Cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà

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Le macchine rallentano, c'è un tamponamento. Una macchina è rovesciata sul fianco, sta per prendere fuoco. Sul ciglio del raccordo una donna si riscuote dallo choc e si mette a urlare: lì dentro c'è mia figlia. I poliziotti la trattengono. Arriva un tizio in felpa nera: cosa può fare? Quello che vorresti fare tu, quello che farebbero tutti. Solleva la fiancata di peso, strappa la bambina alla morte e se la mette in braccio. Per quale altro motivo pensavate di essere venuti al cinema?

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).

Vai a vedere Jeeg Robot. Me l'hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi - tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.

Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore - tutti i suoi amici o sono svaniti all'Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro - ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento - la violenza è l'unico linguaggio che conosce - tanto violento quanto fragile.

Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno... (continua su +eventi!)
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno. Perché noi quarantenni continuiamo ad andare al cinema a vedere questi tizi in calzamaglia, quando ce ne piace di solito uno su cinque, perché ci siamo intestarditi su una delle tendenze, diciamolo, più bimbominchia della storia del cinema? Dall’Uomo Ragno di San Raimi in poi, non ce ne siamo persi uno, e non ce n’è uno che ci abbia convinto per più di un film. Che cosa stiamo cercando esattamente? Abbiamo avuto l’approccio scanzonato alla Marvel, l’approccio serioso alla DC, il finto gotico di Burton, il bislacco Nolan. Film di genere, li chiamano: come se gli autori non avessero provato in tutti i modi a colonizzarli, a darci il supereroe intelligente, il supereroe tragico shakespeariano, il supereroe horror. Va’ a vedere Jeeg – e già sapevo più o meno cosa aspettarmi: una farsa in romanesco col coatto che “ci ha i poteri”, tante strizzate d’occhio citazioniste a chi è cresciuto a pane e anime. E invece?

E invece ho visto il tizio in felpa che riavvia una giostra e poi salva una bambina, e un inquilino della mia Tor Bella interiore si è messo a piangere come una fontana: finalmente! è questo che ho sempre voluto vedere, coglione. I supereroi non sono buffi, non sono seri, i supereroi fanno quello che vorresti fare tu se avessi la forza di schiacciare un termosifone. Non passano il tempo a strizzar l’occhio allo spettatore, a confortarlo sul fatto che è molto, molto più intelligente di così, ed è in sala soltanto per gentile concessione al suo bambino interno o esterno. I supereroi sono quelli che i bambini li salvano, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Non sono invincibili, anzi ne devono prendere tante dai gemelli cattivi – e perdere pezzi per strada.
Andate a vedere Jeeg Robot. Anche se ormai ce l’ha fatta: è ancora in sala dopo dieci giorni, anche in provincia di Cuneo (ad Alba oggi alle 18:45 e alle 21). Claudio Santamaria e Luca Marinelli mettono l’anima in due personaggi straordinari e implausibili, ma è Ilenia Pastorelli che continuerà a tormentarvi anche a fine visione: con gli occhi e gli strilli insopportabili di tutti i bambini che dovevate salvare, e non ne avete avuto il coraggio, le forze.
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Si stampi chi può

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Un'altra cosa di cui dovrei preoccuparmi e non ci riesco è l'acquisizione della Stampa da parte del Gruppo L'Espresso - no, in realtà mi preoccupo, ma dal punto di vista sbagliato. Dovrei spaventarmi per la paurosa concentrazione mediatica che verrà a crearsi, e invece continuo a fissare la direzione opposta. Dovrei puntare il dito su De Benedetti che compra, che cresce, che diventa sempre più pervasivo, e invece guardo gli Elkann che vendono, che salutano, che non sono più interessati a finanziare un organo di stampa in Italia. E dagli torto.

Si tratta ovviamente dell'impressione di un passante poco informato, che a una certa distanza dovrebbe vedere una battaglia per la creazione di un colosso dell'informazione, e invece, aguzzando la vista, riesce giusto giusto a notare un po' di traffico intorno a un vecchio palazzo in demolizione: la Fiat si è spostata altrove e si disfa delle suppellettili. C'è anche questo quotidiano molto prestigioso, lo usavamo per spiegare agli italiani come la pensavamo al Lingotto, e per dare un po' di voce ai nostri amici atlantisti - adesso al Lingotto c'è un centro commerciale, gli atlantisti sono meno interessati di noi, insomma a chi lo smolliamo? L'unico compratore disposto ad accollarselo è un concorrente, che può risparmiare sui costi di gestione mettendo assieme un po' di servizi. La chiamano sinergia, fusione, e ormai è da vent'anni che sappiamo cosa vuol dire davvero.

Spero tanto di sbagliarmi, visto che sta diventando un Leitmotiv: così come Renzi in politica, che si ritrova solo al comando non per brama di potere e neanche per lo straordinario carisma che non ha, ma perché i suoi concorrenti non hanno nessuna voglia di subentrare nella gestione quotidiana di un disastro, così L'Espresso (e Mondadori) si ritrovano unici attori in scena perché gli altri stanno scappando. Impossibile non accusare nostalgia per quella guerra di trent'anni fa, quando c'era in palio Repubblica e il destino dell'Italia e del mondo libero - più prosaicamente, c'era un immenso bacino di lettori, di inserzionisti da contendersi. Che poi è volato via.

Approfitto dello spazio per fare ammenda: pare che io abbia contribuito a diffondere una notizia falsa, e che l'Unità non abbia il buco che qualcuno intravedeva. Oggi il suo direttore smentisce e ribadisce che il quotidiano naviga, pur con mille comprensibili difficoltà nel "mare aperto del mercato". Ovviamente non mi riconosco nell'Unità di D'Angelis, ma credo giusto che esista, e necessario che un leader politico e un partito abbiano una loro voce - proprio come l'avevano gli Agnelli/Elkann, fin tanto che a loro serviva. Quello che davvero non capisco è di che "mare aperto" D'Angelis continui a parlare: intende lo stagno mezzo prosciugato in cui le ciurme di Repubblica e Stampa decidono di rimorchiarsi a vicenda e di disfarsi di un po' di zavorra improduttiva?

Io sto qua sulla riva e non è che ci capisca molto; ma secondo me un vero mercato in Italia non c'è quasi mai stato. C'erano importanti gruppi industriali che fino a qualche tempo fa avevano interesse a finanziare quotidiani (anche l'Unità, almeno al tempo di Soru): oggi non ci sono più o hanno i loro problemi. Alcuni saranno diventati scettici nei confronti dello stesso strumento, il quotidiano all'italiana, che fino a dieci anni fa aveva un senso residuale e adesso ormai sta diventando un gioco di società per anziani. Non è che io discuta la necessità dei Democratici di avere in edicola e su internet qualcuno che difenda quotidianamente le scelte di Renzi e irrida i suoi avversari. Non ho grosse simpatie per Renzi e per le sue avventure politiche ed editoriali, ma a questo punto non ho nulla da guadagnare da un suo fallimento in un campo o nell'altro, anzi. Sarebbero brutte notizie per tutti. Credo che il successo o l'insuccesso dell'Unità dipenderà dagli abbonamenti degli attivisti, certo, e soprattutto dai finanziatori che hanno deciso o decideranno di investire nel personaggio Renzi. Se l'Unità davvero ce la sta facendo, si vede che qualcuno ci crede. E meno male, davvero, che qualcuno sta ancora credendo in qualcosa.
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Ma Trump non è Berlusconi

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Un giorno - possibilmente da qui ai primi di novembre - dovrò tentare di spiegare anche a me stesso perché Trump non mi sta spaventando neanche un quinto di quel che mi spaventava il piccolo Bush. Nel frattempo però lascio un appunto sul paragone più banale che sta girando tra i giornalisti: quello con Berlusconi.

Paragone ormai abusato non solo tra giornalisti italiani, a cui non sembra vero poter vantare vent'anni di esperienza di un mitomane col parrucchino (il che dimostra che in vent'anni non hanno messo a fuoco il problema): la cosa sta prendendo piede anche tra gli anglosassoni; per esempio ieri il Financial Times definiva Trump un "Berlusconi americano", benché privo del suo fascino e del suo talento per gli affari ("albeit without the charm or business acumen"). Ok, divertente. E forse la maggior somiglianza col caso italiano non sta nei due personaggi, ma proprio nella reazione incredula e stizzita che scatenano presso il ceto intellettuale, non solo a sinistra: effettivamente il passaggio dalla sottovalutazione all'indignazione al panico qui in Italia l'abbiamo vissuta più di vent'anni fa. E abbiamo capito - purtroppo un po' meno di vent'anni fa - che insistere sulle gaffes del tizio non fa che renderlo più forte verso il suo serbatoio elettorale: del resto in Italia l'anti-intellettualismo lo studiamo da un secolo, siamo passati per il fascismo e il qualunquismo ed evidentemente non abbiamo ancora trovato il vaccino efficace.

Detto questo, chi paragona Trump a Berlusconi mostra di non aver capito qual era il vero problema con Berlusconi: non il parrucchino, non le barzellette e le figuracce, le smorfie ai vertici internazionali (per quanto, via, chiamare kapò un europarlamentare tedesco) e nemmeno l'imbarazzantissima esuberanza sessuale, che è poi il motivo per cui all'estero lo conoscono e ce lo ricordano ridacchiando. Non è nemmeno il populismo - o meglio, il populismo è un problema grave, ma esisteva prima di Berlusconi e non è affatto tramontato con lui. E allora cosa?

C'è bisogno di ricordarlo? A quanto pare sì. Berlusconi possedeva quasi metà dell'etere televisivo, in spregio della normativa (Rete4 avrebbe dovuto finire sul satellite); e quando vinse le elezioni modificò la normativa e mise le mani anche sull'altra metà, quella pubblica. Nel frattempo era uno dei principali editori italiani, e uno dei principali concessionari di pubblicità, che raccoglieva sul mercato e rivendeva alle sue aziende. In sostanza per qualche anno in Italia non ci furono direttori di reti televisive e tg che lui non approvasse direttamente o indirettamente: malgrado fior di opinionisti assunti in queste reti o dai suoi giornali ci spergiurasse che no, Berlusconi non vinceva le elezioni grazie alle televisioni: che il fatto che continuasse a esercitare quel controllo, arrivando a fare i nomi di chi non voleva più in RAI, fosse semplicemente una coincidenza, una cosa che gli capitava di fare perché si sa, la tv è sempre stata il suo pallino.

Quanto a Trump, per quel che ne so è un palazzinaro e una celebrità televisiva. Ma non possiede la CBS, né la FOX, né la CNN né una delle Big Three: che di conseguenza possono decidere di parlare di lui come vogliono. Anche molto male. Forse avrete intravisto anche voi lo spezzone dello show di John Oliver (definirlo "comico" è riduttivo) dedicato a Trump: venti minuti di demolizione sistematica del personaggio, andati in onda su HBO e poi rimbalzati via internet in tutto il mondo. Ecco, questo su un canale televisivo italiano nel 2002 sarebbe stato impossibile. Negli USA invece si fa abitualmente, e si continuerà a fare persino nel malaugurato ma sempre più probabile caso in cui il mitomane di turno vinca le elezioni. Perché davvero, non è che le televisioni siano indispensabili per farti vincere.

Però in Italia aiutano.

Ognuno poi ha i suoi parametri, le sue pietre di paragone: il mio canarino-in-miniera è Giuliano Ferrara, a cui Trump dà un certo fastidio. Per il populismo? Ferrara ne ha avallati di peggiori. Per il cattivo gusto? Parliamo del tizio che si mise il rossetto e andò in piazza col cartello "siamo tutti puttane", per solidarietà col capo accusato di avviare minorenni alla prostituzione. E allora, insomma, cosa c'era in Berlusconi che Ferrara non riesce a trovare in Trump? Secondo me è una questione preconscia: Ferrara non pensa, Ferrara annusa. E per quanto inspiri, non riesce a sentire quell'odore di vero potere che gli darebbe alla testa. Per un Berlusconi si sarebbe messo in mutande; per un Bush era disposto a millantare consulenze con la CIA; per Trump niente. Lo trovo molto indicativo.
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O con Vendola o con Adinolfi

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Vorrei poter dire che le reazioni alla paternità di Nichi Vendola mi hanno sorpreso e un po' scandalizzato - soprattutto quelle venute da sinistra - ma purtroppo non è così. Si tratta di reazioni prevedibilissime, quasi automatiche, che spiegano abbastanza bene perché l'Italia ha una legislazione molto arretrata su questi temi (no, non è colpa di Adinolfi o delle sentinelle in piedi: loro al massimo ne approfittano, come è giusto che la squadra di tiro alla fune scarsa ma costante approfitti di un avversario che non ha capito da che parte bisogna tirare).

Chiariamo subito la mia opinione: per me non si può e non si deve impedire a nessuna persona in possesso delle sue facoltà di avere un figlio, e quindi nemmeno a Vendola. Non lo chiamo esattamente diritto, non credo che la collettività debba adoperarsi perché chiunque possa avere un figlio; ma se qualcuno vuole averne uno, coi mezzi che la tecnologia oggi consente (maternità surrogata), non credo nemmeno che la collettività si debba mettere in mezzo.

Non ritengo peraltro che ne sia capace, nei tempi medio-lunghi: sul serio credete di poter impedire a chi porta un utero di disporne come vuole? Come intendete recintarli, esattamente, questi uteri? Non si era appena deciso che appartenevano alle portatrici? Io la penso così, e in seguito cercherò di difendere questa opinione senza insultare chi la pensa diversamente. Non sarà semplice, perché davvero, nulla mi infastidisce più di un prepotente: e quando arriva qualcuno a spiegarmi che la sua idea della genitorialità è l'unica giusta, e che gli altri dovrebbero essere genitori soltanto alle condizioni dettate da lui, ecco: a me questa sembra prepotenza. Io non vengo a dire a voi come dovreste essere genitori. Se non volete figli in provetta, non fateli.

Paradossalmente, mi arrabbio meno coi cattolici. Loro perlomeno sanno quello che vogliono e soprattutto quello che non vogliono. Le loro opinioni sono basate su assunti non dimostrabili, ma coerenti: per loro la libertà della donna di disporre del proprio corpo viene dopo il diritto del nascituro. Quest'ultimo, malgrado debba ancora nascere, secondo i cattolici ha idee molto chiare: desidera una famiglia naturale composta da almeno un padre e la madre. Loro la pensano così, e si comportano di conseguenza. Se vinceranno loro, l'utero sarà effettivamente recintato e riassegnato a un Ente morale che col pretesto di impedire "l'affitto" veglierà affinché nessuna portatrice ne disponga troppo liberamente. La stessa definizione di "utero in affitto" tradisce il disprezzo degli eredi degli antichi padroni, che possedendo tutto non avevano bisogno di affittare nulla. Ma insomma quella è la direzione in cui tirano la corda, e secondo me è quella sbagliata: quindi tiro dall'altra parte. A volte mi lamento perché barano (tutta l'offensiva sul "gender"), ma non li biasimo certo per il fatto che stiano tirando in direzione opposta alla mia. È lo scopo del gioco.

Nutro viceversa un'insofferenza crescente per chi ha deciso di stare dalla mia parte ma forse non ha capito dove stavamo tirando: e adesso sta lì, si guarda smarrita e impiccia i compagni di squadra. Davvero, se per voi il nascituro ha il diritto naturale di avere un padre e una madre, dovreste passare dall'altra parte. Non è niente di personale. Se appena scoprite che da qualche parte nel mondo una donna ha deciso di ospitare per nove mesi un nascituro dovete immaginare che ci sia stata una costrizione - se siete sicuri che Vendola e il suo partner abbiano pagato, e trovate che pagare in cambio del temporaneo e consensuale uso dell'utero equivalga alla mercificazione del corpo - evidentemente ritenete che esista nel corpo qualcosa di sacro che quel corpo non può gestire in autonomia.

E allora, scusate, cosa ci fate qui? Vi servirà un Ente morale che decida cosa si può vendere e cosa no, cosa si può affittare e cosa no: le braccia sì, altrimenti non avremmo agricoltura nemmeno nei nostri campi di pomodori; le corde vocali sì, altrimenti io non potrei sopportare di ricevere uno stipendio. I reni, forse? Ma perché non avete mai denunciato la mercificazione dei reni? non è un po' sospetta questa cosa? L'utero, sicuramente. L'utero per voi è sacro, l'utero non può essere gestito dall'individuo, davanti all'utero si deve sospendere qualsiasi forma di economia? Ok, allora scusate, avete sbagliato squadra.

Quelli che credono nelle cose sacre sono dall'altra parte: quelli che pensano che l'economia non sia semplicemente il modo in cui gli uomini gestiscono gli scambi tra loro, ma una degenerazione di quel bello stato di natura in cui al limite si barattava un pesce per un pomo, sono di là. Sono anche ben organizzati, hanno una gerarchia che si difende bene, e tuttavia non preoccupatevi: sono molto ospitali con le pecorelle smarrite. Sedicenti comunisti che rinnegano l'economia, sedicenti femministe favorevoli a recintare l'utero e a regolarne i comportamenti: cosa state facendo ancora qui? Scusate, ma noi saremmo quelli progressisti: magari ci poniamo qualche problema su come andare avanti, ciò non toglie che è avanti che vogliamo andare. Voi invece avete in mente l'eden del matriarcato, magari con un po' di baratto. Non ha neanche senso litigare. Diciamo che c'è stato un grosso equivoco, e ognuno proceda per i fatti suoi.
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Gli effetti davvero speciali

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Come tutte le intelligenze collettive, l'Academy che assegna i premi Oscar non ha esattamente i riflessi pronti: tanto più notevole risulta il successo di Mad Max, che avrebbe potuto ottenere anche più statuette, se non si fosse dovuto scontrare con preti pedofili, banchieri ladri e DiCaprio. Mi piace pensare di aver assistito allo sdoganamento di un genere, la fantascienza, che fino a qualche anno fa era stato confinato ai margini: e giustamente, visto che era ormai associato a blockbuster fracassoni e assurdi alla The Core.

Per questo il premio che in assoluto mi ha fatto più piacere è quello su cui davvero non contavo: gli effetti speciali a Ex Machina. Un film piccolo, con un budget modesto che Iñárritu avrebbe bruciato in una settimana di riprese "solo luci naturali". Ex Machina lottava contro macchine da guerra milionarie: Star Wars, lo stesso Mad Max col suo tripudio di stuntmen, il costosissimo orso digitale di The Revenant, il pianeta Marte di Sopravvissuto, rimodellato nell'altopiano del Wadi da Ridley Scott con videocamere 3d. Contro colossi come questi, Ex Machina poteva opporre solo un'idea, una trovata vecchio stile: riprendere Alicia Vikander e cancellarne parzialmente le forme col Rotoscope. Il caro vecchio Rotoscope - no, niente nostalgia. Si usano i vecchi mezzi perché costano poco, e perché funzionano bene: il risultato è straordinario, e ha commosso persino i giurati dell'oscar. Sarò onesto: fino a domenica ero convinto che la maggior parte non se lo fosse nemmeno visto, Ex Machina. Hai in gara l'orso che maciulla Di Caprio, hai le astronavi anticate degli Jedi, hai Mad Max, cosa stai lì a guardare un film tutto parlato dove l'unico effetto è un'androide carina?

E invece l'androide ce l'ha fatta, perché è davvero inquietante il modo in cui gioca con i nostri desideri e la nostra percezione. Ci mostra un volto adorabile, ci ricorda a ogni istante che sotto c'è un vuoto. Qualcosa di freddo e ostile. Eppure ci cascheremo ugualmente. Ex Machina è una trappola non proprio perfetta, ma è un bell'esempio di quello che sta succedendo alla fantascienza al cinema negli ultimi anni, a partire direi da Moon di Duncan Jones. Budget piccoli, idee forti. Ha funzionato così bene che sta influenzando anche i prodotti ad alto budget: Her, Gravity, Interstellar, The Martian. Manca ancora un vero capolavoro che segni i tempi: diciamo che la primavera è promettente.
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Giù le mani dal trombone

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Cari studenti del Collettivo Studentesco Autonomo (CUA), che siete finiti sul giornale negli ultimi giorni contestando ripetutamente il professor Panebianco durante le sue lezioni:

Sono stato giovane anch'io blablabla ho fatto le manifestazioni pacifista blablabla vi risparmio la tiritera. Anche perché non è che abbia cambiato molte idee da allora. Continuo a pensare che le guerre siano in linea di massima fregature da cui chi ha un po' di senno dovrebbe sottrarsi, e a esecrare ogni forma di violenza. E tuttavia debbo prevenirvi: se davvero riuscirete a fare di Angelo Panebianco un martire della libertà di opinione, io non risponderò più di me. Verrò a cercarvi, non sarò solo. Si possono commettere tante scemenze e per i migliori motivi: ma dare a un noioso propagatore di luoghi comuni l'occasione di mostrare un po' di coraggio è tra le più grosse.

Per quanto io possa ricordare, Panebianco ha sempre scritto sul Corriere. Stava in prima pagina quand'ero ragazzino e ci sta tuttora: e non mi è mai capitato di leggere nulla di suo non dico originale, almeno interessante. Sempre e solo i due o tre frusti concetti che il lettore-tipo del Corriere della Sera vuole sentirsi dire. Negli anni, la sua figura pubblica è finita per diventare l'illustrazione della voce "trombone" della mia enciclopedia interiore. Deve aver ricordato alla sinistra italiana i suoi errori e le sue compromissioni almeno una volta al mese per un migliaio di mesi. Poi ci fu la fase della guerra contro il Terrore, e anche lì, Panebianco ci spiegò che Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa; che esportare la democrazia era necessario, e chi a sinistra non capiva queste semplici verità era un imbelle, un pavido. A distanza di più di dieci anni da quella cantonata solenne, Panebianco continua a pontificare sugli stessi argomenti, a metterci in guardia sui presepi che scompaiono, e continua a saperne quanto me o quanto te, che il giornale in teoria lo compreremmo per imparare qualcosa di nuovo (e siccome ci scrive gente come Panebianco, non lo compriamo più).

In questi giorni ad esempio ha insistito sul fatto che Regeni non deve averlo ammazzato il regime di Al Sisi, ma gli oppositori islamici. Perché? Da cosa lo deduce? Ha accesso a fonti confidenziali? Ma no, ma che bisogno c'è, Panebianco è meglio di Poirot: da Bologna può risolvere un caso al Cairo. Lo devono avere ammazzato gli islamici, spiega, perché il corpo è stato ritrovato: se l'avessero ammazzato i governativi infatti lo avrebbero fatto sparire. Non fa una grinza, no? Se vi è capitato di sentire la stessa storia al bar sotto casa, da gente che in Egitto non c'è mai stata e avrebbe difficoltà a indicarlo su una cartina, ebbene, Panebianco è sulla stessa frequenza: Panebianco sa le cose prima che accadano, visto che le uniche cose che davvero gli serve conoscere sono gli umori di una classe media benpensante che se cambia idea, la cambia molto più lentamente di quanto ci mettono le loro chiome a incanutire.

Questa alla fine è anche la sua utilità - molto relativa, d'accordo. Panebianco probabilmente non ha mai spostato un voto, né convinto un solo lettore a invadere l'Iraq o votare moderato. Panebianco è un elegante barometro che ci mostra sinteticamente quello che un sacco di italiani pensano già. Cercare di metterlo a tacere sarebbe come fermare gli orologi per evitare che il tempo passi, truccare le bilance per riuscire in una dieta, censurare il meteo, aggiungete metafore a piacere. Dannoso, oltre che inutile: di Panebianco ne crescono in continuazione in tutte le redazioni. Se ne tagliate uno ne crescono altri sette, per tacere dei bot che già adesso probabilmente sarebbero in grado di scrivere fondi di Panebianco molto meglio di Panebianco.

E poi, sul serio, non fa comodo anche a voi dare un'occhiata al barometro ogni tanto? Quel che rivela al termine di quel suo fondo che vi ha fatto arrabbiare - quella voglia fino a questo momento inconfessabile di fare della guerra "la prima preoccupazione dell’Unione" - pensate che sia un'idea solo sua? (Come se P. potesse davvero maturare idee in autonomia). Non notate che è la conclusione naturale di un ragionamento collettivo? Date un'occhiata ai dati in giro. Siamo la quarta economia d'Europa, e stiamo sprofondando. Per trent'anni abbiamo fatto debiti e investito in tutto fuorché in ricerca e innovazione. Ora abbiamo la più alta percentuale di illetterati, un debito pubblico enorme, e una voragine di violenza dall'altra parte del mare. È il momento esatto in cui gli intellettuali, anche quelli un po' ribelli in gioventù, cominciano a sentire il prurito, a vedere Grandi Proletarie, a cianciare di Sola Igiene del Mondo. Sono criminali? Alcuni sì. Ma il prurito che sentono è una cosa collettiva.

Chi vi scrive è stato anche lui giovane blablabla. Ultimamente insegno in una scuola media, e di ragazzini iperattivi con una gran voglia di partire per la guerra ne ho avuti sempre, in una percentuale grosso modo costante. Da un po' di tempo a questa parte, però, mi accorgo di un fenomeno diverso. Arrivo con alcune nozioni, niente di speciale: debito pubblico, tasso di disoccupazione, piramide delle età, eccetera. E ogni tanto sul fondo un ragazzino - di solito un maschio - mi interrompe: "ma allora bisogna fare una guerra". Così. Non perché ne abbia voglia - molti ne hanno voglia, ma c'è anche un altra cosa: c'è la limpidezza del ragionamento, che poi con gli anni si annebbierà, intorbidandosi con la nostra voglia individuale di sopravvivere, avere eredi, ecc. ecc. Ma se fossimo razionali e irresponsabili come può essere un bambino di dodici anni, ci basterebbero un paio di grafici per giungere a una conclusione del genere. Abbiamo tanti disoccupati poco qualificati, abbiamo industrie che scalpitano, abbiamo un fronte pronto a poche miglia nautiche. Angelo Panebianco dà voce a quel ragazzino di ogni età. Volerlo mettere a tacere - non avete idea, fidatevi, di quanto sia patetico provarci.
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Guida sragionata agli oscar 2016

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Un mese fa +eventi mi ha estorto per la versione cartacea uno di quei pezzi che non avevo mai avuto il coraggio di fare: il pronostico degli Oscar. Nel frattempo ho, ehm, rivisto qualche film e qualche giudizio, ed ecco qui le mie previsioni. Indovinarne il 50% sarebbe un grande successo.

Quando si gioca ad azzeccare gli oscar bisogna tenere a mente un dettaglio prezioso: i giurati dell’Academy per lo più non sono critici cinematografici, ma persone che nel cinema ci hanno lavorato. Davanti a un film, oltre alla riuscita artistica, vedono i loro colleghi che a volte stimano e a volte detestano; il loro impegno, la loro carriera che magari meritava più riconoscimenti, eccetera. Molti stanno a Hollywood; sono bianchi e maschi, ma quando scoprono che quest’anno non è stato candidato nemmeno un attore nero (non succedeva dal 1998) o una regista donna, possono preoccuparsi, e tentare di rimediare scegliendo film e attori che non sono necessariamente i più meritevoli. Detto questo, avanti coi pronostici (di solito ne indovino meno della metà).

Miglior film. Spielberg l’ha vinto solo per Schindler’s List: Il ponte delle spie è struggente ma non mi sembra all’altezza. Iñárritu ha viaggiato tra Patagonia e Alaska, ha girato a -40° con le luci naturali, ha quasi ammazzato Di Caprio di polmonite, ha detto che con gli effetti digitali e il green screen si fanno brutti film: tutte cose a cui i giurati non sono insensibili. Senonché ha già vinto l’anno scorso: se ce la facesse, credo che sarebbe il primo dai tempi di Selznik (1940). A questo punto forse ha qualche chance Mad Max, che agli appassionati di cinema piace ancora di più che al pubblico - ed è uno dei film d’azione più femminili mai girati. Invece premiare Spotlight dimostrerebbe una certa attenzione ai temi sociali (la pedofilia nel clero). Io tifo Room, così magari arriva in Italia prima.

Miglior regista. Anche qui, Iñárritu ha già vinto l’anno scorso - se ricapitasse, sarebbe la terza statuetta consecutiva a un messicano (nel 2012 Cuarón vinse con Gravity). Il premio non va a un americano dal 2009, il che mi porterebbe a dare una chance in più a Tom McCarthy (Spotlight) rispetto al pur meritevole veterano George Miller (Mad Max).

Miglior attore. Il vero rivale di Di Caprio potrebbe essere Bryan Cranston, attore fin qui più noto al pubblico di Breaking Bad, che presta il volto a uno dei sceneggiatori più famosi di sempre (Trumbo). Se c'è una cosa che piace ai giurati di Hollywood, sono i film su Hollywood. E tuttavia sono pur sempre mortali come noi, e a questo punto come noi devono essersi stancati delle battute su Di Caprio, che se si fa sbranare da un orso l’oscar lo danno all’orso, ahahah, ma anche basta. Glielo daranno per stanchezza - non che non lo meriti, ma se ci tenesse davvero così tanto avrebbe fatto meno film con Scorsese, sempre un po’ più difficili per i giurati (è più difficile raccattare statuette interpretando magnati psicopatici o truffatori senza scrupoli). Per dire, Fassbender non è molto più giovane, e un oscar prima o poi lo prenderà. E Matt Damon? Nessuno sembra lamentarsi che non vinca mai (ne ottenne uno a inizio carriera con Ben Affleck per la sceneggiatura di Will Hunting); eppure è in circolazione più o meno dallo stesso periodo di tempo di Di Caprio, e in Sopravvissuto è solo in scena per metà film. Ma è Matt Damon, con lui tutto sembra naturale.

Migliore attrice. La Lawrence non è un po’ giovane per il secondo oscar? La Blanchett l’ha già vinto nel 2014 ma forse lo merita più quest’anno. Se i giurati hanno un cuore, può essere il momento di onorare come si merita Charlotte Rampling. Saoirse Renan è brava sempre, se non è quest’anno sarà per la prossima volta.

Miglior attore non protagonista. Dopo i Golden Globe mi è venuta un’idea matta, e adesso non riesco a rinunciarci. E se toccasse a Stallone? Non è il premio più adatto a celebrare una carriera lunga e travagliata, ma se foste i giurati non avreste voglia di vedere Rocky su quel palco che solleva l’oscar? Anche se Tom Hardy è così bravo a fare il cattivo che in The Revenant tifavo per lui contro Di Caprio (t’immagini se Di Caprio non vince 
e lui sì?) Christian Bale invece fin qui non aveva mai deluso, ma in The Big Short fa le smorfie e suona la batteria malissimo.


Miglior attrice non protagonista. In un anno in cui le minoranze sembrano più discriminate del solito, potrebbe avere un certo peso il voto gay friendly - che però rischia di disperdersi tra Rooney Mara (Carol) e Alicia Vikander che aiuta il marito a cambiar sesso in The Danish Girl. Nel frattempo è da un po’ che la Winslet non vince una statuetta. La Leigh ha un ruolo divertente e fa cinema e tv da una vita, un po’ come l’Arquette che ha vinto l’anno scorso.

Miglior adattamento. Premiando The Big Short i giurati mostreranno la propria sensibilità sociale - anche se la sceneggiatura è un mezzo pasticcio, l’intenzione era buona. È poi è un film contro gli speculatori e i banchieri - chi vuol stare dalla parte degli speculatori e dei banchieri?

Miglior sceneggiatura originale. Siccome fin qui Il ponte delle spie è andato in bianco, questo può essere il contentino. Sarebbe anche il secondo oscar alla sceneggiatura per i Coen - così possono tenerlo entrambi sul camino. Sempre che non vivano assieme.


Miglior film d’animazione. È già stranissimo che Inside Out non abbia avuto una nomination per il miglior film o per la sceneggiatura. Tra i contendenti ci sono delle perle (Shaun!), ma i giurati di solito guardano anche la resa al botteghino e preferiscono il prodotto made in USA. Il premio esiste da 15 anni e la Pixar l’ha già vinto sette volte.

Miglior documentario. Gli Oscar 2015 rischiano di essere i più ‘bianchi’ e maschili degli ultimi vent’anni? Beh, tra i migliori documentari ce n’è uno su Nina Simone. Pare che sia anche molto bello, il che magari aiuta. Se la gioca contro Amy Winehouse, i cartelli colombiani e la guerra in Ucraina.

Miglior film straniero. Per lo stesso motivo di cui sopra, Mustang potrebbe avere una carta in più. È un film francese di una regista di origine turca; racconta la storia di cinque sorelle turche che non vogliono coprirsi i capelli… O Nina Simone o questo, ma un oscar le donne devono portarselo a casa.

Miglior colonna sonora. Morricone è alla sesta nomination, non ha mai vinto. Nel frattempo gli hanno dato un oscar alla carriera, ma non è proprio la stessa cosa.

Miglior canzone. Non dev’essere stato semplice per David Lang comporre la canzone che in Youth è presentata come un capolavoro - cioè, Sorrentino ti chiama e ti chiede: scrivimi un capolavoro. A me non dice un granché, ma le altre non le ricordo nemmeno…


Miglior fotografia. Tra Mad Max e The Revenant, il secondo ha qualche possibilità in più perché non è di fantascienza - e poi, le luci naturali. Una volta i giurati impazzivano per le luci naturali.

Effetti speciali. Fuor d’ironia, l’orso di The Revenant un oscar se lo merita davvero. Star Wars invece è  l’usato sicuro. Peccato per gli effetti low budget di Ex Machina, che se lo meriterebbero.

Tutti gli altri premi. Non ci provo nemmeno. Non ci azzecco mai.
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Davvero preferireste non esistere?

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La schiavitù scomparve ufficialmente in tutto il territorio negli Stati Uniti il 6 dicembre 1865, dopo che l'assemblea legislativa della Georgia ebbe ratificato il XIII emendamento che la proibiva, promosso da Lincoln. Era il ventisettesimo Stato a ratificarlo, su 36: a quel punto, oltrepassata la soglia dei tre quarti, l'emendamento entrava a far parte della Costituzione. Lincoln era già stato assassinato, ultima vittima di una guerra che aveva fatto quasi un milione di morti. Malgrado tutto questo, i cittadini afroamericani di molti Stati del sud non avrebbero avuto il diritto di voto ancora per un secolo. Il XIII emendamento, liberandoli, contribuì a renderli in un qualche modo cittadini di serie B. In alcuni casi rese più dure le loro condizioni di vita, negli Stati in cui i legislatori bianchi repressero le loro aspirazioni varando leggi che sostanzialmente li criminalizzavano: in Mississippi chi non rinnovava ogni anno il contratto di lavoro col piantatore poteva essere subito arrestato per vagabondaggio. A 150 anni di distanza, i neri degli USA hanno ancora la netta sensazione che nel lungo, faticosissimo processo di acquisizione dei diritti civili, qualcosa sia andato storto subito e non sia stato ancora raddrizzato. Premesso questo: voi nel 1865 avreste preferito restare schiavi? Vi sareste tenuti le catene?

Chi in questi mesi ha seguito con crescente frustrazione l'iter del ddl Cirinnà ha tutti i motivi per dirsi insoddisfatto del risultato. È vero, oggi è stata riconosciuta l'esistenza di una categoria di cittadini di serie B, che può unirsi ma non può sposarsi; che può condividere i beni, ma non la genitorialità. Tutto questo è ingiusto e avvilente, anche perché è stato causato dall'imperizia dei legislatori e dai calcoli sbagliati di qualche avventuriero politico. Detto questo: preferivate davvero continuare a non esistere?

A questo punto della storia il dibattito sul disegno di legge lo possiamo dare per consumato: ognuno può aver arbitrato uno o più match pubblici tra grillini e renziani, e decretato il vincitore, il più convincente nel rimpallare le accuse, le controaccuse e le responsabilità. Archiviamo anche la manfrina sul regolamento, i canguri e i supercanguri, e tutti i ragguagli dei politici che hanno provato a spiegarci le cose per punti, o con la lavagnetta - tra cui brillano quei poveri renziani che per 48 ore hanno ripetuto che Renzi non poteva mettere la fiducia, no no, era tecnicamente impossibile - dopodiché Renzi ha annunciato che l'avrebbe messa, e vabbe'. Diamo per espressa la rabbia nei confronti del blocco trasversale cattolico-conservatore, l'ingenuità degli elettori del PD che scoprono un nido di reazionari nel loro partito, la frustrazione di chi anche stavolta resterà senza diritti fondamentali - perdonate la bruschezza, ma anche se mi fermassi a piangere e a indignarmi con voi non sposterei di un centimetro il problema.

A questo punto a mio parere l'unica discussione che abbia ancora un senso è quella che da sempre più mi preme: l'eterna lotta tra il male e il meno peggio. Ovvero: è davvero utile il compromesso? Per me sì. La Cirinnà mutilata della stepchild adoption potrà farvi senso, ma è comunque meglio di niente. In linea di massima qualcosa è sempre meglio di niente, quando si parla di estendere i diritti civili a minoranze non riconosciute. Grazie al cielo, anzi, a Montesquieu, non ci sono soltanto i legislatori: ci sono anche i giudici, che per forza di cose hanno le idee più chiare. Fino a oggi i gay, per la giustizia, non esistevano: un parlamento oggi li ha riconosciuti, ma allo stesso tempo li ha penalizzati; sulla Costituzione però c'è scritto che i cittadini sono tutti uguali e di questo prima o poi i giudici dovranno tener conto: non è che siano rapidissimi, eh? ma possono essere più veloci dei legislatori. Comprendo la rabbia di tutti quelli che credevano che fosse la volta buona (anche se i numeri non ci sono mai stati, e l'inaffidabilità del M5S non è una nozione così inedita). Però, davvero: se il vostro interesse è che le cose cambino, e non fargliela vedere a Giovanardi e Adinolfi, il compromesso al ribasso è sempre meglio di nessun compromesso.

O no? Io ho in mente almeno due o tre esempi in cui si è arrivati all'uguaglianza attraverso una lunga serie di successi parziali e compromissori (ad esempio la sentenza della Corte Suprema USA l'estate scorsa). Voi avete in mente almeno una situazione in cui dire di no a un compromesso abbia portato in tempi brevi a un miglioramento?

Se pensate che la Cirinnà mutilata sia una pessima legge, e che Renzi non merita di essere celebrato per una vittoria di Pirro, avete la vostra parte di ragione. Ha sbagliato a mandare avanti una legge senza avere una reale maggioranza? Son cose che a volte si fanno: chiedere trentuno per ottenere trenta (in questo caso facciamo anche venticinque). A questo punto, però, a parte i proclami di intransigenza che forse servono a farvi sentire meglio, si tratta come sempre di capire cosa succederà. Non credete più in Renzi? Si può lavorare a un partito che stia alla sua sinistra: lo spazio c'è - ce n'è di più da oggi, se ci riflettete. Credete ancora, malgrado tutto, che non ci sia speranza né vita fuori dal PD? Sta per arrivare la prova del nove. Quando si ricomincerà a parlare di elezioni, si potrà oggettivamente valutare quanto Renzi creda in questa battaglia. Basterà contare i teodem nelle liste. Se la percentuale risultasse invariata rispetto al '13, saprete di essere stati ingenui a contare su di lui. Ma la percentuale potrebbe anche calare. E potrebbe calare proprio perché il ritardo italiano sui diritti civili costringerà Renzi a scegliere da che parte stare. Faccio presente che, per quanto sia giustamente desiderato, il matrimonio gay non è la vittoria finale che schiuderà i cancelli dell'Eden laico: all'orizzonte c'è il testamento biologico, e poi bisognerà rendere di nuovo effettivo il diritto all'aborto, ecc.

A chi ha la sensazione di vivere in tempi bui, e in un Paese sempre meno moderno, spero di non apparire troppo antipatico facendo presente che ci sono stati tempi ancora più bui e Paesi ancora meno moderni, e che non sempre - anzi, quasi mai - l'alba arriva in un istante: a volte bisogna procedere a tentoni, occupando ogni piccolo spazio che il nemico ti concede, e mantenendo un certo spirito anche quando ti accorgi che stai ripiegando che palle queste metafore guerresche. No, grazie al cielo, anzi, all'antifascismo, viviamo in una democrazia: un luogo molto imperfetto dove però dopo ogni sconfitta la palla torna al centro, e si riparte. Si può anche imparare dagli errori, volendo.
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I pedofili hanno bisogno delle vostre foto?

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E quindi insomma sembra proprio che condividere on line le foto dei vostri bambini sia un grosso favore che fate ai pedofili. Lo dice la Polizia di Stato, sarà vero: le catene che "impazzano" sul web, che domandano alle mamme di pubblicare le foto per dimostrare di essere "grandi madri", non fanno che ingrossare i cataloghi sconci degli orchi. Va bene. In linea di massima son convinto anch'io che pubblicare le foto dei propri bambini sui social network non sia il massimo. A questo punto però mi viene un dubbio: ma che razza di foto fate ai vostri bambini?

Sono un genitore anch'io: anch'io sono convinto che la mia creatura sia la più bella del mondo (credo sia una cosa chimica che avviene nel cervello, mi basta guardare le foto di qualche anno fa e non funziona già più). Anch'io l'ho fotografata sullo scivolo e travestita per carnevale. L'ho fotografata mentre dormiva e mentre mangiava e mentre faceva le facce buffe. L'ho fotografata perché cresce in fretta e ogni momento non tornerà mai più, perché ho la sensazione che il mondo se la stia perdendo, e perché, tra l'altro, l'arnese che scatta le foto l'ho quasi sempre in mano. Tutte queste foto a volte le mostro ad amici e colleghi - è una delle tante sfighe di avermi per collega o per amico. Non le metto su facebook, non mi va di regalarle a Zuckerberg. Oltretutto so bene - e ormai dovreste saperlo tutti - che a Zuckerberg non interessa metterle sotto chiave, anzi, chiunque può entrare, frugare nei suoi cassetti, copia-incollare le foto dei vostri bambini con lo yogurt sul naso o con la faccia da duro sul triciclo, e farci quel che vuole. Quindi no, io non metto le mie foto su internet.

Ma mica perché ho paura di un pedofilo a caccia di foto di bambini sullo scivolo, o travestiti da pappagallo. Cioè, magari esiste un pedofilo del genere - uno che cerca semplicemente bambini in pose normalissime, bambini all'asilo, bambini al parco, bambini su un piede solo, bambini col sugo sul naso, bambini che sbadigliano - ma sul serio uno così ha bisogno di rifornirsi dai profili facebook? Non può andare semplicemente su google? Cioè, parliamoci chiaro: nei vostri archivi avete qualcosa di anche lontanamente paragonabile?



Va avanti per centinaia di pagine - che si fa, chiudiamo google? Perché magari qualcuno che si eccita a sfogliare esiste. Ce n'è di gente strana a questo mondo. Qualche anni fa don Fortunato di Noto parlava di una rete di pedofili che si scambiavano, tra l'altro, ecografie. Ecografie. Era un periodo in cui non si poteva assolutamente esprimere anche solo un dubbio sulla lotta alla pedofilia, e quindi gliela lasciammo passare, però mi è rimasta questa cosa - insomma, uno che si eccita a guardare un'ecografia dev'essere veramente uno strano forte. Comunque, che vi posso dire: non condividete le ecografie (ma voi le siete più andate a rivedere le ecografie?)

Contrariamente a quanto dice indymedia, io non m'intendo molto di pedofili in rete o fuori: ma ho la sensazione che siano alla ricerca di qualcosa di un po' più spinto delle foto del vostro bambino travestito da Peppa Pig, e di qualcosa di più nitido di un'ecografia. Non voglio dire, non mi permetterei mai, che il vostro figlio non sia il più bello del mondo per chiunque, e quindi anche per l'occasionale internauta pedofilo: ma finché lo fotografate travestito da puffo secondo me non correte grossi rischi. Esisterà, certo, anche il feticista dei puffi. Non è nemmeno escluso, diciamo che c'è una possibilità su un miliardo che lui riesca a mettere le mani sulla vostra foto. Ecco, anche in quel caso senz'altro spiacevole, vorrei ricordare che vostro figlio non corre alcun rischio concreto: quella che avete messo in giro, senz'altro un po' avventatamente, è una sua immagine, non la sua anima - lo so, è dura convincersene. Forse non ci riusciremo mai davvero.
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Non t'immischiare con Capitan Totomorto

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La XXth Century Fox, in associazione con la Marvel Enterteinment non si vergogna affatto di presentarvi il nuovo film di un qualche cazzone. Nei panni del supereroe, un coglione. Con la straordinaria partecipazione della gnocca di turno. Poi c'è un cattivo dal forte accento inglese, la spalla comica, un'adolescente musona, un personaggio completamente fatto al computer, un cameo gratuito. Prodotto da dei figli di buona donna, scritto dai veri eroi qua dentro, diretto da un automa superpagato. (Questa non è una recensione, questi sono i veri titoli iniziali - per inciso, la cosa migliore del film. Dopo Morena Baccarin).
Lei è Morena Baccarin.

Dopo i supereroi coi superproblemi, i supereroi dal destino tragico e dalle grandi responsabilità, i supereroi recalcitranti, finalmente arriva Deadpool, ed è soltanto un coglione. Non è una ventata d'aria fresca? Un po' lo è. D'altro canto, non basta ammettere di essere coglioni per smettere di esserlo. A volte è il primo passo. Ma può anche essere un passo indietro. Di solito è il modo in cui cercavamo di sfangarla al liceo.

A volte penso a quanto sono fortunati i ragazzini di adesso, con tutti questi supereroi al cinema che ai miei tempi te li potevi soltanto sognare. Altre volte penso a quanto dev'essere difficile crescere in un mondo in cui i genitori conoscono tutti i personaggi dei tuoi sogni. Prendi Star Wars. Trent'anni fa era un mondo nuovo, qualcosa che creava un'immediata frattura tra il tuo mondo e quello dei grandi. Tuo padre non sapeva chi fosse Luke Skywalker - non era previsto che lo sapesse. Anzi, era previsto che non lo sapesse e non lo capisse. Invece adesso noi maledetti grandi coi capelli grigi sappiamo tutto, tutto. Tutte le vite di tutti gli eroi. Per i buchi di memoria ci sono le ristampe, le antologie, se proprio butta male wikipedia.

Nel frattempo, in virtù di un calcolo di mercato neppure troppo oscuro, l'Universo Cinematico Marvel continua a insistere su storie di quarant'anni fa, che perfino noi abbiamo letto in ristampa. Vedi l'ultimo Avengers: contiene due personaggi irrimediabilmente datati, l'androide Ultron e il suo antagonista buono, Visione, un tizio col mantello. Non so se vi rendete conto: il mantello. E quell'incarnato magenta che probabilmente negli anni Settanta era più pratico da stendere in quadricromia. Qual è il senso di resuscitare situazioni così vecchie, a parte compiacere i genitori che portano figli e nipotini e vogliono mostrare di saperla lunga? Per fortuna che da qualche cassetto la Fox ha tirato fuori Deadpool.

Una mossa abbastanza disperata, da parte di una major che negli ultimi anni ha fatto tutto quello che poteva fare per sputtanare gli eroi Marvel di cui deteneva ancora i diritti. Un Uomo Ragno per ragazze, un X-Men che ha definitivamente incasinato la timeline, un Fantastici Quattro horror, e poi cosa?
"Ci sarebbe un assassino psicopatico onnisessuale che non tace mai".
"Stai scherzando?"
"Ryan Reynolds ci tiene tantissimo".
"Ah beh allora".
"È un personaggio autoironico, dice un sacco di parolacce, infilza la gente con le spade..."
"Non si può fare, lo vieterebbero ai minori".
"Magari così funziona".
"Dici?"
"Teniamo basso il budget e vediamo. Insomma qualcosa prima o poi dovrà pur funzionare. È la legge dei grandi numeri".

Beh, ha funzionato. Però resta un sospetto. Forse più dell'autoironia da quattro soldi, di quel turpiloquio da macchinetta delle merendine, più di quella cosa così sovversiva che è sfondare la quarta parete (che non è un valore in sé, se la sfondi solo per dire cretinate) Deadpool ha funzionato proprio perché noi vecchi non lo conosciamo. Chi è questo Deadpool, in fin dei conti?

Che è un po' come chiedersi chi è questo Eminem di cui tutti i parlano - sì, il personaggio nei fumetti fa sfracelli già da più di vent'anni. Ma noi lo abbiamo appena intravisto, quindi dev'essere l'ultimo arrivato. E come si permette di sbancare il botteghino?
Se Deadpool ha un merito - non sono del tutto sicuro che ce l'abbia - è proprio quello di tagliarci fuori. Finalmente un supereroe che non è fatto per noi. Il film non ha niente di originale - anzi, cavalca senza vergogna e con una certa foga tutti gli stereotipi del genere "origini di un eroe". Di buono ci mette uno script compatto, che mira al sodo e taglia tutto il grasso; si sente che stavolta gli sceneggiatori non provavano la solita ansia da primo episodio ("Oh mio dio devo raccontare le origini di questo famoso personaggio senza tradire i fans e trasformandolo in un eroe maturo a metà del secondo tempo"). Deadpool non è una leggenda, Deadpool è una barzelletta: era essenziale non tirarla in lungo. Detto questo, rimane pur sempre la storia della sfida mortale tra due galletti che ce l'hanno a morte perché hanno iniziato a sfottersi in un corridoio. Il target è più ristretto del solito: è un film che in patria è vietato ai minori di 16 e che nessun normodotato maggiore di 24 dovrebbe avere un motivo serio per guardarsi. Gli X-Men forniscono due guest star, si fa per dire, due avanzi di continuity che rappresentano abbastanza fedelmente l'idea che lo spettatore tra i 16 e i 24 ha della generazione successiva (una teen-ager musona che whatsappa durante il combattimento) e della precedente, ovvero Colosso. Ecco: il nobile Colosso, che finalmente ha recuperato il suo accento russo, è il personaggio in cui gli spettatori più grandi sono costretti a immedesimarsi. Per tutto il film non fa che chiedere a Deadpool di non fare il deficiente. Indovinate che figura ci fa.

Deadpool, tra le altre cose, è un segnale eloquente che mi manda l'industria cinematografica: la vuoi piantare di andare a vedere i film di supereroi e di uscire deluso? Cosa ti aspetti ancora alla tua età da dei tizi in maschera e tutina colorata? Da bravo, perché non vai a vedere i film intensi o di denuncia sociale o non porti semplicemente i tuoi popcorn ai piccioni nel parchetto più vicino? Niente di personale ma insomma ci spaventi i clienti veri. I ragazzini. Deadpool è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40), all'Impero di Bra (20:20, 22:30), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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