È eh

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"La lingua! Ci rifletti mai?"
"Eh".
"Che cosa incredibile. Che fonte di affascinanti misteri e paradossi. Pensa alle flessioni".
"Preferirei di no".
"Gli antichi indeuropei avevano forse declinazioni a dieci casi, che si sono poi andate semplificando".
"Mano male".
"Il latino - come sai bene - conosceva sei casi, l'italiano uno solo. Ma questo che significa?"
"Non saprei".
"Che gli uomini preistorici avevano una grammatica più complessa della nostra?"
"Eh".
"Che affascinante mistero. Leggevo proprio ieri che due linguisti, attraverso un attento studio comparativo, sono arrivati a individuare la prima parola universale".
"Eh?"
"Precisamente: è la prima parola comprensibile in tutte le lingue del mondo".
"E quale sarebbe?"
"Eh".
"Non me la vuoi dire?"
"Te l'ho già detta, eh".
"Va bene, mi sarà sfuggita".
"Ma no, è eh".
"Vabbe', è inutile che mi ridi in faccia".
"Non ti sto ridendo in faccia. Ti sto dicendo che la prima parola universale è eh".
"È un indovinello?"
"Non è un indovinello. È eh".
"Va bene. Mi è sfuggita. Forse mi ero distratto. Me la puoi benissimo ridire, che ti costa?"
"Ma te l'ho ridetta".
"Ah sì?"
"Sì, è eh".
"...E ti dispiacerebbe enormemente ridirmela di nuovo?"
"Eh".
"Eh?"
"Precisamente".
"Precisamente è la prima parola universale?"
"No, eh".
"E allora la prima parola universale è..."
"Però per favore concentrati".
"Sono concentrato".
"È la prima parola universale. Tutti i popoli del mondo la possono capire".
"Tutti".
"Ha lo stesso significato in tutte le lingue. Non possono esserci fraintendimenti, equivoci, errori".
"E questa incredibile parola è..."
"Eh. Se la dici a un ottentotto, lui capisce quello che stai cercando di dirgli. Eh".
"Non sono un ottentotto".
"A maggior ragione".
"E quindi?"
"Eh".
"Non me la vuoi dire?"
"Te l'ho appena detta".
"Ah sì?"
"Eh".
"E RIDIMMELA UN'ALTRA VOLTA".
"EH! EH! EH È LA PRIMA PAROLA UNIVERSALE".
"CE L'HAI CON ME? PENSI CHE SIA DIVERTENTE?"
"NON È DIVERTENTE. È EH".
"GIANNI, ASCOLTAMI, SIAMO SU UN BLOG IMPORTANTE. UN LUOGO DOVE SI FANNO DISCUSSIONI RAFFINATE. ORA PER FAVORE, DIMMI 'STA CAZZO DI PAROLA UNIVERSALE".
"MAVAFFANCULAMAMMET'"
"Lo sospettavo".
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Giovane, carina, molto occupata

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Giovane e bella (François Ozon, 2013).

Vi state sensibilizzando sull'odioso fenomeno della prostituzione minorile?
Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l'ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun'altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.

Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz'altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all'amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile.

Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro le sei dev’essere a casa.

L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).


Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.


Gonna give you some terrible thrills.

Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.

Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.
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Dal mercimonio al degrado antropologico

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Chi ha coniato l'odioso termine "Baby-squillo"? Il nome del titolista che per primo condensò uno scandalo in quattro sillabe probabilmente non lo recupereremo mai. E quando avvenne l'irreparabile battesimo? Una breve ricerca nell'archivio on line dell'Unità porta a un risultato sorprendente. Di "baby squillo" si parlava già nel 1976 - quasi quarant'anni fa. "La violenza quotidiana alleva le baby-squillo", scriveva Massimo Cavallini, e la sua prosa da sola basta a farci sentire la distanza:
"I personaggi si muovono con prevedibile scelleratezza. C'è il grande corruttore, il genio del male che trascina decine di fanciulle sulla via della perdizione, fino al mercimonio del loro giovane corpo: c'è la vecchia "maitresse", rotta ad ogni vizio, incartapecorita nella propria dissolutezza, che accuratamente educa alla professione le neofite del meretricio; ci sono i clienti ricchi ed annoiati, pronti a pagare cifre favolose per rapporti mercenari; c'è il medico corrotto, il "fabbricatore di angeli", che dietro lauti compensi stronca la vita che nasce dall'amore, anche quello a pagamento".
Il pezzo prosegue così per quattro colonne fitte, su un paginone senza foto. In mezzo a tanta retorica irrimediabilmente fuori moda, l'espressione "baby squillo" galleggia come un anacronismo. Oggi facciamo frasi più brevi, abbiamo paura di addormentare il lettore. Ma sempre retorica è; abbiamo semplicemente cambiato il modello. Oggi Marida Lombardo Pijola risponde a Silvia Gigli che sulle colonne dell'Unità le chiede "Come si è arrivati a questo?", spiegando che "negli ultimi vent’anni in Italia i costumi si sono trasformati, c’è stato un degrado sociale, politico, umano e antropologico incarnato da una persona, da un regime e da una tv che ci hanno segnati. I ragazzi sono cresciuti circondati da messaggi precisi sul sesso, lo strapotere del denaro, il disvalore del corpo delle donne. Sono stati accerchiati e martellati da queste informazioni fin da piccolissimi».

Degrado sociale, politico, umano e ovviamente antropologico, qualsiasi cosa ciò voglia dire: tutto questo incarnato da una persona e non c'è nemmeno bisogno di spiegare chi sia. Regime. Tv. Disvalore del corpo delle donne. Il tutto sarebbe una novità degli ultimi vent'anni, insomma niente baby squillo prima del 1997. Prima di allora evidentemente non c'erano "incontri sessuali nei bagni [delle scuole]", niente mamme dietro "che spingono per il successo o il denaro facile" (anche a dire il vero è stata una mamma a scoperchiare il caso, ma passi). Tutto questo non sarebbe che uno dei pesanti lasciti del berlusconismo.

Nel 1976 ovviamente Cavallini non poteva pensarla così. Nemmeno poteva incolpare il web, oggi fonte delle "prime informazioni sul sesso - distorte, parziali o amplificate dal web e senza alcuna mediazione da parte degli adulti". Poteva però già prendersela con una "civiltà fondata sul predominio del denaro", con la Torino bene, la città dove "il più grande quotidiano aveva organizzato una petizione popolare per l'abolizione della legge Merlin. È non è forse un luogo comune  affermare che la prostituzione è il più antico mestiere del mondo?"
"Antico, certo, almeno quanto l'ingiustizia, e oggi molte ingiustizie considerate ineliminabili non vengono più ritenute tali. Cresce ogni giorno il numero di coloro che le vogliono cancellare". 
Bel finale ottimista: ci si prostituisce, ci si è sempre prostituiti, ma se lottiamo insieme un giorno non sarà più così. Se devo essere onesto preferisco questo vecchio tipo di retorica al nuovo, quello che continua ad attaccarsi ai soliti obiettivi polemici (Berlusconi, la tv, e da qualche anno anche il web), senza farci intravedere uno spiraglio; e soprattutto al coro dei terapeuti che spiegano a Silvia Gigli che è colpa "nostra", il pezzo dice proprio così, che puntano il dito contro "noi genitori". "Non diamo loro mai situazioni di affettività". In che senso? I nostri genitori ce ne davano molte di più? (No: e infatti qualcuno faceva sesso nei bagni della scuola anche ai nostri tempi, a volerselo ricordare). "Nessuno si sforza di conoscere il loro alfabeto, di capire il loro linguaggio". Proprio nessuno nessuno? E dire che stanno tutti su facebook, in teoria potrebbero essere la generazione più monitorata della Storia (altrove i ragazzini stanno lasciando Facebook proprio per questo motivo). Ma soprattutto non passiamo mai abbastanza tempo con loro, i terapeuti si lamentano di questo. Abbiamo tutti questi impegni, ad esempio lavorare. Una volta non era così, le mamme avevano più tempo e infatti ci si prostituiva meno. Ci si prostituiva meno?

Nel 1977 sulla Stampa ricompare l'orrenda espressione baby-squillo. Stavolta però lo scandalo è più vasto, coinvolge "una cinquantina di donne" (continua sull'Unita.it...)

 E’ stata scoperta e arrestata l’organizzatrice del giro di «squillo» che da questa città provvedeva ai bisogni dei ricchi «uomini soli» di Milano e Torino. Si tratta di una signora della società «bene», Celestina Gùalandrìs di 45 anni, che in pochi anni ha accumulato centinaia di milioni. La specialità della Gùalandrìs era di arruolare volontarie dai «quartieri alti», cioè mogli e figlie di dirigenti e personalità, disposte a fare le «belle di giorno». [...] La questura ‘ di Torino sta svolgendo indagini supplementari, perché dai « clienti » torinesi erano richieste soprattutto «baby-squillo», ragazze minorenni ancora inesperte. Questi clienti pagavano, oltre le prestazioni, tutte le spese di viaggio e soggiorno delle giovanissime prostitute.
Anche stavolta nessun cenno alle generalità dei clienti: ricchi, soli, anonimi. Viene in mente quella straordinaria scena di Signori e Signore, in cui il direttore del quotidiano locale è costretto a cancellare un cognome per volta dal suo vibrante pezzo di denuncia, a ogni squillo imperioso di telefono.
Ma Signori e Signore non solo è del 1966 (Berlusconi stava cominciando a vendere i suoi primi condomini) ma è ispirato a fatti realmente accaduti anni prima, raccolti e rielaborati da Luciano Vincenzoni, che scrisse il soggetto con Pietro Germi. Tra le tante storie c’è appunto quella di una ragazza di campagna che arriva in città per comprare, mi pare, un tubo di gomma per l’irrigazione; una bella ragazza cresciuta senz’altro senza tv, neanche in bianco e nero, seguita dalla madre 24 ore su 24; poi arriva in città e il suo comportamento non è esattamente quello che sociologi e terapeuti si aspetterebbero. Non lo fa per una borsa, le basta un gelato e poco più; al contrario di tanti moralisti di oggi Germi non si sofferma più di tanto a giudicarla (gli interessa di più osservare i quattro rispettabili cittadini che cercano di sfangarla). Dieci anni dopo invece Carlo Lizzani gira il suo film meno visto, Storie di vita e malavitaRacket della prostituzione minorile, uno sguardo a tutto tondo su un fenomeno che già allora appariva un po’ più complesso di come lo descrivevano i giornali. Tra i vari casi messi in scena da attrici non professioniste, c’è anche la ragazza studiosa che lo fa per ribellarsi alla famiglia: oggi sottolineeremmo la sua arroganza, e allo stesso tempo accuseremmo il padre (e soprattutto la madre) di non capirla, di non sforzarsi di conoscere il suo alfabeto eccetera. Nel ’75 prevaleva un’altra chiave di lettura: la prostituzione giovanile come spia di un disagio sociale e ovviamente politico. In un lungo discorso alla basilica di Massenzio, Berlinguer accusava la classe dirigente di lasciato il Paese in balia di “spinte che disgregano ogni valore morale, ogni principio di convivenza civile: da cui sempre più preoccupanti fenomeni come quelli della delinquenza, della violenza cieca e irrazionale, della droga, della prostituzione minorile, della disperazione”.
La tv aveva due canali, ancora per qualche anno in bianco e nero. Senz’altro organizzare un racket, o anche un semplice servizio di escort, doveva essere molto più complicato, in un mondo senza internet e cellulari. Ma ci si riusciva anche allora. E ci si preoccupava anche allora. La prostituzione esiste da tantissimo tempo, affermarlo è davvero un luogo comune. Ma come scrivevano sull’Unità più di trent’anni fa, non è detto che debba esistere per sempre. Magari esiste anche un modo per ridurla progressivamente, fino a farla scomparire: non saprei proprio indicarlo, ma non posso escludere che ci sia. Non credo che abbia a che fare con internet, cellulari, tv: la prostituzione (anche minorile) è un fenomeno un po’ meno recente. Non è un’eredità di Berlusconi né dei governi centristi degli anni Settanta. Non evidentemente è un segno della decadenza dei costumi, a meno di voler concludere che i costumi decadano continuamente. Forse è un fenomeno che andrebbe studiato con lenti meno appannate da moralismi e sensi di colpa che fin qui, a quanto pare, non sono serviti a molto. http://leonardo.blogspot.com
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Scuola di genocidio 1

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Ender's Game (Gavin Hood, 2013)

La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Quelli ancora implumi che non guardano le ragazze e sono imbattibili ai videogiochi. Gli adulti faranno solo i selezionatori; andranno in giro per le scuole medie come mercanti di bestiame in cerca del puledro più promettente. Sarà senz'altro un mingherlino caricato a molla con tutte le frustrazioni proprie dell'età, un fascio di nervi pronti a contrarsi e uccidere. Un giorno videogiocando i ragazzini entreranno in un livello appena appena più elaborato e sarà la guerra. Se ne accorgeranno, di non pilotare grumi di pixel sullo schermo, ma droni veri contro nemici mortali? Farà qualche differenza per loro? Tratto da un classico della fantascienza usa anni '80, Ender's game si è già parzialmente avverato: parla di droni, guerra preventiva, abolizione della privacy in nome della sicurezza; il tutto senza rinnegare la sua vocazione spettacolare.

Vi schiaccio come zanzare, E POI mi faccio venire anche
i sensi di colpa.
Sarà anche per l'età del protagonista (il 16enne Asa Butterfield, sempre fantastico), ma rispetto ad altri film di fantascienza della stagione Ender's Game sembra più orientato verso un pubblico giovane, anche a rischio di diventare una specie di Harry Potter Contro Starship Troopers.

In particolare il vero Starship Troopers (il romanzo di Heinlein) condivide con Ender un dettaglio rivelatore: è uno dei romanzi più letti nelle accademie militari USA. Ora, la fantascienza militare al cinema ha un problema (in realtà ce l'ha tutta la fantascienza, ma quando è ambientata in scuole d'addestramento si nota di più). Da una parte c'è un pubblico che ha esigenza di vedere battaglie, guerre, nemici annichiliti, ecc. A questa domanda la fantascienza non può rispondere con qualche varietà di mostri dalle ovvie cattive intenzioni, che sia lecito sterminare (zombie, vampiri, draghi, orchi). La fantascienza non è costituzionalmente manichea come il fantasy o l'horror; al massimo ti può fornire qualche razza aliena; ma sterminare una razza aliena non è proprio una buona cosa: senti come suona male, sterminare una razza? I film di fantascienza militare ci mettono un attimo a diventare fascisti.

Si può ovviare in vari modi: per esempio, immaginare alieni molto cattivi (Independence Day, La guerra dei mondi). Sono loro che hanno cominciato, l'uomo vuole solo difendersi. Guillermo Del Toro ci aggiunge la diffidenza latinoamericana per le forze armate e sostituisce l'esercito regolare con una brigata di robottoni partigiani che resiste all'invasore squamato. E tuttavia anche in casi come questi allo spettatore rimane un retrogusto di propaganda.

Nel futuro i fascisti hanno vinto. E indovina che macchina guidano.

Proprio su questa sensazione Paul Verhoeven costruì quel film che a un certo punto divenne Starship Troopers semplicemente perché i produttori acquistarono i diritti per il romanzo: l'idea originale era più debitrice del nazista Trionfo della volontà. Verhoeven (che non si diede mai la pena di leggere tutto il romanzo di Heinlein) risolse il problema del fascismo elevandolo alla massima potenza, con tanto di cinegiornali didascalici tra una strage di insetti e l'altra. Poi ci fece sapere che era una satira del nazismo. Purtroppo ce lo rivelò anni dopo, nei contenuti speciali del dvd: nel frattempo milioni di persone in tutto il mondo si erano goduti un film simpaticamente nazista senza nemmeno sospettare l'ironia.

Starship Troopers è anche l'esempio di scuola del film furbetto, che assume punti di vista ambigui non per disorientare gli spettatori, come la sana fantascienza dovrebbe fare, ma per conquistare due fette di pubblico senza dare noia a entrambe: il militarista ci trova tutta l'esaltazione delle virtù militari di cui ha bisogno, il pacifista si diverte pensando che tanto è tutta parodia. Anche Ender's Game purtroppo si risolve in un trucchetto simile: dopo aver insistito per un'ora e un quarto sull'irredimibile malvagità degli insetti alieni che minacciano la Terra nella sua stessa esistenza, arriva il finalino edificante in cui si scopre che, beh, non ve lo dico, comunque forse sterminarli non era tutta questa priorità. Rispetto al romanzo manca la volontà di insistere su questo aspetto (che ci costringerebbe a rivedere tutto il film da una prospettiva diversa). Sembra esattamente quel che è: un tentativo in extremis di prendere un po' le distanze dal fascismo che gronda indisturbato in tutto il resto del film. Tentativo fallito: Hood e il suo cast sono molto più a loro agio quando ci mostrano l'ascesa al potere del gerarca Ender, genocida predestinato: le battaglie sostenute per sottrarre agli altri maschi alfa la solidarietà del branco, l'astuzia innata con cui sfida o blandisce gli adulti da cui dipende il suo successo. Dietro il vetro, in realtà, gli adulti non cessano di studiarlo e di metterlo alla prova per vedere se crolla o diventa più forte. Ogni tanto passa sul set una psicologa progressista, dice che tutto questo stress farà male al ragazzo... ma suona terribilmente falsa. Non ci crediamo, Ender è una macchina per uccidere e vogliamo soltanto vederlo all'opera. Sì, beh, ha degli scrupoli, chi non ne ha... non ce ne frega niente, Ender, vai! Uccidili tutti!

La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Al comando metteremo quelli che prima colpiscono e poi, solo poi, si fanno venire qualche rimorso. Daremo loro divise colorate, ne vanno matti: caschi e ginocchiere e altre bardature, anche se la guerra la faranno seduti davanti a uno schermo. Gli adulti passeranno il tempo a ripeterci, come Harrison Ford, che il nemico sta per arrivare e ci vuole distruggere, e nessun compromesso è possibile. Ma alla fine si tratterà sempre di andarlo a snidare in qualche pianetino remoto, nella fascia degli asteroidi o in Afganistan. Ender's game è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:40. Ai ragazzini di prima media piacerà immensamente - finalmente un film che li guarda e vede in loro quel meraviglioso potenziale di assassini.
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Apocrifo del XXI sec

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Un assassino assurdo
Sale oggi al patibolo "Monsieur l'Antéchrist"


Un piccolo impiegato francese, un assassino senza movente e senza rimorso. Oggi ad Algeri si esegue la sentenza di morte contro l'assassino che ha fatto
inorridire una nazione. 


Questa è una storia normale. Una storia di un ragazzo spavaldo, cresciuto in una famiglie normalmente complicata in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. "È un bel tipo, sembra più maturo della sua età. Imbronciato, di poche parole. Non piange mai. Neanche davanti a un crocefisso". Un ragazzo andato a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all'avanguardia didattica, quando
l'educazione primaria era un valore. Cresciuto in un sobborgo dell'Algeri francese,
un triangolo soffocato dal traffico di auto e tram, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere tricolori, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici, e potrei andare a lungo ammucchiando dettagli inutili ma familiari, non so neanche perché lo faccio. Forse perché non ho la minima idea di cosa scrivere su questo tizio che ha ammazzato un arabo e si è difeso dicendo che faceva caldo. 

I fatti, allora. Meursault, lo chiamano così, qualche mese fa seppellisce sua madre. Durante il rito funebre non tradisce un'emozione. Del resto - come ammetterà al processo - lui e la mamma erano ormai estranei, da quando per motivi economici aveva deciso di confinarla in una casa di riposo. Esce dalla camera ardente per fumarsi una sigaretta, ne offre una anche all'inserviente. Il giorno dopo incontra in spiaggia una splendida ragazza e la invita al cinema. Vanno a vedere un film di Fernandel, l'idolo dei botteghini francofoni, il Checco Zalone d'Oltralpe. Nel buio della sala Meursault fuma e ride, forse comincia a sfiorare la nuova amica. La madre morta non è nemmeno più un pensiero lontano. Non è mai esistita. 

Nei giorni seguenti Meursault è coinvolto da un amico e vicino di casa, Raymond, in una squallida vicenda i cui contorni non sono ancora chiariti. Raymond è un donnaiolo, un violento: frequenta i bordelli, a volte si porta a casa le donne algerine che incontra per strada. Un mattino le urla dal suo appartamento svegliano il vicinato. Il gendarme che accorre trova una ragazza sanguinante. Per amicizia, o complicità maschile, Meursault testimonia che la ragazza aveva una relazione con Raymond, e che il diverbio era scoppiato perché "lo aveva tradito". Pratica archiviata. Ma la famiglia della ragazza non ci sta. Raymond e Meursault scoprono in fretta di essere osservati da occhi impassibili che non si perdono un movimento. Per strada. Sulla spiaggia. Frasi brevissime. Ai lettori piacciono.

In un pomeriggio più torrido del solito, su una spiaggia arsa dal sole scoppia la rissa. Qualcuno estrae un coltello. Raymond viene sfregiato, è solo un taglio superficiale. Meursault rimane tranquillo: ma poi, sotto il sole meridiano, si fa prestare la pistola dell'amico e uccide un membro della gang avversaria. Arrestato, non fa nessuno sforzo di difendersi: tanto l'hanno visto tutti. Non nomina nemmeno un avvocato: gliene viene offerto uno d'ufficio che fa quel che può, ma non riesce a convincere il suo cliente a simulare almeno una lacrima di fronte ai giurati. Meursault non piange: né davanti al feretro della madre, né alla prospettiva della ghigliottina. Sostiene - e sembra sincero - di non essere mai riuscito a provare puro dispiacere per qualcosa. Il giudice istruttore lo ha soprannominato "Monsieur l'Antéchrist", signore Anticristo. Dice di non credere in Dio, e fino a ieri non aveva mai voluto ricevere il confessore. Stamattina alla fine lo ha fatto entrare, ma pare che lo abbia cacciato a male parole. Marie, la ragazza che ha incontrato l'indomani della morte della madre, ha sperato in una grazia fino all'ultimo. Diceva a tutti che lo avrebbe sposato. E invece la vita di Meursault, questa traiettoria casuale e assurda, finisce oggi, com'è cominciata: senza un perché. 
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Leonardo non ti giudica

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6 novembre - San Leonardo di Limoges, (496-559) liberatore.

I santi a sinistra ti giudicano,
quelli a destra ti perdonano

All'eremita Leonardo, il primo re cristiano Clodoveo conferì un privilegio singolare: l'amministrazione della grazia. Ovunque avesse incontrato prigionieri, Leonardo avrebbe potuto liberarli. Prima che a lui, questo privilegio era stato concesso al suo maestro, Remigio vescovo di Reims. Nella storia della nazione francese, San Remigio ha un ruolo particolare: è lui il primo vescovo a battezzare cattolicamente un re barbaro, Clodoveo appunto. Con Remigio un clan di barbari diventa la prima dinastia regale della Francia cattolica, i Merovingi. Da lì in poi tutti i successori avrebbero cercato di farsi incoronare a Reims, la cui cattedra vescovile sarebbe diventata la più prestigiosa di Francia: quello che per l'Inghilterra è Canterbury, e per l'Italia ovviamente Roma. Alla morte di Remigio, la cattedra fu offerta a Leonardo, suo discepolo, di nobile famiglia intrecciata a quella regale. Leonardo rifiutò, non gli interessava la politica. Preferiva stare in campagna. Ma conservò comunque i privilegi di Liberatore.

Al Metropolitan di New York c'è una sacra conversazione di Correggio, con al centro Marta e Maddalena, e ai lati Pietro e Leonardo. Le due sante rappresentano, ovviamente, la vita contemplativa e quella attiva (anche se all'occhio moderno Marta sembra una suora e Maddalena una modella). Anche Pietro e Leonardo sono complementari: il primo ha ovviamente in mano le chiavi, il secondo le manette. Pietro è la giustizia, Leonardo la grazia. Pietro ti condanna perché è giusto, Leonardo ti libera perché è buono.

TANA LIBERA OMNIBVS

Il Leonardo storico, poi, ammesso sia esistito, non si sa quanti prigionieri realmente liberò: la sua scelta di vita in un eremo al centro della Francia profonda non si concilia benissimo col ruolo di negoziatore di ostaggi. Bisogna anche spiegare che ai suoi tempi, e per molti secoli ancora, la prigionia fu un business fiorente. Molta gente rinchiusa nei castelli non è che avesse infranto qualche legge (che peraltro non era quasi mai scritta, e poi tanto nessuno degli interessati sapeva leggere): erano stati catturati in guerra e aspettavano di essere scambiati con denaro o con altri prigionieri. Mille anni più tardi poteva ancora capitare a un aristocratico come Carlo di Valois di restare prigioniero per un quarto di secolo, in attesa che il fratellastro mettesse insieme la cifra necessaria ad affrancarlo. Oppure ci si poteva votare a San Leonardo. L'ultima spiaggia, in molti casi l'unica. Fu Boemondo re d'Antiochia, all'indomani della prima crociata, a riscoprire il santo liberatore dopo i secoli bui; catturato dagli islamici, Boemondo proclamava di essersene liberato invocando San Leonardo, e non grazie all'interessamento di un alleato indigeno, il re d'Armenia. Qualche epidemia e il ritrovamento miracoloso delle reliquie contribuirono alla riscoperta di un santo che aveva rischiato di perdersi nella nebbia dei secoli bui. Anche se ovviamente tutto quello che sappiamo di lui è leggenda, e nessuna di queste leggende è attestata prima del decimo secolo. Ci piace tuttavia immaginarlo a zonzo per la Francia immensa, mentre svuota carceri e prigioni destando l'indignazione di vassalli e servi della gleba, dov'è la certezza della penache razza di Stato di diritto è quello che rilascia i malviventi? eccetera. Uno Stato medievale, senza dubbio. Leonardo se ne frega dell'impatto sociale delle sue azioni; Leonardo ha scelto di essere la grazia incarnata. Alla giustizia ci pensino politici e magistrati. Non è un ministro; avrebbe potuto esserlo per formazione e per lignaggio. Non gli interessava. Del resto anche noi, troppe volte, nei ministri cerchiamo dei santi, degli intercessori (continua sul Post...)

È il famoso sostrato cattolico, che ci rende a volte incomprensibile la modernità (e viceversa: la modernità non riesce a capirci). Stimati opinionisti vanno in tv e si domandano: ma in fondo la Cancellieri cos’ha fatto di male? Ha aiutato un’amica. Pretendete che aiuti soltanto gli estranei? Si dà per scontato che un ministro debba comunque aiutare qualcuno. In questo consisterebbe il suo potere, o il suo privilegio: nel poter intercedere per noi. Sotto il cattolicesimo c’è una scorza di pessimismo ancora più profonda e pagana. Gli dei, se esistono, sono inaffidabili e continuamente presi dalle loro scaramucce. Non esiste una vera giustizia nel Caos: esiste un destino che fa quello che gli pare, avvinghiando gli stessi dei che a loro volta trascinano nella disgrazia gli umani votati a loro. Non resta che onorarne il più possibile, sperando che non si incazzino comunque per misteriose questioni restate in sospeso da millenni, e provare a entrare nelle grazie di qualche divinità più misericordiosa. Magari uno poco importante, periferico, che abbia tempo per ricordarsi di te e interesse a trattar bene i suoi clienti. I cristiani, quando arriveranno, li chiameranno “santi in paradiso”. È importante averne almeno uno. In teoria poi i cristiani dovrebbero credere in un Dio che sia giustizia pura e puro amore, e quindi non necessiti di alcuna intercessione. In teoria. In pratica i cieli e la terra restano quel caos che sono, e alla prima sfiga la gente si appende al telefono: solo tu mi puoi aiutare, tu che sei tanto buono, di’ una parola buona. Scetticismo e devozione sono due facce della stessa medaglia: chiedere cose ai santi (o ai ministri) significa non fidarsi di Dio (o della giustizia). Una concezione feudale, clientelare, diciamolo: mafiosa.

La modernità, viceversa, vista da lontano sembra un’entità monolitica disegnata dall’Emilio di Rousseau quando crescendo ha avuto nostalgia dell’ordine, poi è diventato giacobino e si è messo a falciar teste imparruccate. Non c’è bisogno di intercessioni né di altre deroghe alla norma, perché lo Stato tutto vede, tutto capisce, è un Ente Supremo che tutto giudica con giustezza e precisione: chi è in galera è dunque giusto che ci resti. Per la verità chi nella modernità c’è stato – in vacanza o in erasmus – ci riporta immagini più ragionevoli: anche laggiù si concepisce che le cose non sempre vadano come dovrebbero, e l’istituto pre-moderno della grazie è previsto e disciplinato dalle leggi. I privilegi concessi a San Leonardo vengono ancora oggi riconosciuti, per esempio, al presidente della Repubblica, o a quei governatori nei film americani che fino all’ultimo possono telefonare nella cella della morte e interrompere l’esecuzione, così, perché il dubbio e la pietà possono prevalere fino all’ultimo momento. Nei fatti non prevalgono quasi mai: sono tutti eletti che hanno ancora bisogno di voti, e le elezioni si vincono ostentando giustizia, piuttosto che grazia. La grazia viceversa le elezioni te le fa perdere (anche nei Paesi meno moderni), ed è giusto così. La giustizia ci riguarda come collettività, la grazia come individui. Voteremo sempre per chi ci promette ordine e certezza della pena, salvo appenderci al telefono quando la pena colpirà proprio noi. Non c’è nulla di strano. Probabilmente anche la singola formica, quando capisce che la regina ha deciso di sacrificarla, ha pietà per la sua sorte. Noi non siamo formiche e probabilmente a questo punto non lo diventeremo mai: siamo mammiferi onnivori che tendevano a collaborare per difendersi e cacciare prede più grosse, dopodiché ognuno per sé. Il fatto che siamo riusciti comunque a costruire edifici sociali straordinariamente complessi è sorprendente, ammesso che ci sia qualche dio la fuori disponibile a sorprendersi. Ma probabilmente dipende dal fatto che ci interessano prede sempre più grosse. Quel dio lo sa, e non ci giudica.

Anche Leonardo non ci giudica, non gli interessa. Viveva nei boschi per non dar fastidio a nessuno, e se incontrava un prigioniero lo liberava. Liberò anche la regina Visigarda dal bambino che portava nel ventre, o se preferite liberò il bambino dall’utero. Liberare e far nascere sono la stessa cosa: un atto di grazia. La giustizia arriva dopo, non ci guarda in faccia e non ci chiama per nome. È giusto che sia così. Ma non è grazioso.


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Cancellieri buh, vergogna, eccetera

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Da piccoli abbiamo tutti allenato la nazionale, e dopo aver vinto quei due o tre mondiali, crescendo, ci siamo ritirati sui blog, dove accanto alla lista dei libri e dei dischi migliori del mondo (scelti da noi) al massimo qualche volta ci càpita di presiedere la Corte Suprema dell'Indignazione, quella che ha il potere di chiedere le dimissioni anche a domineddio.

È in tal veste che, dopo aver preso sommaria visione dei fatti riguardanti il ministro Cancellieri e la scarcerazione della sua amica Giulia Ligresti; dopo aver soppesato i pro e contro e scelto le arringhe dei più titubanti difensori (Luca Sofri) e garbati accusatori (Massimo Mantellini) del ministro, dichiaro che, per quanto mi compete

Sono indignato. Credo che la Cancellieri dovrebbe dimettersi.
Segue la motivazione:

Sono indignato perché la Cancellieri ha aiutato un'amica; questo aiuto era perfettamente conforme alle leggi, al buonsenso e alla decenza; non è tuttavia decente che un ministro aiuti qualcuno piuttosto che un altro (anche quando questo uno non è esponente di un'associazione a delinquere a carattere famigliare, che incidentalmente la Cancellieri frequentava). Bisognerebbe aiutare tutti; e siccome ciò è impossibile, nell'esercizio delle sue funzioni un ministro non deve aiutare nessuno. Ho trovato particolarmente convincente Mantellini quando parla della "variabile umanitaria": il nostro problema è che "ci innamoriamo dell’eccezione, specie se questa contiene una quota sentimentale in grado di scaldarci l’animo. In nome di questo siamo disposti a ridiscutere i valori e perfino la struttura dell’organizzazione sociale". È un difetto che riconosco perlomeno in me stesso, ogni volta che sul posto di lavoro abbuono una nota o un'insufficienza perché rifuggo la crudeltà: invece di esercitare le mie funzioni, mi sembra di infierire su un debole o un inerme. Non ha nessuna importanza che questo debole o inerme sia povero o ricco, bianco o nero, e infatti Giulia Ligresti non è povera e non è simpatica; purtuttavia se fossi al posto della Cancellieri non sarei in grado di infierire su di lei, anche se ciò sarebbe non dico doveroso, ma coerente col ruolo che dovrei rappresentare (ministro della Giustizia in una nazione con prigioni indecenti). Capisco insomma la Cancellieri; ma in quanto presidente della Corte Suprema dell'Indignazione la condanno lo stesso a ricevere la mia accorata richiesta di dimissioni. Cancellieri buh! Cancellieri vergogna! Cancellieri dimettiti!

Esaurite le formule di rito, il qui presente si toglie il parruccone e torna un tizio qualunque, e si sente male.

Non per la Cancellieri, bravo ministro ma non indispensabile (tanto più che il governo non sembra dover durare ancora a lungo). Non per Giulia Ligresti, bando alle ipocrisie: a me interessa veramente poco della salute di Giulia Ligresti. Mi sento male perché non mi sembra di aver mai trattato con tanto disprezzo il pubblico, i lettori, gli italiani in generale. Sul serio penso a loro come a un branco di rancorosi pecoroni a cui dare in pasto la vittima sacrificale, la fanciulla della ka$ta anoressica e inetta alla reclusione? Tenerla in prigione piuttosto che fuori non serve a nient'altro che a questo: a soddisfare l'appetito di un pubblico frustrato che non sa con chi prendersela, e vuole il sangue. E io qui con la catinella che mi lavo le mani e mi domando: quid est veritas? Magari avete ragione voi, non sarebbe la prima civiltà ad aver istituzionalizzato i sacrifici umani. Se a questo siamo.

Eh? No, scusate, pensavo a voce alta. Non lo faccio più. A che punto era il coro? Ah sì: Cancellieri buh! Cancellieri vergogna! Cancellieri dimettiti!
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Il partito più e meno democratico

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Immaginate un Paese con due partiti. Veramente ce n'è anche un terzo, molto importante, ma il suo proprietario è anziano e non si rassegna a passare la mano, nemmeno ai figli. Gli altri due partiti invece si considerano entrambi a loro modo democratici, anche se questa cosiddetta democrazia non potrebbe prendere due forme più diverse.

Il primo partito è nato un po' prima dell'altro. Riconosce il diritto dei tesserati a esprimere candidature e proposte, ma nei fatti tutte le decisioni vengono prese dal comitato dei fondatori. Prima di poter prendere parte alla discussione i tesserati devono attendere molti mesi. Il secondo partito, anche per volontà di distinguersi, ha aperto le porte a tutti: chiunque può entrare, aderire e votare immediatamente. Ne risulta un certo caos. Li avete riconosciuti? (continua sull'Unita.it, H1t#203)

Il primo è quello nato nel 2005 sotto forma di Meetup Amici di Beppe Grillo, e che oggi chiamiamo Movimento Cinque Stelle. Beppe Grillo ne è presidente, coordinatore e portavoce, e soprattutto possiede il marchio: lo può ritirare a chi vuole quando vuole. Dopo tante insistenze da parte della base, finalmente il movimento si è dotato di una piattaforma digitale, pomposamente definita “sistema operativo” per condividere proposte e iniziative. Per ora però possono accedervi soltanto i tesserati al giugno 2013: una precauzione per evitare le infiltrazioni (anche quando si trattò di nominare un candidato m5s al Quirinale, la consultazione telematica fu ristretta a chi si era tesserato entro il dicembre dell’anno scorso).
Il secondo è il Pd, nato nel 2007, e che da allora non ha praticamente mai smesso di consultare una base magmatica, in perenne evoluzione. All’inizio addirittura il fondatore Veltroni voleva fare a meno di tessere – ma forse aveva in mente un modello plebiscitario, in cui la vittoria alle primarie avrebbe legittimato un leader e il suo staff a prendere qualsiasi decisione ritenesse necessaria. Il leader però era molto meno sicuro del necessario, e la sconfitta elettorale finì per indebolirlo anche agli occhi di chi lo aveva sostenuto. Da lì in poi ha ripreso forza l’idea di un partito radicato attraverso federazioni, sezioni e tesseramenti: senza che l’ideale plebiscitario tramontasse del tutto. Il risultato è il caos di questi giorni, denunciato da Cuperlo e preannunciato da CivatiI vecchi rais delle tessere rialzano la testa, e a contrastarli non esiste nemmeno più quella norma di buon senso per cui durante una campagna congressuale il tesseramento dovrebbe essere sospeso.
Il risultato è paradossale: il Pd ‘verticista’, il Pd ‘baluardo della partitocrazia’, è di fatto il movimento politico più aperto e scalabile che esista in Italia. Al confronto il M5S, con la sua selezione all’ingresso, sembra una setta esoterica. In realtà entrambi i partiti sono meno democratici di quanto li vorremmo. Il M5S non riuscirà probabilmente mai, per costituzione, a liberarsi dal suo padre-padrone; il Pd sta per nominare il suo quinto segretario in sei anni, eppure non riesce a trasformare un’occasione di democrazia in qualcosa di diverso da una guerriglia tra gruppi dirigenti, condotta sezione per sezione.http://leonardo.blogspot.com
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Vedovi non ci si improvvisa

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Madonna quanto sei brutta
Aspirante vedovo (Massimo Venier, 2013).

Più di mezzo secolo è passato e la Torre Velasca è ancora là. Spuntata come un fungo nelle notti umide e ruggenti del boom, non si è piegata a tornadi e tangentopoli e ha resistito a ogni tentativo di rivalutazione: è brutta, incredibilmente brutta, sarà sempre più brutta, e nel 2012 il Daily Telegraph lo ha inserito tra i venti edifici più brutti del mondo. Ma Dino Risi lo aveva capito nel '59: per darci tutto il brutto del boom e di Milano, inutile darsi pena di costruire set e ambienti: bastava far scorrere i titoli di testa su quel torrione malvagio. L'incapace Nardi e l'insopportabile Elvira non potevano vivere che lassù, prigionieri reciproci intenti a torturarsi fino che morte non li separi. E se la morte non si dà una mossa, le si può sempre dare una spinta...

Cinquant'anni dopo, c'è ancora qualcuno lassù. Perlomeno di notte si vedono luci. Nuovi Nardi dribblano i fallimenti e nuove Elvire tessono trame. Non c'è motivo per non provare a raccontarle. Con buona pace dei cultori della commedia italiana, Il vedovo è un buon canovaccio che ogni tanto bisognerebbe ricordarsi di rifare - semmai la notizia è che abbiamo aspettato così tanto, al punto che il nuovo Nardi risulta nato dieci anni dopo la morte del vecchio. Non è un capolavoro indissolubilmente impregnato dello spirito di quei tempi; non è Il sorpasso, ammesso che il Sorpasso sia questo; e poi quest'anno abbiamo avuto in sala pure un tentativo di 8 e mezzo: come ci si fa a offendere se qualcuno raccatta due facce note della televisione e prova a rifare il Vedovo?  E invece c'è qualcuno che si offende. Giù le mani da Albertone, giù le mani da Franca Valeri, formidabili quegli anni. Sì.

Erano anni formidabili. Sordi faceva dieci film all'anno, e nel '59 tra l'altro vinse David e Nastro con la Grande Guerra: insomma era al picco di una lunghissima carriera. E mentre era al picco recitava in un film al mese: alcuni di questi, come il Vedovo, realizzati con un'attenzione quasi spartana al budget. Risi, che era pur reduce dal successo della trilogia di Poveri ma belli, gira tutto in tre stanze e in una villa di campagna. Vi ricordate che Nardi, quando scopre che Elvira è ancora viva, si ritira in convento? Se ridate un'occhiata al film, scoprite che il convento non c'è: una strada di collina, un albero, un frate che cerca di insegnare ad Albertone a far rispondere gli uccelli, e via che si va. Erano gli anni del boom, la gente andava al cinema una volta alla settimana, i soldi scorrevano copiosi dai botteghini - e però Risi continuava a girare con due lire.  Oggi invece c'è la crisi, e Venier non bada a spese - perlomeno l'impressione è quella: conferenze, aeroporti, grattacieli; tutto fotografato persino con qualche pretesa artistica. Venier può trasformare la Velasca da semplice fondale a presenza granulosa e ostile; Venier può concedersi il lusso di far recitare gli attori più difficili, gli animali. Ma qualunque cosa faccia (e alcune sequenze sono fatte davvero bene) pubblico e critici preferiranno sempre il filmetto girato in pochi giorni da Dino Risi nel '59, così come nessuna Audi Quattro sostituirà nel loro cuore la Cinquecento della loro prima pomiciata. E poi certo, De Luigi non è Sordi, ma lo sa. Il riflusso e la crisi gli hanno messo a disposizione decine di altri modelli di rampante frustrato, ma lui rimane un po' sfuocato; è davvero difficile immaginarlo palazzinaro o faccendiere... (continua su +eventi!) Si capisce che qualsiasi tentazione di berlusconizzare il personaggio è stata scartata a priori: Aspirante vedovo è un film ancora meno politico dell'originale, dove i trascorsi e le nostalgie fasciste di Nardi saltavano ogni tanto fuori. Ma era più facile essere antifascisti nel '59 che antiberlusconiani oggi. Al cinema bisogna cercare di portare più gente possibile, compreso chi Berlusconi l'ha votato per parecchio e adesso non vuole sentire rimproveri nemmeno indiretti; ma magari è sensibile a un paio di frecciatine anti-kasta ("con questa crisi c'è da far soldi a palate, eh").


Anche la Littizzetto non è Franca Valeri, anche se la sua Elvira (persino meno empatica dell'originale) è il personaggio migliore che ha fatto al cinema. Certo, sostituire "cretinetti" con "gnugnu" è una delle poche cose che fanno davvero pensare a una decadenza più che culturale, linguistica: cretinetti era un'invenzione che metteva assieme frenologia e anagrafe, "gnugnu" è un'onomatopea, una resa alla non-lingua dei bambini e degli animali. Pesa come un macigno su di lei il ruolo ormai liturgico che ha assunto a rai3, la sacerdotessa della parolaccia che ci aiuta a sopportare mezz'ore di interviste a venerati maestri, dai che dopo il premio nobel c'è la Litti che dice merda fregna vaffanculo. E questa è la tv colta. Anche Aspirante vedovo è percepito come prodotto medio-alto; critici e ufficio stampa ne sottolineano per esempio l'assenza di volgarità. Allora uno curioso va a vedere come hanno fatto a girare una commedia nel 2013 senza volgarità, e scopre che i primi cinque minuti del film sono costruiti intorno a gag sulla cacca del cane. Per dire quanto ormai si sia abbassata l'asticella: a De Luigi scappa anche un vaffanculo nel trailer. Altre cose che nell'originale mancavano e che adesso si possono mostrare: topi morti, psicofarmaci, chirurgia plastica, formaggio di fossa, rumeni, vescovi mondani e intrallazzoni (bravissimo Bebo Storti). Cose che c'erano nell'originale e oggi evidentemente non funzionano: nobili in disarmo, nazisti e pedofili (l'ingegnere degli ascensori era entrambe le cose), il mambo. Cose che potevano sembrare verosimili 50 anni fa e oggi no: l'amante che si fa viva al funerale e comincia a dirigere la servitù. E ammazzare qualcuno con un ascensore poteva avere un senso. Invece il piano per assassinare la Littizzetto è in assoluto la cosa più sconclusionata e inverosimile che ho visto quest'anno al cinema - e ho visto la fine del mondo due o tre volte, zombie e robottoni e cloud atlas.



Aspirante vedovo è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:35 e alle 20:30; al Fiamma di Cuneo e alle 22:30. È già fuori da più di due settimane; se non ci siete ancora andati magari un motivo c'è.
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La Francia è una cosa che esiste

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(Ancora sulla Vita di Adele, e contiene spoiler).

Distinto Asso, leggendo giusto iersera la sua gustosa doppia recensione, sono rimasto colpito da questo lungo passo, che mi perdonerà se cito nella sua interezza.

Le giornate della ragazza si dividono tra la scuola, dove Adele e i suoi compagni leggono con attenzione e analizzano complesse opere letterarie (e qui, sin da subito, il regista mette in chiaro che tutto il film non è nient'altro che una favola), la famiglia (dove genitori gentili sopportano una figlia che non riesce nemmeno a masticare con la bocca chiusa), le amiche e i ragazzi (dove anche il più scemo ha comunque letto Le Relazioni Pericolose ed è in grado di parlarne). Non si vede un cellulare, un computer o Facebook, proprio per rimarcare ancora di più il distacco tra il mondo fantastico di Adele e quello reale.
Ad un certo punto Adele incontra Emma, una ragazza lesbica. Ovviamente Emma non è una lesbica qualsiasi. Prima di tutto è bellissima pure lei, di una bellezza quasi aliena, poi - pure lei - è un pozzo di cultura (sciorina Sartre come fosse un amico suo) è molto sensibile, gentile, comprensiva e piena di talento.
A sottolineare ancora la natura favolistica di tutta la faccenda, Emma ha i capelli azzurri proprio come la Fata Turchina e, proprio come la creatura di Collodi, ha un ruolo determinante nell'educazione di Adele.
Le due, dopo un primo momento di titubanza, si mettono insieme.
Sono grandi baci, sesso ruvido ma patinato, e ancora ambienti e situazioni fantasiose: Emma diventa rapidamente un'artista di grido, Adele insegna ai bambini ed è felice della sua condizione di insegnante (va bene il contesto fantasy, qui però si esagera), ci sono salotti buoni dove tutti, ma proprio tutti, sono gentili e acculturati, famiglie aperte e comprensive, famiglie meno aperte ma comunque che non rompono i coglioni e poi le inevitabili tensioni di coppia, i tradimenti, le liti, la rottura e le frasi urlate come nei film. Poi ci sta lo stare male, il rivedersi, il non trovarsi e tutte cose tipiche di una coppia (etero o gay poco importa) più o meno in crisi, ma tutte rappresentate in maniera così straordinariamente civile e garbata e a modo che giusto a Topolinia o nella Contea.
Non so perché però mi è venuta voglia di intervenire, e precisare che c'è un altro luogo oltre a Topolinia o la Contea, dove si sarebbe potuto ambientare La vita di Adele; un luogo assai famoso e ben noto agli autori di fumetti, ovvero la Francia. E in effetti La vita di Adele è ambientata proprio là, in una Francia così Francia che è quasi Belgio; ed è una storia tutto sommato realistica, anche se è più divertente immaginare il contrario.

Ma in effetti nella Francia reale ci sono licei dove si legge Marivaux, e se ne discute, e non dovrebbe stranirci la cosa; anche noi al liceo leggevamo romanzi del Settecento - cioè no, perché non abbiamo romanzi del Settecento - insomma alla fine ci buttiamo sempre sull'Ottocento e persino Foscolo non ha lo stesso sex appeal dei libertini e delle cortigiane. Comunque se i nostri liceali, invece di continuare a tradurre versioncine di latino, si leggessero qualche mattone settecentesco per tre-quattro ore alla settimana, alla fine ci si affezionerebbero come si affeziona Adèle. Naturalmente serve anche la predisposizione - e infatti Adèle si innamora di un libro dove una ragazza semplice è fulminata dall'amore per un tizio di una classe sociale superiore; si mette insomma in chiaro da subito che la letteratura non risolve i tuoi problemi, al massimo te li anticipa. La letteratura ha un valore profetico, se da ragazzino ti piace Pascoli hai grosse possibilità di morir zitello, ecc.

Dopodiché in Francia, la Francia di adesso, quella che confina con la nostra disgraziata nazione, i teen-ager nascono probabilmente più o meno stupidi come i nostri, e senz'altro il più scemo non ce la fa a leggere le Relazioni pericolose; nel film infatti non l'ha letto da solo, e lo ammette: lo ha letto in classe. Gli è piaciuto perché un insegnante gliel'ha fatto piacere. In Francia ciò succede, fino a qualche tempo fa sono sicuro che succedesse anche in Italia, perché a me un'insegnante riuscì a farmi piacere cose incredibili, Tasso, Verga, ecc.

Il ragazzo in questione, poi, non è così scemo: ha tirato fuori Le relazioni pericolose perché ha capito che Adèle è il tipo intellettuale. E per Adèle farebbe qualsiasi cosa e anche di più, visto che promette di leggersi tutta la Vita di Marianna, un mattone settecentesco inaffrontabile. È fantascienza? no, è la vita in un normale liceo in Francia: c'è una ragazza a cui piace leggere, una scuola che riesce a orientarla verso prodotti letterari non banali, un ragazzo che per avere una chance si andrà a comprare un mattone settecentesco inaffrontabile di cui, siamo pronti a scommettere, sfoglierà soltanto le prime trenta pagine. Tutto questo nel fumetto originale non c'era: è una scelta del regista.

La famiglia di Adele tollera che lei mangi con la bocca aperta, perché... in quella casa mangiano tutti così. E mangiano spaghetti. Il cibo in Kechiche ha un simbolismo tutt'altro che raffinato: spaghetti a bocca aperta = proletariato; ostriche e champagne = borghesia. Altre cose che nel fumetto non c'erano, e ci fanno capire che Kechiche aveva altri fantasmi in testa mentre lo sfogliava. La lotta di classe, ma chiamiamola pure invidia di classe. In ogni caso, nel momento cruciale la ragazza borghese cita Sartre, e la ragazza prolet dice che è più o meno la stessa cosa di Bob Marley. Ora, io nei primi Novanta andavo a un liceo, e un dialogo del genere l'ho trovato assolutamente credibile. Parlavamo così, eravamo buffi, ma non ridicoli. Leggevamo roba importante per darci un tono (ma poi magari ci piaceva davvero e ci aiutava a capire cose di noi stessi che oggi non avremmo il coraggio di affrontare; abbiamo fatto bene a leggerla allora, quando insieme a tanta spocchia avevamo ancora qualche cellula attiva). E poi ascoltavamo le cose che ascoltavano tutti: Bob Marley. Infine mescolavamo tutto assieme, e quel mix apparentemente imbevibile era effettivamente la nostra vita. Col senno dei poi, Bob Marley non è assolutamente Jean-Paul Sartre, ma L'esistenzialismo e l'umanesimo non scava necessariamente più a fondo di Rastaman Vibration. Ed è assolutamente pacifico che nella civiltà liceale francese Sartre e Camus siano rimaste due rockstar culturali: se n'era accorto già Boris Vian, per cui vedi anche il film di Gondry tratto dalla Schiuma dei giorni. Ci può sembrare inverosimile, eppure io mi ricordo un ragazzino che si lesse tutto il Mito di Sisifo in quarta liceo perché la prof di francese - la più antipatica prof mai conosciuta - glielo aveva messo davanti al naso, invece di qualsiasi altra cazzata ci si possa leggere a 16 anni. E in effetti, guarda un po', non l'ho più riletto da allora e non credo mi piacerebbe, ma temo proprio che quel libro sia il mio destino. Comincia con un l'unico dilemma filosofico veramente importante (ci suicidiamo o no?) e non contiene una risposta proprio chiarissima.

Tornando al film: è vero, non si vede un cellulare, un computer o Facebook... perché la storia è ambientata negli anni Novanta, quando i device esistevano ma erano meno pervasivi; la cosa diventa evidente in uno dei momenti più toccanti del film, quando tornando a casa dal suo primo appuntamento Adèle si sente dire che "ha chiamato una tua amica, Emma si chiama": quel caratteristico tuffo al cuore negli anni Novanta lo abbiamo sentito tutti. Magari i ragazzi negli anni Zero ne hanno provati di simili leggendo nomi sui display. Ci si potrebbe anche lamentare di come Kechiche non abbia voluto o non sia riuscito a periodizzare la storia, assorbito com'era dalla necessità di stringere su Adele. Io, parlo per me, sono così stuccato dalla mania del vintage nei film, dalla precisione filologica con cui un film di metà anni Settanta conterrà sempre esattamente i costumi e i caroselli di quell'anno, che di sicuro non mi vado a lamentare per una volta che c'è un regista che se ne fotte. Comunque gli anni Novanta spiegano anche i capelli turchini: non era poi così raro trovare chiome azzurre o fuxia o giallo evidenziatore, specie nel parcheggio del liceo d'arte. È successo. Tutta colpa di Bilal, forse. È una delle poche cose che appena un po' mi manca.

Né Emma né Adèle sono bellissime. In particolare Emma potrebbe essere più bella di così. È l'occhio del regista che le trasfigura, secondo me. Da un certo punto in poi è evidente la presenza di un Dio dall'altra parte della macchina da presa, un Dio geloso (ed eterosessuale) che magnifica Adèle e s'ingegna a rendere Emma più antipatica di quanto non sia. Emma non diventa artista di grido: sta appena cominciando a esporre davvero quando finisce il film. Ma era necessario che facesse carriera, perché Kechiche la voleva borghese e questo è quello che i borghesi fanno: nascono ribelli, mordono il freno, poi trovano il passo giusto e hop! si sistemano. Mentre Adèle non ci riesce. Ed è il motivo in cui si mollano (secondo Kechiche): si piacciono tantissimo, ma sono di due caste diverse. Adèle capisce l'arte ma non capisce la carriera; per un po' prova a fare la donna di casa ma Emma in quel ruolo non la sopporta; vorrebbe che Adèle avesse la stessa ansia di autoaffermazione individuale, che tirasse fuori da qualche cassetto un diario geniale, e invece no. Adèle vuole cucinare per la sua donna e insegnare nella scuola dell'obbligo, perché sente che la scuola dell'obbligo le ha dato tanto e si ritiene obbligata a restituire qualcosa. È il senso di un altro bellissimo film di qualche anno fa, Stella: l'autobiografia di una ragazzina che vive letteralmente in un bistrot, un'osteria, circondata dall'affetto degli alcolisti del quartiere. Non scommetteremmo un eurocent sul suo destino, ma le capita una cosa curiosa: per sorteggio viene mandata in una bella scuola media di un altro quartiere. Lì scopre che studiare le piace - le piace anche giocare a biliardino con gli ubriaconi, però ci sono scuole in alcuni quartieri che funzionano: prendono gente che in casa ha fusti di birra al posto dei libri e la mettono davanti ai libri, ai film, alla musica. La ragazza cresce e appena può fa un film su quanto sia bella la scuola media francese. È il suo modo di restituire il favore.

Altri si accontentano di mettersi a insegnare. Hanno avuto buoni maestri e vorrebbero restituire quello che hanno ricevuto. Non è il mondo delle favole. Era la motivazione che ha portato a insegnare tanta gente anche noi, almeno fino a una generazione fa. Poi non è che sia successo chissaché: è solo che non è stato più immesso in ruolo quasi nessuno. Adele insegna ai bambini ed è felice della sua condizione di insegnante perché in effetti insegnare ai bambini, in scuole pulite e ben tenute, con colleghi giovani come lei, è una cosa stimolante. Faticosa, ma stimolante. Crescendo negli ultimi vent'anni in Italia siamo magari portati a pensare che l'insegnante medio sia una cinquantenne acciaccata, distrutta dalla fatica di far convivere famiglia e lezioni: basterebbe calare un po' la media, e prevedere soluzioni di praticantato come quelle della neodiplomata Adèle, per cambiare un po' il paesaggio e l'umore complessivo (anche la cinquantenne si sente meno acciaccata se trova più giovani in sala insegnanti, e magari invece di tumori e badanti si discutesse anche di dove andare a ballare tutti assieme).

È vero che sembra tutto straordinariamente civile e garbato, ma in realtà a ben pensarci non lo è: cacciare una ragazzina di casa di notte, a Lille, senza neanche chiamarle un taxi, è roba da galera, tanto più che Kechiche ci ha da un pezzo insufflato il sospetto che l'arrivista Emma stia soltanto aspettando un pretesto per sganciare la sua toy-girl di periferia. Se tutti ci sembrano civili e garbati è soltanto perché ci è inevitabile confrontarli con immaginari omologhi italiani, e purtroppo, non solo per colpa di Muccino, ci vengono in mente soltanto attori costretti a urlare come ossessi T'HO VISTO CHE LO BACIAVI T'AMMAZZZOOOOO!!!! T'AMMAZZOOOO!!! anche se poi alla fine la Mezzogiorno non solo non lo ammazzava, Accorsi, ma se lo riprendeva pure in casa (i francesi in effetti non è che siano meno stronzi di noi, anzi; sono soltanto più educati). Non manca la tragedia, anzi. Non mancano le lacrime. Non mancano le liti furibonde. Non manca nemmeno la rissa di comari nel parcheggio del liceo. L'unica cosa che manca è il melodramma. Le basi musicali strappalacrime e le urla scomposte. Si può raccontare la fine di un amore anche senza, e commuove lo stesso. Io addirittura mi commuovo di più, ma forse ho qualche gene normanno.

Parte della mia commozione deriva anche dal fatto che so che tutta questa non è una favola, ma un Paese che esiste a poche ore di treno da qui, la Francia. E che tutto questo sarebbe potuto succedere anche qui. Bastava un nonnulla, forse, una farfalla in Brasile, un vulcano indonesiano che non erutta proprio l'anno di Waterloo, offuscando parzialmente l'atmosfera e creando le premesse per un anno senza estate in cui i cannoni di Napoleone si infangarono e non poterono spedire al creatore quei diecimila fantaccini tedesco-russo-inglesi, il sacrificio necessario a vivere in un Paese con scuole decenti, e dove ci sono i bulli di periferia esattamente come da noi; però se li incontri sull'autobus ti dicono bonjour e se ti conoscono appena un po' ti stringono la mano, perché anche un bullo di periferia è comunque un essere umano e non un animale. Maledetto vulcano indonesiano. Ma non è vero. Non è colpa sua.

È colpa nostra. Dipende da noi. Non dico che basterebbe poco, ma se ci mettessimo tutti d'accordo potremmo fare di questo posto una Francia in una generazione. Servirebbe qualche soldo in più alle scuole, senz'altro. Cambiare qualche programma, pensionare qualche venerato maestro che ritiene che "il latino apra la mente" e balle del genere.

Più in profondo, dovremmo smettere di pensare che è impossibile: che le ragazze di periferia non si possono affezionare a romanzi settecenteschi o saggi di filosofia; che non si possa diventare maestri perché dopotutto è un bel mestiere; che non ci si possa lasciare senza far piazzate. Non è affatto impossibile, visto che funziona appena a qualche centinaio di chilometri da qui. Funziona.

Ed è tutto fuorché un mondo perfetto. Senza tanto parlare di mafia o di camorra, si ammazza e si delinque più o meno come da noi. E un cuore spezzato a vent'anni fa comunque male: aver letto Sartre o Marivaux non previene la cosa. Io ho il sospetto che un po' la possa alleviare, ma non sono sicuro; del resto che ne so, mi piaceva Pascoli.
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