Ratzinger a Ratisbona (non ha detto quel che pensi tu)

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Ognuno ha la sua ricetta, il suo rimedio al terrorismo, e Mario Adinolfi l'altra sera a Ballarò ha avuto la bontà di spiegarci il suo: bisogna tornare a Ratzinger, e non a un qualsiasi Ratzinger col cappellone rosso e le scarpine simil-Prada. Bisogna tornare al Ratzinger tosto, quello di Ratisbona.
La questione che pone Ratzinger nel discorso di Ratisbona dieci anni fa è una questione centrale. Dice Ratzinger all'Islam fondamentalmente: dovete fare i conti con la ragione così come ce li ha fatti il cristianesimo. Il cristianesimo è passato attraverso quella temperie: è stato in grado di fare i conti, e fare i conti  con la Ragione e fare i conti con la Ragione non vuol dire abbassare le ragioni della fede. Vuol dire stare insieme: fides et ratio. L'Islam ha degli elementi in cui questo passaggio diventa complesso. 
Si deduce da queste poche parole che Mario Adinolfi non ha mai letto la Lectio. (O non l'ha capita, o fa finta: decidete voi cos'è peggio). Per pensare che Ratzinger a Ratisbona abbia "detto all'Islam" "dovete fare i conti con la ragione così come ce li ha fatti il cristianesimo", Adinolfi non deve solo aver frainteso un discorso di otto pagine in cui Ratzinger non si rivolgeva mai a nessuna autorità islamica, a nessun credente musulmano. Bisogna anche far finta di non aver letto le successive puntualizzazioni con cui il Vaticano rispose al putiferio di reazioni (anche violente), che ne seguirono. Bisogna per esempio aver dimenticato:

  • la dichiarazione del segretario di Stato Bertone che appena quattro giorni dopo, citando un documento conciliare, ricordava che "La Chiesa guarda con stima i musulmani, che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini"; 

Quanto al giudizio dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, da Lui riportato nel discorso di Regensburg, il Santo Padre non ha inteso né intende assolutamente farlo proprio, ma lo ha soltanto utilizzato come occasione per svolgere, in un contesto accademico e secondo quanto risulta da una completa e attenta lettura del testo, alcune riflessioni sul tema del rapporto tra religione e violenza in genere e concludere con un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza, da qualunque parte essa provenga. (Il grassetto è nel testo).

  • le scuse e le precisazioni che lo stesso Ratzinger pronunciò appena ebbe tempo di affacciarsi alla finestra: "desidero solo aggiungere che sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Regensburg, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale" (Castel Gandolfo, 17 settembre 2006). 

Insomma Ratzinger fu il primo ad ammettere che a Ratisbona (Regensburg) aveva commesso una gaffe. Prima di ogni altra cosa, la Lectio fu un disastro di comunicazione che pesò come un macigno sul magistero del papa teologo. Quando persino il presidente iraniano Ahmadinejad si scomoda per difenderti e per spiegare che sei stato mal compreso, ecco, è evidente che qualcosa non abbia funzionato. Più drastico di Ahmadinejad suonò il responsabile del dialogo con l'Islam per la Compagnia di Gesù: "Penso che utilizzando un autore mal informato e carico di pregiudizi come Manuele II Paleologo il Papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse". Ratzinger si scusò subito, e oggi al suo posto c'è un gesuita. Magari è una coincidenza.

Chi tira fuori ancora oggi Ratisbona in funzione anti-islamica, infatti, ha in mente soltanto la famigerata citazione dell'imperatore Manuele II Paleologo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava",e deve fare un notevole sforzo per ignorare tutto il resto. (Apro una parentesi: usare come campione del cristianesimo il cosiddetto imperatore Manuele è una cosa ridicola in sé. Il tizio governava un territorio non molto più grande di una signoria italiana, e almeno all'inizio del suo complicato regno era sostanzialmente un vassallo del sultano, a cui pagava regolare tributo. Addirittura a un certo punto agli ordini del sultano espugnò Filadelfia, città anatolica di fede ortodossa che formalmente si considerava ancora parte dell'impero romano d'oriente. Certo, a scuola leggiamo che l'impero bizantino finisce nel 1453, e questa idea che cinquant'anni prima un "imperatore" di Costantinopoli fosse un lacchè dei turchi ci mette un po' a passare. Poi da est arrivò Tamerlano, gli ottomani andarono a loro volta a rotoli, e la storia si fece ancora più complicata - ma in sostanza l'aggressività di Manuele nei confronti di Maometto è quella di un combattente che si è misurato con l'Islam per tutta la vita, in guerra e in pace. Chiudiamo la parentesi).
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Contro il terrore chiudiamo il Giornale

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Le quinte colonne del terrore. 

Dite che siamo in guerra, va bene. Mi domando come reagirete nel momento in cui in guerra ci andremo seriamente (ormai ci siamo). Comunque, se volete sentirvi già in guerra, se la cosa vi aiuta in un qualche modo, se vi dà una forma di speranza, non ho obiezioni.

Vorrei però che vi fosse chiaro che in guerra certi atteggiamenti non si tollerano. Seminare il panico, ad esempio, in tempo di pace può essere una fruttuosa strategia editoriale che porta qualche migliaio di clic in più e la pagnotta ai redattori. In guerra è tradimento: c'è la corte marziale.



Dite che siamo in guerra: traetene le conseguenze. Secondo me siamo in pace, e quello del Giornale è semplicemente abuso della credulità popolare, forse anche procurato allarme.

Da quando ho preso questa istantanea, il contatore di facebook ha raddoppiato: il falso allarme della madonna brasiliana sta "piacendo" a diecimila lettori. Tra questi ci saranno anziani, ci saranno adolescenti, ci saranno persone che ci ridono sopra e altre che non hanno i filtri culturali necessari a identificare la monnezza. Vogliamo dire che su diecimila persone sono riusciti a spaventarne mille? Mi sembra un buon risultato, qualcosa che l'Isis può apprezzare.

(Per par condicio, ecco il pezzo di Libero, che rettifica: la madonna di Bahia non avrebbe mai indicato il 23. Comunque anche a Libero ci tengono a puntualizzare che l'Italia trema. Siamo in guerra del resto, cagarsi addosso dev'essere una specie di imperativo morale).

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Chi vota al referendum TOGLIE GLI ASILI AI BAMBINI!!!

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  • È successo anche a Renzi, e non sorprende, di essere stato giovane, di esser stato all'opposizione, di aver promosso un referendum e di essersi lamentato perché il governo non lo accorpava con una tornata elettorale. Non c'è nulla di veramente originale, si può dire che capita ogni volta: non c'è stratega referendario che non prometta ai suoi che questa volta sarà diverso, questa volta il Quorum sarà raggiunto, perché... perché i promotori chiederanno al governo l'Election Day, l'accorpamento del referendum con un altro voto amministrativo, o europeo. Se si tratta di risparmiare tanti milioni di euro (trecento!) come farà il governo a tirarsi indietro? 

Così.
Del resto lo fa sempre.
È vero, qualche soldo si potrebbe pure risparmiare (non trecento, è un calcolo esagerato che terrebbe conto persino del costo del babysitting per chi non può arrivare al seggio col passeggino): d'altro canto, nessuna legge obbliga il governo di turno ad accorpare elezioni e referendum, e così nessuno lo fa, se non gli conviene.

  • È successo anche a Renzi, e cosa c'è poi di strano, di crescere e andare al governo, e di trovarsi di fronte a ex amici che promuovevano un referendum, e gli chiedevano di accorparlo con una tornata elettorale. Per risparmiare trecento milioni di euro! Quante scuole, quanti asili nido ci potresti costruire con trecento milioni di euro? 

E Renzi, ovviamente, ciccia.
In fondo qual è la sorpresa? Quando promuovi i referendum cerchi di tirare l'acqua al tuo mulino; quando governi, idem. Se si parla di referendum abrogativi il governo è il banco: vince quasi sempre anche perché, se non succedesse, nessuno governerebbe più; in gioco c'è la stessa democrazia parlamentare. Insomma se c'è un voltafaccia è il più normale del mondo, fa notizia se proprio non abbiamo niente di meglio. Non abbiamo niente di meglio?

  • Se poi Renzi invita agli italiani all'astensione, e usa come argomento il risparmio, ecco: questo è il punto in cui il limite della decenza viene saltato, hop! come la ragazzina salta la corda, con quel brio sgarzolino che riesce sempre a strappare anche ai più sgamati tra noi un istintivo vaffanq. Lo stesso Renzi che una volta chiedeva di risparmiare accorpando i referendum; lo stesso Renzi che una volta al governo ha rifiutato di risparmiare accorpando i referendum, adesso chiede agli italiani di non andare a votare al referendum: così risparmiamo.  

Roma, 20 mar. (LaPresse) - "Questo referendum è 'no-spreco', non 'no-Triv'. Pensate a quanti posti asilo si potrebbero fare con quei 300 milioni che costa il referendum. 
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Il cinema è un Messia

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Ave, Cesare! (Hail, Caesar!, Joel ed Ethan Coen, 2016).

Il cinema non ha futuro, non sopravviverà agli anni Cinquanta. Presto in ogni casa ci sarà un televisore e Hollywood non avrà più soldi per i suoi Pantheon di cartapesta. Sempre che non scoppi la Bomba. Sempre che i rossi non ci attacchino. Sono già dappertutto, hanno un uomo in ogni produzione, un ballerino o una comparsa o uno sceneggiatore che inietta comunismo subliminale nei copioni. Il cinema sta per affondare, con Eddie Mannix saldo al timone. Questa settimana deve trovare un marito alla ninfetta incinta, trasformare un cowboy in un damerino, liberare un centurione e convincere l'allenatore di suo figlio a farlo giocare interbase. Ah, e smettere di fumare. Non sarebbe tanto più semplice cambiare mestiere, lavorare per la Bomba?

E se i fratelli Coen odiassero il cinema? Se l'è chiesto un critico sul Wall Street Journal. Il loro omaggio a una presunta età dell'oro è demistificante e anche un po' gelido. L'idea di rifare i vecchi film sottolineando i temi che ai tempi dovevano passare sotto silenzio (l'omosessualità su tutti), non è più così nuova: altri ci hanno provato con più sensibilità (Haynes) o più filologia (Soderbergh). Mentre i Coen, si sa: per loro niente ha mai senso, figurati se ne possono trovarne uno nel technicolor. È più facile prenderli sul serio quando danno per primi l'impressione di voler essere seri, e affondano i loro personaggi in qualche bruma esistenziale. La giornata di Eddie Mannix è una serie di eventi assurdi esattamente come quella di Llewyn Davis, ma nelle traversie del secondo intuivamo una profondità, forse l'accanirsi di un oscuro disegno divino. Stavolta, invece... (Continua su +eventi!)

Stavolta invece abbiamo un film apparentemente buffo, con una voce fuori campo impostata in un modo ridicolo, che sembra costruito a furia di suggestioni: perché non facciamo emergere un sottomarino, così, giusto perché sarebbe una scena fichissima? Cosa c'è di meglio della Swinton che fa la giornalista di gossip? La Swinton che fa due giornaliste di gossip. Perché non chiamiamo la Johansson e le diamo uno di quei numeri da sirenetta sincronizzata? Perché non chiamiamo Tatum e gli facciamo fare una di quelle coreografie da marinai, però più gay? E a proposito di cripto-omosessualità: perché non ci scherziamo un po' su con George Clooney? Ecco, forse una delle cose notevoli è il modo in cui ancora una volta i Coen giocano a demolire la figura pubblica di quest'ultimo, il suo fascino di progressista engagé: e come Clooney si presti al gioco fino a pigliarsi i ceffoni. Sembra impossibile apparire profondi con un materiale del genere, eppure.

Eppure resta il dubbio: se questo mosaico di cameo e di sketch - metti tre preti e un rabbino a parlare di cinema, una barzelletta - fosse davvero quello che sostiene di essere all'inizio, cioè un Racconto del Cristo? (A Tale of the Christ era anche il sottotitolo del primo Ben Hur). Se Mannix non fosse che l'uomo giusto, tormentato dagli eventi, che per tutto il film cerca il volto del Messia e alla fine in qualche modo ritrova la sua, come si dice, fede? Se quegli schiaffi a George Clooney non fossero soltanto liberatori, ma un Vade Retro Satana, perché non pensi come Dio ma come gli uomini? Allora potremmo rispondere che sì, i Coen odiano il cinema, almeno certe mattine: come capita a tutti di odiare il lavoro che pure ci siamo scelti. Come si odia il proprio destino, quando capisci che non puoi più scappare: è un circo senza senso, ma è il nostro circo: sempre meglio di lavorare per la Bomba. Ave, Cesare! è al Citiplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (18:15, 22:20); al Multilanghe di Dogliani (18:35); al Baretti di Mondovì (18:00, 21:00); al Politeama di Saluzzo (18:00, 21:30); al Cinecittà di Savigliano (22:30).


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Senza Pannella (avremmo fatto schifo lo stesso?)

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Quando si tratta di parlare di Pannella - e di tenersi possibilmente il peggio per sé - sarei tentato di buttarla sul generazionale, ovvero: sarà anche stato un grande, ma io purtroppo sono arrivato tardi e mi sono beccato gli avanzi. Dite che è stato un grande attivista, un maestro per tutti, e volentieri ci credo (anche se tutti questi grandi discepoli in giro non li vedo, anzi, vedo personaggi spesso orribili e tipicamente trasformisti); io però ho solo fatto in tempo a vedere il vecchio Crono che ingoia il vecchio Partito Radicale con la supercazzola del "partito transnazionale" e lo sostituisce con un comitato intestato a sé stesso. Dite che è stato il protagonista delle grandi lotte civili degli anni Settanta; che senza di lui non ci sarebbe il divorzio, non ci sarebbe l'aborto - io però sono arrivato nel periodo in cui faceva raccogliere firme a macchinetta col risultato di far inceppare lo strumento, il referendum abrogativo.

(Non voglio dire che Pannella sia responsabile dei referendum inutili e dannosi: non ci fosse stato lui, avrebbe cominciato qualcun altro. Il numero di firme richieste dalla legge è evidentemente basso e così ci provano tutti; lui è stato semplicemente uno dei primi a pensare che con qualche centinaia di migliaia di firme avrebbe potuto mettere il cappello su questioni enormi. Funziona tuttora così, anzi, non funziona: prendi quest'ultimo referendum sulle licenze petrolifere. Una questione tecnica, di importanza relativa, spacciata come l'arma finale democratica contro la nostra dipendenza dagli idrocarburi. Il referendum non raggiungerà il quorum, le cose non cambieranno, ma i promotori avranno dimostrato il loro impegno. Il referendum abrogativo è la droga dei movimenti: dà a migliaia di attivisti la sensazione di fare qualcosa, di ottenere qualcosa).

Ma dicevamo di Pannella, insomma: sarà stato un grande ma io sono arrivato tardi e mi sono preso la parte peggiore: i discepoli impresentabili, il trasformismo tattico condotto con cinismo e spregio del ridicolo, i bofonchii incomprensibili, eccetera. Potrei risolverla così e sarebbe un modo per litigare con meno persone. Perché io non è che abbia voglia di litigare sempre con tutti, vero?

Vero?

Però non posso neanche prendervi in giro - e i discorsi generazionali quasi sempre questo sono: immaginose prese in giro, talvolta gradevoli ma sempre un po' offensive. È scontato che negli ultimi trent'anni Pannella abbia dato il peggio di sé. Temo sia un destino, per chi è alla ribalta da tanto tempo. Ma era pur sempre il peggio di Marco Pannella: non qualcosa di radicalmente nuovo. Diciamo una riproposta stanca di vecchi numeri che i nostri genitori forse trovavano geniali, ma avevano la tv in bianco e nero e appena due canali.

L'Espresso
Il solo fatto che ci siano in Italia migliaia di persone convinte che Pannella abbia promosso gli storici referendum sul divorzio e sull'aborto, che cos'è se non la prova della straordinaria capacità del personaggio di imporre la sua visione dei fatti? Ogni volta pazientemente bisognerebbe ricordare che no, il divorzio era già legge e quel referendum, il primo referendum, lo promossero i cattolici per abrogarlo: che Pannella col suo piccolo partito fece campagna per il NO, e la fece certamente con più coraggio dei comunisti di Berlinguer che avevano paura di perdere contatto con parte del loro bacino elettorale.

Pannella non aveva nulla da perdere perché già al tempo non lo votava nessuno; questo gli consentiva più libertà di movimento, ma il solo pensiero che quasi venti milioni di italiani abbiano votato NO perché glielo chiedeva un partito che due anni dopo prese l'1% alle elezioni, ecco: questa è una presa in giro e non è così gradevole. Quanto al referendum del 1981, i radicali lo promossero per abrogare parte della legge 194 (estendendo ad esempio il diritto di abortire anche alle minorenni) - e lo persero. A cosa servì? A dimostrare che i radicali all'aborto ci tenevano davvero, più di tutte le altre forze che avevano lottato in parlamento per ottenere una legge quasi decente. Da questo punto di vista ha funzionato.

Dal punto di vista di Pannella, quasi tutto ha funzionato. Regalare hashish in piazza, in retrospettiva, non ci ha fatto fare molti passi verso la depenalizzazione: in compenso ci ricordiamo tutti di Pannella conciato come Babbo Natale. Di tanti digiuni, che cosa ci è rimasto se non il corpo di Marco Pannella. Nessuno nega la sua importanza. Forse la sua lotta più sincera è stata quella per la personalizzazione della politica: in fondo è stato il primo a mettere il proprio cognome su uno stemmino elettorale, il primo a creare un partito azienda, seppure di dimensioni artigianali. Il primo a dimostrare che si può fare politica anche senza elettori: che ovunque c'è una battaglia per un diritto, lì arrivano le telecamere e c'è la possibilità di attirare l'attenzione, imbavagliandosi se serve; certo, la politica non è solo questo. Qualche risultato bisogna anche portarlo a casa e Pannella è sempre stato molto accorto nell'intestarsi i risultati altrui. Senza di lui avremmo divorziato e abortito lo stesso, più o meno con le stesse difficoltà; forse non avremmo banchetti referendari tutti i sabati in centro, partiti ridotti a liste elettorali stilate da personaggi più o meno carismatici che hanno registrato il marchio e cacciano chi vogliono. Vorrei poter dire che Pannella non è stato soltanto questo, ma onestamente non posso. Diciamo che sono arrivato tardi, e anche voi, se non volete litigare, fate finta di crederci.
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Non entrate nella Stanza

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Room (Lenny Abrahamson, 2015).

Quando era molto piccolo un giorno Jack scese dall'abbaino sin nella pancia della mamma. Nove mesi dopo ne sgusciò fuori e adesso è il più veloce di tutta la Stanza, cioè il mondo, non più di 16 metri quadrati: un gabinetto, una vasca una cucina, un televisore che mostra persone che non esistono, e un armadio per chiudersi dentro quando la sera arriva il Vecchio Nick. Lui è l'unico uomo dell'universo: a volte porta qualcosa da mangiare, a volte un regalo, ma non è un amico. Questo è il grande mondo di Jack, che oggi compie cinque anni. Buon mattino sedia uno. Buon mattino sedia due. Buon mattino, lavandino.

Qualcosa mi diceva di stare lontano da Room, qualcosa che avrei dovuto ascoltare con più attenzione. Forse è una stagione della vita, una crosta che verrà via qualche anno: diciamo che i bambini maltrattati mi danno da fare - no, è un po' più grave. Mesi fa ho abbandonato un film a metà perché un bambino piangeva e nessuno correva ad aiutarlo: non avrei mai dovuto guardare Room. Non è uno di quei film che dopo due ore finisce. C'è una piccola stanza che ti entra nel cervello e chissà quando se ne va. Senza mai mostrare una sola scena di autentica violenza, affidandosi soltanto alla verosimiglianza, Abrahamson costruisce uno degli inferni più credibili mai portati al cinema. Diventa impossibile non introdursi col pensiero in quella stanza e cominciare a riflettere su cosa avremmo fatto al posto di Jack e della sua mamma disperata, buonasera sedia uno, buonasera sedia due. Per sfuggire all'orco che gli ha dato la vita Jack deve trattenere il fiato, morire e rinascere: è il bambino più coraggioso del mondo, ma intanto stavo morendo io... (continua su +eventi!)

Il regista sembra limitarsi a scegliere la storia più agghiacciante e il punto di vista più innocente: Room non è l'esperimento tecnico che rischiava di essere, in compenso spacca abbastanza il cuore. C'è un'enorme crudeltà che viene data per tutto il tempo data per scontata: una domanda (perché?) che continueremo a urlarci dentro ma che al coraggioso Jack non interessa: nessuno si domanda perché è venuto al mondo dopotutto. È come chiedersi perché il cielo è azzurro, perché Dora l'esploratrice è bruna. Nessuno è veramente cattivo nel mondo di Jack: persino i giornalisti di cronaca, che in tutti gli altri film sono sempre le persone più orribili e superficiali, stavolta sono visti con occhi diversi, più sottili. Brie Larson porta a casa senza neanche troppo sforzo la parte della vita, ma per quanto meritato il suo oscar è impreciso: l'unico vero protagonista è il piccolo Jacob Tremblay, non c'è un solo istante in cui questo piccolo, orribile, indimenticabile film non sia suo. Addio sedia numero uno. Addio sedia numero due. Addio lavandino

Room è al Cityplex di Alba (19:30), al Fiamma di Cuneo (21:00) e al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (22:30).
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Distruggere street-art è cosa buona se

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Ieri ho perso il polso della mia generazione. A Bologna due comitati cittadini avevano deciso di distruggere tutti i graffiti di Blu: vent'anni di opere di uno degli street artist più apprezzati in Italia, ma credo anche al mondo. Mentre assistevo da lontano allo scempio, mi aggiravo sui social network e invece dello scroscio di indignazione che mi aspettavo, non trovavo che applausi: ben fatto, bravi. Persino chi quei graffiti li apprezzava, chi ci era affezionato, chi li identificava con la Bologna in cui si svegliava e cercava di parcheggiare ogni mattino, persino loro cercavano di levarsi la lacrima in fretta: ok, è un gesto doloroso, ma necessario, vai col grigio. Ma cosa siamo diventati.

Il Resto del Carlino.
(Notare il dilemma nel volto ansioso dei vigili:
difendere l'arte o l'artista?)
Sì, sto barando. I due "comitati cittadini" in realtà sono due centri sociali di Bologna, e soprattutto la decisione di distruggere i graffiti è stata presa dall'autore stesso, che in quest'occasione almeno svela un'idea della proprietà intellettuale abbastanza radicale: se magari passando davanti a una sua opera per vent'anni qualche abitante si era illuso che la tal parete colorata appartenesse alla città, ne facesse parte, ebbene, non proprio: era più un affitto, o quel tipo di licenza che compri quando credi di comprare certi libri in formato digitale: un bel giorno ti svegli e non c'è più, e non puoi farci niente.

Ecco, più della scelta dell'artista - discutibile e discussa, del resto è un artista - m'interessa la nostra reazione. Se a passare rullate di grigio sui personaggi di Blu fosse stato un comitato di benpensanti, allora sì, avremmo protestato contro l'arretratezza culturale ecc. ecc.. Ma l'ha deciso Blu. Se l'ha deciso Blu diventa una straordinaria e coraggiosa prova di integrità artistica, che è forse la cosa che apprezziamo di lui - molto più dei suoi disegni, dal momento che abbiamo preferito tenerci l'integrità e rinunciare a questi ultimi.

Forse non ho il polso dei miei coetanei perché, davvero, io tendo a ragionare come sopra: non giudico i fatti dalle premesse, ma dalle conseguenze. mi sveglio, vedo muri grigi dove prima c'erano opere straordinarie (e angosciose, va detto), e mi sembra una prepotenza nei confronti dei cittadini che fruivano di quelle opere ogni giorno. Per i più invece è sempre una questione di intenzioni: non importa cosa combini, ma per quale motivo. Ad esempio un eventuale comitato per il decoro e la tristezza urbana avrebbe distrutto le medesime opere ottenendo il medesimo risultato, ma con le intenzioni sbagliate. Invece se è Blu stesso, l'autore! che deve protestare perché Roversi Monaco ha rubacchiato qualche opera - a lui o a un collega, non è chiaro - allora ok, il motivo è coerente con le premesse, e il fatto che centinaia di migliaia di bolognesi si sveglino con qualche parete grigia in più è ininfluente.

Davvero ininfluente, non sono ironico: per molti di quei bolognesi avere un muro grigio è preferibile ad avere uno street-artist incoerente o compromesso col potere. È un'opinione trasversale, che unisce Wu Ming e Philippe Daverio sul Resto del Carlino. I muri grigi stanno per diventare il capolavoro di Blu, il che mi riporta a una domanda precedente: ma le opere di Blu vi piacevano davvero così tanto? Non è che preferite il personaggio, lo street-artist come moderno Robin-Hood che sfida il potere regalando ai poveri un'arte contemporanea che i ricchi se la sognano - e quando i ricchi se ne accorgono e cercano di ritagliarne dei pezzi per metterli nel Museo Borghese, lui, ehm, lui si arrabbia e ritira tutti i regali che aveva fatto ai poveri, ecco, mi è esplosa la metafora in mano.

Scusate, ma la situazione è persino più paradossale del solito. Qualcuno forse ha già denunciato Blu e i suoi fiancheggiatori per vandalismo, il che ci sta, e in alcuni casi sarà anche la prima ammissione che quello che è stato distrutto era arte. Che uno street artist non sia tenuto a rispettare le regole della civile convivenza è una banalità - ma come fare da qui in poi a distinguerli: metti che uno street artist si metta a distruggere le opere di un altro street artist, ne avrà il diritto? - o metti che qualche diabolico comitato di borghesi benpensanti si infiltri in un centro sociale e con due cazzate di Adorno lette al liceo (non c'è niente di più borghese della polemica contro i musei) sobilli i giovani idealisti e li armi di rulli e vernice grigia: chi è che noterà la differenza?

Nel frattempo Blu sarà diventato ancora più importante e quotato di quanto non sia ora: le non rare foto dei suoi graffiti consentiranno magari ai bolognesi della prossima generazione di ridipingerli tali e quali negli stessi luoghi, il che fornirà madeleines incredibili ai trentenni del 2030: "Ci passavo davanti tutti i giorni, che paura mi faceva! Ma quando l'hanno cancellato ho pianto". Questa cosa potrebbe fare arrabbiare ancora di più lo street-artist, che immagino reclami per sé e sé solo ogni diritto su ogni sua opera... per quanto tempo? Facciamo 70 anni, come il diritto d'autore? Se muori prima passa agli eredi? Come funziona? Forse sarebbe meglio parlarne. Sul serio, non discuto il diritto di Blu a impossessarsi di un muro della collettività e a trattarlo come suo anche dopo quindici, vent'anni: proprio perché preferisco, quando posso, giudicare dai risultati, e i risultati mi sembravano buoni. Fino a che si trattava di una trasgressione variamente tollerata da cittadinanza e amministratori, non creava grossi problemi: ma a questo punto si passa alla fase più delicata, quella in cui l'antipotere si trasforma in potere e si arroga non solo il diritto di creare, ma anche quello di distruggere, secondo leggi che almeno io non ho capito bene.
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La lobby anticiccioni è furbissima

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Next quotidiano
Ma parliamo di Mario Adinolfi. C'è chi lo trova buffo perché, beh, è obeso.

- Lunedì, mentre cominciavano ad apparire i primi articoli sul delitto Varani, Adinolfi già accusava la "lobby lgbt" di occultare i particolari fastidiosi, ovvero il fatto che almeno uno dei due assassini fosse gay. La stessa cosa secondo lui sarebbe avvenuta col delitto della professoressa Rosboch, "vittima di altri due gay impazziti. Anche lì, la morbosità si concentra sulla povera donna strangolata e poi gettata forse ancora viva in un pozzo di acqua gelida, niente titoli sul rapporto omosessuale tra i due assassini, che pure forse ha puntellato il delirio omicida della coppia di amanti con un dislivello d'età di 34 anni". Non pago, il giorno dopo ci ha fatto dono di uno scoop: l'ultimo post sulla bacheca di Luca Varani era un meme contro il matrimonio gay. Insomma, abbiamo un tizio che è riuscito a inventarsi un movente politico per il delitto Varani - che sta raccontando la storia di un gay e un fiancheggiatore che attirano un etero contrario alle unioni civili e lo torturano a morte, mentre la lobby lgbt fa il possibile per depistare questo e altri assassinii gay - e voi gli date del ciccione. Perché in effetti, ahah, è ciccione. 

- La settimana scorsa, sempre sulla sua bacheca, ci aveva informato di una cosa orribile avvenuta in Norvegia: un preside avrebbe accusato due coniugi di essere "troppo cristiani", e i servizi sociali non solo avrebbero sequestrato i cinque figli, disperdendoli in varie "casa-famiglia", ma anche arrestato il padre e la madre - si vede che in Norvegia i servizi sociali arrestano la gente troppo cristiana. "L'obiettivo è l'assalto a Cristo, alla Chiesa, ai cristiani". Naturalmente la storia è un po' diversa, e non serve molto tempo per controllare: padre e madre non erano accusati di eccessiva cristianità, reato ancora sconosciuto al codice penale norvegese, ma di percosse: lo stesso padre - che oltre a essere norvegese, come diceva Adinolfi, era rumeno - aveva ammesso di aver distribuito qualche sberla. Il preside aveva raccolto le confidenze di uno o più figli e aveva fatto un esposto. Insomma Adinolfi si era fabbricato la sua notizia su misura, prendendo le cose che gli piacevano - la famiglia norvegese di cinque figli! - e dimenticando il resto (le percosse, il fatto che il padre fosse un immigrato). Che cosa dire di un tizio che violenta la realtà in questo modo? Cosa gli diciamo? Gli diciamo che è un panzone! ah ah ah! Scacco matto, proprio.

- Nello stesso periodo è riuscito ad andare in qualche trasmissione tv a spiegare che Spotlight, un film dove non si vede mai un solo prete toccare un bambino; un film così poco controverso che persino la diocesi di Boston, che fu devastata dallo scandalo, ne consiglia la visione ai suoi sacerdoti, Spotlight dicevo, ha vinto l'Oscar solo perché attacca la Chiesa. Davvero, cosa si può dire di tanta cattiva fede? Che ha la pancia grossa! Ahahahah.

Ecco qua, questi sono solo i tre momenti più incredibili dell'ultima settimana di Mario Adinolfi. Se davanti a un materiale del genere voi ancora vi concentrate sulla pancia, credo che abbiate un problema. Lasciatemi indovinare - siete quelli che sconfissero Berlusconi dandogli del nano, sì? Sul desktop avete quella foto in cui Renzi è accostato a Mr Bean? Ah ah ah, che sagome che siete. Ora Adinolfi si sta lamentando delle affissioni goliardiche a Torino: "devo passare le giornate a difendermi dagli assalti violenti di un segmento dell'associazionismo Lgbt. Si tratta di una intollerabile lesione della democrazia". Insomma gli state facendo la campagna elettorale, senza chiedergli un soldo. Che dire? Siete furbissimi. E lui - non c'è dubbio - è un ciccione. 
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Litigare con le femministe

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Qualche giorno fa, quando ho espresso la mia opinione sulla gravidanza surrogata, affermando che ogni donna è libera di gestire come vuole il suo corpo, e quindi anche di concedere il proprio utero affinché nasca un bambino che altri alleveranno come un figlio, qualcuno mi ha fatto notare che le femministe non sono d'accordo. In discussioni come questa, evocare l'opinione delle femministe equivale a scatenare l'inferno col napalm perché, insomma, chi è che ha voglia di litigare sull'utero con le femministe? Pare che ne abbia voglia io.


Non avessi niente di meglio da fare. Diciamo che potendo eviterei - infatti quando posso lo evito - però è innegabile che le mie modeste opinioni siano a volte, come dire, in frizione con quelle di alcune femministe. Ho detto 'alcune', e indovino già l'obiezione: stai tentando di dividerci. Sì. Le femministe sono tante, e non la pensano tutte allo stesso modo. Lo si è visto anche in questo caso: ci sono le femministe di Se non ora quando che fanno appelli contro la maternità surrogata; c'è Michela Murgia che risponde con obiezioni, a mio avviso, puntuali ed esaurienti - per cui se siete alla ricerca di un discorso serio, andate pure di là.

Tra i tanti femminismi, mi è comodo sintetizzarne un paio e immaginarmeli divergenti, se non proprio opposti. Il primo è libertario e pragmatico: quando dice "l'utero è mio" non intende un'idea platonica di "Utero" e un'altra idea platonica di "Mio", ma si riferisce in concreto all'utero che si ha in grembo, di cui si reclama l'immediato possesso. Una donna che ha il diritto di fare ciò che vuole col suo corpo, non potrà liberamente scegliere di metterlo a disposizione di una coppia che per vari motivi non può avere un bambino? Io dico di sì (altri dicono di no: impossibile che una scelta del genere sia "libera". Dev'essere per forza condizionata dalla miseria). Offrire in "affitto" una parte del proprio corpo non sarà sfruttamento? Se ne può discutere, ma questo vale per ogni prestazione lavorativa: non c'è una frattura mistica tra la mano che uso per lavorare alla fresa e l'utero che posso usare per dar vita a un bambino: entrambi sono sottoposti a usura, entrambi possono guadagnarmi da vivere, e in entrambi i casi il salario può essere da fame e configurarsi come sfruttamento.

Invece, sapete quando possiamo essere abbastanza sicuri che ci sia sfruttamento? Quando tutto avviene nell'illegalità perché una legge proibisce lo scambio. E questo a mio avviso è l'argomento finale contro il divieto - contro gran parte dei divieti: il proibizionismo non funziona. Non funzionò con l'alcol, non funziona con la droga, non risolve il problema dell'aborto, non si vede in che modo possa arginare il fenomeno delle gravidanze surrogate. Possiamo decidere di assisterle o normarle o possiamo chiudere gli occhi, definire il tutto immorale, e lasciare che chi può permetterselo corra qualche rischio in più. C'è un tipo di femminismo che preferisce questa seconda opzione. Un femminismo benpensante - possibile?

Tutto è possibile. Si parlava sopra del proibizionismo: è abbastanza antipatico ricordarlo, ma fu uno dei risultati dell'allargamento del voto alle donne (prohibition movements in the West coincided with the advent of women's suffrage). L'atteggiamento benpensante nasce di solito dall'impossibilità di adeguare il proprio mondo ideale alle cose che effettivamente accadono. In questo caso c'è un femminismo che reclama l'utero non come parte del corpo, ma come urna sacra della femminilità. Quel che accade lì dentro, spiegano, è una cosa che non può essere paragonata a nient'altro (e non è che abbiano tutti i torti: qualsiasi paragone è difettivo: ma in questi casi hanno l'aria di considerarlo una bestemmia). Le donne potranno anche cedere l'uso delle mani, degli occhi, dei piedi; ma l'utero è su un altro piano. Ci sono donne che consentono liberamente, senza compenso? Impossibile. Ci sono donne che volontariamente scelgono, in cambio di denaro? Sono state obbligate. Nessuna cifra, del resto, potrebbe valere una gravidanza. Sostenere il contrario sarebbe neoliberismo.

Le esponenti di questo tipo di femminismo, di solito, hanno una concezione abbastanza tortuosa del diritto all'aborto. Benché abbiano lottato per l'interruzione di gravidanza, non cessano di ricordare quanto essa sia traumatica, un male magari necessario, ma un male. E si capisce: se santifichi l'utero, poi non puoi ammettere che esista gente che abortisce semplicemente perché le fa comodo. No, devono tutte abortire tra le lacrime. Ora, sono il primo a incazzarsi quando leggo le puttanate del Foglio sulle tizie che abortiscono per andare in vacanza. Però l'idea che ogni donna debba sempre sentire ribrezzo per l'aborto è una proiezione morale. Ci saranno anche donne che hanno abortito senza grossi patemi, che non l'hanno vissuta "come tutta ‘sta tragedia che pare necessario continuare a raccontarsi". Dobbiamo far finta che non esistono?

Corriere.it

Col tempo ho trovato un altro parametro che mi sembra ormai infallibile. Di solito le femministe con cui vado d'accordo hanno un'idea abbastanza piana del fenomeno della prostituzione: sebbene in molti casi sia una forma di sfruttamento, reprimerlo non avrebbe senso. Peraltro se è un diritto della donna (e dell'uomo) disporre del proprio corpo come vuole, questo diritto contempla anche la possibilità di prostituirsi. Occorrerà quindi aiutare le vittime dello sfruttamento e sostenere i diritti delle sex-workers.

Invece per le femministe con cui non vado d'accordo è tutto un racket. Non esiste una prostituta libera: sono tutte sfruttate. Sempre. Una volta mi spiegarono che anche oggi, in Italia una qualsiasi donna libera che volesse tentare l'esercizio della prostituzione senza far parte di un racket sarebbe stata immediatamente raggiunta dagli emissari del racket medesimo, e fatta schiava. Perché non si dà prostituzione senza sfruttamento e schiavitù. Chi potrebbe mai acconsentire liberamente a pratiche così intime in cambio di denaro? La prima volta che ho sentito un discorso così ho alzato le spalle, vabbe', si vede che viviamo in due universi paralleli. Poi mi è caduto l'occhio sulla legislazione repressiva di alcuni paesi che eravamo abituati a considerare fari di civiltà - che so, la Svezia - paesi in cui un certo tipo di femminismo aveva avuto un po' di voce in capitolo. Anche in quel caso, si punisce il cliente perché non si ritiene una donna in grado di scambiare liberamente sesso in cambio di denaro. Qualsiasi cliente acceda a una prostituta la sta adescando, la sta corrompendo, la sta sfruttando. Affermare il contrario - affermare che una donna possa liberamente scegliere di affittare parti del corpo in cambio di denaro - significa cedere a una mentalità economicista, neoliberale.

Potrei obiettare, e l'ho già fatto, che l'economia almeno esiste, è un modo di descrivere gli scambi tra le persone: mentre questa mistica della femminilità, tra il romantico e il pagano, secondo me si adatta molto meno a descrivere il mondo in cui vivo. Ma devo anche confessare un sospetto. L'economia non è che spieghi tutto, ma potrebbe spiegare anche il fenomeno di un gruppo di donne che non sopporta l'idea che altre donne scambino sesso in cambio di denaro; né l'idea, ancora più estrema, che una donna possa dietro compenso mettere a disposizione il proprio utero. Quella che chiamate barbarie, altri potrebbero definirlo dumping.
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Cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà

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Le macchine rallentano, c'è un tamponamento. Una macchina è rovesciata sul fianco, sta per prendere fuoco. Sul ciglio del raccordo una donna si riscuote dallo choc e si mette a urlare: lì dentro c'è mia figlia. I poliziotti la trattengono. Arriva un tizio in felpa nera: cosa può fare? Quello che vorresti fare tu, quello che farebbero tutti. Solleva la fiancata di peso, strappa la bambina alla morte e se la mette in braccio. Per quale altro motivo pensavate di essere venuti al cinema?

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).

Vai a vedere Jeeg Robot. Me l'hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi - tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.

Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore - tutti i suoi amici o sono svaniti all'Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro - ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento - la violenza è l'unico linguaggio che conosce - tanto violento quanto fragile.

Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno... (continua su +eventi!)
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno. Perché noi quarantenni continuiamo ad andare al cinema a vedere questi tizi in calzamaglia, quando ce ne piace di solito uno su cinque, perché ci siamo intestarditi su una delle tendenze, diciamolo, più bimbominchia della storia del cinema? Dall’Uomo Ragno di San Raimi in poi, non ce ne siamo persi uno, e non ce n’è uno che ci abbia convinto per più di un film. Che cosa stiamo cercando esattamente? Abbiamo avuto l’approccio scanzonato alla Marvel, l’approccio serioso alla DC, il finto gotico di Burton, il bislacco Nolan. Film di genere, li chiamano: come se gli autori non avessero provato in tutti i modi a colonizzarli, a darci il supereroe intelligente, il supereroe tragico shakespeariano, il supereroe horror. Va’ a vedere Jeeg – e già sapevo più o meno cosa aspettarmi: una farsa in romanesco col coatto che “ci ha i poteri”, tante strizzate d’occhio citazioniste a chi è cresciuto a pane e anime. E invece?

E invece ho visto il tizio in felpa che riavvia una giostra e poi salva una bambina, e un inquilino della mia Tor Bella interiore si è messo a piangere come una fontana: finalmente! è questo che ho sempre voluto vedere, coglione. I supereroi non sono buffi, non sono seri, i supereroi fanno quello che vorresti fare tu se avessi la forza di schiacciare un termosifone. Non passano il tempo a strizzar l’occhio allo spettatore, a confortarlo sul fatto che è molto, molto più intelligente di così, ed è in sala soltanto per gentile concessione al suo bambino interno o esterno. I supereroi sono quelli che i bambini li salvano, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Non sono invincibili, anzi ne devono prendere tante dai gemelli cattivi – e perdere pezzi per strada.
Andate a vedere Jeeg Robot. Anche se ormai ce l’ha fatta: è ancora in sala dopo dieci giorni, anche in provincia di Cuneo (ad Alba oggi alle 18:45 e alle 21). Claudio Santamaria e Luca Marinelli mettono l’anima in due personaggi straordinari e implausibili, ma è Ilenia Pastorelli che continuerà a tormentarvi anche a fine visione: con gli occhi e gli strilli insopportabili di tutti i bambini che dovevate salvare, e non ne avete avuto il coraggio, le forze.
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