Cosa pretendiamo da Israele

Permalink
Banksy?
"Fuori dalla realtà". A sentire Gideon Levy gli israeliani che hanno rivotato per il Likud sarebbero vittima di un lavaggio del cervello collettivo. "Se Netanyahu è il prossimo primo ministro, allora Israele non ha divorziato soltanto col processo di pace, ma col mondo". Che Israele non la pensi come buona parte del "mondo" non è per la verità una gran sorpresa. Nemmeno la vittoria di Netanyahu lo è, non fosse per i sondaggi che hanno movimentato un po' gli ultimi giorni di campagna. Forse esiste un fattore timidezza anche tra gli elettori del Likud, molti dei quali fino alle scorse elezioni avevano preferito scegliere altri partiti più a destra.

Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l'Iran finché c'è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?

Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni - come se il film non l'avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.

E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.

Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It's essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven't finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you're prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these - (continua qui)

http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm
Come se non ci fossimo già passati. Un Herzog primo ministro avrebbe senz'altro rallegrato i lettori di Gideon Levy, le cancellerie europee e la Casa Bianca; avrebbe dato un'occasione ad Abu Mazen di volare in qualche location esotica e sorridere in favore dei fotografi come il rappresentante legalmente eletto di un qualche popolo; dopodiché - ci siamo già passati - la trattativa si sarebbe rapidamente incarognita sui soliti punti. Ad Abu Mazen, Herzog avrebbe offerto la consueta arlecchinata, una Cisgiordania a brandelli circondata e bucherellata dagli insediamenti e dai posti di blocco. Abu Mazen avrebbe potuto persino accettare, ma Hamas no, e saremmo al punto di prima. Non si capisce perché le cose non dovrebbero andare così, e non credo che un elettore medio israeliano dovrebbe immaginarsi che vadano diversamente. Quindi perché non Netanyahu?

Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall'altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?

Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l'arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica - a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.

Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte - un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d'amore e d'accordo. Ma Israele non è un'isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall'altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così - conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant'anni. C'è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C'è chi dall'altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c'è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell'occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà - finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.
Comments (4)

L'uomo che comprò la lotta libera

Permalink
Foxcatcher (Bennett Miller, 2014)


Tutto quello che puoi vedere fino all'orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito.

Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c'è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell'afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un'estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d'oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo.

Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto... (continua su +eventi) Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un'ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film - ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l'istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c'è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico - ti converrebbe anche - ma c'è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente.

Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L'irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l'aria di un'aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all'altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all'occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all'occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l'unico soffio d'aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto - e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa.

Come tutti i biopic degli ultimi anniFoxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista - poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due.

Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.
Comments (1)

Voltaire per D&G non muoverebbe un dito

Permalink
Quest'anno il manuale di Storia adottato dai colleghi non mi convince tantissimo. Ogni tanto prende delle topiche inquietanti. Nella verifica sull'Illuminismo ho cancellato una "frase celebre" che doveva essere attribuita a un filosofo: indovinate quale.



Poi ho dovuto di nuovo spiegare ai ragazzi che quella frase Voltaire non l'ha mai scritta, e anzi, chiunque un po' lo conosca davvero sa che nel Trattato sulla tolleranza si lanciava contro i suoi avversari al grido "Schiacciate l'infame". Non proprio il tipo che avrebbe combattuto fino alla morte affinché gli infami potessero manifestare le loro opinioni.

Tre ore dopo, mentre esco da scuola, getto l'occhio nell'atrio su un bel cartellone prodotto da un'altra classe: c'è la stessa frase, attribuita a Voltaire. Come spalare l'acqua col forcone.

Perché insisto tanto su questa storia, sempre la solita? Perché ho la sensazione che la frasetta pseudovoltairiana ci abbia un po' fregato tutti quanti. Prendi uno a caso...



...Stefano Gabbana. Magari anche lui da qualche parte (a scuola?) ha appreso erroneamente che Voltaire avrebbe difeso fino alla morte i gesuiti che non la pensavano come lui. È un'ipotesi come un'altra. Oppure pesca parole a caso dal dizionario inglese-italiano. Elton John se l'è presa perché Gabbana ha definito suo figlio "sintetico" e ha deciso che lo boicotterà. Scelta che puoi discutere finché vuoi, ma in che senso uno che ha deciso di boicottarti per le tue opinioni è "fascista"? Che ragionamento c'è dietro, se proprio ce ne deve essere uno?

Una pista ce la offre Giorgio Mulè, direttore di Panorama, che qualche ora dopo sente la necessità di intervenire per richiamare Elton John, ci credereste?, alle più elementari norme di tolleranza: ma come, Gabbana ha definito tuo figlio "sintetico" e tu ti sei offeso? Si vede proprio che non riesci a "accettare le idee" altrui.  Per fortuna non lo scrive in una lingua che Elton John possa comprendere.


Le immagini sono prese da http://twitter.com/lasoncini,
che magari non la pensa come me (nel qual caso son pronto a morire, va da sé).


Anche qui: di cosa parla Mulè quando parla di "democrazia"? Se Elton John smette di comprare prodotti Dolce & Gabbana diventa in qualche modo antidemocratico? In un'intervista Dolce e Gabbana hanno detto una stronzata, Elton John si è arrabbiato e ha annunciato che non comprerà più i loro prodotti. D&G hanno il diritto di scrivere stronzate (anche se il fatto di rappresentare un marchio che dà lavoro a così tante persone potrebbe suggerire maggiore prudenza), EJ ha diritto di boicottarli. Nessuna democrazia è stata violata fin qui. Nessuno sta impedendo a Elton John di avere figli, fuorché la legislazione italiana vigente. Nessuno sta impedendo a Gabbana di vendere vestiti, accessori, ecc.. Sembra così chiaro, eppure c'è qualcosa che non passa. Uno potrebbe anche pensare che Mulè in fin dei conti non si è ancora fatto le ossa nel mondo dell'opinionismo: che deve ancora farsi; che uno più esperto di lui non commetterebbe lo stesso errore.


"Freedom of expression", dice. Cioè per Severgnini se ti arrabbi con Gabbana; se annunci che non comprerai più i loro prodotti, tu non stai rispettando la "libertà di espressione" di Gabbana. Per dire, io è da anni che non compro più il Corriere: trovo che scriva veramente troppe sciocchezze. Ebbene, pare proprio che mi stia sbagliando. Sto minando la libertà di espressione di Panebianco, di Ostellino, di Sartori, e chissà di quanti altri produttori di opinioni. Dovrei morire per la loro libertà di esprimerle! E invece non gliele compro, è o non è oscurantismo il mio? Che direbbe di me coso, Voltaire?

[Alla fine di tutto sorge il sospetto che Gabbana e il suo socio abbiano capito il mondo meglio di chiunque altro, e che l'immagine di un'Italia intollerante e culturalmente sottosviluppata, incapace di elaborare una discussione decente (e di elaborarla in inglese corretto) sia proprio quella su cui hanno imbastito anni di campagne. Un bel posto del Terzo Mondo dove passare le vacanze].
Comments (13)

Unfuckable

Permalink
"Ma quindi insomma non lo hai detto?"
"Eh?"
"Non hai mai dato della culona alla Merkel".
"Ah no?"
"Non risulta da nessuna parte. Lo scrive Facci, guarda".
"Ma cosa vuoi che ne sappia Facci, eddai".
"Si è letto tutti i testi delle intercettazioni del processo di Bari e non c'è nessuna Merkel culona".
"Eeeeh, ma chissà se li è letti davvero e non ha fatto... come dite voi giovani... controleffe".
"E che importa? Non risulta".
"Ma magari invece di culona l'ho chiamata chiappona, lui cerca *culona* col controleffe e non la trova".
"Ma *Merkel* l'avrà cercato, no?"
"Ma magari ho detto *cancelliera chiappona*, che ne sa lui".
"Ma scusa perché tu?"
"Io cosa?"
"Tu lo saprai bene cosa hai detto della Merkel, no?"
"Io?"
"Cioè tu non sai se hai detto o no culona inchiavabile?"
"Tesoro, ma come cribbio faccio a saperlo".
"?"
"Va bene, lascia che ti spieghi".
"Non cominciare con quel tono".
"È che voi giovani non vi rendete conto... state tutto il tempo a pigiare su quei smarfon... vi scrivete chilometri di cazzate e resta tutto, compresa una stronzata che hai detto otto anni fa a una compagna antipatica. Fai controleffe e la trovi, vero?"
"Al massimo melaeffe".
"Quel che vuoi, Tesoro, non me ne frega un c - ma devi capire che ai miei tempi era diverso. Si stava ore al telefono con questo e con quello, e sai quante cazzate toccava sparare per tirarsi su il morale? Ora se a un certo punto in una telefonata di cento anni fa ho detto che la Merkel era inchiavabile, ma secondo te me lo posso ricordare in un qualche modo? Non mi ricordo nemmeno con chi ero al telefono e perché".
"Comunque non risulta".
"...poi a un certo punto sento che parlano tutti di questa cosa che avrei detto alla Merkel... addirittura i giornali inglesi, e chi sono io per smentire i giornali inglesi? Cioè se lo hanno scritto loro io mi fido".
"Invece se lo sono inventati al Fatto".
"Quelli sono fortissimi. E pensa che non li pago nemmeno".
"Li potresti denunciare".
"Tesoro, mi hanno fatto vincere le elezioni".
"Ma almeno convocare una conferenza stampa, per avvertire tutto il mondo che..."
"Che è davvero una culona! Ottima idea. Così leviamo il dubbio a tutti quanti".
"..."
"Non fare quella faccia, se non lo dico io ci pensa Grillo... o Salvini. Io ho un personaggio da difendere, capisci?"
Comments (2)

Tutto il potere ai presidi... e per la meritocrazia non ci sono i soldi, spiacenti.

Permalink
(Ma vi offriamo i biglietti dei concerti) 

Io naturalmente non sono molto soddisfatto del Ddl sulla scuola che stasera è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, ma questo non credo sia una novità per nessuno. Sono contento per i supplenti storici, che meritavano che fosse riconosciuto il loro impegno; sono sgomento per una concezione dell'autonomia scolastica che consiste nel concentrare tutto il potere sul preside. Sarà lui, improvvisamente investito di competenze didattiche e pedagogiche, a poter scegliere "i docenti più adatti" a realizzare piani dell'offerta formativa che sarà lui a stilare con un gruppo di collaboratori scelti da lui.

Sarà sempre lui a scegliere quel cinque per cento di docenti meritevoli a cui corrispondere un bonus per cui saranno stanziati tanti milioni - però non adesso, tra un po'. Insomma, in attesa del varo di un serio sistema di valutazione degli insegnanti, di cui tutti si riempiono la bocca da vent'anni senza venire al dunque mai, il governo ha deciso che ci pensano i presidi. Tutto il potere ai presidi. Perché? Non è ben chiaro. È un po' come la riforma del Senato: nessuno ha mai capito quale sia il senso di portare sindaci e delegati regionali a Roma qualche giorno al mese, tranne che forse Renzi e Delrio sono stati sindaci e continuano a vedere il mondo con occhi da sindaci: se solo l'Italia potessero farla i sindaci - sembrano pensare - vedreste che roba sarebbe, vedrete.

Con la scuola sembra proprio che sia successo qualcosa di analogo: hanno scambiato il Dirigente Scolastico per un sindaco della scuola e hanno deciso che è senz'altro lui la persona più adatta a scegliersi l'organico e a decidere come pagarlo. Non devono nemmeno essersi troppo preoccupati del fatto che a differenza del sindaco, il preside non lo vota nessuno: è un funzionario che ha vinto un concorso e che non può essere in nessun modo messo in minoranza né dal collegio docenti, né dai genitori, né dagli studenti. Da qui in poi decide tutto lui e ne risponde soltanto ai tribunali amministrativi (o ai penali appena qualche docente lo accuserà di mobbing). È una cosa che mi lascia perplesso - la totale confusione tra organismi democratici e burocratici - ma non credo che la mia perplessità sia una novità per nessuno.

Mi piacerebbe invece sentire qualche renziano, stasera e domani: uno qualsiasi tra tutti quelli che per un anno ci hanno decantato le virtù della meritocrazia, e della valutazione: mi piacerebbe chiedergli se non si sente preso in giro da un Ddl che la meritocrazia l'ha nascosta sotto il tappeto, e si presenta ai docenti di ogni grado e merito con un bel cesto di Natale fuori stagione: un voucher da 500€ per "spese culturali". Un rimborso spese "per andare a teatro, a sentire un concerto, a vedere l'opera... Anche questo è cultura", ha spiegato Renzi. Dunque per ora si va a teatro e ai concerti; nei prossimi mesi si cercherà di essere il più possibile carini coi presidi, che magari l'anno prossimo saranno tanto buoni da includerci in quel 5% di docenti meritevoli di bonus. Tutta qui la meritocrazia renziana? Per ora è davvero tutta qui.

Del resto non c'erano i soldi per fare diversamente. L'ultima volta che un sindacato ha provato a fare i conti, i famosi scatti triennali al merito si erano ridotti a una miseria: forse 16€ in più al mese, neanche la benzina per andare e tornare da un corso di aggiornamento. A quel punto il Ddl è rimasto congelato per qualche giorno, e adesso eccolo qua: niente più meritocrazia, se ne parla alle calende greche. La stessa scadenza prevista del resto dalla Moratti, dalla Gelmini, da Profumo. Sarebbe fantastico valutare i docenti, ma non si sa bene come fare, e soprattutto mancano i soldi.

Quelli per le scuole private però li hanno trovati. Ma non è una notizia nemmeno questa, dopotutto.
Comments (2)

Temo i leghisti (anche quelli in felpa)

Permalink
- Quelli che prendono in giro Salvini perché a Roma è arrivato con quattro gatti (compresi quelli neri reclutati in loco):
... si ricordano di tutte le volte che abbiamo irriso Berlusconi perché le sue piazze restavano semivuote - e poi le elezioni le vinceva lo stesso?

- Quelli che festeggiano per le lotte intestine in Veneto tra Salvini e Tosi:
... si ricordano di tutte le volte che Bossi cacciò a pedate qualche oppositore interno che in teoria valeva decine di migliaia di voti? Di Miglio, Pagliarini, Gnutti, e tanti altri? Di quante volte dagli anni Novanta in poi abbiamo letto di una Lega divisa per poi scoprire alle urne che la base seguiva Bossi comunque e dovunque? 

- Quelli che parlano di una mutazione profonda della Lega, che avrebbe rinnegato il suo passato regionalista e federalista e blablabla:
...che film si stanno guardando da vent'anni? La Lega di Bossi era razzista e populista come la Lega di Salvini. Il federalismo serviva per darsi un tono, ma a guardarlo da vicino era di gommapiuma come le corna sugli elmi di Pontida. 12 anni fa Bossi già diceva che bisognava salutare i barconi a cannonate. Non è che la xenofobia leghista se la sia inventata Salvini. Non è che prima i Rom fossero i beniamini delle feste della Padania.

- Quelli che credono che Salvini - coi limiti strutturali del suo movimento - sia l'avversario più comodo per il PD:
...no, niente, spero tanto che abbiate ragione. Ma io temo i leghisti anche quando metton via gli elmi e indossano le felpe. 
Comments (3)

Perché Aldo Busi scrive così cane?

Permalink
È appena marzo, ma ho la sensazione di avere scovato il periodo sintattico più lungo del 2015. Lo ha scritto Aldo Busi su Dagospia, un sito che non ho abitudine di linkare, ma lo potrete trovare facilmente. Il pezzo è parte di una polemica con Travaglio cominciata sul Fatto a proposito di Lucio Dalla; in particolare del suo mancato coming out, che per Busi corrisponde a un tradimento della causa gay (causa che Dalla non ha mai dato la sensazione di voler difendere). Busi ne approfitta per spiegare che non trova tutto sommato molta differenza tra Lucio Dalla che convive con un ragazzo molto più giovane e Berlusconi che se la fa con Ruby.

Dice più o meno così.

Ma se la prende un po' più larga.

Questo diritto alla privacy sessuale però “il Fatto” non l’ha mai rispettato verso la sessualità di Silvio Berlusconi, seppure parimenti devastante su altri piani ma infinitamente meno immorale di quella di Dalla perché manifesta, esibita sia al pubblico ludibrio dei bacchettoni sia alla segreta invidia dei più italioti, e però oziosamente perseguita e perseguitata nei tribunali per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi in meno rispetto a una età del consenso saltata ormai da almeno trent’anni nella vita sociale e civile e sessuale in ogni parte del mondo e che nelle prostitute schiavizzate sotto gli occhi di tutti ai cigli delle strade nostrane arriva a malapena ai sedici senza che nessuno muova istituzionalmente una falange (basti vedere di che cosa sono capaci le baby gang di quattordicenni organizzate probabilmente dai genitori stessi molto più vampiri pedofili sfruttatori dei loro eventuali estimatori da ricattare, anche se a costoro ben gli sta e malgrado dovrebbe essere un reato da depenalizzare almeno oltre i quattordici anni ovvero da aggiornare nei suoi ipocriti, obsoleti e patetici paletti anagrafici portatori di criminalità indotta poi soggetta alla discrezionalità di giudici più o meno ammanicati con la classe sociale o di potere degli accusati, che alla fine della sonata giuridica e mediatica mi sembra la facciano spudoratamente fin troppo franca).

Aldo Busi è un grande scrittore italiano (stavo per scrivere "del secolo scorso", che orribile gaffe). Quando vuole, i periodi li sa tornire con indiscutibile abilità. Se qui gli capita di scrivere cane, è perché ha deciso di suonare cane. Credo che sia l'equivalente letterario di alzare la voce in un talk show: le virgole sono pause e Busi non se le può permettere. Sarebbe come offrire al regista l'occasione per staccare, e invece lui vuole che la camera continui a girargli attorno. Anche il senso della frase gira su sé stesso: il Fatto non rispettava la sessualità di Berlusconi. Però la sessualità di B. era "parimenti devastante". Sì, ma "infinitamente meno immorale di quella di Dalla", per via che non era nascosta a tutti (beh, beh, fino a un certo punto; e anche Dalla non è che si nascondesse così tanto). Cioè ce l'hai con Dalla e lo paragoni a Berlusconi, però si deve capire che ce l'hai anche con Berlusconi, però con Dalla di più, ecc.

Dunque la sessualità di B. è "oziosamente perseguita" "per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi". Busi finge di non sapere che B. non è stato indagato (e assolto) per aver trescato con una minorenne, ma perché sospettato di aver fatto pressioni su pubblici ufficiali per farla liberare; di aver lasciato che la Minetti la consegnasse a una signora che forse si prostituiva; insomma Berlusconi era a processo perché accusato di aver favorito l'eventuale prostituzione di una minorenne; qualcosa di un tantino più grave di aver passato qualche lieta ora con lei. Busi finge di non saperlo ma lo sa benissimo: e allora alza ancora di più la voce, dice che tanto per strada le prostitute sono tutte 16enni (sul serio?) e che comunque ci sono un sacco di baby gang di 14enni che fanno di peggio (quante?) e tenetevi forte: queste baby gang sono organizzate da genitori "vampiri pedofili sfruttatori dei loro estimatori". Qui Busi forse si accorge di essersi spinto un po' troppo in là, perché ci sono cose che ancora non passano nemmeno tra i lettori di Dagospia, e tra queste probabilmente la compassione per i poveri estimatori di gangster 14enni che li ricattano. Quindi si corregge immediatamente: "ben gli sta" (a questi estimatori ricattati). Da lì in poi va avanti per inerzia, non si sa nemmeno più cosa stia scrivendo: "dovrebbe essere un reato da depenalizzare": il ricatto? lo sfruttamento della prostituzione minorile? boh. Tanto poi decidono i giudici ammanicati coi politici è tutto un magnamagna. Aldo Busi, 2015.

Triste però.

C'è una cosa che succede ogni anno ai primi di marzo, di cui non vado tantissimo fiero. Tutti si ricordano Dalla, ascoltano pezzi di Dalla, e si mettono a cercare on line post che parlino di Lucio Dalla. E trovano il mio, che piano piano sta diventando uno dei contenuti più letti di sempre. Non è che sia un post particolarmente ispirato; però funziona, e ogni anno mi porta qualche contatto in più. Non è una questione di soldi. Non mi ci rifaccio nemmeno del caffè alla macchinetta. Però funziona: la gente cerca Dalla e trova qualcosa che ho scritto io.

Quest'anno Busi ha un romanzo da vendere, e così ai primi di marzo si mette a litigare su Dalla. "Uno zero come tanti, non isolato, però di panza, panza molto capiente in fatto di mercato e quindi di ogni specie di santi in paradiso, a destra, a sinistra, dove più fa comodo a entrambe le parti una e trina e, se occorre, doppia, sdoppiata, rasente e anche in absentia per accordi tra collusi al business del consenso". Potrebbe anche avere qualche argomento, non scrivesse così cane. Lo scandalo di Busi è che Dalla - di cui si dà per scontata l'omosessualità - non abbia mai difeso i diritti dei gay. Gli sarebbe bastato fare un coming out al momento giusto, e se n'è guardato bene. D'altro canto, è giusto pretendere da una persona una condotta pubblica coerente con la propria sessualità privata? Non è l'ultima frontiera del perbenismo? Chi lo sa.

Io so solo che Busi scrive da cane, e lo fa apposta. Come se fosse il primo a crederci poco, e a coprire i dubbi coi guaiti.

Il Dalla, abile facitore e propalatore di marcette populiste, omosessuale rinnegatore di se stesso non certo a letto ma dove conta affermarsi se si ha il talento della libertà da diffondere dando il buon esempio, cioè sulla pubblica piazza, e menefreghista doc, non ha fatto niente per i diritti civili, quindi remandovi scientemente contro, dei più deboli, tra cui quei cittadini cosiddetti gay e lesbiche che tuttora in Italia sono visti come degli appestati dalla clericalissima e corrottissima classe politica dominante che premia i “diversi” se si attengono al ruolo di macchietta o di “discreto” e “insospettabile”, che della macchietta è la ridicola esaltazione piccolo borghese ovunque, televisione, parlamento, spettacolo, Chiesa, imprenditoria, sport e, ovviamente, nel giornalismo anche più impegnato (anche se, per quanto a schiena dritta, si direbbe impegnato a raddrizzare le zampe ai cani tanta è la paura dell’omosessuale occulto di venire azzoppato lui: perché chi parla di politica e di etica civile senza esprimersi sul motore stesso dell’economia, cioè sulla propria inconfessabile sessualità e sui suoi fantasmi desideranti o rimossi o frustrati o vissuti di nascosto anche da se stesso, non ha ancora detto nulla in tema di politica e di riforme e di cambiamento che valga la pena di ascoltare, tesi centrale del mio ultimo e imminente romanzo). [...]
Spero almeno che tanta fatica sprecata serva a fare un bel po’ di pubblicità anche al mio romanzo: è proprio bello, divertente, sessuale, logico, compassionevole, avveniristico, anticlericale e di quella sana oscenità pagana di una volta, e non c’è niente di paragonabile in giro in libreria, figuriamoci sui giornali, uno si rifà proprio la bocca e i sensi tutti.  Bella forza, m’ha detto uno che ha avuto il privilegio di leggerlo in anteprima, l’hai scritto tu.

Comments (4)

No, la tua scuola privata non mi fa risparmiare

Permalink
Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo, ho un blog, e non mi va di pagare per la privata dei vostri figli. Chi mi conosce da un po' di tempo lo sa - è una cosa che scrivo a intervalli regolari, più o meno ogni volta che qualche lobbista o politico di area cattolica bussa al governo con la mano sul cuore e l'altra tesa.

Stavolta però mi hanno letto in tantissimi, non so neanche io perché. Scherzi di facebook. Tra i tantissimi era normale che ci fosse anche qualche lettore che non la pensa come me. Qualcuno convinto che finanziare le scuole private coi miei soldi di contribuente sia una cosa buona e giusta - se non altro perché, pensate un po', farebbe risparmiare allo Stato un sacco. 

È in effetti una storia che ho sentito spesso. Siccome l'articolo 33 della Costituzione è chiarissimo ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'unico sistema per aggirarlo è sostenere che le scuole private facciano addirittura risparmiare. Anche la recentissima letterina pubblicata su Avvenire e controfirmata da 44 parlamentari di area Pd spiega che il "sistema [delle private paritarie] costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno [fonte?], pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria [fonte?], mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente". Siccome secondo il Ministero dell'Istruzione ogni studente costa allo stato 6000€ all'anno, il risparmio appare evidente.

Ma sarà vero?

Tanto per cominciare, mi piacerebbe sinceramente capire chi ha fatto il famoso conteggio dei 470 milioni di euro l'anno. Se è un dato vero, che problema c'è a citare la fonte? E invece nessuno la cita mai. Se la prendono con te che non sai l'aritmetica, ma non ti spiegano da dove loro hanno preso i dati. È curioso.

Ma anche volendo prendere per buono il dato dei 470 milioni di euro all'anno, qualcosa non mi torna - no, in generale non mi torna niente. È uno di quei problemi che sembrano appunto banalmente aritmetici e poi a guardarli bene non lo sono affatto. Un ente - non necessariamente una scuola - un qualsiasi ente che mi promette di farmi risparmiare se gli do dei soldi, mi lascia perplesso. Forse davvero non sono abbastanza intelligente da capire come funziona. Mi piacerebbe che qualcuno intervenisse qua sopra e me lo spiegasse. Finora non c'è riuscito nessuno, forse sono senza speranza.

Proviamo a capirci. Le scuole private esistono già. Se per assurdo scomparissero all'improvviso; se gli alunni fossero a causa di ciò costretti a iscriversi alle pubbliche, è chiaro che la spesa pubblica leviterebbe. Credo che sia appunto il caso che hanno in mente i 44 parlamentari quando parlano di un "risparmio evidente". Ma è un caso abbastanza assurdo, no? Le scuole private esistono già, e tanti genitori ci manderanno comunque i loro figli. Che lo Stato li aiuti o no. Quale convenienza ha lo Stato aiutandoli?

Gli studenti di queste scuole costano poco allo Stato - 5530€ in meno ad alunno, a dar retta ai vostri numeri. Sembra un bel risparmio, ma se aumentassimo il numero di posti, lo Stato risparmierebbe di più? Ne siete convinti? Io non ne sono del tutto convinto.

E se invece lo calassimo?
Comments (11)

Sono stanco di leggere cazzate su Whiplash

Permalink
Whiplash (Damien Chazelle, 2014)

Altro che autostima, sette ottavi e pedalare.

"Hai fatto un buon lavoro". Quante volte te lo sei sentito dire. Quante volte ci hai creduto davvero? Dopotutto, se il tuo lavoro fosse così buono, non sarebbero così contenti. Comincerebbero ad aver paura di te - è pericoloso, chi sa fare un buon lavoro. Ma tu non ti preoccupare, perché hai fatto...  Un buon lavoro. La senti l'intonazione? La senti sul serio? E allora dimmi: ci senti invidia o condiscendenza? Un buon lavoro. Forse una sfumatura di gratitudine, perché il tuo non è un lavoro così buono dopotutto. È un lavoro passabile, un lavoro che non farà sfigurare i loro lavori mediocri. "Hai fatto un buon lavoro", che frase criminale. Quanti talenti ha sedotto e sviato. Tu non vuoi fare un buon lavoro. Tu puoi fare di meglio. Ma poi?

Quando in giro si è cominciato a parlare di Whiplash come di un gran bel film - e non c'è dubbio che lo sia - molti musicisti si sono premurati di informarci che il mondo della musica non è così atroce e competitivo, e soprattutto il jazz non è così - lo stesso Bird non veniva preso a piatti in testa se sbagliava un assolo, come racconta per giustificarsi il demoniaco maestro di musica del film. Era una polemica tutto sommato prevedibile, anche se già un po' surreale. Probabilmente anche ai tempi dello Squalo qualche ittiologo si sentì il dovere di scrivere ai giornali che i pescecani non attaccavano i motoscafi.

In Italia la discussione è scesa a livelli avvilenti. Goffredo Fofi su Internazionale lo ha definito "una favola per gonzi di destra", anche se ha ammesso che "tecnicamente, è un buon film". Però antipatico, perché racconterebbe "per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers". È un'analisi un po' semplice: forse se per affrontare la cultura USA si deponesse ogni tanto il modellino "maggioritario e a tratti totalitario", e ci si addentrasse un po' nei dettagli, si potrebbe notare nel film lo scontro tra due concezioni educative: il cosiddetto "self-esteem movement", che ha portato le scuole americane a distribuire medagliette per ogni "buon lavoro" svolto, e il fantasma di un approccio diverso, militaresco e pseudo-darwiniano, che più che a scuola vediamo trionfare nei posti di lavoro e soprattutto nei talent show.

Che parlino di musica o di ristorazione, il motivo per cui guardiamo i talent è il motivo per cui ci siamo fatti ipnotizzare dal maestro di Whiplash: i professori sadici sono terribilmente sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo decoder e biglietti di cinema. Forse ci piacciono proprio perché sono all'opposto dei nostri ex prof, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Noi poi abbiamo sempre la sensazione di non essere diventati quei personaggi di successo che i nostri maestri vedevano in noi, e a quel punto forse ce la prendiamo con loro, troppo buoni, troppo illusi, e rimpiangiamo di non avere avuto caporali che ci prendessero a ceffoni in pubblico. È un'ipotesi come un'altra.

In ogni caso, non c'è dubbio che certe società siano più competitive di altre: e se quella americana lo è, perché un film non dovrebbe raccontarla? Fofi però sembra non aver fatto caso al distacco critico con cui Chazelle guarda al protagonista del film e alla sua ossessione per la batteria. Un "winner"? Soltanto perché [spoiler] alla fine del film riesce a suonare davanti al pubblico un assolo di Buddy Rich, a portare a termine il suo numero da pappagallino ammaestrato? E poi che succederà? Nei film di "winner e losers", di solito parte la fanfara e il pugile suonato ma glorioso chiama il nome della moglie o fidanzata. Il batterista di Whiplash non ha la fidanzata, non ha un amico, ha un papà comprensivo che disprezza e un maestro stronzo che difficilmente lavorerà più con lui. Sul serio la sua è una success story? Sarebbe come prendere il caporale di Full Metal Jacket per un personaggio di propaganda... ah, ma Fofi lo fa.

"Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket".
Il film in cui il soldato debole [SPOILER!] si tira un colpo in testa prima ancora di arrivare al fronte, non prima di aver fatto fuori anche il sergente cattivo... uhm, forse Fofi ha preso un abbaglio. D'altronde capita ai migliori.

Proprio mentre sto archiviando Fofi, ecco piombare da Wired un articolo che definisce Whiplash, mettetevi seduti, "ideologicamente sbagliato".

Il tizio che scrive questa roba (“Sì perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata quanto patologicamente ambiziosa“)… il tizio che scrive questa roba, dicevo, ha appuntato in petto la medaglietta di “Staff Editor della Sezione Idee” di Wired. Purtroppo essa non riesce a trattenere neanche un milligrammo del timore reverenziale che provo per il maestro Fofi, sicché la mia prima reazione sarebbe piantarmi davanti a questo Staff Editor e dirgli: ma cosa hai scritto, ma ti rendi conto? Nel 2015? “Ideologicamente sbagliato”? Sei un viaggiatore nel tempo? Una Guardia Rossa ibernata nel ’69 e scongelata in circostanze da chiarire? Lo sai cosa vuol dire ideologia? Credi che ce ne siano di giuste e di sbagliate? Sapresti definire la tua ideologia? Ammesso che tu ne sia in grado, pensi che al lettore medio di Wired fotta sega della tua ideologia? Eh? Eh?

Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.

Grazie, ma basta cazzate adesso.

No, ma buon lavoro, davvero. Signor Staff Editor Sezione Idee, probabilmente della vita ne sai già troppo per farti insegnare qualcosa da Whiplash, però… ti aspettavi di uscire “caldo” dalla storia di un ragazzo che per suonare meglio di chiunque altro rinuncia agli affetti, al rispetto dei compagni, alla salute, a ogni altra cosa? Non ti ha assalito nemmeno per un istante il sospetto che il film non sia una success story ma la sua parodia? che il “freddo” di cui tu parli sia l’esatta sensazione che Chazelle voleva farti sentire, dopo averti fatto ascoltare e soffrire un monumentale, inutilissimo assolo di batteria di nove minuti? Ma a te piacciono gli assoli di batteria? Li ascolti mai? Non li ascolta nessuno. Secondo alcune teorie hanno inventato il tasto skip apposta. Questo è “l’opera d’arte in sé?” “il raggiungimento della perfezione espressiva”?

Whiplash non è un film particolarmente originale, ma ci si domanda se poteva essere migliore di così, come certe partiture di jazz dell’età dell’oro. Ha semplicemente il ritmo giusto; non c’è una nota messa lì senza un motivo, senza che prima o poi sia ripresa nel tema principale. Finché dura non esiste nient’altro: un attimo dopo cominci a pensare: ma cosa ho ascoltato? Non è un raccontino a tema, per quanto Fofi e i suoi allievi si arrangino a vederlo così. È un film che ti pone delle domande: sul serio vorresti un maestro che tirasse fuori la bestia che hai in te?  Sei sicuro che sarai felice, dopo? La risposta tocca a noi, ma non dobbiamo per forza portarcene una già pronta da casa. 
Whiplash si può finalmente vedere a Cuneo, alla Sala Lantieri, venerdì sabato e domenica alle 21. Speriamo che si senta bene. 

Comments (21)

Su Fahrenheit alle 16.30

Permalink
Salve a tutti, a Fahrenheit (Radio 3) ci hanno preso gusto e alle 16:30 mi chiederanno un parere sulla riforma della scuola vista dalla scuola media, che secondo Gianna Fregonara e Orsola Riva del Corriere è "la grande dimenticata".

(Poi se un giorno arriva il podcast lo metterò).
Comments (2)
See Older Posts ...