L'anno che Valentino ha perso contro uno, boh, con una moto.

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Fatevi passar la rabbia, perché meglio di così davvero non poteva andare. Valentino Rossi ha vinto nella sua carriera non so quanti mondiali di cui a me, e a milioni di persone come me, non è fregato niente.

Oggi invece ha perso, partendo in fondo allo schieramento a causa di una penalizzazione di cui si è parlato molto ma di cui non mi era fregato niente fino a oggi, quando ho visto Valentino Rossi risalire dieci posizioni senza farsi prendere dalla rabbia.

Quando poi l'ho visto perdere lo stesso ho sentito qualcosa; mi sono sorpreso a sperare che in questo periodo Valentino Rossi abbia risolto le sue pendenze col fisco, non solo perché per la prima volta nella vita ho tifato Valentino Rossi - non sarebbe la prima volta che tifo uno sportivo non irreprensibile - ma perché nei prossimi giorni mi potrebbe capitare di tirarlo fuori coi ragazzini, Valentino Rossi, come esempio di vita o perlomeno di carattere, come esempio di come certe volte si vince anche quando non si vince, e viceversa. Del resto domattina sarà difficile parlare d'altro.

Ma ho la sensazione che ne parleremo anche tra un anno, e tra dieci, e quando ormai nessuno si ricorderà più bene quanti motomondiali ha vinto Rossi, ma ci ricorderemo di quello in cui è stato in testa alla classifica fino all'ultima gara, e ha perso contro uno di cui nessuno si rammenta più il nome.

Io perlomeno me lo sono già dimenticato, e anche voi dovreste.
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Litigare con don Pasolini

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Una di queste notti mi sarebbe piaciuto riprendere i fili del discorso un po' confuso che avevo fatto su Pasolini l'altro giorno (visto che ha suscitato un minimo d'interesse) - però tutto sommato è giusto che rimanga confuso. Pasolini è per me, come per molti, un feticcio polemico da una vita. Anch'io posso passare serate intere a litigare idealmente con Pasolini. Se non sto attento mentre do l'aspirapolvere puoi notare che muovo le labbra, sto insultando Pasolini. Quel suo atteggiarsi a profeta, a Geremia di un genocidio immaginario - che nervi l'Abiura a rileggerla.

Alla fine poi che colpa ne ha avuto lui. In qualsiasi altro periodo storico avrebbe trovato la sua nicchia abbastanza presto, e invece a causa di una guerra mondiale e altri equivoci si è ritrovato in una sezione bolognese del PCI invece che in seminario. Che prete ci siamo persi, ma soprattutto che vita da prelato si è perso lui. La sua passione per le dispute dottrinali gli avrebbe ispirato dotte dissertazioni teologiche che lo avrebbero reso uno dei protagonisti del concilio - vuoi mettere anche solo per un attimo, tra litigare coi lefebvriani o col Gruppo '63? Nel frattempo avrebbe potuto cullare la sua sensibilità decadente coltivando la poesia, la scrittura, l'arte, senza la necessità di impastoiarle con categorie marxiste che non c'entravano poi parecchio. Le periferie sottoproletarie, le avrebbe potute frequentare con molta più libertà, nessuno ci avrebbe avuto niente da ridire - son cose che a Roma si fanno da secoli e chi siamo noi per giudicare un alto prelato, un benefattore. Le sue naturali pulsioni avrebbero trovato molta più tolleranza in Curia che in certe sezioni di partito un po' retrograde. Le sue inchieste sulla sessualità degli italiani le avrebbe potuto condurre in modo assai più capillare nel confessionale. Nel frattempo avrebbe saputo diluire in comode omelie settimanali il suo presentimento dell'apocalisse, del genocidio culturale, della massificazione indotta dalla tv, dalla legalizzazione dell'aborto, dalle maschere di Halloween, le lucciole! cosa hanno fatto alle lucciole! Persino in Africa avrebbe più convenientemente potuto andarci da missionario; che prete sarebbe stato Pietro Paolo Pasolini, e invece gli è andata così. Eppure chi ancora si inginocchia al suo santino è sempre di un prete che sembra aver bisogno, uno che ti faccia le predica sulle false lusinghe della modernità, sul vuoto dei valori, uno che ti dica "io so", anche se non è chiaro come faccia a saperlo - ma già, il confessionale - in ogni caso i preti sanno sempre tutto, bisogna stare attenti, perché verrà un giorno... Don Pasolini, così come fra Lindo Ferretti, è uno di quei personaggi che in Italia abbiamo sempre avuto, forse addirittura il frutto dell'evoluzione, dell'adattamento a un certo tipo di ambiente; la novità è che seminari e conventi sono meno diffusi di una volta e così a gente che sembra nata per spiegarti il mondo da un pulpito capita di ritrovarsi scrittore, regista, cantante, comico, e non se la cavano neanche così male in verità. Sempre però un po' predicatori, se ci fai l'orecchio.

Per dire che Muccino un po' lo capisco.

Però poi ogni volta che vedo qualcuno cedere al mio stesso impulso, e di attaccare una tirata antipasoliniana, mi rendo conto che è vittima di un equivoco, se non di tanti. Ad esempio vedo in giro roba del genere.



E ci rido pure sopra, però intanto penso: ma uno che ha scritto una battuta del genere, l'avrà mai davvero sentito parlare, avrà letto qualcosa di Pietro Paolo Pasolini? Non solo il fatto che in realtà un film come Ricordati di me gli sarebbe davvero potuto piacere; una volta assorbito lo choc di un ritmo action che ai suoi tempi non esisteva nemmeno nei film di 007, figurati in un prodotto cosiddetto intimista, credo che avrebbe potuto vederci una conferma delle sue tesi sul vuoto della neoborghesia. Ma lasciamo stare: come fai a immaginare Pasolini che risponde "mi pulisco il culo"?

Se hai anche solo aperto a caso le Lettere Luterane, se hai ascoltato distrattamente la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini, come fai? Ma neanche in una vignetta. Te lo immagini, boh, Hitchcock che dice la stessa cosa in una vignetta? Moravia? Viene il sospetto che nel modellare il feticcio PPP le giacche di pelle abbiano avuto più peso delle pagine di Empirismo Eretico dove Pasolini si permetteva eleganti frecciatine sul prognatismo di Sanguineti, ma non avrebbe mai usato il sintagma "pulisco il culo".

Forse funziona così: oggi la gente in giacca di pelle che va in tv a parlare di qualsiasi cosa è, boh, Scanzi? E così ci immaginiamo che Pasolini sia stato uno Scanzi dei suoi tempi; che di fronte a una provocazione si sarebbe comportato come lui: fanculo, stronzi, ecc. Di solito quando parliamo di lui non abbiamo la minima idea di quello di cui stiamo parlando. Anche quando lo citiamo, lo fraintendiamo; lui poi perlopiù parlava in una lingua che abbiamo messo via, il marxismo; una lingua che maneggiava un po' disinvolto, se non proprio alla carlona, perché gli era capitato di esser marxista per accidente, era semplicemente il clima culturale in cui era nato e aveva imparato a discutere - e di discutere aveva una gran voglia e un gran bisogno e non solo coi sottoproletari: anche e soprattutto coi suoi pari, intellettuali, artisti. Lui poi era convinto che i sottoproletari stessero per scomparire, parlava di genocidio, non si vergognava di scomodare Hitler per un po' di speculazione edilizia - ma non aveva previsto che anche il suo milieu culturale si sarebbe prosciugato nel giro di due decenni, al punto che oggi non c'è uno che mentre ti cita Pasolini ti dia la sensazione di aver capito quello che stava dicendo. Equivocano tutti, un po' perché devono tirare acqua al loro mulino (lui stava dalla parte dei poliziotti! Non è vero stava coi pankabbestia!), un po' perché davvero, leggerlo è troppo sbattimento.

Poi se la prendono con Muccino. Lui almeno ha una tesi: una volta il cinema italiano era un'industria, poi c'è stata una crisi strutturale, non sarà stato per caso Pasolini? Secondo me no, Pasolini in certi casi faceva un cinema di nicchia, "di poesia", insomma era un autore nel senso che la parola aveva già in quegli anni; in altri casi stava sperimentando soluzioni che oltre ad avere un successo immediato (il Decameron), aprivano le porte a nuovi linguaggi che sarebbero diventati di massa: in sostanza stava aprendo le porte al porno, col vecchissimo alibi dell'esotismo medioevale o terzomondista (da questo punto di vista certi stilemi amatoriali hanno un senso che Pasolini non vedeva e Muccino non coglie; il motivo per cui a lui piacevano gli attori non professionisti in pose discinte è simile a quello per cui noi digitiamo "amatoriale" in determinati siti). Però sia quando faceva Teorema per il pubblico dei festival, sia quando girava i Racconti di Canterbury - e in giro c'era una tale fame di nudità medievali che in sala era già uscito un seguito apocrifo al Decamerone - Pasolini era perfettamente organico all'industria cinematografica in cui lavorava - molto più di quanto se ne rendesse conto. Quando se n'è reso conto si è molto arrabbiato. Poi quell'industria è crollata per altri motivi - banalmente, la tv - e oggi non riusciamo nemmeno a capire che Teorema era pensato per un certo pubblico e Canterbury per un altro. Sono due film talmente diversi da quelli che vediamo nelle sale, che potrebbero averli girati i Lumière o Giotto di Bondone. È roba strana, da intellettuali. Niente che valga la pena rivedere - finché Muccino non ne parla male, allora guai a chi ce la tocca.

"Ma hai finito con l'aspirapolvere?"
"Perché?"
"È la seconda volta che lo passi in cucina".
"Scusa, ero sovrappensiero".
"Con chi stai litigando stavolta?"
"Con nessuno".
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Muccino e la Pasoliniexploitation

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L'altra sera, proprio quando i detrattori più moderati di Pasolini sembravano aver conquistato il campo, si è svegliato mano-lieve Muccino e ha dato un ceffone all'arbitro.



Quel che è successo poi potrebbe persino far storia: un'intera nazione di appassionati di cinema si è scossa dal torpore ipnotico dei trailer di Star Wars rallentati alla ricerca di qualche dettaglio rivelatore sul destino di Jar Jar Binks, e si è stretta intorno al suo maestro e ispiratore, il geniale cineasta Pietro Paolo Pasolini. A quarant'anni dalla sua scomparsa (e dalla distribuzione di Salò), l'amore del pubblico per il suo beniamino è tale che l'account facebook di Muccino sembra essere stato sospeso per eccesso di insulti. E io ho scoperto di vivere nell'universo dei miei sogni, dove le piattaforme sociali non servono per litigare sugli spintoni tra Valentino Rossi e Marquez, ma per dibattiti sull'estetica, perdio, sulla tecnica cinematografica! Vi rendete conto, possono bannarci mentre litighiamo sull'uso del carrello o del controcampo.

Ok, proviamoci.

Però facciamo finta di saperne qualcosa per favore - cioè davvero, potete avere mille motivi per odiare Muccino, ma per difendere Pasolini dovreste almeno aver visto un film suo. Sennò come potete essere sicuri che non ci abbia azzeccato? Definire Pasolini amatoriale non è cosa campata così in aria. Il suo primo approccio diretto con la macchina da presa fu abbastanza garibaldino. Era già uno scrittore affermato, aveva collaborato con Fellini, quest'ultimo intuisce del potenziale e gli propone di produrre Accattone - ma quando vede i primi tentativi blocca tutto, erano inguardabili. Pasolini comincia così, saltando a piedi pari tutto l'apprendistato del regista (anche se può contare da subito su un collaboratore preparato come Bernardo Bertolucci). E potendo contare sulla sua reputazione extracinematografica - tanto che quando alla fine Accattone arriva a Venezia, viene contestato da gruppi di estrema destra che gettano inchiostro sullo schermo. È appena il 1961: gli anni di piombo molto in là da venire; Pasolini è già in qualche modo un personaggio che attira l'attenzione qualsiasi cosa dica o faccia.

È interessante che nel suo primo comunicato antipasoliniano (poi prontamente cancellato da facebook), Muccino raccontasse di aver cominciato a detestarlo molto presto - è così che funziona, no? Se ti piace Pasolini (o Kubrick, o i Vanzina) te ne accorgi a 16 anni. Il resto della vita ti serve a trovare i motivi, le giustificazioni, le pezze d'appoggio. Muccino - chi sa un po' di cinema non ha nessuna difficoltà ad ammetterlo - è uno dei registi italiani più dotati della sua generazione, che è anche il motivo per cui in questo momento twitta dalla California. È facile risolvere la questione tracciando una retta: da una parte l'approccio amatoriale di Pasolini, che con scarsa o nulla conoscenza del mezzo riesce comunque a mettere in scena un'opera prima apprezzata in tutto il mondo; dall'altra la professionalità di Muccino, il campioncino nazionale dei carrelli circolari. Facile, no? Già, troppo facile.

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Pasolini amatoriale                                               Muccino professionale

Perché è vero anche il contrario: Pasolini arriva in regia sapendone poco o nulla, ma è determinato a fare del cinema la sua dimensione - tanto che si mette molto presto a teorizzare di semiotiche e di cinémi - quanto a Muccino, avrà fatto i suoi compiti, ma il modo in cui liquida Pasolini dimostra una scarsa conoscenza della storia del cinema italiano.

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Muccino praticone                                                     Pasolini accademico


L'eredità di Pasolini.
Cosa direbbe Pasolini dell'accusa di essere "sgrammaticato"? Probabilmente la rivendicherebbe (facendo però sfoggio di un'ottima grammatica), così come rivendicava l'"ingenuità" che gli aveva affibbiato Umberto Eco. "Che io sia ingenuo, non c'è dubbio: e anzi, poiché non sono - con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo - un piccolo-borghese - non ho paura dell'ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo" (Il codice dei codici, in Empirismo eretico).

Ricapitolando: da una parte il cinema contemporaneo, professionale ma del tutto inconsapevole della storia che ha alle spalle. Un cinema senza tempo e senza luogo, che potrebbe farsi dovunque e infatti si fa in California. Dall'altra la visceralità di Pasolini, ma anche lo strutturalismo di Pasolini. L'ingenuità, ma anche la Cultura con la C. Il sottoproletariato urbano, ma anche l'intellettuale organico e/o declassato. Tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle nel Novecento, dopo quella famosa frattura antropologica. Ma non è ancora troppo facile, così?

È da ieri che cerco ovunque un'intervista che sono sicuro di aver visto, una mattina, a un "montatore di Pasolini" (Nino Baragli?) Ormai mi sono convinto che sia in questa teca rai che non si riesce ad aprire. Mi ricordo questo signore mentre spiega in romanesco come si montava ai suoi tempi, con lo sputo: cioè prima di incollare i pezzi di pellicola con l'acetone, in un primo momento era sufficiente applicare un po' di saliva. E poi quando spiega che i raccordi di Pasolini li faceva un po' diversi da quelli degli altri film, perché sembrassero strani, perché sembrassero 'artistici': gli spettatori dovevano avere la sensazione di trovarsi di fronte all'opera sofisticata del poeta Pasolini, mica, chessò, la robaccia di Sergio Leone. L'artigiano della cabina di montaggio aveva perfettamente introiettato gli stilemi di quel Cinema di Poesia che secondo Pasolini stava sorgendo "contemporaneamente in tutte le cinematografie mondiali" ("l'alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc.") (Il cinema di poesia, in Empirismo eretico).

Quando vidi per la prima volta il Decameron in cineteca a Bologna, approfittando del corso monografico del Dams, mi fu preventivamente spiegato che l'approccio di Pasolini era "poetico" - e già la cosa mi innervosiva, provenendo io da un altro corso di studi: perché mettere la poesia nel Decamerone, che è prosa? E l'approccio poetico, poi, consisterebbe nel fatto che i raccordi sembrano tutti sbagliati, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili, ecc. ecc? E aggiungi gli attori non professionisti sempre sul punto di mettersi a ridere. Cioè, insomma, "poetico" significa "fatto male apposta"? Probabilmente avevo la stessa età in cui Muccino cominciò a detestarlo.

I HAVE NO IDEA WHAT I'M
Però a leggere più attentamente il saggio di cui sopra, non è che Pasolini rivendichi il "cinema di poesia" per sé. Lo isola nei film di un gruppo di cineasti della sua generazione (Antonioni, Bertolucci, Godard), e ne propone immediatamente una spiegazione politica: "la formazione di una traduzione di "lingua della poesia del cinema" si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo". Pasolini stava assistendo alla nascita del moderno cinema d'autore - e non ne sembrava poi così entusiasta. Lui forse puntava in altre direzioni. E però i film vanno quasi mai nella direzione del proprio regista: specie se i cabina di montaggio c'è un praticone che ha deciso che il ritmo è lento, perché il tuo è un film d'artista e al tuo pubblico piacerà di più così.

Muccino è convinto che Pasolini abbia inferto un colpo mortale alla cultura cinematografica italiana - dopo di lui qualsiasi inetto avrebbe deciso che bastava munirsi di cinepresa e montare spezzoni a caso per fare cinema poetico ("improvvisati registi che non sapevano come comunicare col pubblico"). È andata così? Da qua non sembra. Sotto l'ombra del monumento che gli è cresciuto addosso in questi anni, sfugge forse quanto Pasolini fosse organico all'industria cinematografica che Muccino rimpiange - ricordiamo: comincia a lavorare con Fellini, esordisce con Bertolucci, all'inizio non ha ben chiaro che lenti montare ma si circonda di maestranze di primissimo livello: realizza film non convenzionali ma nemmeno assimilabili a quelli autoriali di Antonioni o Godard; film che fanno discutere, ottengono premi e - particolare cruciale - a volte riempiono le sale.

A Muccino forse manca un dettaglio: la trilogia della vita fu un successo al botteghino. Successo che imbarazzava Pasolini per primo, e che lo portò nel suo ultimo anno di vita a una tragica abiura. Oggi lo ricordiamo come un grande intellettuale fuori dagli schemi e dalle mode, ma l'effetto immediato del successo del Decameron fu precisamente la nascita di un vero e proprio filone, il cosiddetto decamerotico. Sono fenomeni difficili da indovinare oggi. che andiamo al cinema molto meno: nel giro di pochi mesi c'era già un Decameron II apocrifo in circolazione; quando l'anno successivo uscì I racconti di Canterbury, gli artigiani della pasolini-exploitation avevano già provveduto a confezionare Gli altri racconti di Canterbury, che arrivò nelle sale in contemporanea. Secondo Muccino senza Pasolini non avremmo avuto Nanni Moretti; mi sembra molto discutibile, invece è abbastanza pacifico che senza Pasolini non avremmo mai avuto Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda.  Persino l'abiura totale di Salò, così disperata e senza compromessi... Persino Salò diede vita a una rapida vague di film di serie B a base di nazisti sadici.

Tornando al Decameron: è il film di Pasolini con cui ho più familiarità, per via della mia abitudine a proiettare in classe (con un certo sprezzo del pericolo) la novella di Andreuccio di Perugia. Non è che abbia fatto pace con gli attacchi irritanti e le immobilità interminabili, ma per mostrare uno scorcio di medioevo urbano non saprei trovare di meglio. È anche utile per fissare nella memoria le condizioni igieniche nel tempo - Ninetto Davoli che sprofonda nella merda è il miglior antidoto a qualsiasi visione fiabesca del medioevo. Ma soprattutto c'è qualcosa di arcaico, di irriconciliabile con la modernità, che è poi la sensazione che vorrei suscitare quando insegno storia.

Quando la primavera scorsa è uscito Il racconto dei racconti, sono entrato in sala con molte speranze. Basile è un altro autore che bisognerebbe affrontare alle medie - altrimenti quando? Per qualche minuto ci ho creduto davvero. Più o meno finché gli attori hanno aperto la bocca, dichiarandosi per quel che sono: attori di una fiaba in costume. Molto professionali, per carità.

In quel momento mi è venuta nostalgia di Pasolini, e di quei non-attori sempre sul punto di mettersi a ridere.
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Perché stanno tutti ridendo, Mr Bogdanovich?

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Noccioline agli scoiattoli! 
Tutto può accadere a Broadway (She's Funny That Way, Peter Bogdanovich, 2015).

Hai presente i vecchi amici, quelli con cui ti faresti volentieri una risata, ma ormai li vedi solo ai matrimoni e ai funerali; e ultimamente non si sposa più nessuno che conosci. Così quella risata finite per farvela fuori dai cancelli del cimitero, mentre la gente esce alla spicciolata coi fazzoletti stropicciati già riposti nelle tasche. Come stai? Da quanto tempo. Ma ti ricordi di quella volta. I ricordi si addensano in aneddoti, gli aneddoti scadono in barzellette. Chi vi passa vicino resta un po' perplesso: non è soltanto il fatto che stiate ridacchiando ai margini di un camposanto; è che niente di quello che raccontate è davvero così spassoso. I soliti equivoci, le solite figuracce, canovacci unti e bisunti, a chi volete raccontarla? Non vi state divertendo. I denti vi battono dal freddo, dall'angoscia, dalla paura.

Io invece per il giorno dei morti volevo andare al cinema a vedere qualcosa di davvero divertente. Mi avevano parlato bene di Tutto può succedere a Broadway. La premessa sembrava irresistibile - Wes Anderson e Noah Baumbach che decidono di produrre il film di un grande regista a cui devono tantissimo, Peter Bogdanovich, e quest'ultimo che sceglie di girare un film assolutamente inattuale, una screwball comedy, una pochade, una di quelle commedie di una volta dove tutti sono su di giri e si incontrano assurdamente tutti nel posto sbagliato - ristoranti, corridoi d'albergo, qui pro quo a non finire e un lieto fine con tanto amore per tutti. Ero andato al cinema per questo.

They laughed at me wanting you, said I was reaching for the moon
E mi sono ritrovato alle soglie di un cimitero, alla fine di un servizio funebre. Un capannello di signori raccontava vecchie storie tentando di ridacchiare. Ma era tutto freddo e implausibile. Non capivo. Owen Wilson interpreta un regista di teatro con un debole per le escort - però romantico. Le porta fuori a cena a Manhattan, a pochi isolati dal suo luogo di lavoro, il che ovviamente causerà divertenti complicazioni. Anche in carrozza a Central Park. Ed è un tenero amante e appassionato; e dopo una notte elargisce 30.000 $ alla fanciulla che prometta di cambiar mestiere. È una cosa che gli succede spesso. Si vede che è ricchissimo. D'altronde è una commedia brillante d'altri tempi, è normale che siano tutti su di giri, no? Che le premesse siano un po' implausibili. Già.

Ma allora cos'è questo freddo che sento. Imogen Poots è l'ultima ragazza salvata dal regista pigmalione, ed è ovviamente adorabile. Lei sogna di recitare, e indovinate chi incontrerà al provino. Attenzione però: un suo cliente ossessionato - un anziano giudice! - la sta facendo pedinare da un detective altrettanto anziano, che è anche l'autore della commedia che il regista sta realizzando. Tutto qui? No: il giudice e Imogen Poots sono in cura presso la stessa analista, Jennifer Aniston - che è fidanzata con l'autore della commedia. Divertente, no? Immagina - che so - che il giudice inviti a cena l'analista ma che al ristorante si imbattano nell'autore che ha invitato Imogen Poots e nel regista che è uscito con sua moglie. Che scena ne verrebbe fuori, eh?

E allora perché non sto ridendo?

Continua su +eventi!

Ok, sono le solite buone vecchie cose che faceva pure Vanzina (aggiungendo le puzzette): gente che urla Cielo mia moglie e nasconde l'amante nel box doccia. Siccome poi siamo nel 2015 l'amante è semplicemente una escort - ma è comunque tutto studiato nei minimi dettagli per funzionare, da gente che il suo mestiere lo conosce alla perfezione; e invece non funziona. Cominciavo a pensare che fosse colpa mia. Poi è saltato fuori l'unicorno.

Senza un apparente motivo, a un certo punto l'autore della commedia mostra a Imogen Poots il quadro di un unicorno e gli spiega che era un simbolo della purezza femminile, che nei tempi antichi bla bla la spiritualità e l'erotismo non erano ancora separati - scusate, non stavo più ascoltando. Pensavo all'unicorno. Bogdanovich. Unicorni. La purezza femminile. Da qualche parte in testa mi si è aperta una porticina. A casa ho controllato su Wiki - e mi si è scoperchiato un mondo. She's Funny That Way non è l'innocua screwball comedy che segna il ritorno del grande regista dietro la macchina da presa - o meglio, She's Funny è l'innocua screwball che il grande regista ha scritto dieci anni fa con la sua allora moglie, Louise Stratten - mentre cercavano fondi per ricomprare (per la seconda volta?) i diritti del film che Bogdanovich considera il suo capolavoro, They All Laughed.

They All Laughed, che effettivamente è un bizzarro gioiellino (uno dei film preferiti di Tarantino!) girato alla garibaldina per le strade di New York con Audrey Hepburn e Ben Gazzara, è anche il film sul cui set Bogdanovich si innamorò della sorella di Louise, Dorothy Stratten, playmate dell'anno 1980. Non solo, ma la convinse a lasciare il marito, quel ragazzo possessivo che le aveva scattato le prime polaroid e le aveva spedite a Hugh Hefner; che la faceva pedinare da un detective privato (proprio sul set di un film di detective privati); che alla fine riuscì a convincerla a incontrarlo per un'ultima volta nella loro casa, e in quell'occasione ne abusò, la uccise e si suicidò. Louise era ancora una bambina - Bogdanovich le finanziò gli studi. Su Dorothy hanno girato due film, uno è Star 80 di Bob Fosse. Bogdanovich invece ci scrisse un libro,L'assassinio dell'unicorno, che fece venire un colpo a Hefner (non in senso figurato) tanto gravi erano le accuse che conteneva. Nello stesso periodo il regista dichiarava bancarotta: la decisione di comprare i diritti di They All Laughed e distribuirlo nelle sale con un'etichetta indipendente gli aveva fatto perdere più di quattro milioni di dollari. C'è altro? Lo spunto iniziale che sembrava così implausibile - un regista che va in giro riscattando prostitute - è ispirato alla lavorazione dell'altro film maledetto di Bogdanovich, Saint Jack, ambientato tra i bordelli di Singapore.
 
She's Funny That Way è insomma il film apparentemente spensierato in cui un anziano regista decide di scoperchiare i suoi fantasmi. Il risultato è più macabro che divertente: come di una risata protratta a lungo, senza motivo, ai cancelli di un camposanto.
Lo trovate all'Aurora di Savigliano alle 21:15.
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Un articolo disgustoso (ma non abbastanza)

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Il caso è molto piccolo, ma potrebbe tornare utile a chiunque: l'estate scorsa, mentre qui ci divertivamo con procioni e Copernico, qualcuno pensava bene di segnalare alcuni miei articoli disgustosi all'Ordine dei Giornalisti, il quale non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.

Così ha aperto un procedimento a carico di Luca Sofri.
Violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica.

Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).





Postilla inutile: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L'ho cancellato - mi sembrava un po' troppo personale - e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.
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La fabbrica dei sogni che non crede ai sogni (ma crede alle fabbriche)

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"Sveglia ragazzi..."
"Ragazzi a chi? Ma come ti permetti?"
"È già lunedì!"
"Fantastico!"
"Peccato, un altra settimana se n'è andata".
"...e non abbiamo ancora visto un film per la provincia di Cuneo!"
"Evviva! Dobbiamo vedere un film!"
"No! È tardi! Non faremo più in tempo!"
"Sta' buono, Paura..."
"Penseranno che siamo inaffidabili! Ci toglieranno un contratto! Dovremo trovarci un lavoro!"
"Ce l'abbiamo già!"
Ed è bellissimo... ma perché non siamo andati a vedere un film, alla fine? Adoro guardare i film".
"È colpa di Paura".
"Che ha combinato?"
"Il solo pensiero di vedere The Walk lo ha gettato nel panico".
"Povero Paura, un po' lo capisco".
"Ma che povero e povero... è un maledetto imbranato che ci toglie ogni occasione di divertimento".
"Ha parlato l'anima di tutte le feste, ha parlato".
"Che cazzo vuoi? Io ci so stare in società".
"Legato. Ti leghiamo ogni volta che ci andiamo, in società".
"Che bel siparietto! Siete troppo forti! Sentite, ho un'idea. Recensiamo Inside Out".
"Ma sei scema?"
"Sono Gioia".
"Appunto. Hai notato che Inside Out è uscito un mese fa?"
"E allora?"
"Penseranno che non siamo più andati al cinema! 
"Che siamo malati! Ci eviteranno come gli scabbiosi!"
"Paura, calmati, perdio".
"E chissà se non hanno ragione... non lo sentite anche voi il prurito?"
"Sì, è la voglia di mollarti due ceffoni".
"Quindi è deciso. Si recensisce Inside Out".
"Ma chi ha deciso che decidi tutto tu?"
"Non ci sono solo io. C'è anche Tristezza. A Tristezza è piaciuto tanto, vero?"
"..."
"Dai Tristezza, coraggio. A noi puoi dircelo".
"...sì, mi è piaaaaciuUUUUAAAAH È COSI' TRISTE! NON TORNERA' MAI PIU' IN MINNESOTA! MAI PIU'".
"Tristezza, nessun prepubere sano di mente ha mai voluto tornare in Minnesota".
"Snif".
"Vedete? A Tristezza è piaciuto, a me è piaciuto, e al Cinelandia lo programmano ancora. Siamo la maggioranza".
"Due su cinque non è la maggioranza".
"Lo è..."
"Nel mondo di Matteo Renzi, forse..."
"Anche in questo cervello, se voi tre non vi mettete d'accordo. E voi tre non vi metterete mai d'accordo".
"L'avete sentita?"
"Un po' ha ragione, Rabbia... voglio dire, di base io e te nemmeno ci parliamo".
"Renziani. Dappertutto. Anche in questo cervello di demente. Va bene, fate quel cazzo che vi pare".

Inside Out (Pete Docter, 2015)

La Pixar nel decennio scorso ci ha viziato. Soprattutto in quei tre anni in cui ci elargì, senza sforzo apparente, Ratatouille, Wall-E e Up. Tre film che non assomigliavano a nessun cartone animato già visto; che si prendevano rischi enormi e hanno lasciato segni nella storia del cinema non solo d'animazione. Inside Out ha le sue radici proprio in quel triennio d'oro: se ci ha messo ben sei anni ad arrivare in sala non è per una sola questione di perfezionismo, di progettazione, di rendering 3-D. Successe la stessa cosa con Ratatouille: ai film della Pixar capita di bloccarsi per anni nella fase di scrittura. L'idea era buona, anche se non originalissima - ma imbastirci sopra una storia ha richiesto quattro anni, sette canovacci diversi. E una passeggiata domenicale in cui il già acclamato regista di Monsters & Co. e Up, disperato, mentre meditava sul suo fallimento artistico e sulle dimissioni che avrebbe dovuto rassegnare, scoprì quasi per caso il vero protagonista del film. Quella notte al telefono tirò giù dal letto i suoi collaboratori: abbiamo sbagliato tutto, accanto a Gioia non c'è Paura. Quella al massimo è una spalla comica. Ma il segreto motore di tutto è Tristezza. Certo. Perché non lo abbiamo capito prima? Avevamo paura di far piangere il pubblico? Ma siamo la Pixar, siamo quelli di Up e Toy Story 3, si può dire che ormai la gente viene in sala apposta (continua su +eventi!)

Questa recensione è talmente tardiva che arriva dopo quella di Goffredo Fofi, ingiusta ai limiti della paranoia: là dove se c'è una fabbrica di sogni che non si omologa ai discorsi imperanti è proprio la Pixar. Certo, lo fa all'interno di una logica industriale, non come piccola etichetta indipendente. Eppure continua, a dispetto di ogni logica - dopo l'acquisizione della Disney si è persino radicalizzata. La Pixar non ci piace per i pupazzetti, quelli ormai li sanno fare in tanti e in certi casi sono assolutamente competitivi. La Pixar ci conquista ogni volta perché è l'unica che ha una sua ideologia, chiara e quasi immediatamente riconoscibile. Ed è un'ideologia che va in direzione ostinatamente contraria a tutti gli altri, che si ostinano a immaginare e disegnare eroi fragili che hanno un sogno e con tanta dedizione lo realizzano. La Pixar in questa cosa non ci ha mai creduto, sin dai tempi dello struggente monociclo rosso: i sogni ti illudono. Un mostro buffo non può diventare spaventoso, un topo non diventerà uno chef stellato. Inoltre l'infanzia non è per sempre, i sogni della giovinezza sbiadiscono e continuare a coltivarli non è sempre ragionevole. La Pixar continua a dirci tutto questo, occupando porzioni di multisala dove tutti, americani o no, continuano a gridarci il contrario. La Pixar produce sogni senza credere troppo ai sogni; è un'azienda di successo che nel successo ci crede fino a un certo punto.

L'unica cosa in cui crede la Pixar - e ce lo urla forte in ogni film - è il lavoro di squadra. Inside Out ha pecche e pregi, ma è pixariano al 100% nel suo dipingere il cervello umano come un luogo di lavoro dove nessuno (nessuno!) ha il quadro completo, e tutti hanno una maledetta importanza, un ruolo a cui non possono rinunciare. Persino l'incubo infantile incatenato nel subconscio, o l'elefante peloso che quella bambina ha già dimenticato. Che siano fantasmi della mente, membri di un racing team, di una famiglia di supereroi o di una confraternita di mostri sfigati, l'unica via per la Pixar è sempre e solo quella: collaborare.

Questo inno alla collaborazione che ci arriva dall'azienda di animazione digitale più avanzata del Paese più individualista del mondo, io se fossi in Fofi lo ascolterei con più attenzione. La Pixar è uno degli artisti collettivi più interessanti in circolazione - lo è anche se in cinque anni ha concesso solo repliche non sempre ispirate. Basta che ogni tanto azzecchi una storia nuova, e a volte ci vogliono anni. Ma ne vale sempre la pena.

(...nel frattempo Inside Out è uscito dalle sale di Cuneo e provincia. Forse torna nel week-end. Se non l'avete ancora visto, portatevi i fazzoletti).
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Assolto per non aver commesso un fatto interessante

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Se Erri De Luca non va in galera, siamo tutti contenti. Se lui nel frattempo si richiama a Mandela e Gandhi, non si può fare a meno di notare che loro in prigione ci hanno passato degli anni, proprio perché incitavano alla rivolta contro regimi repressivi.

Se De Luca sostiene che l’Italia odierna sia un regime analogo; che il potere asservito al profitto rubi la terra e l’acqua agli abitanti; e che sia giusto pertanto ribellarsi e sabotare... se la pensa così, potrebbe persino aver ragione, ma a questo punto in galera dovrebbe volerci andare volentieri proprio proprio come ci entrava Gandhi; il quale mai si sarebbe spinto a cavillare, come l’avvocato di De Luca, sull’accezione più o meno estesa del termine "sabotare". Perché insomma, questo Stato repressivo che condanna uno scrittore per le sue opinioni, in Italia almeno da questa sentenza non risulta. De Luca ha fatto bene a difendersi, ed è comprensibile che festeggi: ma in cuor suo dovrebbe essere deluso.

Io invece sono perplesso. Sabotare un cantiere è un reato? Pare di sì. Incitare a commettere un reato non è istigazione a delinquere? Non in questo caso. Quando usciranno le motivazioni della sentenza, le leggerò. Per ora l'unica ipotesi che mi viene in mente è quella triste del buon senso; il giudice potrebbe aver concluso che nessuno al giorno d'oggi si arma di martelli e tronchesi per aver letto un testo di Erri De Luca. Più che l'innocenza di uno scrittore, la sentenza ratificherebbe lo scarso credito della sua professione, la letteratura.
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Io renziano mio malgrado (prima parte)

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I sondaggi non ci hanno preso mai. Mai. A questo punto è proprio un'evidenza statistica: se analizziamo un campione di sondaggi effettuati in Italia negli ultimi 20 anni dalle più autorevoli agenzie demoscopiche, possiamo concludere che... ops, paradosso. 

I sondaggi in Italia funzionano peggio che altrove, come le previsioni del tempo. Forse abbiamo statistici e meteorologi scarsi, o forse è colpa di un microclima, di un microambiente che funziona in modo tutto suo e se ne fotte dei Big Data. Ha forse a che vedere col modo in cui concepiamo la politica in Italia, col modo in cui andiamo a votare. Più che una compromissoria scelta tra candidati in grado di rappresentarci, si tratta di una cerimonia in cui si esprime e consacra un'identità (e dire che il luogo non si presterebbe affatto, insomma, è una piccola cabina con la tenda tirata e non puoi nemmeno farti un selfie; ma siamo cattolici, secoli fa per condividere in modo efficiente i cazzi nostri abbiamo inventato il confessionale, sempre lì torniamo). 

I sondaggisti questa cosa non la capiscono. Continuano a chiedere alla gente: per chi voterai? La gente capisce: chi sei? Cosa desideri? Cosa detesti? In cosa credi? Che musica ti piace? Ti va di uscire? Ci piace sentirci corteggiati. Il sondaggista ha bussato alla nostra cameretta: è un semplice ricercatore in cerca di dati crudi, per lui potremmo essere aironi nella stagione dell'amore invece che homo sapiens che esercitano diritto di voto. Ma noi siamo inguaribili romantici: se ha bussato, è perché sotto sotto gli interessiamo davvero. Non per le crocette che mettiamo sulla scheda; per i nostri mondi interiori che non vediamo l'ora di scoperchiargli. 

Se lui mi chiede: voterai Renzi? io so cosa vuole da me. Vuole il romanzo della mia vita, per fortuna ne ho uno avvincentissimo. Chi mi legge un po' sa come io abbia cominciato a detestare Renzi dalla prima sosta alla stazione Leopolda, e abbia perso tutti i treni che sono passati in seguito. Quindi, no, ma stai scherzando, come posso votare Renzi? Ok, una volta è pur successo... ma mai più. Ha fatto strame della Costituzione, introducendo tra le righe un premierato forte e offrendolo al primo che si piglia il 40% in una competizione elettorale. Ha calpestato la dignità della mia professione. Ha trasformato il mio partito in una corte di lacchè patetici, umiliando le opposizioni. Ci ha promesso uno ius soli che strada facendo è diventato ius-se-prendi-la-quinta-elementare, ci ha garantito le unioni civili ma nessuno ha ancora visto il cammello; e intanto ha regalato agli evasori il diritto a tenere in tasca mazzette da tremila €, eccetera eccetera eccetera, mi annoio io per primo. Perciò no, caro sondaggista, come puoi anche solo pensare che io possa votare per Renzi? Ma ti ringrazio per avermelo chiesto: così posso ribadire con fermezza la mia più decisa opposizione a Renzi e a tutto quello che ha fatto fin qua.

Intermezzo: se leggete qui forse conoscete anche Alessandro Gilioli. È un giornalista dell'Espresso fieramente antiberlusconiano e antirenziano, ma anche molto critico nei confronti dei grillini, e dell'idea di sinistra incarnata da Sel - ma anche della lista Tsipras, e di Rifondazione, e di Civati, e di sé stesso. Gilioli, una delle poche voci in Rete di cui mi sentirei di affermare che è meno renziano di me, qualche giorno fa ha pubblicato su twitter e facebook il seguente messaggio:


Si tratta di un coming out coraggioso, che allo stesso tempo svela la dinamica perversa dell'Italicum: il motivo per cui andava combattuto con tutte le nostre forze, purtroppo esigue. Un sistema che non premia la capacità di ottenere una mediazione, di trovare una sintesi tra le aspirazioni di diverse parti sociali, ma fa affidamento sull'inaffidabilità degli oppositori. Renzi in fondo potrebbe anche smettere di lavarsi, tanto i suoi contendenti hanno la rogna. Così alla fine potrebbe succedere questo: quando nel segreto dell'urna mi troverò davvero, e non si tratterà di esprimere la nobiltà del mio animo, di sfoggiare l'inossidabilità della mia coerenza; quando mi troverò a scegliere tra l'antipatico Renzi e qualche mostro vagamente antropomorfo, io alla fine penserò all'igiene e voterò per il primo. Andrà così?

Chi lo sa.

Dipende anche da quanto sarà antropomorfo il mostro (Di Maio? La Meloni? Che generazione di merda... ah è la mia). 

Inoltre, come sempre, il discorso è più complesso (continua...)
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(Sprofonderemo saturi) Suburra

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Suburra (Stefano Sollima, 2015).

Certe serate
È stato quattro anni fa, noi chissà dove eravamo. Più facilmente in coda a un semaforo, e intanto tutto intorno a noi stava finendo. Sotto la pioggia il parlamento stava per sciogliersi, Berlusconi scappava dalla porta di servizio, il Papa meditava di abdicare, e per qualche giorno Roma non è più stata di nessuno. In quel momento magico avrebbe potuto spuntare qualsiasi cosa: anche una Las Vegas tra le baracche di Ostia. Quattro anni dopo eccoci qui, a domandarci cos'è cambiato. Al cinema però c'è un buon film italiano, ecco, questa è una relativa novità. Da cosa si riconosce che è un buon film?

Sicuramente non dalla fotografia.

Certe cerette 
Che è smagliante e impeccabile, ma appunto, è quello che potremmo dire per qualsiasi film italiano degli ultimi cinque anni. Soggetti fritti e rifritti, dialoghi inverosimili, musiche pretenziose e ingombranti, fantastica fotografia. Una maledizione. Persino il Ragazzo Inguardabile aveva delle inquadrature memorabili. Sprofonderemo saturi e patinatissimi. Suburra forse è un buon film perché all'ottima fotografia dopo un po' non fai più caso. C'è altra carne sul fuoco, e attenzione, non è tutta roba necessariamente nuova o di buona qualità. Ma funziona.

Forse è un buon film proprio per l'arroganza con cui arriva per ultimo nei luoghi tra più frequentati da cinema e tv, guarda tutti a grugno duro e fa capire che non pagherà nessun debito, anzi: tocca agli altri alzarsi e fargli spazio. Ci saranno feste danzanti e fogge cardinalizie - ma non ci sarà tempo per pensare alla Grande Bellezza. La folla circonderà Palazzo Chigi senza nessun riferimento al Divo o al Caimano. Se entri aspettandoti Gomorra - il film o la serie - dopo un po' ti accorgi che non ci stai pensando più. Anche Romanzo Criminale è in qualche modo lontano (continua su +eventi!)

Eppure Sollima è esattamente lui, continua ad appoggiarsi su quei tappeti sonori asfissianti - quelle basi elettroniche o postrock che negli episodi di Gomorra ti danno il minutaggio preciso, quando parte la chitarra o il tastierone è come se l'hostess ti avvertisse "allacciate le cinture, tra dieci minuti è tutto finito". Al cinema può contare su facce più conosciute, ma è un vantaggio discutibile, se a Favino e a Germano è chiesto di ridurre l'espressività a quelle tre o quattro smorfie - e ad Amendola di imbalsamarsi. Così che prevedibilmente le figure più memorabili restano i comprimari, gli assassini nati Greta Scarano e Alessandro Borghi, o Adamo Dionisi nei panni firmati di un cravattaro zingaro che vorrebbe accreditarsi come boss ma non riesce a far silenzio nemmeno in quel soggiorno che è la migliore invenzione del film, e lo racchiude: Roma come un open space in cui i bambini giocano a palla coi cani mentre i mafiosi torturano i sequestrati, a un divano di distanza.
Sollima si può persino permettere - come già in Gomorra - il lusso dell'anticlimax nelle scene d'azione, inquadrate con un realismo che castra ogni tentazione epica. Nella città di Suburra ci si ammazza solo alle spalle, e non c'è un gangster che non faccia almeno un numero da fesso. Il più furbo di tutti gira senza scorta, provando a dare un senso a tutto il caos. Ma le variabili sono troppe e sono tutte impazzite. Suburra non è quella riflessione sulla decadenza dei costumi che qualcuno cerca di vendervi - il suo pessimismo è quello dei noir d'ordinanza - ma non è nemmeno un semplice film di genere. Non sarà un capolavoro, ma quest'anno è uno dei migliori film che ho visto in sala - non solo tra gli italiani. Questa settimana è al Citiplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, all'Impero di Bra, al Fiamma di Cuneo, all'Italia di Saluzzo e al Cinecittà di Savigliano.
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Dovevate lasciarlo su Marte (ovvero: e se The Martian fosse il prequel di Interstellar?)

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Qualche anno più tardi, quando sulla Terra le piante cominciarono a morire devastate dalla Piaga, e la NASA scoprì un wormhole al largo di Saturno, l'ex Marziano fu tra i fautori delle missioni Lazarus: l'umanità avrebbe potuto trovare una patria in una nuova galassia. Il Dottore fu tra i primi a partire in esplorazione...

Interstellar
Avevamo lasciato Matt Damon in un casco d'astronauta, mentre rischiava di estinguere l'umanità per tornare a casa. Lo ritroviamo in un casco non molto diverso, mentre le prova tutte per salvarsi. Cosa fai quando per errore ti lasciano solo su Marte? Ti lasci morire di sete o esplodi mentre provi a produrre acqua dalla combustione dell'idrogeno? Muori di fame o concimi un orto di patate con la tua stessa merda? Ti rassegni al freddo dell'universo o ti adegui a scaldarti con le scorie radioattive? Fai testamento o implori via radio che spendano l'equivalente di diversi prodotti interni lordi nazionali per venirti a riprendere?

Mark Watney sembra non avere dubbi. Lui ha il diritto di vivere, Marte non collabora ma dovrà adeguarsi. Nel suo diario di nove mesi non c'è spazio per la disperazione, né per la manifestazione di un minimo dubbio esistenziale: ma valgo davvero la pena? Cos'è alla fine la mia vita, perché i colleghi ne rischino molte di più per salvarmi? Perché la NASA sconvolga il suo programma spaziale, e la Cina rinunci ai suoi segreti scientifico-militari? Sul serio sono così importante? Così insostituibile?

(continua su +eventi, sì! la rubrica cinematografica più ignorante della provincia di Cuneo è tornata!)

Se solo Interstellar fosse arrivato dopo The Martian – se il progetto avesse languito per qualche mese in più sulla scrivania di Spielberg prima di finire nelle mani di Nolan – forse oggi avremmo un elemento in più per amarlo: potremmo immaginarcelo come un sequel del film marziano di Ridley Scott, in cui Mark Watney si ritrova di nuovo solo, stavolta in una galassia perduta – e stavolta sbrocca davvero. La stessa ostinazione a vivere che lo ha portato a scaldarsi con gli isotopi del plutonio e mescolare la merda dei compagni, e a farsi saltare in aria su un razzo decappottato – non è la stessa forza cieca che nell’altro film lo spingerà a truffare i compagni, e l’umanità, per un banale istinto di sopravvivenza? Dopodiché, d’accordo, The Martian è un film più compatto e sicuro del film di Nolan – nonché scientificamente inappuntabile – però dopo due ore di umani che collaborano, che non si fanno mai prendere dalla disperazione, che prendono continuamente decisioni all’unanimità, e sono sempre le decisioni giuste – dopo due ore del genere, vien voglia davvero di rivalutare gli astronauti di Nolan che invece fanno errori su errori per rimediare ad altri errori: astronauti che litigano, che non vanno d’accordo, che nelle proprie equazioni non riescono a eliminare pulsioni come l’amore o il senso di colpa. Astronauti più simili a quelli quasi veri di The Right Stuff di Kaufman: superuomini non immuni da sentimenti come l’invidia o il panico.

Certo, se un giorno andremo davvero su Marte, ci farà molto comodo poter contare su uomini come Mark Watney: dei Fonzie interplanetari che trovano sempre una via di uscita e non se la prendono mai. Ma dovremo essere anche pronti a sacrificarli – ed e qui che The Martian svela la sua debolezza: è la ricostruzione molto realistica di uno scenario inverosimile. Un astronauta perso, è perso. Nello spazio ogni risorsa è incredibilmente preziosa, e la tua lotta per la sopravvivenza, per quanto eroica, non può costare milioni di dollari ai contribuenti. Al cinema, beh, al cinema è diverso.

The Martian (in italiano Sopravvissuto) è al Cityplex di Alba (20:45), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (in 2D alle 20:30 e alle 22:35; in 3D alle 21); ai Portici di Fossano (in 2D alle 18:30 e alle 21:15); al Cinecittà di Savigliano (in 2D alle 21:30); all’Impero di Bra (in 3D alle 22).

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