Non è Israele; sei tu.

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"Ma la Siria? E l'Iraq? Non muoiono dei bambini anche là, da mesi? Perché non te n'è mai fregato nulla? Che cos'hanno di speciale quelli palestinesi? Cosa c'è di speciale nei bombardamenti di Israele per farti indignare come non ti hanno mai indignato le armi chimiche di Assad o le stragi in Egitto?"

Caro sostenitore di Israele che me lo domandi, su un blog o su un social network, un giorno sì e un giorno pure; e quando non lo chiedi a me lo stai domandando a qualcun altro che spaccia morticini siriani per palestinesi... io so che a nulla valgono le mie obiezioni: potrei dirti che non è vero che non m'è mai fregato nulla; non è vero che Assad non mi ha sconvolto e indignato. Anche se è vero che di Siria e di Iraq, e delle centinaia di altre crisi in giro per il mondo ho discusso di meno, litigato di meno. Ho un'attenzione selettiva? Probabilmente: e credo che ce l'abbiamo tutti. Ci sono mille motivi storici e culturali per cui un cittadino italiano di media cultura può sentirsi più vicino a Israele e alla Palestina che non a tanti altri Paesi che passano guai anche peggiori, vicini e lontani. E poi c'è un altro motivo, banalissimo: su internet si discute, si approfondisce, ma soprattutto si litiga.

Da che navigo in rete non mi è mai capitato di litigare con sostenitori di Assad o dell'ISIS. Non frequentiamo le stesse compagnie, non leggiamo gli stessi giornali, non seguiamo gli stessi opinionisti, insomma non abbiamo nulla da dirci. Nessuno mi ha mai taggato in una discussione sulle armi chimiche di Assad. Nessuno si è mai sentito in dovere di obiettare che sì, Assad è un genocida, però anche i suoi nemici... Nessuno ha mai tentato di spiegarmi quanto fossero giuste le rivendicazioni degli integralisti. E invece con Israele succede, puntualmente.

Tanta gente in buona e meno buona fede si sente in dovere di avvertirmi quotidianamente che sì, Israele ha i suoi difetti, ma Hamas è molto peggio (come se non lo sapessi). Qualcuno si sente in dovere di spiegarmi che sì, Hamas non riesce ad ammazzare nessuno, ma se fosse in grado farebbe un massacro (vero; però non ce la fa). Qualcuno deve continuamente ripubblicare la nuova versione del solito foglietto in cui gli israeliani sparano per difendere donne e bambini e invece i palestinesi li mettono in mezzo, come se non l'avessi visto migliaia di volte in vent'anni. Il tutto deve essere necessariamente condito con qualche sberleffo ("pacifinto", "sinistroide") e soprattutto quell'accusa di antisemitismo che ormai è una moneta di latta, tanto è inflazionata. Nel frattempo gli antisemiti veri minacciano e uccidono ebrei anche in Europa, e in rete c'è chi ogni tanto mi accusa allegramente di collaborare con loro. Per capirci: l'istigazione all'odio razziale qui da noi è un reato. Se davvero siete convinti che io stia diffondendo contenuti antisemiti, forse dovreste prendervi la responsabilità di denunciarmi alle autorità competenti. L'altra possibilità è ammettere che state, francamente, esagerando.

Caro lettore o interlocutore filo-israeliano: se davvero vuoi sapere qual è il motivo per cui discuto più di Israele che di Siria, più di Palestina che di Iraq, ebbene... il motivo sei proprio tu. (continua sull'Unita.it, H1t#240)

Sei tu che mi accusi di non capire (quando va bene), e di essere in combutta con degli assassini (quando sei un po’ più nervoso). Sei tu che mi inviti ad approfondire il problema, a studiarlo meglio, a cercare di esporre con più chiarezza le mie ragioni, onde evitare l’accusa di intelligenza con Hamas o la Jihad o direttamente con Hitler che controllerebbe il complotto antisemita da una base lunare. Sei tu che non lasci passare un giorno senza spiegare i motivi per cui Israele fa quello che fa, e non ti accorgi che in questo modo dai davvero l’impressione di avere bisogno tu per primo di ripeterteli ogni giorno, quei motivi. Se fossero motivi convincenti forse non ci sarebbe bisogno di tutto questo sforzo che, fin qui, non ha molto giovato alla tua causa.
Ora tu risponderai che anche i filopalestinesi si comportano così. Sì, qualcuno lo fa. E infatti ce n’è che non sopporto: ogni volta intervistano Vattimo sull’argomento ho l’istinto di impugnare un Uzi. E allora mettiamoci d’accordo almeno su questo: non c’è un altro conflitto che rovesci in rete tante quantità di cattiva fede, di foto false, di argomenti fallaci, da una parte o dall’altra. Temo che sia proprio questo ad attirarmi: non la sorte dei palestinesi o degli israeliani, che dalla nostra attenzione selettiva non hanno tratto finora molti benefici (anzi, forse la ribalta mondiale li ha danneggiati). Mi interessa il fatto che tutti mentano, che tutti si sbaglino, e che molti lo facciano volentieri, e di proposito. Mi interessano le leggende, e c’è chi ne fabbrica in continuazione. E a furia di sentirmele raccontare, e di cercare di smontarle, ho sviluppato una specie di competenza.
Molte cose probabilmente non le ho mai capite e forse non le capirò mai, ma è da anni ormai che ne sento parlare, che leggo, che discuto. Tutto quello che so l’ho imparato proprio mentre litigavo, on line e fuori. Certo, ci sono tante ragioni storiche e culturali per cui Gaza e Gerusalemme possono sembrarci più vicine di altre città martoriate del mondo. Ma forse non avrei mai davvero cominciato a interessarmi a Gaza o Gerusalemme se tanti anni fa, durante un’assemblea studentesca, un ragazzo vestito più o meno come me (jeans, camicia), non avesse preso la parola per accusare Arafat. Era un periodo abbastanza tranquillo, nessuno stava discutendo di Palestina, non era senz’altro all’ordine del giorno di quella precisa assemblea; e il ragazzo lesse un suo comunicato in cui spiegava che Arafat voleva sterminare gli ebrei. Tutti. Voleva riaprire i forni. Ecco, non ho più la minima idea di chi fosse quel ragazzo: probabilmente andò a studiare in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Però ricordo perfettamente me che lo guardavo e pensavo: noi due non stiamo vivendo sullo stesso pianeta. Non avevo particolare simpatia per Arafat – non l’ho mai avuta, tutto sommato, ma questa storia che volesse riaprire Buchenwald, ecco, non l’avevo mai sentita. Si doveva essere aperto un portale interdimensionale, da qualche parte, e io o lui senza volere eravamo finiti in un mondo parallelo: forse ero io che senza saperlo quel mattino mi ero risvegliato in un universo in cui Yasser Arafat era un nazista genocida. Appena potei andai a controllare – no, non risultava. La storia era più o meno quella che ricordavo io: il leader dell’OLP era senz’altro responsabile della morte di molti nemici ebrei, ma questa cosa di riaprire i forni, insomma, era del tutto inedita. Dunque era quel ragazzo, vestito più o meno come me, a venire da un’altra dimensione. Avrei dovuto avvertirlo in qualche modo, e invece lo persi di vista. Forse si era richiuso il portale. Per qualche altro anno non ci pensai più.
Qualche anno dopo arrivò internet. Fu uno choc. Il varco interdimensionale si riaprì e cominciai a leggere di palestinesi nazisti. Era qualcosa che sfidava le mie certezze, che mi incuriosiva. A distanza di anni è ancora così. Perché non m’interesso anche della Siria, di Boko Haram, dei pirati somali? Perché sono un maledetto superficiale, probabilmente. Ma vi garantisco che se un gruppo di sostenitori della pirateria somala mi segnalasse ogni giorno delle notizie sull’umanità degli abbordatori, sulle giustezza delle loro rivendicazioni, sulla moralità dei loro abbordaggi, ecco, io resisterei qualche settimana, e poi comincerei ad interessarmene morbosamente.
“Hai paragonato Israele ai pirati somali, sei antisemita”.

(PS: questo pezzo si può commentare solo su facebook, sulla pagina dell'Unità o in fondo a questa. Vediamo come va).
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Robottoni, Keynesismo e altri complotti

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Transformers 4: l'Era dell'Estinzione (Michael Bay, 2014).

Mentre un’antica e potente minaccia Transformer prende di mira la Terra, un gruppo di potenti e ingegnosi uomini d’affari e scienziati tenta di imparare dalle passate incursioni dei robot spingendosi oltre i limiti controllabili della tecnologia, e a me sono già cascati i bulloni. No, davvero, ci andate voi a vedere i Transformers, io passo. Non è niente di personale, anzi probabilmente sì. Come può altrimenti spiegarsi che i robottoni componibili e polifunzionali di Michael Bay non mi siano mai andati a genio, mentre quelli arrugginiti e analogici di Del Toro mi hanno fatto rabbrividire e piangere per mezz'ora? È davvero così geniale e visionario Del Toro, è davvero così ipercinetico e bimbominchioide Michael Bay (che peraltro, quando vuole, sa fare film molto divertenti)?

Non sarà più semplicemente che io sono della generazione di Gig e di Mazinga, e i Transformers sono usciti nel momento esatto in cui cominciavo le medie e prendevo commiato dai cartoni animati del pomeriggio? Io con gli autobot non solo non ci ho mai giocato, ma probabilmente mi sono impedito di giocare. Li ho sacrificati all'altare della pubertà incipiente, magari li rompevo ai bambini più piccoli per dimostrare che ero un togo, che ne so. So solo che la mia antipatia per quei cosi è profondamente radicata nel mio pre-conscio. A me i robottoni piacciono solo se puzzano di officina anni Ottanta e nell'abitacolo potresti trovare un poster di Blitz. Solo se si ammaccano continuamente e dentro c'è un umano che manovra e sente le botte. Invece il robottone con la personalità, i sentimenti, il senso del destino, lo trovo un abominio. Il robottone che deve preservare la sua identità culturale - pure lui - non ci bastavano gli esseri umani con 'ste menate, tra  un po' pure la macchinette del caffè pretenderanno un seggio all'Onu. E quindi a vedere Transformers 4 non ci vado.

Sto qui a casa a pensare a quanto sarà bello Pacific Rim 2. Chissà quante belle pezze variopinte stenderà sui buchi di sceneggiatura del primo. In particolare sarebbe bello se approfondisse un'idea lasciata molto in sospeso, che secondo me potrebbe fare la differenza. Come forse non sapete, all'inizio di Pacific Rim i robottoni sono già vecchi, una tecnologia superata (e questo è geniale, perché assomigliano davvero a quelli che spuntano ancora da certi nostri cassetti nei solai o nei garage). Hanno avuto un momento di gloria qualche anno prima, ma ormai non riescono più a fronteggiare i dinosauri, e quindi l'esercito mondiale ha deciso di dismetterli, e di costruire un grande muro - probabilmente si tratta di una distopia in cui gli economisti keynesiani sono riusciti a conquistare l'egemonia. Persino il protagonista, ex conducente di robottone, dopo aver perso il fratello gemello in un combattimento, ha trovato lavoro come manovale. Il muro però, se da un lato assorbe tanta forza lavoro e rilancia l'economia, ha una grossa pecca: non funziona. Lo si vede dopo pochi minuti: il primo dinosauro che ha voglia di farsi un giro a Sidney lo sbriciola come niente fosse. Eppure l'umanità continua a costruirlo. È scema? Sì.

Molti spettatori dotati di intelligenza, e determinati a manifestarla, se la sono presa per l'apparente ingenuità: come se l'umanità, quella vera e non cinematografica, dimostrasse sempre di saper prendere le misure alle catastrofi incombenti. Se di fronte al riscaldamento globale tutto quello che abbiamo saputo opporre è il protocollo di Kyoto, perché non dovremmo reagire a un'invasione di dinosauri ciclopici alzando un muretto di mattoni? Siamo fatti così. Ma a un certo punto del film viene lasciato penzolare un altro spunto, che spero Del Toro sviluppi: forse il muro è semplicemente un diversivo.

Forse la guerra è già persa, e l'élite che governa il mondo - e che ha approfittato dell'invasione per accentrare ricchezze e conoscenza - lo sa. Questa élite nel primo film non compare mai, ma in un qualche modo sappiamo che esiste, e che ha deciso di dismettere il progetto dei robottoni. Ma proviamo a immaginare di esserci noi al loro posto. Non abbiamo i mezzi per vincere la guerra, ma abbiamo gli strumenti per calcolare l'entità della sconfitta: sappiamo che l'umanità è spacciata, e che soltanto un'esigua minoranza può sopravvivere in rifugi costosissimi. Cosa facciamo? Cominciamo a costruire quei rifugi, e nel frattempo teniamo occupata l'umanità con qualcosa. Un bel muro di mattoni, che ne dite? E speriamo che se la bevano.

Ora togliamo i dinosauri e passiamo al mondo reale, che non se la passa poi così meglio. Se davvero c'è una sottile classe sociale di super-ricchi, destinati a diventarlo sempre di più, perché non si danno da fare? È il punto di partenza di tutti i complottisti, lo so; ma se le risposte che si danno sono ridicole, la domanda è legittima. Penso alla tizia appena assunta dal M5S a Bruxelles: la sua ipotesi è che il Nuovo Ordine Mondiale stia regolando il clima mediante le scie chimiche e stabilizzando la popolazione del globo mediante la vaccinazione di massa, l'introduzione di nanomateriali plastici negli alimenti, ecc. Cioè, in pratica senza scie chimiche e vaccini saremmo già in venti miliardi. Ora io non so voi, ma la mia reazione a una teoria del genere è: magari! Cioè ci voglio lavorare anch'io per il Nuovo Ordine Mondiale, ditemi dove ci si iscrive, porto anche il caffè. Sul serio, se abbiamo trovato un sistema per regolare la popolazione mondiale senza guerre e senza carestie siamo in sostanza i più grandi benefattori di tutti i tempi - anzi io comincerei ad aumentare le dosi, perché sette miliardi francamente non mi sembrano un gran risultato; cioè ti devi impegnare un po' di più, Nuovo Ordine Mondiale.

Fuor di ironia, se non si crede a nessuna grande teoria del complotto, rimane il problema. Cosa sta facendo l'élite che sta accumulando il più grande capitale di ricchezza e conoscenza mai esistito nella storia dell'umanità? (chiediamocelo su +eventi!)

Perché non si stanno dando da fare per salvare la Terra e impedire le catastrofi climatiche che la comunità scientifica ormai dà per scontate? Il problema dovrebbe interessare ai super-ricchi per primi: non per filantropia, ma perché siamo tutti sulla stessa barca, loro compresi. O no?

Ormai sappiamo che in futuro non così remoto l’acqua sarà un bene molto più prezioso; molte specie animali si estingueranno. Anche l’umanità probabilmente dovrà ad adattarsi a cambiamenti rapidi e quasi sempre peggiorativi. Diminuiremo, anche senza bisogno di vaccini o nanomateriali. È più probabile che si ricorra ai vecchi metodi già sperimentati: carestie, epidemie, guerre per l’accaparramento delle risorse. Non è la trama di un film di Emmerich: sono le previsioni di scienziati e studiosi. Cose che sappiamo, anche se preferiamo parlar d’altro. L’élite dovrebbe saperle meglio di noi. E di conseguenza preoccuparsi un po’ di più. Invece, boh, voi li avete visti? Ok, qualcuno fa un po’ di filantropia, ma non sembrano sforzi adeguati alla drammaticità della situazione. Forse hanno fatto i loro calcoli, e da qualche parte stanno costruendo rifugi climatizzati e iperaccessoriati, dove si nasconderanno quando su questa crosta cominceremo a scannarci per un sorso d’acqua. È un complottismo come un altro.

O forse i calcoli hanno dato risultati peggiori, e l’1% ha deciso che tanto vale spassarsela finché dura. Alla plebe si può ancora offrire qualche film fracassone e divertente.
  
Transformers 4 esce oggi mercoledì 16 luglio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 (3d), 20:30 (2d), 22:00 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 20:45 (3d) e alle 21:30 (2d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d). Andateci e ditemi voi. Oppure tenete d’occhio i 400 calci, loro scriveranno recensioni precise ed esaustive.

(Ps: a questo post si può commentare solo su facebook, andando in fondo alla pagina. Vediamo come va).
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La Santanchè, i miei due centesimi

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Se proprio vogliamo parlarne, assumendo che sia una cosa seria: io credo che l'acquisizione dell'Unità non sarebbe un affare né per Daniela Santanchè né per l'Unità. Lo direi anche se non avessi un piccolo blog sull'Unità; persino se stimassi le capacità imprenditoriali del personaggio e non avessi sentito dire che anche lei galleggia alla giornata, come tutti in fin dei conti.

Lo dico in astratto: il bene più prezioso che l'Unità si porta in dote è il suo brand, con tutta la storia e le storie che si porta dietro. Ma anche la Santanchè è un brand, e metterli assieme non gioverebbe alla credibilità di entrambi. Se la Coca Cola si comprasse una cantina di Chianti, immagino che il vino continuerebbe ad avere lo stesso sapore: ma forse qualcuno non lo comprerebbe più. A torto, a ragione, non importa: se c'è qualcosa di cui l'Unità non ha bisogno in questo periodo, è di perdere tacche di credibilità presso un pubblico che a una certa storia ancora ci tiene. La penso così e magari mi sbaglio; di mestiere non vendo giornali e ho il massimo rispetto per chi ancora ci prova: dev'essere durissima.

Comunque, se proprio vogliamo parlarne, vorrei spiegare cosa mi succederebbe se Daniela Santanchè acquistasse l'Unità, e conseguentemente il sito Unita.it dove da quattro anni ormai scrivo più o meno un pezzo alla settimana. Niente. Continuerei a scrivere quello che voglio, finché posso. Ovviamente mi capiterebbe di voler scrivere cose molto critiche su Daniela Santanchè e i suoi amici. Non solo, ma se domani l'offerta di Daniela Santanchè fosse scavalcata da una cordata Berlusconi-Grillo-Netanyahu, io farei lo stesso: questa è la mia politica. Se mi date uno spazio io lo occupo; se volete cacciarmi, dovete prendere l'iniziativa.

Faccio un esempio: qualche anno fa un editore, Chiarelettere, mi propose di scrivere un e-book. Per me era una buona occasione, però si trattava di lavorare con la Casaleggio Associati. Allora ho fatto così: ho scritto l'e-book e ci ho messo dentro quello che pensavo di Beppe Grillo, del suo movimento, del modo in cui nei giorni del terremoto emiliano avevano cercato di sciacallare consenso spacciando la bufala delle "previsioni dei terremoti" che secondo loro erano fattibili e secondo la comunità scientifica no. Me l'hanno pubblicato: buon per loro e buon per me. Se non me l'avessero pubblicato, avrei scritto da qualche altra parte che quella casa editrice non ammetteva più critiche su Grillo.

Per me è così che funziona. Non ho mai capito quelli che se la prendevano con Saviano o i Wu Ming pubblicati da Berlusconi: se riesci a farti pagare da Berlusconi per scrivere cose antiberlusconi, secondo me hai vinto (poi possiamo discutere di quanto Saviano o Wu Ming siano stati effettivamente antiberlusconi ma sarebbe lunga e tutto sommato non c'entra: quel che importa è che siano riusciti a scrivere quel che hanno voluto). Chi vuole difendere le sue idee e le sue creazioni ha il diritto-dovere di infilarsi dove può, strappando le condizioni migliori. L'unica fedeltà si deve, appunto, alle proprie idee e alle proprie creazioni.

In piccolo è quel che succede con le inserzioni: ogni tanto c'è qualcuno che mi scrive per mettermi in guardia dal fatto che compaiano su questo sito pubblicità di Forza Italia o della pro loco di Israele. Vale la pena di ricordare che le inserzioni sono personalizzate: ognuno ne vede di diverse, a seconda dell'opinione che google si è fatta di lui. Ma a parte questo, l'idea che anche solo due centesimi mi arrivino in tasca da Forza Italia o da Israele mi diverte: soprattutto perché continuo a scrivere quel che mi pare sia su Forza Italia che su Israele. Dal mio punto di vista, i due centesimi li hanno buttati via loro. Mi sbaglio? Mi sarò sbagliato su due centesimi.

Ne approfitto per esprimere la mia solidarietà ai lavoratori dell'Unità, e di salutare i redattori del sito che in quattro anni non hanno mai toccato una virgola di quel che scrivevo - anche quando avrebbero dovuto, non solo virgole ma accenti, frasi, interi pezzi. Se c'è qualcosa che fin qui non mi è mai mancata, è la libertà. Perfino troppa - ma finché continua, contatemi. Per quel poco che posso.
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Israele ha vinto

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...sed victa Catoni. 

Piano piano ci stiamo arrivando: cominciamo re-interessarci di Gaza. Un po' in ritardo sulle nostre bacheche on line arrivano le solite dannate foto di bambini morti - magari non sono esattamente i bambini che stanno morendo stavolta; magari sono altri bambini di altre guerre, ma insomma, è l'orrore che conta. Però è vero che stavolta abbiamo avuto bisogno di più tempo del solito per carburare la nostra indignazione.

Parlo soprattutto di chi sta coi palestinesi; la controparte ha sempre riflessi più pavloviani. Però da noi è in minoranza: così che c'è stato un momento, durato fino quasi alla fine del mondiale di calcio, in cui davvero sembrava che stavolta gli israeliani avrebbero potuto occupare Gaza senza neanche passare su una prima pagina italiana. Si respira una disaffezione generale per una tragedia che una volta era La Tragedia, il punto focale di tutte le travagliate vicende del Medio Oriente e del mondo - e poi a un certo punto ha smesso di appassionarci. Quando è successo? Dopo Piombo Fuso, prima di piazza Tahrir. Perché è successo? Perché tanto sembra che non cambi mai nulla.

L'insofferenza per una stagione di stasi infinita la mette a verbale sul Post Christian Raimo ("La ripetitività della tragedia") : "Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale. Le analisi geopolitiche sono delle versioni aggiornate, sempre un po’ al peggio, delle analisi geopolitiche di un anno o cinque o dieci anni fa. Il conflitto israelo-palestinese è diventato una figura retorica che indica qualcosa di irrisolvibile e ricorsivo". Chi si ostina a discuterne dà a volte l'effettiva impressione di un reduce sotto choc che continua a fare gli stessi discorsi, a ricordare le stesse battaglie: Quarantotto, confini del '67, accordi di Oslo, eccetera.

Quel reduce a volte siamo anche noi - e forse il problema è tutto lì: perché chi segue la scena con un'attenzione più costante sa che quello che scrive Raimo è vero solo in apparenza: Gaza 2014 non è Piombo Fuso. Netanyahu non è Olmert, Abu Mazen non è più lo stesso Abu Mazen che aveva ottenuto una legittimazione popolare con le elezioni del 2005. Anche Hamas non è più la stessa Hamas. Dietro ai nomi sono cambiate davvero tantissime cose. Forse l'unica cosa che non è cambiata siamo noi, con le nostre idee sul conflitto israelo-palestinese ormai cristallizzate da più di un decennio, refrattarie a tutto quello che nel frattempo si è incaricato di smentirci.

Siamo peraltro in ottima compagnia, se persino John Kerry all'inizio dell'anno pensava di riproporre Due Popoli e Due Stati. Nel frattempo Israele continua a costruire colonie al centro di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina; nel frattempo un Abu Mazen che non osa più convocare le elezioni riesce a trovare un accordo di governo con Hamas; ma anche Hamas è molto diversa da quella che conoscevamo. È un'organizzazione indebolita, che non può più contare sull'appoggio dei Fratelli Musulmani, passati dall'oggi al domani dal governo dell'Egitto alla clandestinità, e che fatica a contenere correnti più estremiste ed eterodirette.

Nel frattempo, soprattutto, l'intero Medio Oriente sta collassando; tra Siria e Iraq è nato un nuovo sedicente califfato che costituisce per Israele una minaccia meno apocalittica della fumosa atomica iraniana, ma più vicina e concreta: il che offre poi a Netanyahu l'occasione migliore per ridere in faccia a Kerry e a chiunque creda che gli israeliani siano mai intenzionati a ritirarsi davvero. Obama può lamentarsi e magari lo farà, ma quando dovrà scegliere tra Israele e uno Stato Islamico del Levante non potrà avere molti dubbi; quanto agli altri osservatori (Europa, Onu), ci aspettiamo tutti che brontolino, ma la loro impotenza è agli atti da decenni. Quindi?

Quindi Israele ha vinto. Ma non adesso: da molti anni. Forse dalla Seconda Intifada, se non da prima. Tutto quello che è successo poi, il piombo fuso e le cupole d'acciaio, fanno già parte della cruenta cerimonia trionfale. Israele ha vinto, nell'unico modo in cui poteva probabilmente vincere. Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l'IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l'Israele di Netanyahu. A noi la cosa non piace e riteniamo che prima o poi debba cessare, in un modo o nell'altro; è un modo molto occidentale di ragionare. Essendo tutti ormai nati in tempo di pace, riteniamo che la guerra sia uno stato eccezionale; che debba finire prima o poi, e sarebbe meglio prima: basterebbe dare un'occhiata migliore ai libri di Storia per capire che l'eccezione siamo noi.

Gli israeliani non sono come noi; la nostra pace non è la loro priorità. Il futuro che lasciano ai loro figli è comunque promettente: chi 15 anni fa cresceva col terrore degli attacchi suicidi oggi può gustarsi i bombardamenti stagionali dell'IDF portandosi il divano in una posizione panoramica. Eppure basta qualche razzo alimentato a fertilizzante a sentirsi sotto assedio e pronti a giustificare qualsiasi bombardamento. Ragazzi e ragazze crescono bellicosi: saranno buoni soldati e maggiormente inclini a votare per la sicurezza e la disciplina. Ci sarà sempre, anche laggiù, una minoranza che non si rassegna; ma chi credeva che Israele avrebbe potuto diventare un'altra cosa ha avuto molto tempo per ricredersi: così chi con tanto ottimismo immaginava che i palestinesi avrebbero potuto resistere, di generazione sconfitta in generazione sconfitta, all'abbraccio del fanatismo islamico. Peraltro il loro ruolo di eterni sconfitti non deve troppo dispiacere anche a chi ancora li finanzia, mantenendoli in vita quanto basta perché possano infastidire il nemico a intervalli regolari. La Palestina non è che la casella di una scacchiera più complessa che non abbiamo mai compreso per intero.

In una parte di questa scacchiera Israele sembra proprio aver vinto. Ammetterlo non significa approvarlo; quel che sta bene agli dei non deve piacere per forza anche a noi. Abbiamo ancora un po' di spazio e di tempo per ribellarci alla cattiva fede di chi inverte bombardatori e bombardati, di chi scambia un razzo qassam per un attacco atomico, di chi lancia accuse di antisemitismo a vanvera, di chi paventa la fine di Israele faro-di-democrazia-nel-medio-oriente. Israele non è un faro; non è nemmeno il cane da guardia dell'occidente, come molti falsi amici pretenderebbero che fosse: è un piccolo Paese che ha militarizzato i suoi problemi esterni per risolvere i suoi problemi interni. Proprio perché funziona, proprio perché rischia di essere un modello esportabile, vale la pena di osservarlo, studiarlo, smontarlo. Senza quelle certezze prefabbricate che alla lunga, davvero, annoiano.
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L'inventore d'Israele?

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Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
13 luglio - Sant'Esdra (V secolo a.C.), sacerdote, rovinafamiglie, forse inventore del giudaismo

I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro firma l'editto, probabilmente senza pensarci più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di firmare tante altre carte che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica (continua sul Post...)
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Come valutare il Cattivo Insegnante

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In quattro giorni ha fatto dietrofront. Ancora una settimana fa sembrava che Roberto Reggi volesse raddoppiare l'orario degli insegnanti italiani, senza spenderci un soldo di più. Ai microfoni di "Repubblica" prometteva scuole aperte fino alle dieci di sera, anche in luglio: scuole piene di vita e di voglia di fare e di manodopera sottopagata. Poi, appena gli è capitato di incontrare davvero qualche insegnante, si è rimangiato tutto. "Chiedo scusa, è stata una stupidaggine". Ovviamente le trentasei ore sono da intendersi come un tetto facoltativo; ovviamente chi lavorerà di più guadagnerà un po' di più; ovviamente la trasformazione delle scuole in centri estivi richiede una discussione più aperta, insomma se ne parlerà ancora un po' prima di lasciar perdere.

In sostanza Reggi non ha fatto che eseguire - con più rapidità, bisogna ammetterlo - il solito schema dei Grandi Riformatori della Scuola Italiana: (1) lanciare idee irrealizzabili, dichiarare guerra a un fronte immaginario di insegnanti sfaccendati, (2) aspettare che qualcuno reagisca protestando; (3) rimangiarsi quasi tutto; (4) non cambiare quasi niente; (5) incolpare delle proprie incapacità gli insegnanti che non avrebbero capito la potenza visionaria delle sue idee. Fanno più o meno tutti così; la Moratti ci mise degli anni, Reggi quattro giorni. Non so cosa sia meglio, ma fin qui è la stessa scenetta. E d'altro canto non è che si possa fare molto di più, finché nella scuola non si decide di investire sul serio.

Su un punto Reggi non cede, ed è la valutazione. Proprio perché bisogna ridare dignità agli insegnanti, Reggi crede che sia venuto il momento di valutarli. Ma come? "La valutazione dovrà essere dunque un risultato che deriva da molti elementi". Giustissimo, ma quali? Per aiutare il ministro a trovarli, ho provato a guardare la questione da un punto di vista un po' diverso dal solito: quello del Cattivo Insegnante. Tutti sappiamo che esiste; ma perché non riusciamo a snidarlo?

C'è un problema. Rispetto agli insegnanti più o meno bravi, il Cattivo Insegnante ha una specie di vantaggio evolutivo. Non deve preoccuparsi, come i colleghi, di entusiasmare gli studenti, confortare i genitori, aiutare i colleghi, soddisfare i dirigenti. Il Cattivo Insegnante deve solo sopravvivere. Mentre gli altri insegnanti si aggiornano, correggono, organizzano progetti, si arrischiano a scortare gli studenti in pericolosissime gite d'istruzione, il Cattivo Insegnante deve soltanto preoccuparsi di difendere il suo habitat dai predatori. Questo lo rende molto più resistente a tutte le minacce esterne, le tempeste e le mareggiate che periodicamente si portano via qualche bravo insegnante stanco e sfiduciato - nel frattempo, all'ombra della macchinetta del caffè il Cattivo Insegnante nidifica. Mettiamoci dunque dalla sua parte. Il Cattivo Insegnante sa che Roberto Reggi vuole eliminarlo. Come può reagire? (Scopriamolo sull'Unita.it, H1t#239)

Se Reggi vuole premiare la genuina voglia di lavorare di chi è pronto a raddoppiarsi l’orario settimanale, il Cattivo Insegnante può benissimo correre dal Dirigente a chiedere le 24 ore, o addirittura le 36. Tanto lui in quelle ore fa poco o nulla: chiacchiera dei fatti suoi, legge il giornale. Per alcuni insegnanti la lezione è molto faticosa, per lui no. Anche questo è un vantaggio evolutivo: se Reggi vuole premiare chi lavora di più a contatto con gli studenti, fatalmente selezionerà quelli che in questo contatto sprecano meno energie. Naturalmente quelle ore in più il Cattivo Insegnante le toglierà a docenti migliori di lui - mors tua vita mea, vedi che anche il latino alla fine a qualcosa serve.
Oppure Reggi potrebbe introdurre i questionari che si usano in altri ambiti di lavoro, anche nell’amministrazione pubblica: agli utenti (in questo caso studenti e genitori) si potrebbe chiedere di valutare il servizio offerto. Non sarebbe una cattiva idea, e il Cattivo Insegnante sa già come volgerla a suo favore: trasformandosi nell’amicone degli studenti e alzando i voti a tutti. Manipolare i genitori non è così difficile – specie se intorno a te hai insegnanti più o meno bravi che a volte somministrano insufficienze o minacciano bocciature. Al Cattivo Insegnante basta ricevere la mamma o il papà ogni tanto e confermare che i colleghi si sbagliano, che il ragazzino è un genio incompreso, inespresso, ecc.
E se Reggi volesse insistere sulla vecchia strada della valutazione, con le prove Invalsi? È da un po’ che non se ne parla più, addirittura quest’anno in prima media le prove non sono state fatte. È vero che costano molto, e se le si volesse usare davvero per la valutazione degli insegnanti (come aveva proposto la Gelmini) succhierebbero tutti i fondi destinati a premiare i migliori. Ma fingiamo che i soldi ci siano: a quel punto al Cattivo Insegnante non resta che trasformarsi in un allenatore. Comincerà a somministrare simulazioni di prove invalsi a settembre, e proseguirà fino a giugno; sacrificherà volentieri tutto il resto del programma, visto che l’unica cosa da cui dipende la sua sopravvivenza è il buon risultato dei suoi ragazzi. Se comunque non riuscisse ad allenarli bene, può sempre falsificare qualche risposta in fase correzione, visto che dopo tanti anni la prova Invalsi (concepita per essere analizzata e valutata da un computer) continua a essere corretta a mano dai docenti. Molti degli stessi docenti continuano a lamentarsi della cosa; a sentirsi umiliati da un test che li trasforma in “compilatori di crocette”. Il Cattivo Insegnante no: se lo Stato gli fornisce un’opportunità in più di truccare le carte a suo favore, tanto meglio.
Il Cattivo Insegnante, insomma, non vede l’ora che la valutazione arrivi nelle scuole. Purché sia una valutazione semplice, imposta dall’esterno con la forza, da politici poco esperti di complessità scolastiche. Purché sia uno slogan, insomma. http://leonardo.blogspot
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Quello che Rondolino non tace

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E se restassimo ragionevoli? 

Io credo, e l'ho scritto altre volte, che molti e importanti siano i motivi per cui la questione israelo-palestinese ci interessa, ci affascina, ci tormenta, più di tantissime altre questioni potenzialmente altrettanto affascinanti e tormentose; così che persino un califfo nero spuntato dal nulla al capo di una nazione di fanatici appena nata ma già più grande dell'Italia, anche se minaccia undici settembre a ripetizione non ottiene un decimo dell'attenzione di qualche razzo che cade di qua o di là del muro della barriera difensiva. È tutto un groviglio di culture e sensi di colpa e proiezioni che ci portano a guardare lì piuttosto che altrove. Alla fine non ci sarebbe niente di male: non possiamo osservare tutto, non possiamo capire tutto, non possiamo nemmeno soffrire per tutto - ma se almeno riuscissimo a osservare Gerusalemme o Gaza, a soffrire per Gerusalemme o Gaza, addirittura a capire quel che succede a Gerusalemme e Gaza, forse diventeremmo persone migliori.

Ma non succede. Non diventiamo persone migliori. Diventiamo matti. La questione israelo-palestinese ci fa soltanto diventare matti.

Non parlo di israeliani e palestinesi, la maggior parte dei quali dimostra in questi frangenti una tenuta mentale - dopo tanti anni - ammirevole. Parlo di chi queste cose le osserva da lontano. Dopo un po' impazziscono, non tutti ma quasi: al punto che mi domando se il "restiamo umani" del povero Arrigoni. in attesa di definire meglio il concetto di umanità, non andrebbe riformulato come "restiamo razionali". Oggi studieremo il caso di Fabrizio Rondolino, giornalista, che all'indomani del ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi israeliani cinguetta:


Le premesse implicite sono abbastanza chiare: Israele è l'unica-democrazia-del-Medio-Oriente, il suo esercito è il più-morale-del-mondo, quindi qualsiasi cosa faranno non sarà mai nulla che Rondolino possa pentirsi di aver sostenuto. Nei giorni seguenti in effetti non è che Israele faccia niente di particolarmente originale: bombardamenti mirati contro le batterie di Hamas, rappresaglie sulle abitazioni degli assassini, ecc. Nel frattempo però a Gerusalemme un diciassettenne viene bruciato. Dopo aver ripetutamente manifestato cordoglio per le vittime dalla parte israeliana; dopo essersi scagliato contro l'Autorità Palestinese che (secondo lui) non aveva espresso nessuna condoglianza; a questo punto - ci aspetteremmo - Rondolino dovrebbe scrivere almeno una riga per mostrarsi dispiaciuto che a Gerusalemme brucino ragazzi palestinesi. Invece lui reagisce col seguente tweet:


Quello che i "media non dicono" ma dice soltanto il piccolo sito Rights Reporter, è che il ragazzo palestinese non può essere stato ucciso da ebrei israeliani; e la prova di questo è che è stato bruciato, "una cosa che un ebreo (specie se ortodosso) non farebbe mai e poi mai, nemmeno per il peggior nemico". E allora chi può avere fatto una cosa tanto orribile? Dei non meglio precisati "criminali" palestinesi: "la storia criminale della famiglia del giovane arabo fa supporre che si tratti di un delitto maturato nel mondo criminale di Gerusalemme Est". Sì, ma il movente? L'omofobia.

Il ragazzino sarebbe stato bruciato perché gay. "Le prime voci, confermate da conoscenti, della omosessualità del ragazzino fanno addirittura pensare a un delitto d’onore". Ecco quello che i media non dicono, e che soltanto Rights Reporter dice.

A questo punto il giornalista Fabrizio Rondolino, che tra tanti alti e bassi non è sicuramente uno nato ieri, avrebbe potuto restare ragionevole e domandarsi: com'è che gli altri media non lo dicono e lo dice soltanto questo piccolo sito di hasbara fatta in casa? Rights Reporter ha una risposta anche per questo: è la stessa polizia israeliana a tenere nascosta questa pista, per ragioni di ordine pubblico. "Ma la situazione a Gerusalemme è gravissima, la polizia non può diffondere questi sospetti che verrebbero presi come una “montatura” e potrebbero accendere ancora di più gli animi". Però quello che i media non possono sapere, in un qualche modo Rights Reporter lo sa e lo diffonde: e se gli animi si accenderanno, beh, pazienza.

È un piccolo sito, appena nato, con pochi lettori quasi tutti di area filo-israeliana. Sia detto a loro merito: non abboccano neanche loro. Una notizia sparata così, senza fonti, alimentata da un corto circuito ideologico (i colpevoli non possono essere ebrei perché gli ebrei non possono essere colpevoli) quante possibilità ha di non essere una patacca? Due giorni dopo la polizia israeliana arresta sei ebrei israeliani. Tre confessano di aver ucciso Mohammed Abu Khdeir. Secondo la polizia lo hanno bruciato vivo.

Right Reporter non soltanto ammette di aver pubblicato una bufala (e ci mancherebbe anche che facesse finta di niente), ma non la cancella nemmeno, come avrebbe fatto un beppegrillo qualsiasi. Di questo li ringrazio. Per altro sono un piccolo sito da cui nessuno si aspetta autorevolezza o imparzialità. Ma Rondolino?

Quanto tempo pensate che ci abbia messo il giornalista Fabrizio Rondolino per chiedere scusa e avvertire che ha fatto girare una bufala clamorosa? È successo cinque giorni fa; vediamo se in seguito ha scritto qualcosa sull'argomento.


Niente, non ne parla più. Il giornalista Fabrizio Rondolino ha messo in giro una notizia falsa, da una fonte senza nessun credito; quando la notizia si è rivelata priva di fondamento, ha fatto finta di niente. Io non so se queste cose succedano anche in altri ambiti; mi sembra che succedano più spesso quando si parla di Palestina e Israele. L'abitudine di dar retta a chiunque ti dia la notizia che vorresti sentire; a far cassa di risonanza a qualsiasi voce che confermi le tue idee e smentisca quelle dei tuoi avversari, eccetera. Non succede con l'Iraq, non succede con Matteo Renzi o Beppe Grillo. Non in queste proporzioni, almeno. Ma succede in Italia, a una distanza che ci dovrebbe permettere di osservare, ragionare, e non esplodere alla prima scintilla che ci arriva. E invece.
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Scrivere, scrivere.

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Dev'essere stato più o meno dieci anni fa. Giorgio Faletti era appena diventato lo scrittore italiano più venduto, immagino, nel mondo: e alle Iene lo intervistarono in coppia con Lucarelli - le interviste parallele, avete presente. Ricordo solo una domanda, che rientrava perfettamente nella linea editoriale delle Iene, ovvero: meglio scrivere o scopare? E ricordo che senza esitazione, nel giro di pochi secondi, sia Faletti che Lucarelli risposero: scrivere, scrivere.

Ora io vi dico: con molta serenità, senza aver mai invidiato il successo di un Faletti o di un Lucarelli, senza aver mai covato animosità nei confronti loro o di chiunque; senza essermi mai disperato perché malgrado tanto lavoro le cose non si smuovevano e io restavo un po' in questo limbo confortevole ma, diciamolo, salmastro; se c'è una cosa di cui non ho mai dubitato per tutti questi anni, è di essere uno scrittore. Magari non avrei mai scritto un solo libro decente o necessario, ma dentro di me ho sempre saputo di essere uno scrittore. Tranne in quel preciso momento.

Perché per me, insomma, scopare era ancora molto importante, decisamente prioritario - Oddio, mi dissi, allora sono un impostore. 

Devono essere passati come minimo dieci anni, un po' di più di quelli che servono a un corpo umano per rigenerarsi completamente - perfino le mie ossa sono composte di cellule diverse. Anche il tesoro più prezioso che credo di essermi portato con me, i ricordi, sono un'illusione: un backup che il mio cervello riscrive mentre dormo su cellule fresche. Da fuori si nota soprattutto che sto ingrassando. Però adesso - è ridicolo solo il pensarlo - se in coda a quella di Faletti e Lucarelli potessi aggiungere la mia risposta, ecco, coinciderebbe. Questo non fa comunque di me uno scrittore; ma adesso almeno non fingo più, godo sul serio.

Di solito quando si scrive un coccodrillo si cerca di mettere a fuoco un rimpianto: nel caso di Faletti mi sembra impossibile. Ok, certo, poteva vivere un po' di più; però se devo pensare a una persona che è riuscita a togliersi delle soddisfazioni, quello è lui. Più che i soldi o la fama, questo mi piace invidiargli: il godimento. Faletti ha scritto quello che gli piaceva scrivere, ha cantato quello che gli piaceva cantare, ha fatto ridere tanta gente ma soprattutto si è divertito lui. Probabilmente la sua vita ti capita in premio se in quella precedente hai fatto qualcosa di dolorosissimo ed eroico. Il senato romano salutava l'imperatore fresco di nomina augurandogli d'essere più fortunato d'Augusto e più grande di Traiano. E possiate divertirvi più di Faletti, aggiungo.
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La rabbia dev'essere estenuante

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Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours Party
People
gli vorrei bene anche se stesse di spalle per tutto il film.
Philomena (Stephen Frears, 2013)

Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni...

Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L'Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?

La vera Philomena (si chiama davvero così),
ricevuta dal capo della ditta.
Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però 'ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d'infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati - come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un'anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori - ci credereste? Eppure è così.

Avete sentito dire, poniamo, di Mauro Inzoli? (continua su +eventi!)

Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state "eseguite rigorose ricerche". Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.

Quando l'anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po' scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.

Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.
Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l'amministrazione del perdono - e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l'anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.
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La riforma coi fichi secchi

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"I soldi non ci sono. Ce ne saranno pochi anche in futuro". Questa è in fondo l'unica cosa importante che ieri il sottosegretario all'istruzione Roberto Reggi ha rivelato a Repubblica. Tutto il resto - le 24 ore, le 36 ore, le scuole aperte tutto a luglio e fino alle sei di sera (ma perché non le dieci) - è puro spettacolo, come ormai è tradizione quando al Ministero provano a ritoccare i contratti degli insegnanti: proposte pirotecniche, qualche settimana di fuochi artificiali, poi il fumo e il chiasso si dirada e a settembre si riapre più o meno la stessa baracca. Magari stavolta sarà diversa; ma francamente non vedo come.

La scuola italiana è il carrozzone che è: non sono qui a difenderla, ma non credo che si possa migliorare a costo zero. Immagino che anche Reggi e il suo ministro lo sappiano benissimo; non sono dilettanti. Ma se i soldi non ci sono, che altro possono fare? L'unica è raccontare e raccontarsi che da qualche parte del carrozzone ci siano enormi rubinetti di denaro o di forza lavoro lasciati aperti; clamorosi sprechi a cui rimediare con tanta buona volontà... e senza investirci un mezzo euro in più. "La scuola italiana costa 55 miliardi l'anno, bisogna usare meglio quello che c'è". Come si fa a usare meglio? Si tengono tutti gli insegnanti a scuola tutta la settimana. Geniale, no? Come mai nessuno ci aveva pensato prima?

In effetti, qualcuno ci avevano già pensato. Finché non si era accorto che la cosa non era né sensata né fattibile. Sulla Repubblica di ieri si menziona una "colossale rivolta del mondo della scuola" che avrebbe impedito al ministro Profumo di aumentare l'orario settimanale degli insegnanti a parità di salario. Faccio appello alla buona memoria dei lettori: Profumo lanciò la sua proposta nell'autunno di due anni fa. Voi ricordate una qualche colossale rivolta, nel mondo della scuola o altrove? Non si riuscì a fare nemmeno uno sciopero unitario. Non furono le barricate dei supplenti storici ad affondare la proposta di Profumo; essa svanì "all'apparir del vero", nel momento in cui si passa dagli slogan al malinconico calcolo dei costi e dei benefici. Poi Monti andò a piagnucolare da Fazio che i poveri docenti non volevano lavorare due ore in più a settimana - dopo avermi chiesto un'ora al giorno senza contrattazione - che brutta figura che le hanno fatto fare professor Monti, che brutta fine.

Ma insomma il copione ormai è questo: (continua sull'Unita.it, H1t#238) si butta lì qualche proposta immaginifica e irrealizzabile a costo zero; si terrorizza qualche decina di migliaia di lavoratori; e se poi non si riesce a concludere nulla, al primo svogliato sciopero a singhiozzo si darà la colpa al “corporativismo della classe docente”. Poi magari mi sbaglio, e ne sarei felice, ma insomma: se i soldi non ci sono, non ci sono.

Se non hai un solo soldo in più, non puoi tenere le scuole aperte fino a sera, con quello che costerebbero alla collettività in termini di luce e riscaldamento. Non puoi chiuderci i ragazzi fino al trenta di luglio, anche se sei convinto che ai genitori piacerebbe – ma voi avete mai conosciuto un genitore a cui davvero piacerebbe? e ai ragazzi meglio non chiedere. Non puoi farlo perché, banalmente, nel 90% delle scuole in luglio fa veramente troppo caldo, e il riscaldamento globale non gioca in nostro favore. E siccome non hai un solo soldo in più per ventilarle… a proposito, e i bidelli? Anche a loro hai intenzione di raddoppiare l’orario gratis? Sono già sotto organico, ma puoi sempre raccontare ai giornali che invece da qualche parte ci sono hangar interi di bidelli sfaccendati che finalmente verranno impiegati al 100%. Poi, quando si tratterà di fare i conti, dirai che ti hanno frainteso, che non hanno capito l’ottimismo, non hanno voluto sottoscrivere il “patto della qualità”, qualsiasi cosa sia.
Non puoi rendere “obbligatoria la formazione”; primo, perché una formazione obbligatoria esiste già, anche se il livello è scadente; secondo, perché non hai intenzione di metterci un soldo in più. Non puoi aumentare la paga ai docenti senior, visto che ancora non esistono; è un bel lapsus,  i docenti senior furono un’effimera invenzione dell’era Gelmini. Se il senso è che vuoi dare un gruzzolo al preside, che avrà piena facoltà di spartirlo tra i docenti di cui si fida, ok, la cosa si fa interessante: ma prima di correre a lavare la macchina del mio dirigente vorrei capire una cosa, la solita: da dove prendi i soldi?
Non puoi tenere tutti i docenti a scuola per 24 o 32 ore alla settimana, perché un qualche aumento dovresti riconoscerlo. Non si capisce nemmeno cosa dovremmo fare a scuola tutto quel tempo – ovvero, sì, si capisce: vorresti non pagare più le supplenze, che danno lavoro ai precari ma costano un sacco. E siccome non puoi costringerci a fare supplenze gratis (suona male), spari questa cosa delle trentadue ore di permanenza nell’edificio scolastico. A fare cosa? preparare lezioni? correggere compiti? In quali ambienti? Vuoi imporre un orario di ufficio senza ufficio? Hai presente quanti soldi abbiamo fatto risparmiare allo Stato, fin qui, portandoci il lavoro a casa? Correggendo sulle nostre scrivanie, con i nostri computer, connessi a spese nostre? O vuoi fornire una postazione a tutti i docenti a costo zero? E così via.
Mi dispiace suonare così gattopardesco: in realtà io credo che la scuola si potrebbe cambiare in tanti modi. Fino al trenta luglio no, ma a giugno si potrebbe ancora far lezione - magari sostituendo la disagevole pausa pasquale con una vacanza di primavera all’europea. Si potrebbero incentivare gli insegnanti che si aggiornano. Tante cose, si potrebbero fare. Ma servono i soldi: e i soldi, ce l’hai detto, non ci sono.
Non che avessimo molti dubbi, però la franchezza si può apprezzare. Avevamo ancora nelle orecchie gli annunci di Renzi ai tempi della campagna per le primarie: “Un paese civile deve ripartire dalla scuola“. Si vede che non siamo un paese così civile, tutto sommato. Avremo altre priorità.http://leonardo.blogspot.com
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