In che guaio ti stai cacciando, Matteo Renzi

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Tre giorni fa Matteo Renzi non voleva andare a Palazzo Chigi. "Chi me lo fa fare", diceva ai giornali. Eravamo in tanti, con lui, a non capire il senso di un'operazione che sembrava ancora il parto allucinato di qualche commentatore politico in crisi d'astinenza da retroscena. In seguito ha evidentemente cambiato idea. Non c'è niente di male nel cambiare idea; succede a tutti tranne ai cretini. Il problema è che giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, Renzi si è messo da solo nella situazione in cui qualsiasi passo farà oggi sarà un passo falso. Se Letta cadrà, si ritroverà addosso i panni di D'Alema del '98: gli saranno rinfacciate quotidianamente le promesse tradite di ridar voce ai cittadini e chiudere con gli intrighi di palazzo. È una prospettiva deprimente, ma lasciare Letta al suo posto dopo averlo apertamente sfidato sarebbe una sconfitta ancora peggiore e Renzi non se la può permettere. Si è esposto troppo. In fondo fa parte del suo stile: chi lo ha scelto come segretario del Pd aveva in mente probabilmente qualcosa del genere. Un giovane all'arrembaggio del palazzo che non si fa scrupoli a dire quel che pensa, anche se in tre giorni gli può capitare di pensare cose assai diverse: Renzi è fatto così, lo abbiamo scelto così, inutile prendersela con lui.

D'Alema era diverso - e nessuno sembra avere nostalgia per i suoi tempi: nemmeno D'Alema stesso. Anche a lui capitò, nel '98, di cambiare idea; forse una maggiore esperienza gli suggerì di non strombazzare prematuramente sui giornali "chi me lo fa fare": purtroppo la Storia ci insegna che c'è sempre qualcuno che riesce a farci fare qualcosa, il Quirinale o la Nato o la crisi o la Ue. Le trattative che intavolò in quei giorni con Scalfaro, Ciampi e Cossiga, rimasero quasi del tutto riservate: D'Alema non passò per una banderuola. In compenso non poté più scrollarsi di dosso l'immagine di segreto tessitore di trame. Ecco un rischio che Renzi e Letta non corrono: tra una conferenza stampa e una riunione in streaming, abbiamo finalmente la possibilità di assistere al parto di un progetto politico in diretta. Purtroppo, come tutti i parti non è un bello spettacolo: c'è il sangue, gente che urla e maledice i propri affetti; forse era meglio restare in sala d'attesa a riflettere (continua sull'Unita.it, il sito di un quotidiano che ha compiuto 90 anni, e non li dimostra).

Forse è un po’ presto per azzardarsi a dire che si stava meglio prima: quando i lunghi coltelli si snudavano di notte, i panni sporchi si lavavano in riunioni a porte chiuse, e al mattino vincitori e vinti rilasciavano ai giornali dichiarazioni unanimi. Una delle conseguenze forse non previste dell’aver mandato giovani quarantenni al potere è questa drammatizzazione della scena politica: sempre meno simile a un salotto di anziani che confabulano mentre Vespa annuisce e aspetta il momento giusto per chiamare la pubblicità, sempre più affine a un reality di Maria De Filippi con giovani uomini e giovani donne che parlano prima di pensare, poi in esterna cambiano idea e si fanno le piazzate. Lo stesso Enrico Letta che di fronte al baratro convoca una conferenza stampa e tira fuori dal cassetto un programma di governo pieno di buoni propositi fin qui non realizzati, che figura ci fa? È inevitabile immaginarsi un ospite di C’è posta per te che promette al partner che d’ora poi si comporterà bene e non sarà più geloso e distratto mentre la busta, implacabile, si richiude su di lui. Chiudi, Maria, è finita.
Si poteva fare di meglio? Sembra proprio di sì. Forse Renzi e Letta avrebbero dovuto parlarsi di più; forse le trattative per allargare la maggioranza avrebbero dovuto restare in un primo momento riservate, quanto basta per evitare la corsa al totoministri sui quotidiani (ammesso che sia possibile fermarne la deriva retroscenista). Forse la direzione del PD dovrebbe essere un luogo dove ci si confronta, in modo anche duro, finché non si trova una sintesi; non una videoconferenza in cui tutti fanno il proprio numero e il segretario si riserva il diritto di ribattere in conferenza stampa. Forse Renzi dovrebbe riflettere un po’ di più prima di affermare qualcosa di cui si potrebbe pentire il giorno dopo, e non dare l’impressione di arrivare a Roma ogni tanto come un fulmine distruttore, dal momento che in gioco c’è anche la sua credibilità. Ma si può chiedere a Renzi di essere un po’ meno Renzi? http//leonardo.blogspot.com
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Porci alle perle

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Roberto "Freak" Antoni (1954-2014)

Temo che sarà inevitabile, a questo punto: qualche giornalista in cerca di carne da coccodrillo sfoglierà l'archivio fino a trovare un'intervista vecchia o nuova in cui Freak Antoni si proponeva nel triste numero del rancoroso di talento. Scopriremo per l'ennesima volta cosa pensava dei colleghi ed ex amici che avevano fatto molti più soldi di lui: di Vasco che non faceva più niente di buono dall'ottanta-e-qualcosa, di Elio mestierante senza nulla da dire, Ferretti ipocrita criptofascista... Sto andando a braccio, non ho voglia di controllare. Purtroppo le cose funzionavano così: giornalista andava a trovare Freak Antoni, giornalista non sapeva cosa domandare a Freak Antoni, e magari dopo qualche deprimente scambio sullo stato di salute, si rassegnava ad alzare un pallonetto, sicuro che Freak Antoni l'avrebbe schiacciato quel che basta per farci un titolo: l'ex cantante svuota il sacco su Vasco, su Elio, su Lindo, le solite miserie.

Un po' era anche colpa sua, la franchezza può essere salutare come un balsamo, ma alla lunga stanca come qualsiasi altro balsamo. E non basta aver ragione: non c'è alcun dubbio che Vasco non canti più nulla di interessante dal 1986; che Elio sia soprattutto un mestierante (e avercene), Ferretti un guru opportunista, eccetera. Tutte opinioni sostanzialmente ragionevoli, ma avremmo preferito non sentirle da un collega che semplicemente non ce l'aveva fatta. Al netto di tutto il romanticismo dei poeti maledetti, questa posa che ti prendi a sedici anni e poi quando cerchi di staccartela di dosso ti accorgi che fa male, che ti si è radicata sottopelle... al netto di tutte queste menate la carriera musicale è simile a tante altre carriere in cui sopravvivi soltanto se trasformi le tue vaghe intuizioni iniziali (che passano sotto il tronfio nome di talento) in una prassi professionale. L'accostamento a Vasco (di due anni più vecchio) è il più brutale ed eloquente: l'arrivismo del provinciale contro il nichilismo del cittadino; il realismo urbano contro l'avanguardia; la provocazione come espediente per conquistare la scena contro la provocazione per il gusto di distruggere qualsiasi scena; gli anni Ottanta contro il '77; più tardi, il rock da birreria contro il punk da teatro. Sin dall'inizio non era possibile avere dubbi su chi avrebbe conquistato la critica e chi avrebbe fatto i soldi veri: e allora perché prendersela? D'altro canto aver visto questo sfattone scendere dalla montagna e finire nel giro di pochi mesi a Discoring può essere stato uno choc difficile da mandar giù: ma se sei l'avanguardia queste cose le devi mettere in conto. Purtroppo non siamo tutti molto bravi a mettere in conto le cose; gli artisti soprattutto, e Freak Antoni un artista è rimasto, più di quanto forse lui non volesse.

Gli altri no, sono riusciti a diventare qualcosa di meno interessante e più redditizio. Vasco almeno ce l'ha fatta alla grande; Elio e compagnia diciamo che l'hanno sfangata, Ferretti ci ha provato ma attualmente alleva cavalli. Antoni? Non ha mai dato la sensazione di volerci nemmeno provare. Possiamo chiamare questo atteggiamento integrità, ma a quel punto è inutile lamentarsi del pubblico di merda. Avreste preferito un Freak Antoni di successo, un Freak Antoni invitato come disturbatore a Sanremo? L'avanguardia alternativa non fa sconti comitiva. Gli Skiantos sono quel classico esperimento che funziona soltanto in laboratorio: Mi piacciono le sbarbine avrebbe potuto diventare anche una hit; le potenzialità c'erano, ma a quel punto saremmo stati i primi a dissociarci disgustati.

In realtà in tanti momenti della sua vita un po' complicata dalle sostanze, a Freak Antoni un po' di sano successo commerciale avrebbe fatto comodo. Faceva sempre un po' strano ascoltare prediche sull'integrità artistica dall'autore e interprete di Ti spalmo la crema. Qualche singolo in radio, qualche ritornello un po' più paraculo, provò a piazzarli anche lui. Salvo che non funzionarono mai, chissà perché - sfiga, incostanza, cattivo management, va' a sapere. A me dispiace: lo avrei preferito meno integro e ancora vivo. Sono sicuro che tra tanti pezzi inutili, qualche gioiellino come Sono ribelle mamma ce lo avrebbe infilato: e tanto ci sarebbe bastato.

Se questo pezzo vi dà fastidio avete assolutamente ragione: FA si meritava parole più commosse. Accanto a qualche stronzata ha fatto cose importanti e necessarie, senza di lui la musica italiana sarebbe persino più triste eccetera. Non so cosa mi stia capitando ultimamente: la crisi, i quarant'anni, la triste scoperta che davvero i medici non ti curano finché non li paghi davvero, il film dei Coen che scioglie ogni residuo zuccheroso di bohème e ti fa sentire la morte con il ghiaccio nei piedi. Se si trattava di imparare a fallire, direi che ho imparato. Adesso bisogna imparare a invecchiare, e devo ringraziare Freak Antoni anche per quelle tristi interviste in cui incauto sparava merda a bersagli troppo vicini e troppo in alto. Se non le avessi lette, forse non avrei mai fatto il voto solenne di non stroncare mai, per nessun motivo, un collega coetaneo di successo. Piuttosto farò finta di non averlo mai letto. Sarà molto facile fare questo tipo di finta.
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Tutt'uno con la pozzanghera di fango

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Ogni tanto qualcuno mi chiede cosa penso di questa o quella serie tv - e non vi dico quanto mi faccia piacere, davvero, che un mio giudizio vi interessi, però avete presente quanto tempo perdo sull'internet? Secondo voi me ne resta anche per guardarmi anche serie tv?

La triste verità è che c'è un'unica serie che posso dire di aver seguito con attenzione scostante, ma sufficiente a imparare a memoria diversi episodi. Ingannerò quindi il tempo e la crisi di governo snocciolandovi i dieci migliori episodi di Peppa Pig secondo me (prima parte), una lista che medito da mesi e che probabilmente scontenterà tutti, ma del resto de episodibus.

10. La recita scolastica (S01E52)

"Papà! Hanno detto che non bisogna fare fotografie!"
Il Season Finale della prima stagione getta un ponte tra le trame elementari del primo periodo e il sarcasmo che dominerà progressivamente le stagioni seguenti. Benché bonari, gli autori non risparmiano nessuno: genitori vanitosi, nonni invadenti, bambini incapaci. A reggere tutta la baracca, Madame Gazzella e, insolitamente, Peppa. La maialina stavolta davvero è più brava degli altri e non lo fa pesare; anzi, concede a Pedro il primo e unico bacio di tutta la saga. La recita scolastica è una mise en abime spettacolare, una rigorosa messa in scena del caos, in cui prende la parola almeno una dozzina di personaggi già perfettamente caratterizzati - e pensare che cinquanta episodi prima c'erano solo due maialini e una pozzanghera di fango.


9. Pattinando sul ghiaccio (S02E34)

"Sono sicuro che saremo tutti bravi". "Sì; ma soprattutto io!"
Prima di pattinare, Peppa è sicura che sarà la migliore di tutte: al primo capitombolo, è altrettanto certa che non pattinerà mai più. Per fortuna che c'è Mamma a insegnarle a stare in piedi - e Papà a insegnarle a cadere. Dunque il talento naturale non esiste? Tutto si può imparare dagli errori? Non necessariamente: dopo aver accettato i suoi limiti e imparato a cadere, Peppa deve anche accettare che il fratello sia un campione nato e la surclassi al primo colpo. In cinque minuti, una riflessione aperta sul talento e sul mestiere. E vince George, che è una cosa importante. Siamo tutti più contenti quando vince George.


8. Il campione del mondo (S03E41)

"Devo diventare tutt'uno con la pozzanghera! Pensare come la pozzanghera!"
L'esilarante episodio in cui Papà Pig si vendica di tutte le umiliazioni che gli autori gli hanno inflitto, riportando a casa l'ambito record mondiale di salto nella pozzanghera di fango, è probabilmente il più farsesco e meno realistico della serie, ma che importa. I nostri figli hanno diritto di immaginarci tutti campioni del mondo di qualcosa. Se solo ci ricordassimo a chi abbiamo prestato gli stivaletti.

7. Giochi da grandi (S03E44)

"Per me il gris è musica forte!"
Peppa Meets the Hipsters. Messi di fronte - per la prima e unica volta - a una banda di ragazzini più grandi di loro, Peppa e George si difendono imprevedibilmente bene, eludendo lo snobismo dei prepuberi e conquistandosi il loro rispetto al suono di testa spalle gambe e pie' (gambe e pie'). Memorabile il bozzetto dei 'ragazzi grandi' visti dai bambini piccoli, con tanto di mini-dibattito sui generi musicali di cui Peppa ignora il senso ma intuisce la tronfia vacuità. Occhi, orecchie, bocca ed il nasin, altroché.

6. Il cantiere navale (S03E39)

"Straordinario, galleggia!" "Sembri quasi sorpreso". 
È l'episodio dell'inglorioso naufragio di Nonno Pig, ma soprattutto è una storia di Nonno Coniglio. Gli episodi di Nonno Coniglio hanno un che di speciale. È come quando ti capitava un Topolino con una storia di Superpippo: Nonno Coniglio è un maledetto pazzo senza controllo che qualcuno ha liberato in un innocente cartone per bambini piccoli. Il cantiere navale contiene le sue gag migliori: il sottomarino ricavato da materiali di scarto che funziona tranne per un piccolo particolare (non riemerge più), la candida ammissione che "al primo tentativo affondano tutte". Ci vorrebbe uno spinoff.

(continua...)
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Tempi duri per Llewyn Davis

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A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, Joel e Ethan Coen, 2013).

Wintertime in New York town
The wind blowing snow around
Walk around with nowhere to go 
Somebody could freeze right to the bone
I froze right to the bone 

Tempi duri a New York. Senza un dollaro in tasca, senza un posto dove posare la chitarra e il sedere; un partner che ti armonizzi il ritornello; qualcuno che ti spieghi dove stai sbagliando, un gatto fuggito da riportare ai tuoi ultimi amici. Tieni duro Llewyn Davis, il vento freddo che spazza Washington Square forse è un annuncio di primavera. Sta per sbocciare l'ultima grande stagione del folk, non mollare Llewyn Davis. Forse sei vittima di un incantesimo, e un estraneo a migliaia di miglia se la spassa col tuo destino. Forse questo non è semplicemente il tuo show; non sei che la comparsa che fischia nell'ombra e nell'ombra ritorna. Cosa stai facendo della tua vita, Llewyn Davis? (continua su +eventi!)



John Goodman mai così inquietante, irradia luce opaca su tutto il film.

A proposito di Davis è un film che può lasciare estasiati o sgomenti. Se non vi piace il folk; se non apprezzate i primi dischi di Dylan; se mantenere lo sguardo su un menestrello per quattro strofe e altrettanti ritornelli rientra nella vostra idea di noia, non provateci nemmeno. Ma anche chi colleziona i dischi di Phil Ochs o Van Ronk può rimanere interdetto dallo sguardo raggelante che i Coen buttano sul Greenwich Village del 1961. Un attimo prima che tutto esploda, il loro eroe immaginario Llewyn Davis è tentato dal fallimento; pronto a partire con la prima nave, il destino lo ributta a terra e lo aspetta in un vicolo. Chi ha il palato per le storie di sventura e fallimento apprezzerà immensamente A proposito di Davis.



Ma vi ricordate se era maschio o femmina? Perché anche questo ha la sua importanza.

Non so se sia il caso di A.O. Scott, il critico del New York Times che lo ha messo al primo posto nella Top10 del 2013. Alle pendici della stessa classifica, sei film ex aequo presentati come variazioni di un edonismo senza scrupoli “Just look at all my stuff!” It’s capitalism, baby! Grab what (and who) you can, and do whatever feels good. We’re all going to hell (or jail, or Florida) anyway. Il grande Gatsby, The Wolf of Wall Street, The Bling Ring, Spring Breakers, Pain and Gain e American Hustle: sei storie di avidità e autoaffermazione. Nel frattempo i Coen guardano come sempre altrove, e si inventano il biopic senza senso di un cantante senza direzione e senza pubblico, uno dei 999 che non ce la farà. Vittima di oscure maledizioni, Davis attraversa le leggende degli altri senza rendersene conto; ama il folk ma non la gente (in inglese è la stessa cosa); incide un successo e non se ne accorge; sfigato parente di re Mida, trasforma in merda ogni cosa che incontra. In un 1961 parallelo, Holly Golightly e Paul Varjak non trovano più il gatto e proseguono ognuno per la propria strada, e di chi è la colpa.

A proposito di Davis è allo Stella Maris di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:00); ai Portici di Fossano (21:15).
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Ma ci sarà un correttore a Torino

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Oggi apro Twitter e leggo questa cosa:
Non do peso alla faccina e prendo l'insigne giornalista seriamente: vado subito a vedere di che cosa si tratti. Mi immagino chissà quali orrori. Trovo in effetti una cosa piuttosto involuta e orrenda, salvo che l'ha scritta il giornalista stesso. Penso a uno scherzo; cioè, già è difficile immaginare che l'abbiano pubblicato così: ma che l'abbiano usato come esempio di articolo di giornale in un esame di Stato... o forse l'Esame consisteva nel prendere l'articolo e renderlo leggibile, comprensibile, sensato.

Oggi apro Twitter, leggo un pezzo su Facebook tempestato di goffaggini e imprecisioni, e decido di reagire. Non ho intenzione di aprire un dibattito con l'insigne giornalista, il quale anzi dovrebbe essere per primo arrabbiato per come l'articolo è andato in stampa. Magari l'ha dettato per telefono; oppure ha mandato una mail; in ogni caso non è lui il problema. Il problema è la cinghia di trasmissione tra le cose un po' imprecise che un giornalista stimato può permettersi di buttar giù in modo approssimativo e l'articolo che il lettore pagante dovrebbe leggere il mattino dopo. Questo pezzo è rivolto alla redazione: per favore, fate un po' di fact checking. Un minimo. Prendete uno stagista, dategli in mano un notebook - oppure ditegli di portarselo da casa. Non è un lavoro difficilissimo: si tratta di verificare con un po' di pazienza quando compia gli anni Zuckerberg, quanto effettivamente fatturi Facebook: cose così. E soprattutto questo pezzo è rivolto al correttore di bozze, se ancora esiste: per favore, fa' qualcosa. Tu sei importante. Se non conosci tu la punteggiatura, fidati, non la conosce più nessuno. Sei l'ultimo argine tra la lingua italiana e, come si dice adesso? la barbaria, ecco: dopo di te la barbaria.

Un ultimo metro di mani avanti: purtroppo è più facile notare gli errori degli altri che i propri. Non è solo un modo di dire: è davvero così, ed è una verità orribile che mi attende al varco tutti i giorni. Su questo blog io faccio un sacco di errori. Le notti soprattutto. Davvero tanti, e molti imperdonabili. Però. Però io non sono una firma prestigiosa che scrive sulla Stampa, e se lo fossi mi preoccuperei che qualcuno leggesse i miei pezzi e mettesse in ordine la punteggiatura prima di andare in stampa. Me ne preoccuperei tantissimo. E se un mio pezzo uscisse particolarmente brutto, e finisse in un Esame di Stato, me ne vergognerei.

Facebook, la piazza del paese virtuale che fa incontrare il Pianeta

La Rete “social” nata a febbraio 2004 oggi ha 1 miliardo e 250 milioni di utenti


Il 4 febbraio 2004, quando lo studente di Harvard in T-shirt e jeans sdruciti Mark Zuckerberg, 20 anni, lancia la start up «Facebook», non esistono in azienda composta da cinque amici, «charts», grafici per studiare i segmenti di mercato in cui la crescita è maggiore.

Il primo paragrafo è fondamentale non solo per i contenuti che deve passare (ovviamente non possono starci tutti), ma per il rapporto che instaurerà col lettore. È la prima impressione: quella che ha tanto peso nel giudizio che tendiamo a dare alle persone. Nel primo paragrafo devi dire cose interessanti, ma devi anche presentarti. La persona che si presenta in questo paragrafo ti sta dicendo: Ciao, ho tantissime cose da dirti che non ci stanno in una frase sola, e purtroppo non so come funzioni questa cosa di combinare due frasi insieme. La... come si chiama... la sintassi, ecco: la sintassi italiana. Non è roba per me. Qualsiasi cosa voglia dire non esistono in azienda composta da cinque amici, «charts», grafici per studiare i segmenti di mercato in cui la crescita è maggiore, non lo sta dicendo in italiano.

Almeno le informazioni sono precise? Beh, no. Zuckerberg compie gli anni in maggio, quindi il 4 febbraio 2004 ne aveva 19. Come sanno tutti quelli che hanno visto il film (e sono tanti) "Facebook" all'inizio si chiamava "The Facebook", ma questa è una curiosità. L'ha fondata con quattro "amici"? È quantomeno discutibile. Il paragrafo non ha molto senso: all'inizio The Facebook era rivolto esclusivamente a una precisa comunità di studenti universitari, quindi ovviamente non esistevano "charts": non servivano, il segmento era uno solo. A proposito: perché usare l'inglese "charts" se hai paura che il lettore non capisca e devi appesantire la frase di un'estesa traduzione in italiano? Perché l'italiano ti dà fastidio. Esatto. Nel primo paragrafo tu spieghi una parola inglese perché nei successivi la userai. Stai cercando di spostare i tuoi lettori dall'italiano all'inglese, perché in inglese ti senti più a tuo agio.

Arrivano poi, con gli investitori, il successo, le invidie, il film e il primo articolo del New York Times, 26 maggio 2005, stupefatto che il ragazzo Zuckerberg abbia persuaso il finanziere Jim Breyer di Silicon Valley a investire 13 milioni nella sua idea, che ha coinvolto in un solo anno due milioni e ottocentomila studenti, sparsi per 800 campus universitari d’America. 

Ancora sintassi involuta. Vi invito a cercare il soggetto di "stupefatto". Potrebbe essere il New York Times o "l'articolo". Un articolo stupefatto? Mah. La proposizione principale, "arrivano le invidie" eccetera, sta all'inizio: tutto il resto è una serie di proposizioni relative a cascata che ci travolge con qualche virgola qua e là.

Ottimo investimento, oggi gli utenti sono un miliardo e 250 milioni, la nazione Facebook domina il Pianeta.

Finalmente una frase breve - anche se in realtà sono tre frasi giustapposte tramite due virgole un po' goffe. "Ottimo investimento" è un'affermazione un po' incauta; magari poteva essere l'occasione di notare che il modello di business di Facebook non è ancora chiaro, e che le fluttuazioni del titolo in borsa sono probabilmente più causate dalla speculazione che dall'effettivo successo della piattaforma. In ogni caso, anche se esistesse una "nazione Facebook", con 1.250.000.000 utenti non dominerebbe il pianeta: i cinesi sono di più. Va bene, è solo un modo di dire; andiamo avanti.


Dieci anni or sono - se quelle «charts» ci fossero state e non c’erano - la crescita era tra i giovani, un milione di blue jeans a cercare amicizie online negli Usa.

Cioè? La crescita era tra i giovani solo se le "charts" ci fossero state? E quindi, siccome non c'erano, la crescita non era tra i giovani (con i blue jeans)? Per fortuna sappiamo tutti la storia (all'inizio si entrava solo con la matricola dell'università), perché qui è incomprensibile. C'è un finto periodo ipotetico che in realtà è un inciso. Tre flessioni del verbo essere in mezza riga sono abbastanza brutte a vedersi.

Oggi Facebook cresce con più velocità tra i cittadini con oltre 65 anni (Cgil pensionati svolge programmi di alfabetizzazione digitale tra gli iscritti) e il Paese boom 2014 sarà la Turchia.

Un paio d'affermazioni senza fonte. L'inciso sulla Cgil è un po' fuorviante (meglio mettere la P maiuscola, così il lettore frettoloso capisce al volo che "Pensionati" fa parte del nome dell'organizzazione. In realtà si chiama SPI, ma anch'io avrei scritto Cgil Pensionati: si capisce meglio). Voglio sperare che i programmi di alfabetizzazione della Cgil riguardino l'uso di computer o tablet, la navigazione su internet, e magari anche i social network; ma quel che capisce il lettore frettoloso è che la Cgil insegni ai pensionati a usare facebook.

La Borsa è stata raggiunta, a singhiozzo, nel 2012, tra i dubbi degli analisti sull’arrivo della pubblicità e su una certa disaffezione degli adolescenti. Vola per qualche tempo il mito «Facebook va male tra i ragazzi», «i teenagers prediligono Snapchat», messaggini che scompaiono da soli, beffando Nsa e Snowden in futuro.

Raggiungere a singhiozzo. Chissà cosa vorrà dire ma vabbe', almeno non è la solita frase fatta. C'è un mito che vola ed è costituito da due virgolettati (chi si sta citando?) e da "messaggini che scompaiono da soli, beffando Nsa e Snowden in futuro". Il lettore deve sapere cos'è la Nsa e chi è Snowden, e magari aver sentito parlare della storia dei "messaggini che scompaiono da soli". Oppure no, visto che questi messaggini befferanno la Nsa e Snowden "in futuro". (Forse intendeva "in seguito", chi lo sa).

Un sondaggio Pew Center cancella i timori del social media, i ragazzini non lasciano Facebook (c’è stata una scherzosa polemica con l’Università di Princeton, su chi per primo chiuderà i battenti per assenza di giovani, il campus o Facebook).  

Tra "social media" e "i ragazzini" ci volevano due punti. La virgola si può usare in tante occasioni, forse troppe; ma lì no. Meglio non usarla per seperare due proposizioni a tutti gli effetti indipendenti tra loro (hanno soggetti e predicati diversi). Probabilmente la seconda è una proposizione coordinata esplicativa; per capirlo basta sostituire a quella virgola "infatti". Ecco: dove può esserci "infatti", è meglio mettere i due punti. Non la virgola. La virgola non spiega, è solo una pausa breve; suggerisce l'affanno di chi legge alla svelta e non riesce bene a capire, e di chi scrive alla svelta e non riesce bene a spiegarsi.


I liceali vanno modificando le proprie abitudini. Possono o no essere su Facebook, ma restano sempre linkati.

Cosa significa? Davvero, io non lo so.

Dieci anni fa nessuno dei pionieri di Zuckerberg raggiungeva la comunità via smartphone, i cellulari del tempo non davano accesso al web.

Dieci anni fa nessuno consultava The Facebook dallo smartphone per un validissimo motivo che tutti dovremmo ricordare, ovvero non esistevano ancora gli smartphone. Siamo all'umorismo involontario. Nel Settecento nessuno usava il miscelatore per farsi la doccia. Puzzoni maledetti! In compenso la seconda affermazione ("i cellulari del tempo non davano accesso al web") è platealmente sbagliata - ci riusciva persino il mio povero nokia coi tasti in membrana. Ci riusciva un sacco di gente che dovrebbe comprare la Stampa per leggere un pezzo così e scoprire che si ricorda le cose meglio dell'autore.

Nota come le due affermazioni (una comica e l'altra falsa) siano legate da una virgola; eppure sono due proposizioni indipendenti. Al limite la seconda è una coordinata esplicativa, proprio come nell'esempio più sopra. Non so se l'autore del pezzo sia convinto che la virgola significhi "infatti"; mi dispiace che anche il correttore sia della stessa idea.


Oggi 945 milioni di utenti, per lo più giovani, agganciano Facebook via telefonini lontani dall’idea di Bell e Meucci di comunicare con i suoni, e sempre più edicole, biblioteche, discoteche, Borse, cineteche, stadi, musei, fori politici e mercati pornografici tascabili. 

Telefonini lontani dall'idea di Bell e Meucci. Bello. Senza ironia, sul serio, bello questo crescendo zucconiano di edicole, biblioteche, discoteche e bordelli. E qui le virgole ci vogliono. Proprio per questo è meglio economizzarle: così quando ti servono risultano meno banali di quanto non siano. Quindi io tra "suoni" ed "e sempre" avrei messo un punto e virgola e avrei tolto la "e".

Facebook fattura sei miliardi di euro, ma la ragione per cui Mister Breyer mise i primi, cruciali, 13 milioni di dollari, spiega tutto il successo, conta la cultura:

Non so quale sia la fonte dei sei miliardi di euro (qui ci sono tanti numeri ma sei miliardi no). Prendo la notizia per buona. La frase non è corretta. La "ragione" che "spiega tutto il successo" è "conta la cultura"? Ammettiamo che sia così: prima di "conta la cultura" servono due punti, non una virgola. Sì, è sempre lo stesso errore.

Invece ci sono due punti dopo. Ci aspettiamo quindi una spiegazione, o un'illustrazione, o una conseguenza dell'affermazione precedente ("conta la cultura"). Parte invece questo virgolettato:

«È un mercato che ha una crescita potenziale enorme, organica e il team di Facebook è intellettualmente onesto e con una brillantezza che toglie il respiro nel comprendere l’esperienza di vita degli studenti al college».  

Questo è quello che l'autore intende per "cultura". Mmmm. Forse si poteva spiegare meglio. Nota come autore e correttore siano risoluti a piazzare virgole ovunque, tranne che davanti a una e: l'unica regola che resiste è quella inculcata alle elementari. C'è una "brillantezza" che "toglie il respiro nel comprendere". Comprendere cosa? la vita degli studenti al college? Ma non avevamo detto che Facebook non era più una cosa da giovani? Forse si tratta di una vecchia citazione dei tempi in cui Facebook era una comunità per studenti di college? Nel frattempo però è cambiato tutto: non è un'affermazione mia, è il senso dell'articolo.

Quel che né Zuckerberg né Breyer, avevano previsto - e che dovrebbe ancora far riflettere - è che pensionati di Matera, pescatori delle Filippine, casalinghe di Chicago e Rio, banchieri di Londra e Macao, sacerdoti ad Accra e scienziate al Polo Nord, si sarebbero comportati esattamente come i teenager di dieci anni fa, decidendo cosa amare, con chi fare amicizia, a chi legarsi via Facebook. 

La maledetta virgola tra soggetto e verbo. La maledetta virgola. Ma non c'è un correttore a Torino?

Quel che i sondaggi schematici - chi è online e chi no, chi usa il web e chi no, chi va su Facebook e chi no, chi legge i giornali e chi i siti - non riescono a cogliere è la capillare penetrazione dei social media nel nostro tempo. La metà dei cittadini che non è iscritta a Facebook, ma usa per lavoro il web, vive in casa (fonte Pew) con almeno un iscritto a Facebook. Il che vuol dire che quei papà, mamme, figli che riluttano ai Like, le amicizie, le fotine postate e i cuoricini riversati a iosa, sono comunque nella galassia Facebook, i loro volti appaiono nelle stesse foto Instagram, i loro commenti faranno capolino online, le loro storie e giudizi entreranno nell’acquario della Rete.

È un po' come quando i giornalisti si lamentano perché la gente li giudica dalle copie vendute: guardate che l'acquirente la sua copia se la porta in casa e lì la leggono tutti, mamma nonni bimbi e il cane. Per tacere di chi se lo dimentica in treno, sicché se lo legge tutto lo scompartimento. E i bar? Tutto un sommerso pazzesco. Ecco perché la gente non compra i più giornali; voi pensavate che fosse a causa dei pezzi illeggibili e invece no: è colpa dei bar, dei passeggeri distratti, del cane. Riluttare di solito regge un verbo: si rilutta a "concedere un like". Il dizionario Treccani però concede che si possa usare riferito a cose, ma "in usi elevati, non comuni"; insomma c'è un'improvvisa impennata di registro stilistico che purtroppo termina subito, come vediamo:

Molti utenti criticano Facebook, lo trovano petulante, invadente:

La solita virgola sbagliata, per il solito motivo. Si poteva mettere un punto, o un punto e virgola. Capiamoci: ne uso tantissime anch'io di virgole brutte così. Lo faccio per due motivi: (1) a volte mi scappano; (2) voglio suggerire un'accelerazione nella lettura, un anacoluto minimale. Comunque qui non la userei. Forse dovrei smettere e basta.

ma restano comunque e a chi chiede perché, rispondono con una paura ancestrale: «Mi sentirei solo, temo di perdermi qualcosa». 

"Mi sentirei solo" non è una "paura ancestrale": può essere al limite un'ammissione che tradisce una paura ancestrale.

Dieci anni fa i ragazzi resero dunque ricco Zuckerberg perché aveva colto per primo il loro profondo desiderio di restare per sempre uniti, «Forever Young», come nei quattro anni di college, per molti americani i più spensierati.

Dieci anni fa Zuckerberg non diventò ricco tutto d'un colpo, suvvia. C'è davvero bisogno di quel "Forever Young", appiccicato come un adesivo sul serbatoio di una Moto Gilera per mascherare l'ammaccatura già un po' rugginosa? Tanto più che il desiderio più profondo non è quello di restare sempre giovani (quello non credo che Zuckerberg l'abbia colto per primo), ma "sempre uniti".

I loro fratelli minori non hanno bisogno di un link per sentirsi legati, vivono in un ambiente saturo di comunicazione, da WhatsApp, Tumblr, Pinterest e Twitter, dove semmai occorre non strafare con le foto audaci online se non si vogliono rogne con i professori o al lavoro.  

Un'altra virgola d'affanno tra "legati" e "vivono" (beh, almeno qui il soggetto è lo stesso). Segue un elenco burchiellesco di cose in realtà molto diverse tra loro, che l'autore non ha spazio, voglia e pazienza di spiegare. Stanno lì da sfondo.

Dieci anni fa Facebook era la piazza del paese virtuale, come negli Anni 50, tutti i vitelloni fermi a cercare una ragazza, le ragazze intente a chiacchierare tra loro e ignorarli.

La solita virgola affannata (tra "50" e "tutti i vitelloni"). The Facebook dieci anni fa era una piattaforma aperta soltanto agli studenti accademici: è probabile che tra di loro le interazioni fossero di livello un po' più alto di quelle di adesso. E però vuoi rinunciare all'occasione di rilanciare uno stereotipo intramontabile: la piazza italiana in bianco e nero con le donne che filano svelte e i vitelloni che fischiano? È una specie di archetipo dell'inconscio collettivo: se socchiudi gli occhi riesci a intravedere in sovraimpressione DOLCE & GABBANA.

Oggi Facebook è la stessa piazza del paese virtuale, ma nel 2014 le ragazze l’attraversano distratte in metropolitana o in Vespa, caricano amici o amiche di fretta, e si allontanano in ogni direzione del web infinito, cuffiette alle orecchie senza ascoltar nessuno. 

Quindi non è cambiato niente: le ragazze non ti filano nel 2014 così come non ti filavano nel 2004. Nel frattempo però si sono messe le cuffiette... ma aspetta, c'era un sacco di gente con le cuffiette anche nel '04; ce le avevo pure io le cuffiette nel '04. Vabbe', sarà una metafora. C'è un'altra virgola sbagliata, potete trovarla da soli.
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Lord Grillo ha detto stop

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C'è chi dice che siamo alla barbarie. C'è chi ribatte che ci siamo sempre stati. Una delle tendenze più interessanti del blablà mediatico-parlamentare degli ultimi giorni è il tentativo di trovare antecedenti nobili alle scemenze che diciamo o facciamo: ad esempio "Boia chi molla" dovrebbe cambiare del tutto sapore se invece di essere stata pronunciato da un qualunque fascista fosse un motto della Repubblica Partenopea del 1799 - anche se probabilmente non è vero. Il turpiloquio in parlamento diventa accettabile se si riesce a dimostrare che anche Sandro Pertini ha chiamato ai suoi tempi "carogna" e "porco" un presidente di Senato: e tuttavia la fondazione che porta il suo nome nega che sia successo... ma Vito Crimi conferma di avere trovato la citazione in un libro di parolacce parlamentari. Nel frattempo Beppe Grillo è già oltre: ieri salutava i lettori nella sua homepage con un discorso del... 20 aprile 1653. È la celebre sfuriata con cui Oliver Cromwell sciolse quel che restava del parlamento inglese. Direttamente dal sito di Beppe, un documento sempre attuale:
"È tempo per me di fare qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo fa: mettere fine alla vostra permanenza in questo posto, che avete disonorato disprezzandone tutte le virtù e profanato con ogni vizio; siete un gruppo fazioso, nemici del buon governo, banda di miserabili mercenari; scambiereste il vostro Paese con Esaù per un piatto di lenticchie; come Giuda, tradireste il vostro Dio per pochi spiccioli. Avete conservato almeno una virtù? C'è almeno un vizio che non avete preso? Il mio cavallo crede più di voi; l'oro è il vostro Dio; chi fra voi non baratterebbe la propria coscienza in cambio di soldi? È rimasto qualcuno a cui almeno interessa il bene del Commonwealth? Voi, sporche prostitute, non avete forse profanato questo sacro luogo, trasformato il tempio del Signore in una tana di lupi con immorali principi e atti malvagi? Siete diventati intollerabilmente odiosi per un'intera nazione; il popolo vi aveva scelto per riparare le ingiustizie, siete voi ora l'ingiustizia! Basta! Portate via la vostra chincaglieria luccicante e chiudete le porte a chiave. In nome di Dio, andatevene!"
Come quasi tutti i discorsi memorabili, è una ricostruzione a posteriori: non esistono trascrizioni, e a detta dei testimoni, Cromwell parlava a braccio. Secondo alcuni storici fu persino meno diplomatico di così: definì Henry Vane il Giovane un ciarlatano ("jugler"), Henry Martin e Sir Peter Wentworth due magnaccia ("whoremasters"), Thomas Chaloner un ubriacone "drunkard". Non siamo ai livelli dello pseudo-Pertini, ma è pur sempre l'Inghilterra della rivoluzione puritana.

Peraltro a quel punto Cromwell avrebbe potuto dire o fare quel che voleva: i parlamentari stavano davvero lasciando i loro seggi, non perché colpiti al cuore dalle furenti parole del Beppegrillo del Seicento, (continua sull'Unità, H1t#217ma perché nel momento in cui Cromwell si era alzato per interrompere la seduta un plotone di moschettieri era entrato nella sala e li stava circondando. In effetti quella che può sembrare la nobile tirata di un cittadino oppresso da un parlamento corrotto e impresentabile, è viceversa il primo proclama di un dittatore militare insofferente nei confronti di un’assemblea che aveva già purgato l’assemblea di metà degli eletti, e che ancora non riusciva a controllare. Henry Vane stava per far passare una riforma elettorale che avrebbe ridisegnato in modo razionale i distretti e avrebbe reso possibile una consultazione realmente repubblicana. Cromwell non sembrava interessato (“Henry Vane, Henry Vane! Dio mi liberi da Henry Vane!”): irruppe nel parlamento coi moschettieri e invitò i rappresentanti a lasciare il posto a “uomini più onesti”.

Gli “uomini più onesti” si riunirono il quattro luglio. Non ci fu nemmeno bisogno di elezioni: ogni congregazione religiosa mandò una lista di uomini di fiducia al Consiglio di Stato, che si riservò la facoltà di sceglierli. Tra loro c’erano anche i Cinque Corone, o Quintomonarchisti, una corrente fondamentalista che riteneva l’apocalisse imminente. Gesù sarebbe tornato nel 1666, ed era necessario fargli trovare un’Inghilterra perfettamente cristiana. Cromwell, che si riteneva in contatto diretto con Dio, non era del tutto insensibile al messaggio dei quintomonarchisti (ma forse semplicemente si barcamenava tra le correnti come tutti i politici), e salutò l’alba del nuovo parlamento come il “giorno del potere di Gesù Cristo”. Tempo tre mesi e anche questo parlamento di invasati gli venne comunque a noia: tanto da fargli ammettere in privato che ai pazzi di adesso preferiva i servi di prima. Comunque riusciva a manovrarli quanto bastava perché fossero loro stessi a implorarlo di scioglierli: cosa che fece in dicembre; e il Commonwealth inglese finì lì. In italiano suona come “bene comune”; i latini la chiamavano Res Publica. Cromwell era indeciso se farsi incoronare re, e succedere a Carlo I a cui aveva fatto tagliare la testa nel 1649. Un brutto precedente. Alla fine si contentò della carica di Lord Protettore a vita. Convocò e sciolse altri tre parlamenti, e morì cinque anni più tardi: non prima di aver nominato successore il suo primogenito incapace. A quel punto, se doveva essere monarchia, tanto valeva tenersi l’originale (purché fornisse precise garanzie): nel 1660, sette anni dopo il famoso discorso, Londra salutava il ritorno del sovrano legittimo, Carlo II. Costui per vendicare il padre si contentò di alcune teste, tra le quali quella del povero Henry Vale; anche Oliver Cromwell fu decapitato post mortem. Nel 1666 Gesù Cristo non si fece vedere; in compenso a Londra ci fu la peste e il Grande Incendio.
Tutto questo non è che abbia molto a che vedere con Beppe Grillo; lui ha solo citato un brano famoso, copiato e incollato su internet milioni di volte; presente in centinaia di siti e blog diversi, in centinaia di date diverse, ma quasi sempre salutato come “straordinariamente attuale”. Il fatto che lo abbia pronunciato un dittatore feroce, l’imperialista che estese il dominio inglese su Scozia e Irlanda, è a portata di clic; e forse dovrebbe anche far parte del bagaglio culturale di ogni lettore italiano di media cultura. D’altro canto non ha veramente importanza chi fosse e perché parlasse così. Era arrabbiato; ce l’aveva con un parlamento che non si sbrigava a fare quel che voleva lui, ovvero sciogliersi: e questo è tutto quel che importa sapere. Ci vediamo nel 1666. http://leonardo.blogspot.com
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HIV Texas Cowboy

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Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013).


Dottore, te lo dico un'ultima volta: posa quella siringa e lasciami andare. Non sono una delle vostre cavie fottute. Non è ancora mutato il retrovirus che si porterà Ron Woodroof nella tomba. Forse avete sentito parlare di Dallas Buyers Club come del film in cui un bellone di Hollywood riscatta un passato di orribili commedie romantiche in serie, perde millanta chilogrammi e si sistema in uno dei ruoli preferiti dalla giuria degli Oscar: il sieropositivo macilento ma non domo. E a questo punto magari in voi sta già suonando un allarme: film ricattatorio, buoni sentimenti, moribondi che si abbracciano con soprani in sottofondo. Disattivate quell'allarme. Dallas Buyers Club è un western. E Matthew McConaughey (che è sempre stato un ottimo attore; purtroppo le commedie romantiche pagano di più) è un vero Texas cowboy a cui puoi togliere tutti i chili che vuoi - gliene restano abbastanza per mandarti al tappeto. Gli sguardi che ogni tanto gli riserva il transgender Rayon (Jared Leto, anche lui memorabile) sembrano tradire il punto di vista del regista: troppo facile commuoverci con sieropositivi gentili o raffinati, oggi soffrirete e piangerete per un puttaniere omofobo che puzza di rodeo e vive in una baracca.



Voglio però ricordarti com’eri (Uno studio comparato delle locandine dei suoi film, da Cracked.com)
Com’è vero che la morte tira fuori qualcosa di diverso in ogni uomo. All’inizio del film Ron ha un mese di vita e potrebbe benissimo spenderlo in coca e spogliarelli. E invece lo ritroviamo in biblioteca davanti a un lettore di microfilm (la postazione internet degli anni Ottanta). Da spacciatore di sostanze “non approvate” a uomo d’affari, contro un nemico che è sempre meno l’Aids è sempre di più lo Stato, l’odioso tiranno che impedisce a ogni buon cittadino di curarsi e arricchirsi come vuole. Ron è talmente texano che a un certo punto chiede un’ordinanza restrittiva per il governo federale –  gli Stati Uniti d’America devono stare lontani dalla sua camera di motel!


Prima di diventare un film, Dallas è stato un soggetto proposto e rifiutato per vent’anni. Affinché la “storia vera” diventasse una storia vendibile, è stato forse necessario rendere Ron molto più cowboy di quanto non fosse l’originale: metterlo in groppa a un toro (benché appassionato di rodeo non ne cavalcò mai uno), togliergli la figlia, affinché in una scena topica rimpiangesse di non averne mai avute; enfatizzarne l’omofobia, tema caro a Vallée; e soprattutto mettergli contro l’intero Dallas Mercy Hospital, il ranch dove i malvagi dottori sperimentano intrugli nocivi per arricchire le multinazionali.


Le cose sono ovviamente più sfumate di così; persino nei titoli di coda si ammette con una certa onestà che l’AZT, il veleno che secondo Ron stava facendo una strage, è ancora oggi uno degli ingredienti del cocktail di farmaci che tiene in vita milioni di sieropositivi. E d’altro canto la macchina farmaceutica, vista dall’individuo, è davvero un Moloch spaventoso contro cui ribellarsi: Ron ha la sfortuna di ammalarsi nel momento in cui i sieropositivi cadono come mosche, le multinazionali stanno cominciando a sperimentare farmaci su di loro, e il rischio di accelerarne la morte è calcolato. Di fronte a un destino tagliato così male, Ron si ribella e ha almeno la fortuna di trovare la persona giusta: in una clinica messicana, un medico radiato ma ancora abbonato a Lancet, che gli fa provare il peptide T, non ancora approvato negli USA. Pensa se invece incontrava un Vannoni.


“Matthew McConaughey… GHIGNA
STUPIDAMENTE PER 90 MINUTI!”
“Esatto, è tutto quello che succede”
(NY Times). (Da Cracked.com).
In effetti quello che può lasciare disorientati alla visione di Dallas non sono gli aspetti ripugnanti dell’eroe – a quelli siamo abituati, al cinema e soprattutto in tv è una gara a chi ci propina l’eroe più moralmente discutibile. È che Dallas è un film che mette in discussione le istituzioni farmaceutiche; il che può avere un senso in generale, ma si adatta male al nostro essere spettatori italiani negli anni ’10, in una fase di particolare recrudescenza di santoni e ciarlatani. Almeno Ron non ha mai chiesto allo Stato di rimborsare i farmaci che trafficava.

Dallas Buyers Club è al Vittoria di Bra alle 20:15 e alle 22:30 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10; francamente non so se resisterà oltre giovedì (magari poi torna nelle sale dopo gli Oscar). È il tipico film di nicchia che molti preferirebbero guardare in lingua originale. Non abbastanza per farlo programmare in una sala della provincia di Cuneo, questo si sa. Ma abbastanza per rendere la versione sottotitolata in streaming un’alternativa interessante, ancorché illegale. Come può difendersi la distribuzione italiana da una concorrenza così sleale? Magari una settimana dopo il debutto nelle sale americane si potrebbe mettere in commercio una versione on line sottotitolata: qualche spilorcio continuerebbe a rubare, ma molti pagherebbero volentieri anche sei o sette euro, come al cinema. Oppure si può lasciare tutto com’è, doppiare l’accento texano di McConaughey, e terrorizzare i potenziali ladri di contenuto con qualche spot terrorizzante all’inizio dei dvd. Se hanno scelto questa seconda strada si vede che funziona.
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Mezz'ora prima che lo sappia il diavolo

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1967-2014. 

A 46 anni Philip Seymour Hoffman - basterebbe questo, aveva 46 anni - aveva già coperto una gamma di personaggi che alla sua età ben pochi attori si sono mai potuti permettere. Lester Bangs, Truman Capote, lo pseudo-Hubbard di The Master, e altri personaggi a portata di memorie più brave e svelte della mia. Spesso erano un po' più anziani di quanto non fosse l'attore che dava loro vita. La sensazione che PSH stesse bruciando un po' più forte e più veloce di tutti potevamo anche provarla, ma in fin dei conti erano fatti suoi eccetera.

Affezionarsi a un attore - non al personaggio pubblico, solo all'attore - è una cosa strana: ne impari decine di espressioni facciali e continui a non sapere chi sia. Quando se ne va esprimi cordoglio, ma è anche la forma codificata con cui abbiamo deciso di mascherare la rabbia egoistica di spettatori derubati: aveva 46 anni, quanti altri personaggi avrebbero potuto prendere vita grazie a lui; quanto cinema ci siamo persi. Ci si butta sulla filmografia, si comincia a ricordare questa o quella parte - non serve a niente.

Finché non torna in mente la scena che ci ha tormentato per prima.

C'è un appartamento enorme, asettico, sulle nuvole di Manhattan. Il paesaggio è meraviglioso e disumano. È un posto dove puoi farti di eroina se hai prenotato, se hai i soldi; il pusher è professionale, magari un po' spiccio; ti sta ad ascoltare mentre ti allaccia l'emostatico e ti fa l'endovena. Poi ti rilassi su un letto a due piazze.

In quel film il personaggio di PSH ha dei problemi di liquidità; pensa di risolverli con un colpo ma gli va male; prima di farsi ammazzare, prende la pistola, sale a bussare al suo pusher e gli spara. Poi si mette a cercare dove teneva i soldi. Ci sono senz'altro molti contanti in quell'appartamento. Mentre si sposta da una stanza all'altra, PSH trova qualcosa a cui non aveva pensato. C'è un cliente, steso sul letto; dorme. È un panzone in giacca e cravatta come lui. Quali vicende lo avranno portato lassù, quali preoccupazioni, non lo sapremo mai. PSH lo guarda. Deve ovviamente ammazzarlo. Ma prima lo guarda. Guarda sé stesso da fuori. Guarda ognuno di noi, eroi del nostro film personale - ma da fuori, dal punto di vista della morte, siamo soltanto panzoni di mezza età stesi in un letto; qualsiasi cosa può portarci via in qualsiasi momento.

È morto Philip Seymour Hoffman.
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I rinoceronti e i figli dell'Apocalisse

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In questi giorni sto assistendo a due fenomeni abbastanza inquietanti, e mi è venuto in mente che siano due facce dell'unico fenomeno; mi piacerebbe poterne discutere qui, senza litigare.

(Sarà difficile).

Da una parte c'è una discussione sulla legge elettorale che mi sembra arrivata all'ultimo atto dei Rinoceronti di Ionesco, quando ormai sono tutti diventati perlappunto rinoceronti, e gli ultimi umani non si vogliono rassegnare (anche se cominciano a invidiare quel bel grigio corazzato).

All'inizio era un dibattito tra Democrazia e Governabilità; pare che stia vincendo quest'ultima al punto che c'è gente che si meraviglia, maccome, a uno che raccolga il 37% dei suffragi vuoi togliergli il sacrosanto diritto di governare per cinque anni? Di colpo l'orizzonte del 50%+1 viene definito utopico. Nel frattempo Stephen Hawking ha dei dubbi sui buchi neri, ebbene anche l'utopia va ridefinita: non è più un mondo di uguaglianza pace e libertà, ma un posto dove governa chi ha la maggioranza assoluta, cioè senti che brutta parola: assoluta. Non ti fa pizzicare un po' il naso, non senti odore di totalitarismo? Uno che riesce a piacere al 50%+1 del suo corpo elettorale deve avere davvero qualcosa da nascondere. Per dire, non c'è riuscito nemmeno Berlusconi - in realtà non c'è riuscito mai nessuno. Infatti di solito si tira avanti a coalizioni - eh, no, non si può più. Adesso si chiamano "inciuci" e sono orribili, la fonte di ogni male. Voi credevate che il malgoverno degli ultimi anni dipendesse dalla scarsa qualità della classe dirigente berlusconiana? sbagliato, la colpa di tutto è l'inciucio, l'inciucio totale, bisogna evitare l'inciucio e tutto andrà bene.

(Questo paragrafo si può allegramente saltare) La memoria corre ovviamente a Veltroni e alla sua fobia dei cespugli, in parte giustificabile, ma che già in quella fase si stavano raggruppando, sicché sarebbe bastato dare spazio a una federazione verdi-rifondazione per avere una chance. Veltroni preferì perderla, perché era stanco di tutti questi cespugli che impedivano la crescita del vero centrosinistra: piuttosto perdiamo un turno e regaliamo altri cinque anni a Berlusconi ma disboschiamo i cespugli e vedrete. Vedemmo. Una volta disboscato i cespugli, Veltroni non fece più niente: rimase lì con la pompetta del ddt in mano, mezzo intossicato, lo pizzicarono in giugno e convocò una manifestazione in ottobre. Renzi è senz'altro diverso. I want to believe.

I rinoceronti, sono belli, tozzi, puntuti, non li smuovi neanche con l'Europa. Quando gli fai presente che in realtà succede in tutte le democrazie decenti, per dire in Germania si fa la Grosse Koalition e non sembra che se la cavino malaccio; pure in Inghilterra, quel luogo di uninominalisti senzaddio, può succedere che Cameron non abbia abbastanza seggi per governare e debba allearsi coi liberali; è senz'altro increscioso ma alla fine se la maggior parte dei cittadini non ti vuole, non ti vuole: sennò si fa un po' fatica a chiamarla democrazia, no? No. La Germania, dicono, è fatta per i tedeschi; la Gran Bretagna lasciamola agli albionici, noi abbiamo questa diversità mediterranea per cui coalizioni brutto brutto brutto BRUTTO. Deve esserci un uomo solo al comando, e se non ha i numeri dobbiamo trovare un algoritmo per darglieli, 'sti numeri, solo così finalmente sarà libero di lavorare, senza cespugli, senza lacci e lacciuoli, quelli che remano contro, i disfattisti, eccetera.

Insomma forse mi sbagliavo su Renzi, forse non ha fatto scrivere la legge elettorale a Berlusconi per dabbenaggine, ma perché è giusto così; chi se non Berlusconi può rappresentare al meglio questa tendenza rinocerontica? È da vent'anni che si lamenta perché non lo lasciano lavorare, ché se solo potesse avere un consiglio d'amministrazione come lo vuole lui, vedreste che roba, vedreste. E in fondo la cosa ha anche un senso, il tizio è arzillo ma definitivamente sputtanato, può fare fuoco e fiamme ma non dovrebbe potersi ricandidare, al 37% è più facile che ci arrivi Renzi: e se arriva al 37, vuoi non dargli Palazzo Chigi? Ma pure Palazzo Madama in usucapione, tanto il senato 2.0 si farà in videoconferenza.

Questa è la prima tendenza.

La seconda è rappresentata dalle vene sul collo di Grillo, che secondo me non stanno passando un buon momento. Scherzo, il tizio è un attore; se s'incazzasse davvero un decimo di quello che s'incazza per contratto ci avrebbe lasciato da parecchi anni. E però con tutta la sua esperienza Grillo si trova nella situazione dell'insegnante supplente al primo incarico, che appena entrato trova un motivo per incazzarsi, magari un motivo giustissimo, e quindi urla; e però sbaglia il timbro, la frequenza, il volume, cioè urla troppo forte. Il problema di chi urla troppo forte è che da lì in poi non si può salire: hai bruciato le tue cartucce troppo presto. Magari tra dieci minuti qualcuno negli ultimi banchi fa una cazzata veramente seria e tu non hai più voce.

Purtroppo Grillo non fa l'insegnante ma il profeta. Da mesi sta tenendo la sua cerchia allargata (i parlamentari) e quella più estesa (gli attivisti) in una dimensione parallela dove tutti sono nemici, tutti! Sono morti! Ci vogliono morti! Non potete allearvi con nessuno! Non potete fidarvi di nessuno! Sta per venire giù tutto! Quasi un anno così: c'è da stupirsi che sbrocchino? Sono stati fin troppo calmi fino a questo punto, in sostanza vivono in una paranoia quotidiana. Probabilmente a certi livelli avviene una specie di assuefazione, per cui non importa quanto il capo stia abbaiando A casa! Tutti morti!, tu in realtà a Roma ti diverti, è una bella città, qualche soldo riesci a risparmiarlo, magari se nessuno t'inquadra passi pure dalla buvette, ecco, che si può fare per evitare una deriva così? Non resta che urlare ancora più forte A casa! Tutti morti!, ma come fai a gridarlo più forte di così?

Aggiungi la difficoltà a calibrare l'intervento; per cui persino quando potresti avere qualche ragione (sulla ricapitalizzazione di Banca Italia gli hanno riconosciuto qualche ragione pure quelli di Noise from Amerika, decisamente non signoraggisti) non riesci a fare un'ostruzione o una sensibilizzazione efficace, perché questi tizi li hai ridotti a puro istinto, puro impulso: o dormono o urlano. Poi cominciano le ripicche insensate e le battaglie assurde, la Boldrini nemico del popolo, Napolitano traditore eccetera, se c'era spazio per discutere della ricapitalizzazione lo hanno sprecato a sbavare contro i deputati della maggioranza. Di Battista è fuori di sé, tra un po' sfonda porte aperte coi busti di Giolitti e noi subito a pensar male, ma se uno vive tutti i giorni in una dimensione alienata non ha neanche bisogno di sostanze. Cosa faranno domani? Come faranno a urlare più forte di così? Aventino? Bombe carta? E chi lo sa.

Il guaio è che non sono soltanto i parlamentari. Ci sono milioni di persone in Italia che li seguono, che li rivoteranno, che leggono o ascoltano Beppe Grillo e vivono nella stessa dimensione paranoide. Quando Bersani ebbe il malore, ci fu tra mille commentatori chi spiegò che non era in pena per lui perché aveva causato "l'impoverimento di dieci milioni d'italiani". Bersani. E d'altro canto se Bersani è l'unico che sono riusciti a mandare a casa, per gonfiare un po' il risultato non resta che mettere tutto in conto a Bersani. Questi magari al 37% non ci arrivano. Va bene. Potrebbero comunque essere decisivi al tie-break, pardon, ballottaggio. Per favore, non date per scontato che tra Renzi e un berlusconiano scelgano Renzi. Chissà quanti milioni di poveri si scoprirà che ha fatto Renzi da qui a un anno su Beppegrillo.it.

Poi magari un bel giorno anche Grillo esploderà, per quanto consumato attore non può urlare all'infinito. Oppure i grillini si stancheranno dell'eterna apocalisse annunciata. Di solito cosa succede in quei momenti? In certe sette c'è qualcuno che passa col veleno. Oppure le barricate. Probabilmente anche quest'ultima opzione è prevista. In fondo non c'è una sola rivolta negli ultimi dieci anni in Europa e dintorni che abbia avuto l'esito previsto dai rivoltosi (Tunisia?) Peraltro a quel punto l'Italia avrà un Premier libero e forte in grado di fronteggiare qualunque sommossa senza l'intralcio di alleati dubbiosi od oppositori, e che potrà contare sulla benevola attenzione dei media, che si stanno riallineando già.

Quindi.

Quindi, insomma, da una parte si mette per iscritto ormai senza pudore che un terzo degli italiani deve avere diritto su tutto e gli altri nulla; dall'altra l'opposizione si fa sempre meno consapevole, sempre più istintiva, ringhiosa, sbavante. Per adesso comunque è appena un venti per cento.

Ma se la riforma va in porto, diventerà il sessanta per cento.

Magari anche il sessantatré.

Voi pensate che l'Italia possa gestire cinque anni così - pensate che per la stabilità sia sufficiente garantire un numero di seggi, dopodiché per strada possono sbavare finché vogliono. Voi avete in mente cinque anni così.

Nel frattempo potrebbero succedere cose - facciamo degli esempi - qualche fabbrica comincia a ridurre i salari del 40% perché sennò Polonia. L'illuminato premier, senza cespugli che lo ricattino, senza dover temere rappresaglie dei sindacati, senza che i giornali si diano la pena di biasimarlo, non dovrebbe avere realmente molto da eccepire. Qualcuno mormorerebbe, ma nulla che possa intaccare il 37%. Perché l'illuminato premier dovrebbe darsi pena di conquistare voti fuori dal suo necessario 37%? E così via.

Cinque anni così. Il 37 comanda. Il 63, nulla.

Ecco, secondo me non funziona così. A voi sembra stabile? A me, da qui, non sembra stabile. Non è questione di seggi o rappresentanza. È proprio un problema strutturale.
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Boia chi non verifica le fonti

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Contro il citazionismo la mezza età si scaglia.

Ieri alla Camera è successa una cosa di cui forse, in minuscola parte, ho responsabilità anch'io. Che emozione.

Ieri è successo che un tizio alla Camera, affamato di visibilità come solo può essere un "cittadino" m5s con scarse possibilità di rielezione e un biglietto di ritorno già obliterato per l'anonimato, abbia proferito l'osceno motto "Boia chi molla". Non è una cosa che gli è scappata: se l'era preparata, perché immediatamente ha twittato accusando di ignoranza chi gli dava del fascista: infatti se uno legge bene wikipedia "Boia chi molla" non sarebbe un motto di origine fascista ecc. ecc. Come ha testimoniato abbastanza fedelmente Diego Bianchi a Gazebo, in realtà i giornalisti non avevano nemmeno avuto il tempo di reagire.

In seguito ovviamente le reazioni ci sono state, e molti hanno fatto notare la cosiddetta Regola della Svastica, ovvero: benché sia noto ai più che il simbolo ha origini buddiste, indù e ancora più antiche, se lo scrivi su un muro io non penserò che sei un buddista, né un indù. I simboli, i motti, le canzoni, non sono di chi le scrive, ma di chi le rende davvero famose. Se "te ne freghi", non stai citando gli arditi della prima guerra mondiale; se brindi con "eja eja alalà" non sei un raffinato dannunziano che vuole omaggiare l'impresa di Fiume. Stai rispolverando un arnese fascista e ne sei consapevole.

E tuttavia il tizio ci teneva a farci sapere che il motto non è fascista, e a tal scopo linkava wikipedia. Voglio sperare che sia una delle ultime volte in cui linkare wikipedia in pubblico sarà considerato un gesto d'avanguardia: guardate che sulle pagine di wikipedia ci vanno anche i bambini. Da qui in poi wikipedia dovrebbe essere considerata un po' il minimo sindacale della cultura generale, la cosa che non si linka più perché si dà per scontata.

Inoltre le informazioni su "Boia chi molla" presenti in wikipedia sono abbastanza insoddisfacenti e... potrei averle inserite io. Non sono sicuro, giuro. Tanti anni fa, quando avevo tempo libero (e mi ero preso una mezza vacanza dal blog), mi era cresciuta un'insana passione per i modi di dire - che era anche un modo per combatterli dentro di me. Pensavo che Wikipedia fosse l'ambiente più adatto per discuterne e catalogarli, anche se si tratta a ben vedere di un catalogo impossibile - ma Wikipedia in sé è impossibile. Così cominciai ad accumulare informazioni che finirono nel Glossario delle frasi fatte. Ci tengo a dire che tutto questo succedeva parecchi anni fa (2005), perché il mio lavoro fu tutt'altro che scrupoloso, ma a quei tempi se infilavi delle informazioni su it.wikipedia senza citare le fonti non ti prendevano ancora, e giustamente, a calci. In mezzo a tutta quella roba forse infilai anche "Boia chi molla". Non ne sono sicurissimo - so che c'era già una pagina sui motti fascisti - in ogni caso incappai nella frase e la misi lì, dove adesso non c'è. In compenso qualcuno (che oggi risulta "Bannato") la estrapolò e ne fece una paginetta autonoma, che con qualche variazione è la stessa che ha citato il cittadino m5s ieri.

Quella pagina continua ad affermare che l'espressione sia stata coniata durante la brevissima Repubblica Partenopea del 1799, e che sia stata usata a decenni e centinaia di chilometri di distanza, durante le Cinque Giornate di Milano. Ma la fonte? A un certo punto qualcuno ha trovato anche una fonte. Un articolo su Repubblica di Elena Stancarelli che parla di Eleonora Pimentel, la quale "si dice, coniò in quella occasione lo slogan". Purtroppo il tempo è passato, e oggi su wikipedia giustamente non si può più scrivere "si dice". Ma si può ancora linkare una fonte che dice "si dice"?

Passano altri anni, a Buffon a un certo punto scappa detta la stessa cazzata, e nessuno si prende la briga di controllare chi abbia realmente sentito dire alla raffinata Eleonora Pimentel "Boia chi molla". Tanto c'è wikipedia, no? Ecco, è un po' come quando Isidoro di Siviglia prendeva appunti rapidi rapidi perché doveva riassumere lo scibile umano in poche migliaia di pagine e poi arrivano i secoli bui, la pergamena costa cara e tutti si mettono a raschiare via i testi antichi, tanto c'è Isidoro di Siviglia che ha già scritto tutto. Allo stesso modo, un "si dice" su wikipedia sta diventando una verità incontestabile, ora anche diffusa in parlamento - e non mi stupirei se la stessa Stancarelli in buona fede avesse preso la notizia da wikipedia, creando un corto circuito auto-alimentante: wiki ha ragione perché ha una fonte, la fonte ha ragione perché l'ha letto su wiki.

Io nel frattempo mi diverto con le teorie del complotto, per esempio: chi avrebbe avuto interesse a mettere in giro la storia che "Boia chi molla" non era un motto di origine fascista? L'identikit del tizio prevede che abbia molta voglia di dire "Boia chi molla" (quindi un background fascio) e una certa insofferenza per il fascismo. Questo ci porta a due possibilità.

1. La destra evoliana, che cercava di allontanarsi dall'MSI, e allo stesso tempo continuava a scaldarsi con la stessa retorica: può darsi che qualcuno in qualche nucleo armato abbia sollevato un'obiezione (basta con boia chi molla, è roba nostalgica), e qualcuno si sia inventato un mito di fondazione per superarla (macché dici, è un archetipo! si diceva così a Napoli nel '99!)

2. Un problema di coscienza allo stadio. Da qualche parte, in qualche curva, una frangia di sinistra può avere avuto delle difficoltà a giustificare il fatto di divertirsi a intonare un motto così, e può avere inventato lo stesso mito di fondazione. E tuttavia doveva trattarsi d'una frangia abbastanza erudita, voglio dire, Eleonora Pimentel Fonseca, mica Tarzan. Per cui forse la prima ipotesi è più convincente.

La scelta di Napoli come luogo natale depone a favore di un'origine meridionale; l'idea che lo stesso motto appaia misteriosamente a Milano cinquant'anni dopo appare un tentativo di riequilibrare la storia.

Poi magari stamattina qualcuno ha scritto un pezzo meraviglioso in cui si citano quindici libri edizione Laterza che dimostrano inoppugnabilmente come Eleonora Pimentel motivasse i partenopei sibilando Boia chi Molla e Chi s'astiene dalla lotta è un gran figlio di *******, e io me lo sono perso: nel qual caso sareste molto gentili a segnalarmelo.

Update: dopo anni di attesa, grazie al prezioso contributo di Cragno, abbiamo finalmente una fonte che non dice "si dice": è il saggio Mondadori Le frasi celebri nella storia d'Italia di Antonello Capurso. Purtroppo è uscito nel 2012, e da quel che ho capito non cita le fonti, per cui... potrebbe aver recuperato l'informazione su it.wikipedia. E siamo daccapo. Però grazie Cragno.
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