Gli abusi di don Inzoli, un po' abusi un po' no

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 Caro Corriere, cosa vuol dire "accusato"?
Dunque don Inzoli è stato scoperto tra gli spettatori del convegno omofobo patrocinato dalla Regione Lombardia, il che risulta imbarazzante per organizzatori e patrocinatori del convegno, perché don Inzoli è stato accusato di pedofilia. Tutto chiaro? No, non proprio.

Da un punto di vista mediatico, non c'è dubbio che l'identificazione di don Inzoli sia un grosso colpo per chi quel convegno lo stava osteggiando. Si tratta però di un'arma impropria che avrei pudore di impugnare: Inzoli è un privato cittadino che ha il diritto di andare dove vuole. E cosa significa che è "accusato di pedofilia", come molti organi di stampa hanno scritto il giorno dopo? Lo status di "accusato" non esiste in giurisprudenza, né dovrebbe essere ammesso dal buonsenso, specie quando l'accusa è così grave e infamante. Si è pedofili o non lo si è. Si è pedofili se si è stati indagati, processati, condannati: altrimenti no.

Tra il bianco e il nero è ammessa una sola sfumatura: si può essere indagati per pedofilia. È il caso appunto di don Inzoli, ma chi conduce l'indagine in questione finora è stato talmente discreto che fino a qualche giorno non ero riuscito a trovarne notizia on line (ringrazio chi mi ha aiutato). In questo caso però non solo dovremmo ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria, ma che indagini di questo tipo spesso si sono concluse con un nulla di fatto: se a molti probabilmente non dice più nulla il nome di don Giorgio Govoni, morto condannato e in seguito riabilitato, i casi di Brescia o Rignano Flaminio dovrebbero essere a portata di memoria collettiva. Si può essere indagati per tante cose, ma si è innocenti fino a prova contraria: e fino a prova contraria si è liberi di andare ai convegni; non si capisce nemmeno chi ci dovrebbe tenere fuori. Tutto chiaro ora?

No, nemmeno ora.

Il caso di don Inzoli è ancora più complicato. Dichiarandolo "accusato di pedofilia", i giornalisti semplificano per necessità una questione abbastanza spinosa. Inzoli in effetti è sia innocente che colpevole, una situazione in cui in Italia si può trovare soltanto un sacerdote. Innocente per lo Stato, Inzoli è colpevole per la Chiesa cattolica. La Congregazione della Fede si è già pronunciata sul suo caso non una ma due volte: nel 2012 e poi, dopo un ricorso, nel 2014, con una "sentenza definitiva" in cui si mette nero su bianco la formula "abuso di minori".

"In considerazione della gravità dei comportamenti - si legge nel documento a firma del cardinale Muller - e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza".

L'"umile riservatezza" prescritta dalla Congregazione prevede che Inzoli non possa più celebrare messe in pubblico (può però consacrare l'eucarestia in privato, quindi è ancora un sacerdote). Non può risiedere nella diocesi di Crema e nemmeno "entrarvi", quasi che ai confini ci fosse ancora una guardia vescovile in grado di respingerlo. Non può attendere ad attività ricreative o pastorali che coinvolgano minori - una norma di buon senso - e deve intraprendere "per almeno cinque anni, un'adeguata psicoterapia", il che costituisce secondo me una notizia in sé (per la Chiesa la psicoterapia funziona! Chissà se gli psicoterapeuti sono tutti d'accordo).

Quindi, per questa grande e rilevante e autorevole comunità che è la Chiesa cattolica, don Inzoli non è "indagato", e nemmeno "accusato", ma è colpevole di gravi comportamenti e responsabile di uno scandalo provocato da abusi su minori. Per questo motivo non può più dir messa, circolare a Crema, e deve fare psicoterapia. Tutto qui? Tutto qui.

Ora i casi sono due: o ci fidiamo della Chiesa, o no. Chi tende a non seguire le sue direttive in materia di etica e sessualità forse dovrebbe prendere con le pinze anche le sue sentenze, che sono tutto quello che sappiamo: non conosciamo le motivazioni, gli atti, nulla. Solo una sentenza nel buio. Se capita ai tribunali della repubblica di condannare preti e laici e poi riabilitarli dopo anni, può succedere anche a questa Congregazione di cui non si sa poi molto.

Se invece ci fidiamo di quello che la Chiesa ci dice su don Inzoli, a questo punto vorremmo capire perché i suoi prudenti pastori, dopo averlo trovato colpevole di tanto scandalo, lo hanno lasciato libero di andare per le strade del mondo, purché fuori dalla diocesi di Crema: senza darsi pena di denunciarlo alle autorità dello Stato in cui vive: uno Stato che ha una sensibilità fortissima per gli abusi di questo tipo, e li sanziona con pene ben più pesanti di un ciclo di terapia. E infatti l'indagine della procura di Crema, quella di cui si sa così poco, è ferma alla fase della rogatoria internazionale. Per conoscere le prove che hanno portato la Congregazione a sospendere don Inzoli, i giudici di Crema hanno dovuto inoltrare una rogatoria in Vaticano. Tutto chiaro? Un prete commette abusi a Crema, un cardinale a Roma lo trova colpevole, un giudice a Cremona deve fare una rogatoria internazionale per scoprire il perché.

Se era un sistema per mettere a tacere la cosa, ha funzionato fino a un certo punto. Certo è impressionante quanto poco si sia parlato, fuori Cremona, di uno scandalo che ha coinvolto un prete già tanto potente e chiacchierato (in questo come in tanti altri casi Mazzetta resta un punto di riferimento prezioso e ormai unico). Allo stesso tempo, imprimere un segno indelebile di colpevolezza su un uomo e poi lasciarlo libero di intrufolarsi ai convegni poteva risultate alla lunga controproducente per la Chiesa che ancora rappresenta, e infatti così è stato. A tutti coloro che combattono quotidianamente contro le ingerenze del Vaticano suggerisco di desistere dal seguire a ruota ogni battutina di papa Francesco - le sta azzeccando tutte, fidatevi - e porre qualche semplice domanda: se un prete è innocente, perché non può più mettere piede in una diocesi? Perché non può più frequentare gli oratori? Se invece è colpevole, e di una cosa tanto grave, perché non lo avete denunciato a un tribunale vero?

Postilla: chiunque condividesse le idee di quel convegno, e ne avesse avuto a cuore la riuscita, e fosse stato presente, e abbastanza intimo con don Inzoli per chiedergli di andarsene per favore, lo avrebbe fatto. Se Formigoni non lo ha fatto, o non era così preoccupato della buona riuscita del convegno, o non è più in grado di farsi ascoltare nemmeno da un suo ex sodale caduto in disgrazia.
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Troppi specchi in questo bar, andiamo via

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Ma siamo sempre stati così? Così incapaci di festeggiare semplicemente per il ritorno a casa di due giovani, così insofferenti per il coraggio che le ha trascinate nei guai, così meschini da voler fare i conti in tasca a chi all'occorrenza salverà anche noi? È difficile dire. Senz'altro sono successe cose, negli ultimi dieci anni, che ci hanno segnato. Può darsi che la crisi ci abbia indurito; di certo le guerre in medio oriente non sono più una nostra priorità - più una di quelle pendenze a cui non vorremmo mai pensare, che ogni tanto salta fuori irritando i nostri sensi di colpa.

Del resto, se anche fossimo stati altrettanto cinici dieci anni fa - quando furono rapite e poi liberate Simona Torretta e Simona Pari - non ci avremmo fatto così tanto caso. Non c'erano i social network ad amplificare le nostre reazioni più luride. Probabilmente qualche brutta chiacchiera da banco la sentivamo anche allora: ma quel che si diceva al bar, restava al bar. Adesso è diverso. Adesso un commentino di un balordo in calce a un pezzo del Giornale rimbalza su qualche sito specializzato in bufale finché non rimpalla sulla timeline del vicepresidente del Senato.

A che serve avere un blog da così tanti anni, se non a offrire qualche controprova, qualche capsula del tempo. Sull'argomento in archivio c'è un pezzo solo, abbastanza imbarazzante (quanto scrivevo male, dio mio). Tutto giocato sull'idea dell'"isteria" di media, governo e opposizione, che secondo il mio illuminato giudizio non sapevano gestire la crisi né comunicare nulla di sensato. Col senno del poi è tutto piuttosto discutibile (il governo in questione risolse la crisi con una certa efficienza, anche se nessuno dei suoi esponenti sembra andarne molto fiero oggi). Me la prendevo già coi giornali che titolavano qualunque cosa senza riscontri, con la nostra ansia di essere aggiornati ("noi che tra un tg e l'altro consultiamo il televideo", che tenerezza), con Berlusconi che non annullava una visita diplomatica, con Bertinotti che parlava in nome dell'opposizione quando avrebbe potuto anche tacere, con Gianni Letta che licenziava un comunicato costituito di un solo periodo sintattico di 113 parole. Basta. E per gli standard di allora ero uno che se la prendeva per un sacco di cose. Ma l'opinione pubblica? Niente. Non pervenuta. Parlavo di media, e non di lettori. Di governanti, e non dei loro elettori. Ero molto incazzato con chi aveva responsabilità - io non ne avevo. Urlavo dal basso all'alto. Non è una posizione molto elegante, ma per un blog è l'unica sensata.

E se fosse questa, la cosa che è maggiormente cambiata in questi dieci anni? Non la meschinità, non il cinismo, ma l'enorme specchio che Zuckerberg e colleghi ci hanno messo davanti. Tutti questi pareri di perfetti sconosciuti che rimbalzano qua e là - spesso ritagliati e riprodotti in screenshot come rappresentativi di chissà quale sentimento popolare - tutta questa merda non era ancora così facilmente disponibile. Bisognava andare a estrarla dai forum o dai blog (molti quotidiani non avevano ancora aperto lo scolo della fogna sotto ai loro articoli), una gran fatica. Quel che era al bar restava al bar. Era meglio? Era peggio? Era diverso.

Che ipocrita sarei a sostenere che lo specchio di Zuckerberg non mi fornisca mai dritte importanti. È come entrare in decine di bar tutti i giorni, e non m accorgo nemmeno di pagare la consumazione. Quel che pensa la gente mi interessa, mi ha sempre interessato, perché non dovrebbe interessarmi? C'è il problema che su facebook, come dovunque, la battuta trucida o l'opinione tagliata col coltello vinceranno sempre la gara di like contro i ragionamenti ponderati: c'è un sacco di gente intelligente e garbata al bancone, ma l'unica cosa che si sente distintamente è la gara di rutti là nell'angolo. Se l'obiettivo è perdere la fede nell'umanità, i social network si prestano davvero molto bene.

Continuerò a usarli, perché non saprei dove altro andare. Ma mi propongo, come misura di profilassi, di non prendermela mai coi perfetti sconosciuti, per quanto penose od offensive mi possano sembrare le loro opinioni. Continuerò per quel che posso a mirare in alto, con quella caratteristica immodestia che mi imbarazzerà tantissimo quando rileggerò questo pezzo nel 2025. Me la prenderò con chi ha il potere, e in teoria dovrebbe saperla più lunga, e in pratica ha più responsabilità per quello che dice o fa: coi giornalisti e politici. Con chi 'indirizza' le opinioni - per quanto sappia che non funziona esattamente così: che per ogni Sallusti ci sono migliaia di italiani che erano stronzi anche prima di mettersi a leggerlo; migliaia di stronzi con cui un Sallusti ha deciso lucidamente di sintonizzarsi. Questo però non scusa un Sallusti: io continuerò a prendermela con lui, e a salutare con gentilezza i suoi lettori che domani incontrerò al bar, perché in questo mondo ci devo pur vivere. Ci sarà sempre qualche idiota che la spara più grossa e non posso fare a pugni con tutti, per quanto ne dica il papa.
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Il cecchino pasticcione

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American Sniper (Clint Eastwood, 2014)

Invece di sparare subito al bambino potresti tirare a un metro per dissuaderlo. Ci hai pensato anche solo un istante?
"Figliolo".
"Papà".
"Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi".
"E i cani pastore?"
"Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti".
"Quindi decisero di cambiare dieta?"
"Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro".
"E le pecore?"
"Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore".
"E i lupi?"
"Se li troviamo li facciamo fuori".
"E se non ce ne fossero più?"
"Li andiamo a cercare. Anche dall'altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine".
"Papà, ma quindi noi chi siamo?"
"Pecore non siamo".
"Allora siamo lupi o cani pastore?"
"Dipende, figliolo".
"Dipende da cosa?"
"Dal mirino del tuo fucile. Se c'è inquadrato qualcuno, è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara".
"Quindi noi... siamo i cani".
"Finché nessuno ci mette nel mirino".
"È complicato, papà".
"Tu spara, capirai col tempo".

Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l'aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l'ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l'ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d'accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d'astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c'è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d'élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d'acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant'anni continua a guardare dall'alto un po' tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d'un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.

Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l'asciuttezza e l'eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti guarda dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.

Lo si può apprezzare se non altro per l'onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c'erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un'ora). Evitare insomma che l'unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice "Amore tu non sei davvero qui" farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.

Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o...
Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l'eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.

La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l'autobiografia di Kyle, oltre a fare un po' acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan - specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c'è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all'orso: la stessa scena che ritroviamo, un po' prevedibilmente, all'inizio di American Sniper. Quando nell'agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l'uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall'Iraq. È un'idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.

Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà (continua su +eventi...) quando è a casa sembra il protagonista di un reality sulla sindrome post stress traumatico; quando è in Iraq si dedica a una caccia all’uomo ossessiva e tatticamente abbastanza disastrosa. Tutto il film si svolge in una strana bolla temporale: Kyle decide di arruolarsi dopo gli attentati alle ambasciate del ’98, ma non è pronto per il fronte fino alla guerra in Iraq (2003!) I “turni” all’inizio durano sei settimane, al termine delle quali un figlio appena nato può già camminare sulle sue gambe e discutere col padre (ma continuate pure a lamentarvi di Interstellar). I cattivi sono cattivi perché sono cattivi: e siccome ai buoni capita di tirare ai bambini, la cattiveria dei cattivi prevede l’uso del trapano contro altri bambini. Nessuno si domanda mai, nemmeno retoricamente, perché Kyle e i suoi compagni si trovino in Iraq per difendere gli USA da un’organizzazione terroristica basata tra Afganistan e Pakistan. L’Iraq peraltro è un enorme set di Call of Duty in cui l’esportazione massiccia di democrazia sembra non ottenere nessun tangibile effetto.

Su questo set, Chris Kyle si dimostra tiratore tanto magnifico quanto soldato pasticcione. Almeno una volta disobbedisce platealmente agli ordini; si improvvisa interrogatore e negoziatore e dirige commandos senza averne le competenze – e infatti combina disastri: quello che lo tormenta una volta a casa potrebbe essere stress post-traumatico, ma anche un banale senso di colpa per aver più volte trascinato i compagni a morire in situazioni inutilmente pericolose. Malgrado gli effetti sonori, i siparietti domestici finiscono per farlo assomigliare a un qualsiasi workahoolic durante la crisi del fine settimana: ora che faccio? chi sono? perché non sono in ufficio/in cantiere/in prima linea? In ogni caso la soluzione al suo male di vivere non è così complessa: la fine tragica e assurda di Kyle avrebbe potuto fornire un finale molto più inquietante, ma Eastwood preferisce congedarsi con serenità, riuscendo se non altro a ottenere il massimo di patriottismo con il minimo di retorica.

American Sniper è ovunque – copritevi le spalle. Al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Charlie è un martire, e io l'ho tradito

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13 gennaio - Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam

Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall'imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant'anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un'ottantina.

I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II - il più grande santificatore della storia - nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l'occasione si legge che "il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell'Oriente". Sarà.

Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato - lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina - qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell'Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c'è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.

Ci ho ripensato domenica, dando un'occhiata come tutti agli oceanici funerali dei caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l'attentato di tre anni fa), e l'hanno corso fino alla fine. "Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio", aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l'opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un'epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l'icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?

Si è visto nell'occasione che non eravamo disposti poi a molto. Da qualche tempo lo Stato non forniva più una scorta, e Charb ne aveva una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po' fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.

Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l'islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po' leziosa. Charb è vittima dell'integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa - come è stato da molti notato - il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone. 

Siamo tutti Charlie... ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un'altra legge sanziona l'incitamento all'odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l'Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po' meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.

La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant'anni in su sono entusiasti - ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l'Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l'arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee - quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz'ora dopo il primo combattimento, l'idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un'ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.

Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l'unico diritto in discussione è quello di offendere l'Islam: per loro è una religione che incita all'odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c'è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.

Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall'altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però... stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall'altra parte qualche columnist dall'altra parte dell'Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione intepretata da un'élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall'alto sui cittadini riconoscenti. Dall'altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua sul Post...)
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Il ragazzo inguardabile

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Il ragazzo invisibile (Gabriele Salvatores, 2014)

Michele Silenzi vorrebbe tanto fare il supereroe, ma non può permettersi un costume americano. Neanche cinese - è allergico all'acrilico. Non gli resta che l'opzione più disperata: sarà il primo supereroe italiano. Che tipo di supereroe? Invisibile, pensa. Mal che vada passerà inosservato. Michele non sa che la gente lo vede benissimo, ma preferisce guardare da un'altra parte...

È in missione per fregare le soluzioni delle verifiche di Mate dal cassetto della prof.

Questa settimana pensavo di scrivere qualcosa sul Ragazzo invisibile di Salvatores, prima che un film un'operazione commerciale coraggiosa ai limiti della spavalderia. Purtroppo Il Ragazzo era già scomparso dalle sale di Cuneo e provincia. Oggi è riapparso a Fassano, sennò bisogna salire a Moncalieri, ed è l'unica sala in tutta la provincia di Torino - nel capoluogo lo danno in altre due. Anche a Milano non è che la situazione sia molto più rosea. Il Ragazzo è uscito due settimane fa, a Natale, pigliandosi in pieno la botta di Big Hero 6, un film Disney-Marvel in 3d concepito più o meno per lo stesso pubblico. Com'è andata?

Siccome prima che di un film stiamo parlando di un'operazione commerciale coraggiosa (ai limiti dell'imprudenza), più che delle opinioni personali valgono i numeri. È un film costato otto milioni; in due settimane ne ha recuperati quattro, ma nelle sale comincia a latitare. Qualsiasi confronto con le altre pellicole italiane (tutte commedie più o meno panettonesche), o coi bluckbuster americani non ha senso: il Ragazzo correva da solo, in un campionato a parte. L'impressione personale - spassionata, addolorata, di un vecchio fan di Nirvana - è che questa corsa il Ragazzo la stia perdendo. Magari se fosse stato un buon film di supereroi fatti in casa, con pochi ma efficaci effetti speciali e tanto amore... alla fine sarebbe andato male comunque; ma il fatto che sia un compitino distratto, svolto svogliatamente da maestranze poco convinte, non aiuta.

Proprio perché si trattava di un'operazione coraggiosa ai limiti della follia (infilarsi una calzamaglia e sperare che i ragazzini ti prendano sul serio), nell'esecuzione ci si sarebbe aspettato di vedere all'opera tutto questo coraggio, tutta questa follia. Se hai davvero deciso di fare un film di supereroi; se hai deciso di lottare contro la Marvel e la Warner per il cuore dei ragazzini, sai dal principio che le possibilità di vincere sono nulle; ma anche che se solo riuscirai a segnare un punto - un punto solo, come Bud Spencer in Bulldozer - sarà una cosa epica, da raccontare ai nipoti. Il Ragazzo quel punto non lo segna, il che era prevedibile; ma il guaio è che nemmeno ci prova. Nirvana almeno ci provava - certo il cyberpunk era un filone più congeniale al regista. Il Ragazzo gioca in difesa tutto il tempo sperando di ridurre i danni, invano. È davvero un ragazzino finito per imprudenza in un mondo molto più grande di lui, persuaso in qualche modo che un costume aderente e un superpotere gli sarebbero stati sufficienti per avere una chance.

"Però che fotografia!"
Servirebbero invece trucchi, armi segrete, e non ne abbiamo. Certo, l'effettistica hollywoodiana non possiamo permettercela, ma se ci impegnassimo potremmo isolare singoli aspetti di un genere codificato negli USA ed esagerarli fino al grottesco - come fecero con risultati straordinari, in tempi ormai lontani, Leone o Bava. Un esempio più contemporaneo è Luc Besson che pestando a tavoletta il pedale della tamarraggine è riuscito a creare l'EuropaCorp, una macchina da euro che ultimamente riesce a succhiare persino i dollari degli spettatori americani. Purtroppo Salvatores non è Besson, non ci tende e non ci tese mai. Non fa action, non ci ha nemmeno mai provato. Quando Besson girava le soggettive delle pallottole lui faceva sparare in aria Silvio Orlando in Sud: riuscite a immaginare film più diversi? Più o meno la differenza tra un rapper gangsta e un alternativo del Leonkavallo; ognuno ha i suoi gusti, ma a chi dei due fareste girare il vostro film di superoeroi?


Un'altra possibilità era trovare una storia originale. Qualcosa che gli americani ancora non hanno e che in seguito ti copieranno, così come copiano noir svedesi, horror norvegesi, manga dal Giappone.  Purtroppo il Ragazzo va esattamente nella strada opposta, verso un cinema di serie B superderivativo (che se fosse davvero di serie B e non costasse i milioni farebbe simpatia) adottando con rassegnazione più che entusiasmo il canovaccio tipico di ogni racconto di formazione supereroistica da Stan Lee in poi, con un uso delle citazioni esibito, bonelliano. Tanto valeva bussare direttamente alla Bonelli Editore e chiedere se qualcuno per caso non avesse una storia già pronta, e migliore - se di solito i supereroi ci collaudano per decenni sulla carta prima di passare alla pellicola, forse c'è un motivo. Dico Bonelli perché è la principale industria dei sogni italiana, assolutamente autoctona, e sta reggendo quasi da sola una crisi infinita continuando a vantare numeri paragonabili a quelli degli omologhi americani. Non è certo roba raffinata, ma se si cercava qualche artigiano in grado di buttar giù dialoghi credibili bisognava cercarlo lì.

Invece gli sceneggiatori del film – neanche gli ultimi arrivati, purtroppo – si trovano più volte nell’evidente imbarazzo di non sapere cosa mettere in bocca ai loro personaggi. Sono quei momenti in cui la citazione non è più una strizzata d’occhio, ma l’ancora di salvataggio per tirarsi fuori da vuoti improvvisi di idee: come facciamo a rendere il panico di Michele durante la festa in maschera? Boh, come farebbe un ragazzino in quella situazione? E chi lo sa, chi li ha mai visti i ragazzini. Buttiamo lì una scena di Shining, i genitori capiranno e i bambini magari si spaventeranno (il film di Kubrick ritorna pigramente almeno un paio di volte: del resto alla festa in maschera delle medie della classe ’00 non c’è un solo mostro che un cinquantenne non riconosca al volo).  
Salvatores gli vuol bene teneramente a quel personaggio come fosse il suo figlioletto: ”guarda quant’è adorabile quando diventa invisibile” (Jackie Lang)

Terrorizzati dall’idea di osare qualche effetto speciale in più, gli autori scelgono il superpotere meno spettacolare per definizione – l’invisibilità – nonostante costituisca un problema non da poco per la messa in scena (un problema a cui Salvatores non trova una soluzione coerente: a volte ce lo mostra anche se è invisibile, a volte no). L’invisibilità si presta poi a tante scipite metafore con la condizione giovanile… ecco, questa poteva essere un’idea: ma è stata immediatamente smarrita per strada. Michele non è il classico ragazzino invisibile che si aggira tra scuola e famiglia senza che nessuno lo noti o ne intuisca le potenzialità. L’esatto contrario: la madre lo cerca dappertutto, a scuola i bulli lo prendono di mira: che non è evidentemente il problema di chi si sente invisibile. A casa è servito e riverito, la mamma lo marca stretto, è naturalmente la migliore del mondo e ha sempre tempo e cinquanta euro per lui (sul paternalismo dominante si è espresso già Jackie Lang sui 400 Calci; siamo davanti a un film per ragazzini che non ha nemmeno il coraggio di prendere un po’ in giro i genitori).Con la scusa che è introverso, Michele tace il più del tempo e non fa nessuno sforzo di sembrarci simpatico – nei fatti non lo è. Non solo ha le tipiche reazioni esagerate dei teenager cinematografici italiani (“MI HAI LAVATO IL COSTUME NON SEI LA MIA VERA MADRE TI ODIOOOOOOOH!“), ma ha un maggiordomo Alfred che è una bambina di otto anni, non proprio l’ideale come spalla comica: del resto non è la sola a esprimersi per didascalie (“Sei-un-supereroe”, “Devi-dire-la-verità-alla-ragazza”). Completamente ignorata la lezione dei migliori film Marvel, dove tra una sequenza action e l’altra il ritmo è quello sincopato delle commedie e tutti un sacco di cose da dirsi. Neanche i superpoteri renderanno Michele umanamente migliore: quel che riesce a scoprire sui suoi compagni non lo induce a farseli amici, ma a scavalcarli con supponenza sbattendo loro in faccia i problemi più intimi; del resto chi ha bisogno di amici quando può conquistarsi la ragazza coi risultati (rubati!) della verifica di matematica. Insomma pare che dai grandi poteri derivino grandi opportunità di circuire il prossimo: il che fa davvero di Michele il primo supereroe italiano – ma speriamo anche l’ultimo.

Ora se voi pensate che i ragazzini si bevano una roba del genere perché tanto sono ragazzini, magari con la scusa della difesa dell’italianità, temo che abbiate frainteso la situazione. I ragazzini non sono il vostro parco buoi – ovvero, probabilmente puoi fregarli su tante cose, ma sui film di supereroi no. Ci sono cresciuti in mezzo – sono nati quando Sam Raimi reinventava Spiderman – e se li sono visti tutti, presto o tardi, in dvd o in streaming. Può darsi che non capiscano nulla di politica e di musica e di sentimenti, ma quando si arriva a parlare di supereroi e superproblemi sono dei cazzutissimi esperti, dei sommelier; non puoi annacquare aceto in una damigiana e raccontare che è il migliore spumante italiano, un’eccellenza slow food da difendere. Se davvero lo fai, sei coraggioso oltre i limiti della onestà.


Il ragazzo invisibile a Cuneo e provincia è quasi scomparso. Qualcuno dice di averlo visto ai Portici di Fossano verso le 20:30.
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Tutti un po' più fanatici, domani

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Stéphane Charbonnier nel 2011, quando esplose la sede
di Charlie Hebdo. Oggi l'hanno ammazzato.
Stamattina tutti i vignettisti francesi che ancora riconoscevo sono stati uccisi, sul posto di lavoro, mentre difendevano un principio sul quale resto dubbioso - ma perdio, conoscevano il rischio e sono andati avanti fino alla fine. Se questo non è eroismo, non so cosa l'eroismo sia. Probabilmente su di loro nessuno sputacchierà dalla sua postazione internet le battutine ciniche che molti in questi tempo riservano per chiunque abbia ogni mattina più coraggio di quanto ne abbiamo noi in tutta la nostra vita. Io spesso sono scettico sull'eroismo, su quanto possa servire a una determinata causa - ma spero di essere ancora in grado di riconoscerlo quando lo vedo. Non so quanto Charb o Wolinski e gli altri fossero consapevoli che difendendo un punto d'onore si candidavano a diventare il casus belli di una guerra di religione europea: siccome non erano stupidi, e hanno avuto molte mattine per pensarci, credo che tutto sommato la cosa per loro andasse bene. Ora sono martiri della libertà di vignetta e di espressione, e adesso il problema passa a noi sopravviventi. Che facciamo?

Il buon proposito per il 2015, che ancora stamattina mi sembrava in un qualche modo plausibile: riporre in archivio l'antirenzismo spicciolo e l'antigrillismo ormai pleonastico, aprire le finestre; dare aria agli ambienti; studiarsi Piketty; concentrarsi su concetti nient'affatto nuovi ma colpevolmente snobbati come disparità sociale; prepararsi alla fine dell'eurozona come la conosciamo; metter la barra a sinistra a costo di navigare per un bel pezzo quasi solo.

Il 2015 che ci si prospetta ora somiglia più a un 2003 o a un 2004: si parlerà di eurabia e islamofascismo e islamofobia e antisemitismo, la Le Pen volerà nei sondaggi, Salvini esulterà e speculerà sulla morte di gente che da viva lo avrebbe spernacchiato a sangue, si litigherà nelle scuole e nelle case su una cosa per cui abbiamo litigato dieci anni fa e anche allora non servì a niente. Invece che tra ricchi e poveri litigheremo tra cattolici e no, islamici e no, e Huntington, ancora Huntington, quella roba che sapeva già allora di muffa.

Voi come fate a distinguere i fanatici su internet? Al giorno d'oggi è quasi un vantaggio evolutivo. Io ne seguo alcuni, giusto per tenermi in allenamento. Quello che mi rassicura è che in qualsiasi momento tu li vada a trovare stanno sempre scrivendo le stesse cose, alla stessa gente, linkando gli più o meno le stesse vignette che magari gli ha appena segnalato qualcuno a cui un anno fa loro stessi le avevano segnalate, e in questo modo si confortano tra loro. Possono essere filoisraeliani o antisemiti; non ha così importanza: quel che importa è la loro prassi quotidiana, monomaniacale. Io credo di non essere così; cerco in effetti di essere l'esatto opposto - il che magari non equivale alla normalità, ma a qualche altra sindrome. L'importante è che mi stanco. Mi è capitato spesso di prendermela coi miei simili per lo stesso limite - il solito problema per cui certi problemi passano di moda prima di essere risolti (il riscaldamento globale, Berlusconi). Ma anch'io sono un po' così in fin dei conti.

A volte è un limite ma sempre più sono propenso a considerarla una liberazione. L'ho pensata in un modo e poi mi sono stancato di pensarla così; l'ho pensata in tanti modi e ogni volta l'ho scritta - e appena scritta, e riletta, e apprezzata, mi sembrava già il momento di pensarla in un modo diverso. Ho riso per vignette che oggi mi farebbero ribrezzo e viceversa. Nel 2006, quando scoppiò il caso delle vignette, gestivo due blog. Su questo scrissi che forse non andavano ripubblicate, nell'altro furono furono pubblicate e non le cancellai. Poi successe qualche altra cosa e parlammo d'altro. Su un blog funziona così - sul blog di una persona normale, perlomeno. Sono superficiale? Un po' mi rincresce, ma è meglio che essere un fanatico. Chi è un fanatico? Chi è rimasto al 2006, o al 2001, o al 1989, e non schioda. Può aver cambiato anche un paio d'abiti nel frattempo, ma scrive le stesse cose, alla stessa gente, ridendo o incazzandosi per le stesse battute. Le stesse vignette.

Come andrà a finire? Non finisce mai, oppure se preferite c'è qualcosa che finisce tutti i giorni. Oggi finisce forse una certa idea di Europa come ponte tra il mondo ricco e il povero; chi voleva minarlo ha avuto tutto il tempo, mentre noi forse eravamo distratti. Finisce magari l'esiguo spazio rimasto per una critica da sinistra alla società in cui viviamo: se si va verso lo scontro una certa polarizzazione è inevitabile. Ci diranno - lo stanno già dicendo: o sei con le vignette o sei coi terroristi. Poi: o sei con le misure che prenderemo per difendere le vignette, o sei coi terroristi. O ti fai leggere le mail, o sei coi terroristi. O accetti di vivere in un determinato Occidente blindato, in cui incidentalmente le disparità sociali si vanno accentuando, o sei coi terroristi (dall'altra parte del tavolo i terroristi annuiscono, sono perfettamente d'accordo). È inteso che, dovendo difenderti, questo Occidente blindato non ti garantirà il benessere che garantiva ai tuoi genitori (era un'offerta lancio, un dumping colossale). D'altro canto la guerra creerà qualche posto di lavoro, e nel tempo libero potrai consolarti con le vignette satiriche su Maometto o Kim Jong-un. Spero naturalmente di sbagliarmi, e buon 2015 a tutti.
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Soffia sulle candeline

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(Oggi Giuliano Ferrara compie 63 anni, a dar retta a wiki. Tanti auguri).

Soffia sulle candeline (G.Giacobetti/V.Savona/B.A.Stardo)


Tanti auguri per te,
tanti auguri per te,
Mille giorni felici.
Tanti auguri per te.

Se compi un anno stringi forte le manine,
prendi fiato a più non posso e soffia, soffia innanzi a te:
soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

Se son due anni e già le prime paroline
tu sai dire alla mammina, prendi fiato insieme a me:
soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

E se invece gli anni sono tre,
un brindisi puoi fare... ma non rompere il bicchier.
A quattr’anni puoi già far da te:
tagliar la torta a fette e darne un poco pure a me.

A cinque anni coi bambini e le bambine
una festa tu farai dedicata tutta a te!
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

Se son sei anni già ricevi cartoline
mentre il nuovo sillabario si fa leggere da te:
soffia sulle candeline! ecc.

Se son sette già raccogli figurine
dei campioni del pallone che gareggiano per te:
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

Quando invece otto anni avrai,
ti senti già Pioniere e i giardinetti esplorerai.
Anni nove: vuoi fare il ballerin
e balli l'hully gully con la figlia del vicin.

A dieci anni, che passione per il cine!
Entusiasta dei cow boy, cosa mai potrai temer?
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

A sedici anni vuoi già fare il Sessantotto
a Valle Giulia un poliziotto
sta inseguendo proprio te.[51]
Soffia sulle candeline! ecc.

A vent'anni metti incinte ragazzine
che abortiscon clandestine
per non dar fastidio a te[43].
Soffia sulle candeline! ecc.

A ventuno sei già ben retribuito[3],
con un posto nel partito
che papà trova per te.
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te.

A ventotto ti trovi migliorista
ti candidi a Torino e hai il primo posto nella lista[6].
Quando invece i tuoi trent'anni avrai
per Sabra e per Shatila i tuoi piedini pesterai[10].

A trentacinque hai una rubrica sul Corriere,
cosa mai potrai temere?
Craxi veglia su di te.
Soffia sulle candeline! ecc.

A quaranta che passione per la tele
ci conduci trasmissioni che si scrivono per te...
Soffia sulle candeline! ecc.

A quarantadue vuoi fare per davvero
prima provi un ministero, ma non era adatto a te.
Soffia sulle candeline! ecc

A quarantatré vuoi far l'intellettuale
sopra un foglio originale
che ora stampano per te.
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te!

A cinquanta alla guerra vuoi chiamar
e il drappo d'Israele, eroico, in piazza sventolar.
Cinquantotto - e hai già un'altra passion:
diventi antiabortista e salvi tanti, tanti embrion.

Su questa torta rilucente di perline,
dopo sessanta candeline altre cento aspettan te.
Soffia sulle candeline! Tanti auguri, tanti auguri per te.

Tanti auguri per te,
tanti auguri per te!
Mille giorni felici,
Tanti auguri per te.
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Turing: uomo o computer?

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The Imitation Game (Morten Tyldum)


Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L'anno in cui Alan Turing - morto da 40, forse suicida - cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l'intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l'omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.

Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l'enorme "computatore" che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il  mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o "narrazione", come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un "inventore del computer", nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo - specie se l'alternativa vulgata è Steve Jobs.

Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent'anni potrebbe non reggere più - l'Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l'omosessualità vent'anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un'occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull'innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?

In futuro rideremo anche della convenzione cinematografica per cui l'unica matematica del gruppo dev'essere per forza una strafìca.

Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, "Cristopher" - non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome "The Bombe". Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c'è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l'esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia).

La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay; forse perché i manuali non individuano nessuna correlazione tra omosessualità e autismo, e quindi la doppia vita dello scienziato esce quasi del tutto dall’obiettivo. È la causa più probabile della sua tragica morte, eppure non c’è spazio in tutto il film non dico per una puntatina in un locale equivoco, un bacio, un abbraccio, ma nemmeno uno sguardo che tradisca desiderio; solo nei flashback dei tempi di Cambridge è consentito al giovane collegiale di avere una vita sentimentale. Poi basta perché sui manuali gli Asperger non ne hanno quasi mai. Solo l’amica fidanzata-schermo, perché è pur sempre un film e un posto per Keira Knightley bisogna trovarlo (ne vale anche la pena, diciamolo).

La narrativa ‘aspergeriana’ si ritrova a disagio con certi dettagli (anche il suicidio è solo un titolo in sovraimpressione) e ne cancella altri su cui avevano fantasticato i biografi più sensibili alle tematiche omo: scompare del tutto così la leggenda della “mela di Biancaneve”, secondo cui Turing, appassionato in modo ossessivo del film di Disney, avrebbe deciso di suicidarsi iniettando il cianuro in una mela. Tutto quel che si sa davvero è che c’erano i resti di una mela in cucina, ma Turing ne mangiava una al giorno. Però immaginate che spunto incredibile per un film: lo scienziato già brillante che contempla il suo corpo trasformato dalla castrazione chimica, il seno che gli sta crescendo, Specchio, Specchio delle mie brame… No, niente da fare, è una cosa per niente Asperger. Non c’è spazio nemmeno per le derive complottarde (Turing era al corrente di segreti di guerra), eppure le circostanze del suicidio non sono del tutto chiare (forse l’ingestione o inalazione del cianuro fu del tutto incidentale). C’è spazio per una sola ipotesi portante: Turing ha inventato la Macchina perché sin da bambino non era in grado di comunicare coi suoi simili.

Il Turing di Cumberbatch (bravissimo, va da sé) non sarebbe che l’ennesimo supereroe con superproblemi della stagione cinematografica. Lui solo può decidere quali battaglie vincere e quali perdere, perché non prova le emozioni dei normali mortali; un suo collega lo supplica di salvare il fratello nel mirino dei tedeschi (storia completamente inventata), lui non può. Non capisce il dramma dell’individuo, solo la statistica. La sua reazione alla violenza non è istintiva, ma mediata da un ragionamento, perché così fanno gli Asperger sui manuali, e pur di mostrarlo ci inventiamo la scena in cui un collega gli rompe il naso e lui continua la lezione. Questo film, che ha l’ambizione di presentarsi come un enorme test di Turing (Era un Uomo o un Calcolatore?) in realtà contiene in sé la risposta e il suo corollario: se fosse stato solo umano la guerra l’avrebbe persa. Per fortuna che il Messia dei Computatori si è fatto provvisoriamente uomo per darci la luce, il suo figlio Cristopher, padre di tutti gli ammennicoli digitali che abbiamo in casa. Fidiamoci di loro. Non capiscono le nostre battute, a volte si piantano e sono davvero irritanti – ma sono la nostra unica speranza contro il caos là fuori, in tutte le battaglie e i bombardamenti che ci aspettano.

The Imitation Game è al Cityplex di Alba (17:00, 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione e buon Anno!
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Cos'è successo davvero ad Andrea Scanzi? DITECELO!!!

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Credo che anche voi, come me, se avete avuto il dubbio privilegio di intravedere questo tweet...



...vi state chiedendo da qualche ora perché, percome, percosa.

Scartiamo subito l'ipotesi più banale, quella del fotomontaggio scherzoso un po' grilleggiante. Chiunque abbia prodotto questa orripilante immagine, dimostrando una dimestichezza con la funzione scontornante di Photoshop che l'anonimo macellaio di beppegrillo.it si sogna, voleva fare una cosa seria. Spaventarci. Schifarci. Magari farci sputare lo spumante a San Silvestro. In ogni caso, attirare la nostra attenzione.

È lecito domandarsi se non c'è qualcosa dietro.

Il tweet è di Scanzi. Gli altri tre nella foto non lo hanno twittato. Nemmeno di rimbalzo. Per forza - penserete voi - è troppo orrendo. Già. Ma notate la struttura della foto. Notate la posizione centrale di Andrea Scanzi. Notate in che modo le mani degli altri tre si intrecciano sulle sue spalle, come a volerlo... trattenere? non notate nella sua espressione una sfumatura di smarrimento? Non vi sembra che stia chiedendo aiuto?

E perché mai Andrea Scanzi dovrebbe chiederci aiuto? E farlo di nascosto, tramite un fotomontaggio? Un fotomontaggio che lo ritrae nelle vesti di... Paul McCartney?

Proprio Paul, il Beatle misteriosamente scomparso e rimpiazzato nel '68?

Confesso di averlo un po' perso di vista, Scanzi. Tanto si sa come la pensa. Tanto si sa come la scrive. Tanto si sa dove trovarlo in tv... anche se è da un po' che in tv non lo vedo, ma... magari sono io che cambio canale e me lo perdo. In effetti, se fosse Andrea Scanzi fosse misteriosamente scomparso; se fosse stato rimpiazzato da un generatore automatico di opinioni di Andrea Scanzi, me ne accorgerei?

E d'altro canto, come si fa a rimproverare Scanzi di avere sempre le idee di Scanzi - Cioè alla fine questo discorso potrebbe valere per tutta la Rete; siamo tutti generatori automatici di opinioni che dopo un po' diventano prevedibili. Però questo fotomontaggio ha davvero qualcosa che non va.

È come una stecca improvvisa nel placido spegnersi di una sinfonia. Attira la mia attenzione e mi spinge a scuriosare, dopo mesi (dopo anni) nel blog di Andrea Scanzi.

Quello che trovo ha dell'incredibile.

No, non è vero, è solo la classica frase a effetto per mantenere la vostra attenzione.

Sta funzionando?

AH AH AH! (Fa ridere perché si assomigliano).
Scopro che Scanzi, ultimamente, indulge ad automatismi sospetti. Per esempio usa sempre la stessa immagine per introdurre qualsiasi post su Renzi. L'immagine è un divertissimo accostamento tra Renzi e Mr Bean, ah ah ah - sì, ma quello non vuol dir niente, magari è una scelta per confortare i lettori. I pezzi poi, cosa vuoi mai, la solita zuppa antirenziana; di buon livello, per carità, e non si discute la genuinità e la sostanza degli ingredienti. Ma comunque la solita zuppa. Possibile che uno spirito libero come Andrea Scanzi non si stia, in un qualche modo, annoiando? La prima nota dissonante la trovo in un post del due dicembre.

"Ieri ho visto un po’ di Piazzapulita. Dovevo essere ospite anch’io ma – per vari motivi – ho declinato". 

"Vari motivi". Non spiega quali. Dovevano essercene davvero di molto importanti, per indurlo a disertare una trasmissione televisiva in prima serata. Ma non li dice. Nel pezzo invece si lascia sfuggire che


"I 5 Stelle hanno mille colpe, e sono bravi a sabotarsi da soli, ma..."
Ora, chi segue Scanzi sa che "I 5 Stelle hanno mille colpe ma..." è più che un tormentone: è la trave di tutto l'edificio retorico scanziano: su un lato i mille difetti dei poveri 5 Stelle, sull'altro lato l'enorme responsabilità di tutti gli altri.

"...mi pare che al governo non siano mai stati, che non abbiano indagati tra le loro fila e che tutto sommato il loro programma (spesso discutibile) lo rispettino".

 Ma qui più che l'edificio abbiamo la nuda struttura: hanno mille colpe, sono bravi a sabotarsi, amen. Tutto qui, è l'ultima critica ai 5 Stelle che si legge sul blog di Scanzi, datata 2 dicembre, nascosta in un pezzo dove avverte che non è andato in tv per misteriosi motivi. Non trovate anche voi che ci sia qualcosa che non va?

No?

Nel frattempo nel M5S ci sono state epurazioni, direttori, referendum su nuovi regolamenti, raccolte di firme di dubbia utilità... ma Scanzi ha smesso di parlarne.

Risaliamo ancora più a monte. Il 30 novembre il blog pubblica un intervento di Scanzi alla puntata di Otto e mezzo di due giorni prima - è l'ultima testimonianza televisiva documentata di Andrea Scanzi. La trascrizione dell'intervento è tra virgolette. È una scelta strana, perché il pezzo non è davvero, come sta scritto in fondo, lo "Scambio integrale, serrato ma garbato, con l’ex deputato M5S Artini)". Chi lo ha trascritto lo ha ovviamente rimesso un po' a posto, eliminando le repliche dell'interlocutore; trasformando un dialogo in un pezzo leggibile.



E lo ha messo tra virgolette.

Perché?

Voi vi sognereste mai di mettere tra virgolette un vostro post, sul vostro blog? Lo sapete a cosa servono davvero le virgolette, no? A citare un discorso altrui.

Un discorso altrui.

Chi ha preso il controllo del blog di Andrea Scanzi?

Se risaliamo ancora più a monte troviamo, finalmente, delle critiche al M5S dall'inconfondibile sapore scanziano. Sono datate... sette ottobre!

"La fuga dai talkshow è una puttanata totale e della lotta tra pizzarottiani e talebani non ce ne frega una beata minchia: datevi una svegliata, individuate un portavoce (Di Maio) che dia battaglia anche in tivù al Partito Unico, usate il Circo Massimo come luogo per ripartire con slancio (non per frignare, gridare al complotto e regolare conti interni). E finitela una volta per tutte con questo masochismo da asilo Mariuccia".

Puttanata totale. Beata minchia. Asilo Mariuccia. Questo è l'Andrea Scanzi che tutti ci ricordiamo. Che fine ha fatto? Chi lo sta sostituendo, nel suo stesso blog? E perché?

Qualche ipotesi.

1. Un banale incidente, come quello che costrinse i tre Beatles superstiti a sostituire McCartney con un sosia. Ecco il vero "motivo" per cui non avrebbe potuto comparire a Piazzapulita il due dicembre. E siccome abbiamo la prova video della sua presenza a Otto e Mezzo il 28 novembre, l'incidente dovrebbe essere avvenuto in quella finestra temporale.

A proposito, avete dato un'occhiata a quel video? Avete notato quanto sia scadente la traccia audio? Non sembra che qualcuno borbotti tutto il tempo in sottofondo? Sarebbe interessante estrapolare quei suoni e riascoltarli accelerati invertiti o rallentati finché non ci dicano qualcosa del tipo SCANZI IS LOST.

Dal 28 novembre lì in poi A.S. sarebbe stato sostituito da un bot - o dallo sforzo congiunto degli altri tre "fantastici" colleghi, che a dire il vero cominciano in punta di piedi, rimettendo a posto un suo intervento tv e virgolettandolo. Poi la necessità di non disilludere i fan scanziani li convince a pubblicare altri post a nome suo; magari anche qualche tirata antirenziana di repertorio nel cassetto da qualche settimana. Tutta roba che se non è già scritta, si scrive facile, e anche le immagini si possono riciclare. Verso la fine dell'anno gli impostori però cominciano a sentire il disagio della situazione e in un qualche modo (magari inconscio) cercano di avvisarci: Scanzi is Lost! Scanzi è come il Beatle farlocco!

2. Scanzi potrebbe essere vittima di una oscura lotta di potere nello spazio contiguo tra Fatto Quotidiano e Movimento 5 Stelle. Una lotta sotterranea, oscura, di cui le epurazioni in parlamento non sono che un'eco lontana. Di questa lotta non sappiamo praticamente nulla - possiamo soltanto cercare di interpretare le vaghe allusioni dei protagonisti. Perché Grillo ha deciso di tenere il discorso di fine anno in una catacomba? Sveglia!

Ipotizziamo che Casaleggio e Grillo siano ai ferri corti. Grillo non può più uscire alla luce del sole perché Casaleggio ha dalla sua l'aeroflotta delle scie chimiche. Scanzi, da sempre fortemente critico nei confronti di uno dei due (quale non saprei, magari dopo decidiamo) potrebbe essere stato vittima di un agguato, o di un rito sacrificale, probabilmente consumatosi nelle calende di Dicembre, per ingraziarsi qualche divinità ctonia. Sono cose che succedono più spesso di quanto non si creda nei movimenti di popolo.

3. Non so, dite voi.

Una cosa è chiara: qualcosa è successo ad Andrea Scanzi. Qualcosa che non può assolutamente passare sotto silenzio, qualsiasi cosa sia. La gente deve sapere. Anche se non vuole. La verità è un boccone amaro che dobbiamo farle ingollare a forza, appena lo avremo trovato o anche prima. Per adesso tenete la bocca aperta e gridate con me: che fine ha fatto Andrea Scanzi? Ditecelo.
O gridate con noi.

La gente deve sapere. Fate girare.
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Cinque film del 2014 che a me non sono piaciuti

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(Ma in fondo chi sono io per)


Sul serio? Come fa a non piacerti?
5. Only Lovers Left Alive. 
Che in realtà è proprio un bel film; probabilmente il migliore di Jarmusch da parecchio; un autoritratto dell'artista da vampiro che riscatta quel nostro pezzo di immaginario da qualche anno colonizzato da bimbominchia glitterati - e tuttavia mentre lo vedo ai primi posti di un sacco di classifiche di fine anno, non resisto all'impulso di mettere a verbale che Hiddleston è forse volutamente odioso e fa venir voglia di prenderlo a sberle, anzi a crocefissi, ogni volta che tira fuori la menata sugli "zombi" (ma parla per te, succiacapre parassita) o si atteggia a grand'intellettuale con argomenti che su facebook lo qualificherebbero come grillino perso; e che verso la fine mi ero addormentato. Non mi succede spesso. Non mi succede mai. Oh, sicuramente avete ragione voi, e immagino che non vi interessi il mio giudizio ultimo su certo postrock cotto e bollito. Diciamo che è un film che seleziona facilmente il suo pubblico, chi lo doveva vedere l'ha già visto e se non l'avete ancora visto c'è un motivo. For lovers only, appunto.

Cioè mi stai dicendo che io leggevo fumetti così?
4. Sin City: Una donna per cui uccidere
Questo è un po' come sparare a un bisonte zoppo. A un bisonte zoppo già inciampato. Già morto. La voce "grandi maestri bolliti" si poteva ugualmente riempire con Woody Allen e il suo teatrino per la terza età, o con Stallone che ha fatto l'unico film in due anni su cui non sono nemmeno riuscito a scrivere un pezzo, sul serio, non mi veniva niente. In che senso il rincoglionimento di Miller è più grave? Nel senso che né Allen né Stallone, per quanto possano riuscire stanchi o inutili, sono in grado di rovinare le cose belle e memorabili che ci hanno lasciato; Miller invece sì. Miller può prendere l'immaginario grafico con cui sei cresciuto negli anni Novanta, aggiungerci computergrafica ed Eva Green, e mostrarti che erano tutte puttanate da tardoadolescente onanista. Questo forse non è del tutto sbagliato, ma è immensamente triste, un colpo basso che non meritiamo - o ce lo meritiamo? Non saprei, la vita è già abbastanza dura di suo.


Ora finalmente sappiamo perché il
preziosissimo inventario del Jeu de Paume
è giunto a noi tutto sporco di burro.
3. Monuments Men
Questi film li dovrebbero fare i registi repubblicani, alla Clint Eastwood, o quelli embedded, cioè la Bigelow. Se li fa un liberal, non solo ci restiamo male, ma ne esce mediamente un film peggiore. Monuments Men ha il non-sapore di un ammasso di pellicola masticato e rimasticato in postproduzione nel tentativo di trovarci un bandolo di senso, o di bilanciare le tirate patriottiche con qualche gag male escogitata. Se poi lo vogliamo giudicare come un'opera di pura propaganda, tesa a difendere l'opera salvatrice delle forze americane, ebbene è proprio qui che il film fallisce miseramente, mostrandoci come ai generali americani dell'arte fregasse molto meno che ai nazisti in fuga (o agli stessi sovietici che misero in salvo i capolavori di Dresda mentre gli americani la radevano al suolo). La cosa più triste non è che sia il più brutto film di Clooney, ma che sia quello che ha incassato di più. Abbiamo scoperto dal Sony leak che Clooney ha perso qualche notte di sonno a causa delle critiche, beh, speriamo che non fosse prima di vedere i risultati al botteghino. Buona notte e buona fortuna.

DUE UN'ORA E MEZZA CON LA FACCIA COSI'.
2. Due giorni, una notte
Devo fare ammenda. Mi era capitato di scrivere che Due giorni, una notte constava di due ore di Cotillard al citofono, ebbene, pare che ne duri solo un'ora e mezza. A mia discolpa, non finiva mai. Secondo me, se un film ti fa un po' tifare per i talebani (come Zero Dark Thirty) o rivalutare i nazisti (come Monuments Men), qualcosa non ha funzionato. Ecco, nel caso di Due giorni, una notte, dopo un po' cominci a simpatizzare col boss che ha licenziato la Cotillard; più in generale col bieco neoliberismo che taglia i rami secchi e le depresse piagnone. Se questo era lo scopo dei Dardenne, mi inchino alla loro sublime ironia; ma temo che fosse involontaria. Faccio presente che sono un insegnante sindacalizzato che si fa tutti gli scioperi e vorrebbe regolarizzati tutti i precari, e che nel '99 adoravo Rosetta. Invecchiamo tutti. Anche i Dardenne però.

E qui c'è un altro blogger che mi stronca, ah ah ah.
1. Lucy
Cosa potrebbe fare Luc Besson se usasse il 100% del suo cervello? Non lo sapremo mai. Lucy è uno di quei film così brutti che fanno il giro, ma proprio il giro a 360° e restano brutti. Guardarlo è come staccare il biglietto per un viaggio nel cervello di un deficiente che ha un solo neurone a disposizione e deve usarlo per ordinare alla mandibola di sgranocchiare il popcorn. Però ci tengo a precisare che Lucy non è brutto in quanto film d'azione scemo; Lucy è molto più brutto della media dei film d'azione scemi, in mezzo ai quali rappresenta in un certo senso la pillola falsa, quella che funziona solo per l'effetto placebo: vediamo un inseguimento (scrauso anche per i livelli bessoniani) e ci gasiamo perché pensiamo di assistere a un classico inseguimento da film d'azione. O un combattimento. O a una allucinazione. O a un delirio in computer-grafica che in realtà esce subito dall'inquadratura, ma tu nel frattempo pensi ad altri deliri in computer-grafica che hai visto et voilà, il placebo è servito. Con dei mezzucci del genere, Luc Besson ha macinato quattrocento milioni e mezzo di dollari; dieci volte il budget che gli è servito per scritturare la Johansson e farle girare attorno degli stunt francesi e coreani, e Morgan Freeman che recita l'idea dello scienziato che può avere un bimbo di sei anni (in effetti sarebbe un film geniale se gli appiccicassimo gli ultimi cinque minuti di The Lego Movie. Ma anche Mercenari 3, o qualsiasi altro brutto film). Quelli che si lamentano dei buchi di Interstellar, per favore, diano un'occhiata a Lucy; si rendano conto che l'alternativa europea a Interstellar è una roba come Lucy; e si ravvedano. Buon 2015, e ricordatevi: Scarlett è ovunque.

Preferisco ricordarvi così, che vi volevate bene.
1 ex aequo: Jimi - All Is By My Side.
Non è così malaccio in realtà - però riflettendoci: si poteva fare qualcosa di più sbagliato di un biopic su Jimi Hendrix senza avere i diritti delle canzoni di Jimi Hendrix? Si poteva per esempio scritturare un attore di vent'anni più anziano - più un performer che un attore, in realtà, e infatti se potesse cantare le canzoni di Hendrix sarebbe bravissimo, ma sfiga, non può. Tutto qui? Si possono saltare più o meno quasi tutti gli snodi interessanti della carriera di Jimi Hendrix e concentrarsi sul fatto che era un po' stronzo con le ragazze. Una rockstar che non è un fidanzato irreprensibile, pensa! Ma siccome pare non fosse nemmeno così tanto stronzo, si può raccontare che picchiava la fidanzata, così magari lei si fa viva e ci fa sapere che non è assolutamente vero - ecco, il film con tutti i limiti che aveva non era neanche malaccio, ma a ripensarci sembra terribilmente sbagliato.


Menzione speciale: un film che probabilmente era bello ma che non sono riuscito a guardare fino alla fine: Under the Skin.
Sono spiacente, ma c'era un bambino abbandonato che piangeva. Autostoppisti annegati ok, ma un bambino abbandonato che piange non riesco più a vederlo, sono fisicamente incapace di reggere la cosa. Magari ci passerete anche voi e capirete. Possa Scarlett avere pietà di me.
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