Cloud Atlas mi sono detto: l'hanno fatto di nuovo, stavolta hanno scoperto la metempsicosi. Bisogna dire che avevo appena visto the Master, dove la reincarnazione è una favola per spillare denaro alle vecchie ereditiere: ma anche ai nerd - e Dianetics nacque nei circoli di appassionati di fantascienza, non scordiamocelo - ecco, i nerd che dieci anni fa si bevevano la filosofia gnostica di Matrix mi sembrano pronti per cominciare a immaginare le loro vite precedenti e future: sono a quello snodo esistenziale e anagrafico in cui l'insofferenza per il proprio destino, se coltivata, può trasformarsi in allucinazione. Se c'era qualcuno in grado di piazzare a milioni di gonzi un film mistico sulla reincarnazione, quelli erano i Wachowski. Ma non l'hanno fatto; gli interessava di più raccontare una bella storia, anzi sei. L'argomento metempsicosi è liquidato con qualche battuta (ogni tanto due personaggi si domandano se non si sono già visti), e soprattutto è delegato ai trucchi e ai parrucchi. Che sono l'aspetto più discutibile del film: non solo perché se nell'episodio coreano monti gli occhi a mandorla sul faccione di Weaving qualche associazione antirazzista protesta formalmente, ma perché nell'episodio dell'ospizio ce lo troviamo truccato da infermiera e mi dispiace tanto, ma non è credibile: come il Tom Hanks scrittore pugile o Zhou Xun fanciulla del west, precipitiamo a livelli filodrammatici ed è un peccato. Ma alla fine è un peccato veniale perché chi rimane a vedere Cloud Atlas ha sospeso gran parte della sua incredulità: ha la stessa voglia di immergersi nella storia del ragazzino che sfoglia fumetti in piedi, o dei bambini intorno al fuoco, che chiedono una storia al vecchio del villaggio. Con tutta la sua complessità stratificata, con la sua filosofia di fondo che si può sintetizzare in Volemose Bene, Cloud Atlas non smette neanche per un istante di essere una favola per bambini che hanno voglia di stare alzati e di viaggiare un po' tra i mondi. Se ne avete voglia; in caso contrario, tenetevi decisamente alla larga da Cloud Atlas.
Cloud Atlas a Cuneo non c'è, in compenso dilaga in provincia: Al Cityplex di Alba (ore 21), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21 e 22, in quest'ultimo caso uscite all'una), al Vittoria di Bra (ore 21), al Bertola di Mondovì (ore 21), all'Italia di Saluzzo (ore 21) e al Cinecittà di Savigliano. Tenete conto che dura tre ore.