Dylan prende e porta a casa
18-02-2017, 01:41Bob Dylan, musicaPermalinkBringing It All Back Home (1965)
Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po' di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo - Uh Uh Uh Uh
Aspetta un momento - Ah Ah Ah Ah
Vabbe', Take Due.
Se per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l'inizio di Bob Dylan's 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l'hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato - è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence - ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po' di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo "vorrei un blues di 16 battute in la", e si comincia. Vada come deve andare.
È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l'età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell'elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è "elettrico" - ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni '90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all'altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan's 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po' di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.
Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin'. Anche Bringing in certi punti riprende l'attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin'. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin', come l'universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell'album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l'abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock'n'roll elettrico se lo portava dietro sin dall'infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?
È un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos'è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo - nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde - come biasimarlo? - Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l'ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l'impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin', Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un'idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c'è? Miracolosamente quel giorno non c'è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all'altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l'annuncio di una falsa partenza: "Ero a bordo del Mayflower", canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solo. Ah ah ah, vabbe', ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell'idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l'anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.
È un periodo magico. C'è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l'immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l'icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un'idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c'è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l'ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.
Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l'espressione "porta a casa", che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si "riporta a casa" una vittoria, quando ci spetta di diritto - quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock'n'roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un'altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un'impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io - ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.
Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l'ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l'accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all'ovile, salvo che... dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe', facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni '80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.
Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent'anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny's in the basement, mixing up the medicine) - e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I'm on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. ("Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento"). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta' attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c'era sempre l'esercito. Ma soprattutto: "non seguire i leader, guarda i parchimetri". Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C'è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull'attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent'anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.
Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero "homesick", ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov'è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato - se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper's Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l'ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt'oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).
Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l'amo lo stesso (Outlaw Blues).
Non doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una "brown-skin woman" in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l'attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin': il che significa che da qualche parte c'è ancora l'italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l'unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l'unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.
Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c'è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)
She belongs to me è un'impossibile metà strada tra il blues e la canzone d'amore: chiunque sia la protagonista ("è un'artista, non si guarda indietro"), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un'antichità che cammina)? È Sara? È l'Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l'assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.
Be' mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c'è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C'è una rissa in cucina, c'è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai? (continua sul Post)
(L'album precedente: Concert at Philharmonic Hall
L'album successivo: No Direction Home).
Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po' di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo - Uh Uh Uh Uh
Aspetta un momento - Ah Ah Ah Ah
Vabbe', Take Due.
Se per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l'inizio di Bob Dylan's 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l'hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato - è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence - ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po' di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo "vorrei un blues di 16 battute in la", e si comincia. Vada come deve andare.
È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l'età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell'elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è "elettrico" - ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni '90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all'altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan's 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po' di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.
Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin'. Anche Bringing in certi punti riprende l'attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin'. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin', come l'universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell'album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l'abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock'n'roll elettrico se lo portava dietro sin dall'infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?
È un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos'è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo - nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde - come biasimarlo? - Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l'ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l'impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin', Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un'idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c'è? Miracolosamente quel giorno non c'è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all'altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l'annuncio di una falsa partenza: "Ero a bordo del Mayflower", canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solo. Ah ah ah, vabbe', ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell'idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l'anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.
È un periodo magico. C'è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l'immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l'icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un'idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c'è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l'ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.
Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l'espressione "porta a casa", che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si "riporta a casa" una vittoria, quando ci spetta di diritto - quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock'n'roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un'altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un'impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io - ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.
Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l'ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l'accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all'ovile, salvo che... dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe', facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni '80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.
Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent'anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny's in the basement, mixing up the medicine) - e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I'm on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. ("Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento"). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta' attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c'era sempre l'esercito. Ma soprattutto: "non seguire i leader, guarda i parchimetri". Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C'è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull'attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent'anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.
Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero "homesick", ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov'è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato - se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper's Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l'ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt'oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).
Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l'amo lo stesso (Outlaw Blues).
Non doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una "brown-skin woman" in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l'attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin': il che significa che da qualche parte c'è ancora l'italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l'unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l'unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.
Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c'è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)
She belongs to me è un'impossibile metà strada tra il blues e la canzone d'amore: chiunque sia la protagonista ("è un'artista, non si guarda indietro"), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un'antichità che cammina)? È Sara? È l'Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l'assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.
Be' mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c'è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C'è una rissa in cucina, c'è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai? (continua sul Post)
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L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)
16-02-2017, 07:55cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, omofobie, razzismi, sessoPermalinkMoonlight (Barry Jenkins, 2016).
Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.
Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?
Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.
Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)
Come il Gus Van Sant del periodo di Elephant o Paranoid Park, Jenkins sembra convinto che il cinema debba sostanzialmente puntare un faretto su dei ragazzi, senza complicazioni sociologiche e psicologiche che ci turberebbero la contemplazione di questi teneri esserini che non sanno mai cosa dire e fanno i broncetti. Sin da quando attira l'attenzione della macchina da presa fuggendo dai suoi compagni nella prima scena, Chiron non sembra vittima di una società o di un pregiudizio, ma del destino: è nato "faggot", non gli resta che scappare o nascondersi o rispondere alla violenza - unica possibilità di sopravvivere. I suoi stessi avversari non hanno motivazioni né storia, sembrano lì dall'eternità per torturare il prossimo: non è il bullismo, è la natura.
Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.
Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?
Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.
Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)
C'è anche Janelle Monàe, di mestiere è una cantante matta, ma qui fa una particina quasi normale. |
Non è che Moonlight non abbia i suoi pregi (una fotografia d'altri tempi, che tratta con rispetto anche lo sfacelo suburbano), ma è curioso che abbia messo d'accordo praticamente tutti. È un film minimale ed è forse una certa sobria economia di mezzi e di campi che ci fa temporaneamente dimenticare che la storia è quella che hai sentito in un migliaio di rap diversi: man, il mio quartiere era il più duro, mia madre si sballava, sono dovuto diventare grande in fretta (man) e adesso guarda che bei pantaloni che ho, invidioso? Non nego che tutta questa roba sia degna d'interesse antropologico, ma è davvero la stessa lagna da vent'anni, man. L'unica cosa un po' insolita, appunto, è l'omoerotismo, ma somministrato con puritana parsimonia - è un film che tratta il pene come una questione irrisolta e abbastanza astratta, irriferibile e invisibile: lo si può tranquillamente programmare in prima serata. Adele non era così - è anche una questione di gusti, mi rendo conto, ma nel 2016 se vuoi fare un film tutto su due persone che vogliono toccarsi, perché non le inquadri mentre si toccano davvero? Di cosa hai paura? Di non vincere un Oscar e tornare a fare il carpentiere? No, man, ti capisco, e poi in fondo non è la mia roba, boh, guarda, rispetto. Moonlight è al cinema Vittoria di Bra (20:00, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (20:00).
Il lungo addio alla zingara
10-02-2017, 19:06Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkBob Dylan Live 1964, Concert at Philharmonic Hall (The Bootleg Series, Vol. 6, 2004).
Quanto alla Regina dei folksinger, non poteva che essere Joan Baez. Joan aveva la mia stessa età e il nostro futuro sarebbe stato unito, ma a quell'epoca sarebbe stato risibile perfino pensarlo. C'era un suo disco su etichetta Vanguard intitolato semplicemente Joan Baez e l'avevo vista alla televisione, in un programma di musica folk della Cbs, prodotto a New York e trasmesso in tutta la nazione. [...] Non riuscivo a smettere di guardarla, non volevo nemmeno battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell'aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po' sollevate, non era esattamente Raggedy Ann, la bambola di pezza. Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. E poi c'era la sua voce. Una voce che cacciava via gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta (Chronicles I).
A tutti i suoi coetanei dev'essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (perché sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d'amore, che invece in un qualche modo c'è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall'ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come una zavorra. Dev'essere difficile mantenere l'oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez - la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.
Quando si presenta al più famoso auditorium di New York, la notte di Halloween, Dylan è il tizio con cui Joan Baez fa coppia abbastanza fissa ai concerti, nonché un affermato folksinger con tre dischi all'attivo (più il primo già ampiamente dimenticato), di cui due usciti proprio in quel 1964: il manifesto del folk di protesta (The Times They Are A-Changin') e il disco in cui ha preso le distanze dal folk di protesta (Another Side of Bob Dylan). Ci sarebbe insomma già abbastanza per rendere lo show vario e interessante. Invece, in un'ora e mezza netta di esibizione, Dylan canterà appena tre pezzi di The Times, cinque da Another Side, tre da The Freewheelin'. Tutto il resto della scaletta consiste in brani inediti: otto! Ci sono alcuni scarti di cui non si riesce a liberare: addirittura è tornata in circolazione la vecchia Talkin' John Birch, con una strofa nuova in cui l'anticomunista paranoide se la prende col postino. Il pubblico ride. C'è Who Killed Davey Moore, il rap anti-pugilato di cui vuole forse ribadire la paternità dopo che è stato inciso da Pete Seeger. C'è già insomma ben chiara nella mente di Dylan l'idea che l'artista dal vivo debba spiazzare il pubblico, e non confortarlo con la riproposizione dei soliti pezzi.
Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c'è un abisso: l'idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l'ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, ("ninna nanna sacrilega", la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un'autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l'assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d'Utopia in sella al Vitello d'oro ti promettono il paradiso e nessuno ride - salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c'è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo?
C'è un metodo dietro a questa pazzia, ed eccezionalmente Dylan lo descrive nell'ultima strofa: "all'alba il mio amore viene da me e mi racconta dei suoi sogni. Non ci prova nemmeno a interpretarli uno per uno. A volte penso che non ci sono altre parole per raccontare quel che è vero". Insomma è entrato nel periodo surrealista, così, di colpo (solo Hard Rain poteva far pensare a un'evoluzione del genere, e infatti è rimasta in scaletta). Il bardo che si ispirava alle notizie sul giornale per cantare del naufragio del Picnic al monte Orso o della morte di Hattie Carroll, da qui in poi si servirà degli stessi giornali per realizzare dei collage dadaisti (o dei cut-up alla Burroughs, Dylan si tiene aggiornato). Se vi fate poeti dadaisti, ed estraete parole a caso da un sacchetto, diceva Tristan Tzara, esse comporranno una poesia che "vi somiglierà": e non c'è dubbio che le immagini buttate a caso da Dylan in Gates e It's Alright Ma somiglino a lui, e al mondo saturo di simboli in cui vive. Qua e là galleggiano grumi di senso, aforismi che probabilmente gli ronzavano già in testa e che sono poi i versi che tutti amano citare: "Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire"; "Cristi di carne fosforescente", "Anche il Presidente degli Stati Uniti a volte deve comparire nudo", "Il denaro non parla: bestemmia". Tutto intorno una cascata di immagini che assomiglia al vaniloquio di un chitarrista che butta fuori parole provvisorie sulla melodia che sta provando. Una forma funzionale di scrittura automatica, portata agli estremi in It's Alright Ma. Sono i testi che danno meno soddisfazione ai dylaniti non anglofoni: anche chi riesca a correre dietro al senso del verso, rischia di perdere la visione di insieme (ma c'è un insieme?): quanto alle traduzioni, sembrano davvero collage dada, non c'è niente che abbia un senso slegato dal suono. Buio allo scocco del mezzogiorno, ombre anche nel cucchiaio d'argento, la lama fatta a mano, il pallone del bambino eclissa sia il sole sia la luna per comprendere (lo sai) troppo presto che non ha nemmeno senso provarci. Eeeeh? Però in inglese fila. Al Philharmonic Dylan snocciola una versione che è più o meno la stessa che inciderà in studio qualche mese più tardi, con qualche variante d'autore e una sola papera, in nove minuti di esecuzione: una volta composto il collage non si tocca più. Se Gates of Eden è una parodia di inno sacro, It's Alright è un talking blues capovolto, verboso e in minore. Dylan spara questi due brani nuovissimi quasi in sequenza dopo venti minuti di concerto: e se questa non fosse una sorpresa sufficiente, come intermezzo tra i due deliri propone in anteprima qualcosa di completamente diverso e (all'apparenza) meno dirompente: If You Gotta Go, Go Now.
La suona come tutte le altre, con chitarra e armonica, ma anche così è chiarissimo che non è un pezzo folk. È in quattro quarti: è un rock'n'roll. Persino se non l'hai mai ascoltata (non è un brano così famoso, nel 1965 uscì come singolo soltanto nei Paesi Bassi), ti viene comunque l'impulso di battere le mani. Mia cara, non voglio farti pressione, ma tra un po' qui sarà buio e non riuscirai a trovare la porta, per cui se vuoi andare vattene... ma vattene adesso. Sennò ti tocca restare tutta la notte. Il pubblico ride di gusto, doveva essere una situazione divertente al tempo, insolita. O forse era insolito che qualcuno ne parlasse, ci ridesse su. Dopo un'ora di concerto, il pubblico del Philharmonic sa cosa aspettarsi dal suo divo per il 1965: surrealismo e rock'n'roll, sarà un'annata interessante. Ma prima bisogna congedarsi dal passato. Sul palco è attesa Joan Baez.
Dylan l'aveva già evocata all'inizio del concerto, coi due brani di Another Side più direttamente ispirati a lei. Il primo è Spanish Harlem Incident: sì, secondo me la zingara è Joan. Non è che possa dimostrarlo, ma si tratta della prima canzone d'amore non perduto, non frustrato, che Dylan abbia mai inciso. Fino a Spanish Harlem l'amore era quello dolente e smarrito del blues. E a parte la rilevante eccezione di Girl of the North Country, questa perdita era espressa con una buona dose di rancore, riversato il più delle volte sulla povera Suze Rotolo. Spanish Harlem è al di là di tutto questo. La zingara ha mani e piedi ardenti (Joan si esibiva a piedi nudi), ha occhi di perla e denti che brillano al buio come diamante ("Avevo paura a incontrarla. Magari mi avrebbe affondato le zanne nella nuca", scriverà in Chronicles). La zingara può leggere il destino di Dylan nel suo palmo irrequieto - in almeno una conferenza stampa, per tagliar corto sulla sua relazione, lui la definì la sua "cartomante". La zingara lo ha inghiottito. Lo ha sventrato, la zingara lo ha messo al mondo ("You have slayed me, you have made me"): la zingara può circondarlo e renderlo reale. Una cosa che non può fare, è perderlo: non è proprio in discussione. Dylan sarà geloso di molte donne, ma non della Baez. Spanish Harlem è il brano in cui si dichiara suo figlio e suo trastullo: la canterà solo quella sera, non risultano altre esecuzioni dal vivo in cinquant'anni.
To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l'immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall'ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.
Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo introduceva dopo aver cantato Blowin' in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da appena un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po', riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll - e poi la fa salire senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell'anno seguente. È una specie di seguito di Don't Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all'addio, e non c'è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi "meaningless ring": a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta "Daddy", Dylan canta "Mama", non è un vero e proprio duetto e non è un'armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu inciso al tempo: il pubblico è felice di vederli assieme, ma la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don't Think Twice probabilmente perché l'aveva attaccata sulla nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.
Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni (continua sul Post)
(L'album precedente: Another Side of Bob Dylan
L'album successivo: Bringing It All Back Home).
Quanto alla Regina dei folksinger, non poteva che essere Joan Baez. Joan aveva la mia stessa età e il nostro futuro sarebbe stato unito, ma a quell'epoca sarebbe stato risibile perfino pensarlo. C'era un suo disco su etichetta Vanguard intitolato semplicemente Joan Baez e l'avevo vista alla televisione, in un programma di musica folk della Cbs, prodotto a New York e trasmesso in tutta la nazione. [...] Non riuscivo a smettere di guardarla, non volevo nemmeno battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell'aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po' sollevate, non era esattamente Raggedy Ann, la bambola di pezza. Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. E poi c'era la sua voce. Una voce che cacciava via gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta (Chronicles I).
A tutti i suoi coetanei dev'essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (perché sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d'amore, che invece in un qualche modo c'è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall'ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come una zavorra. Dev'essere difficile mantenere l'oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez - la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.
Quando si presenta al più famoso auditorium di New York, la notte di Halloween, Dylan è il tizio con cui Joan Baez fa coppia abbastanza fissa ai concerti, nonché un affermato folksinger con tre dischi all'attivo (più il primo già ampiamente dimenticato), di cui due usciti proprio in quel 1964: il manifesto del folk di protesta (The Times They Are A-Changin') e il disco in cui ha preso le distanze dal folk di protesta (Another Side of Bob Dylan). Ci sarebbe insomma già abbastanza per rendere lo show vario e interessante. Invece, in un'ora e mezza netta di esibizione, Dylan canterà appena tre pezzi di The Times, cinque da Another Side, tre da The Freewheelin'. Tutto il resto della scaletta consiste in brani inediti: otto! Ci sono alcuni scarti di cui non si riesce a liberare: addirittura è tornata in circolazione la vecchia Talkin' John Birch, con una strofa nuova in cui l'anticomunista paranoide se la prende col postino. Il pubblico ride. C'è Who Killed Davey Moore, il rap anti-pugilato di cui vuole forse ribadire la paternità dopo che è stato inciso da Pete Seeger. C'è già insomma ben chiara nella mente di Dylan l'idea che l'artista dal vivo debba spiazzare il pubblico, e non confortarlo con la riproposizione dei soliti pezzi.
Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c'è un abisso: l'idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l'ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, ("ninna nanna sacrilega", la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un'autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l'assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d'Utopia in sella al Vitello d'oro ti promettono il paradiso e nessuno ride - salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c'è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo?
C'è un metodo dietro a questa pazzia, ed eccezionalmente Dylan lo descrive nell'ultima strofa: "all'alba il mio amore viene da me e mi racconta dei suoi sogni. Non ci prova nemmeno a interpretarli uno per uno. A volte penso che non ci sono altre parole per raccontare quel che è vero". Insomma è entrato nel periodo surrealista, così, di colpo (solo Hard Rain poteva far pensare a un'evoluzione del genere, e infatti è rimasta in scaletta). Il bardo che si ispirava alle notizie sul giornale per cantare del naufragio del Picnic al monte Orso o della morte di Hattie Carroll, da qui in poi si servirà degli stessi giornali per realizzare dei collage dadaisti (o dei cut-up alla Burroughs, Dylan si tiene aggiornato). Se vi fate poeti dadaisti, ed estraete parole a caso da un sacchetto, diceva Tristan Tzara, esse comporranno una poesia che "vi somiglierà": e non c'è dubbio che le immagini buttate a caso da Dylan in Gates e It's Alright Ma somiglino a lui, e al mondo saturo di simboli in cui vive. Qua e là galleggiano grumi di senso, aforismi che probabilmente gli ronzavano già in testa e che sono poi i versi che tutti amano citare: "Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire"; "Cristi di carne fosforescente", "Anche il Presidente degli Stati Uniti a volte deve comparire nudo", "Il denaro non parla: bestemmia". Tutto intorno una cascata di immagini che assomiglia al vaniloquio di un chitarrista che butta fuori parole provvisorie sulla melodia che sta provando. Una forma funzionale di scrittura automatica, portata agli estremi in It's Alright Ma. Sono i testi che danno meno soddisfazione ai dylaniti non anglofoni: anche chi riesca a correre dietro al senso del verso, rischia di perdere la visione di insieme (ma c'è un insieme?): quanto alle traduzioni, sembrano davvero collage dada, non c'è niente che abbia un senso slegato dal suono. Buio allo scocco del mezzogiorno, ombre anche nel cucchiaio d'argento, la lama fatta a mano, il pallone del bambino eclissa sia il sole sia la luna per comprendere (lo sai) troppo presto che non ha nemmeno senso provarci. Eeeeh? Però in inglese fila. Al Philharmonic Dylan snocciola una versione che è più o meno la stessa che inciderà in studio qualche mese più tardi, con qualche variante d'autore e una sola papera, in nove minuti di esecuzione: una volta composto il collage non si tocca più. Se Gates of Eden è una parodia di inno sacro, It's Alright è un talking blues capovolto, verboso e in minore. Dylan spara questi due brani nuovissimi quasi in sequenza dopo venti minuti di concerto: e se questa non fosse una sorpresa sufficiente, come intermezzo tra i due deliri propone in anteprima qualcosa di completamente diverso e (all'apparenza) meno dirompente: If You Gotta Go, Go Now.
La suona come tutte le altre, con chitarra e armonica, ma anche così è chiarissimo che non è un pezzo folk. È in quattro quarti: è un rock'n'roll. Persino se non l'hai mai ascoltata (non è un brano così famoso, nel 1965 uscì come singolo soltanto nei Paesi Bassi), ti viene comunque l'impulso di battere le mani. Mia cara, non voglio farti pressione, ma tra un po' qui sarà buio e non riuscirai a trovare la porta, per cui se vuoi andare vattene... ma vattene adesso. Sennò ti tocca restare tutta la notte. Il pubblico ride di gusto, doveva essere una situazione divertente al tempo, insolita. O forse era insolito che qualcuno ne parlasse, ci ridesse su. Dopo un'ora di concerto, il pubblico del Philharmonic sa cosa aspettarsi dal suo divo per il 1965: surrealismo e rock'n'roll, sarà un'annata interessante. Ma prima bisogna congedarsi dal passato. Sul palco è attesa Joan Baez.
Dylan l'aveva già evocata all'inizio del concerto, coi due brani di Another Side più direttamente ispirati a lei. Il primo è Spanish Harlem Incident: sì, secondo me la zingara è Joan. Non è che possa dimostrarlo, ma si tratta della prima canzone d'amore non perduto, non frustrato, che Dylan abbia mai inciso. Fino a Spanish Harlem l'amore era quello dolente e smarrito del blues. E a parte la rilevante eccezione di Girl of the North Country, questa perdita era espressa con una buona dose di rancore, riversato il più delle volte sulla povera Suze Rotolo. Spanish Harlem è al di là di tutto questo. La zingara ha mani e piedi ardenti (Joan si esibiva a piedi nudi), ha occhi di perla e denti che brillano al buio come diamante ("Avevo paura a incontrarla. Magari mi avrebbe affondato le zanne nella nuca", scriverà in Chronicles). La zingara può leggere il destino di Dylan nel suo palmo irrequieto - in almeno una conferenza stampa, per tagliar corto sulla sua relazione, lui la definì la sua "cartomante". La zingara lo ha inghiottito. Lo ha sventrato, la zingara lo ha messo al mondo ("You have slayed me, you have made me"): la zingara può circondarlo e renderlo reale. Una cosa che non può fare, è perderlo: non è proprio in discussione. Dylan sarà geloso di molte donne, ma non della Baez. Spanish Harlem è il brano in cui si dichiara suo figlio e suo trastullo: la canterà solo quella sera, non risultano altre esecuzioni dal vivo in cinquant'anni.
To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l'immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall'ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.
Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo introduceva dopo aver cantato Blowin' in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da appena un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po', riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll - e poi la fa salire senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell'anno seguente. È una specie di seguito di Don't Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all'addio, e non c'è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi "meaningless ring": a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta "Daddy", Dylan canta "Mama", non è un vero e proprio duetto e non è un'armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu inciso al tempo: il pubblico è felice di vederli assieme, ma la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don't Think Twice probabilmente perché l'aveva attaccata sulla nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.
Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni (continua sul Post)
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L'audace colpo dei soliti ricercatori
07-02-2017, 18:4321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, fb2020PermalinkSmetto quando voglio 2 - Masterclass (Sidney Sibilia, 2017)
Sono tornati, hanno ancora fame. Dopo essersi spinti ben oltre i limiti della legalità, dopo averne pagato le conseguenze con gli interessi, i Ricercatori hanno finalmente trovato un Ente statale che apprezza le loro straordinarie competenze. E ha un lavoro da offrire, capite? Un lavoro.
A progetto, naturalmente.
Senza assicurazione, beh, ovvio.
In nero, già. Di chi si tratta?
Della Polizia di Stato. Cosa hanno da perdere? Tutto.
Possono almeno smettere quando vogliono?
No.
Sono passati appena due anni - sembra un'era - da quando Sidney Sibilia, al suo esordio dietro la macchina, scoprì la formula che trasformava in action comedy una frustrazione tutta italiana (la fuga dei cervelli, il precariato dei ricercatori). Smetto quando voglio ci pigliò benissimo, era qualcosa di cui non sapevamo quanto avessimo bisogno, finché non l'abbiamo provato.
Da allora la situazione è parecchio cambiata. Mentre Sibilia riposava altri si sono inseriti nel mercato, mettendo in circolazione formule ancora più spinte. Jeeg Robot e Veloce come il vento non sono nemmeno più commedie, sono action e basta: le inevitabili tracce di parodia ridotte al minimo. Smetto quando voglio 2 accetta la sfida: volete l'action? Vi daremo inseguimenti nel parco archeologico e un assalto al treno merci in side-car, con scazzottata in cima ai vagoni. E questo è ancora niente, per la terza puntata ne abbiamo in serbo di fortissime... Per fortuna Sibilia è molto più consapevole dei propri limiti di quanto non appaia: sotto l'apparenza sbruffona c'è una precisa valutazione di quello che può funzionare e quello che sarebbe bello sulla carta, ma è meglio lasciar perdere. Per esempio a un certo punto ci porta a Bangkok, ci illude facendoci sentire odore di kickboxing, ci guida tra i meandri di un mercato e proprio quando sembriamo arrivati a un ring clandestino, taglia corto e la butta in farsa. Action sì, ma con criterio, certe competenze non s'improvvisano. La scena più simbolica è davvero l'inseguimento ferroviario, movimentato e complesso ma prudentemente mantenuto ai sessanta km all'ora. Più forte di così per ora il cinema italiano non può andare: è un problema? Per un regista italiano è già molto, come fai a prendertela con Sibilia? Dopo un inverno di cinepanettoni, cinepandori, cinetorroni, i suoi ricercatori-supereroi sembrano venire da un altro pianeta. Lui stesso sembra sapere che i suoi clienti gli permetteranno qualsiasi cosa e ormai si comporta da impunito, scherza coi feticci del Terzo Reich, flirta col proibizionismo ma solo per far andare avanti la trama. Per quanto ispiri simpatia, si merita d'essere preso sul serio, perché è vero che ha già fatto tanto per l'ecosistema del cinema di genere italiano, ma con un piccolo sforzo potrebbe fare anche di più.
Per esempio: c'era proprio bisogno di ampliare il cast? (Continua su +eventi!) Certo, siamo tutti contenti di vedere Giampaolo Morelli nella banda, ma ormai a ogni comprimario spetta poco più che un siparietto (mentre per paradosso il ruolo di Edoardo Leo diventa ancora più centrale). E se allargare la squadra era l'unico modo per mantenere alto il ritmo, possibile che anche stavolta non ci fosse posto per una ricercatrice? Forse che di studiose super-specializzate e sotto-occupate l'Italia non abbonda? Ecco, un rilievo che si può fare a Smetto quando voglio 2, è che per quanto ammicchi a prodotti americani come Suicide Squad e Ritorno al futuro, non riesce del tutto a uscire dal solco di Amici miei o dei Soliti ignoti: la sua Banda di intellettuali declassati continua ad assomigliare a una cumpa di amici in libera uscita. Un gruppo di soli uomini che fanno per lo più le cose stupide che fanno gli uomini quando escono da soli: zingarate, corse in furgone, droghe di sintesi.
Non è che le donne del film siano stupide, tutt'altro: ma rappresentano una forza ostile che espone la Banda a tensioni distruttive. Greta Scarano (meravigliosa) è la poliziotta senza molti scrupoli che approfitta dei Ricercatori come un qualsiasi barone universitario; Valeria Solarino interpreta in modo sempre più arcigno il Principio della Realtà, pretendendo dal protagonista una normalità impossibile: quando lei è in scena anche il filtro del colore si deprime. E tra i pochi personaggi che non ritornano nel secondo episodio purtroppo c'è la moglie sinti dell'economista De Rienzo. Sarà un pelo nell'uovo, ma siamo nel 2017, persino quel burino di Luc Besson ha capito che i film d'azione oggi si fanno coi protagonisti femminili; e noi ancora stiamo alla moglie col pancione che si lamenta delle rate sulla lavastoviglie, pretende che il marito chimico-spacciatore-informatore faccia il buon marito e l'accompagni alle ecografie anche se è detenuto. E dire che sarebbe bastato aggiungere un'architetta geniale, o una psicologa, un'esperta di biotecnologie, ce n'erano dei rami da coprire. Speriamo nel terzo episodio: e che anche dopo nessuno abbia troppa voglia di smettere. Smetto quando voglio 2 - Masterclass è al Cityplex di Alba (19:30; 21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00; 22:30); al Vittoria di Bra (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (17:00; 20:00; 22:15 e al Cinecittà di Savigliano (20:15; 22:30).
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Dylan vuole che restiamo amici
04-02-2017, 03:18Bob Dylan, musicaPermalinkAnother Side of Bob Dylan (1964).
Sono nella media, un tipo comune; sono come lui, sono come te. Sono il fratello o il figlio di chiunque, non sono diverso da nessuno. Non ha senso parlare con me: sarebbe come parlare con te stesso (I Shall Be Free No. 10)
Più tardi nell'estate, dopo aver incontrato Dylan durante il loro primo tour americano, i Beatles sarebbero tornati ad Abbey Road per incidere un altro album, il quarto in due anni. In ottobre era pronto - nel frattempo si erano rimessi a fare concerti. Non era un brutto disco, Beatles for Sale, ma sin dal titolo metteva le cose in chiaro: si trattava di un 33giri messo assieme alla svelta, per esigenze contrattuali. Un po' inferiore alla loro media. Per riempirlo avevano dovuto ricorrere al vecchio repertorio, cover di rock'n'roll e qualche scarto dei dischi precedenti. La Beatlemania era al culmine, nel Regno e negli USA, ma i Beatles continuavano a incidere e suonare in fretta e furia.
Per quante volte la senti raccontare, la storia dei Beatles rimane qualcosa di inverosimile. In otto anni, dodici LP di studio, due centinaia di composizioni originali. Poi uno si stupisce che siano durati poco, ma è incredibile che abbiano resistito così tanto: e quegli anni valevano almeno il triplo di quelli di adesso, succedevano cose continuamente. Cosa sono otto anni al giorno d'oggi? Il 90% degli artisti che ascolti oggi incidevano già nel 2009 (persino Fedez, capite? Anche lui ha già alle spalle più anni di carriera dei Beatles). In dieci anni i più prolifici fanno quattro, cinque dischi al massimo: e il mercato è già saturo così. Ma i gruppi di ventenni che fiorirono a metà degli anni Sessanta, sulla scia dei Beatles, firmavano contratti che prevedevano in media due uscite all'anno. Del resto chi ascoltava i Kinks non poteva fare molto altro che aspettare un altro disco dei Kinks. La generazione dei baby-boomers, appena uscita dal liceo con in tasca la paghetta dei genitori o il primo stipendio, era già diventata il segmento più importante del mercato. Non avrebbero comprato i dischi che piacevano ai genitori: e gli artisti coetanei erano ancora molto pochi, dovevano darci dentro come dannati per soddisfare la domanda di canzoni nuove. È evidente che le major stavano spremendo quei poveri ragazzi; i quali non sembravano comunque così dispiaciuti di spremersi. Poteva finire tutto da un momento all'altro: oggi non ci pensiamo ma nel '64 doveva essere un'idea abbastanza condivisa. Era già successo tante volte. Il blues aveva avuto il suo momento, il bebop aveva avuto il suo momento, i crooner andavano e venivano - anche Sinatra se l'era vista brutta a un certo punto. Persino Elvis dopo il militare aveva perso il suo smalto e adesso recitava in film imbarazzanti. Nel '63 i Beatles e Dylan avevano fatto il botto, ma quanto poteva durare ancora? Fino al '65, al '66, e poi? Poi sarebbe arrivato qualcun altro, qualcos'altro, funzionava così. Bisognava picchiare sodo finché il ferro era caldo. Registrare e suonare, suonare e registrare.
Qualche mese prima, il 9 giugno, Dylan era entrato in sala di registrazione col produttore Tom Wilson e una cassa di beaujolais. La Columbia voleva un album nuovo e lo voleva subito. The Times They Are A-Changin', un signor disco imbottito di pietre miliari, tutte firmate dal titolare, era uscito appena sei mesi prima, ma ora ne serviva un altro. Per un po' era stata considerata l'idea di pubblicare un live (At Carnagie Hall), ma alla fine fu accantonata - che senso aveva incidere di nuovo le stesse canzoni con qualche applauso alla fine? Servivano pezzi nuovi, serviva carne fresca. E Dylan gliela diede.
In fondo che ci voleva? In una sola sessione, sei ore, svuotò almeno un paio di bottiglie e incise undici brani originali (di cui solo tre già provati dal vivo). Tutto intorno gli amici, qualche collega, persino dei bambini. Il risultato di tutto questo è Another Side of Bob Dylan. Non è un brutto disco. Magari se fosse stato registrato qualche sera prima, e innaffiato con un vino diverso, avrebbe tutt'un altro sapore, ma è andata così. Another Side rappresenta comunque un momento fondamentale in quel rapido processo di metamorfosi che BD sta vivendo. Nel giro di un anno avrebbe cambiato pelle come un serpente: da folksinger del Movimento dei diritti civili a poeta rock decadente. Another Side cattura la prima fase di questo processo di desquamazione: il rock per ora non si vede (lo avverti in lontananza, in qualche blues stravolto e idiosincratico), in compenso è già scomparso l'impegno politico.
Si è sciolto all'improvviso, come neve al sole, sei mesi dopo l'uscita del suo disco più militante, The Times... Nel frattempo Kennedy è stato ucciso, ufficialmente per mano di un attentatore comunista - magari è solo una coincidenza, ma dopo la figuraccia alla premiazione del Tom Paine Award in dicembre, Dylan non parteciperà più per molto tempo a manifestazioni, marce, concerti benefici. L'episodio è rivissuto in due momenti del disco. In My Back Pages Dylan prova per l'ennesima volta a giustificarsi - il problema è che più si spiega meno si capisce, il linguaggio è tornato immaginoso come ai tempi di Hard Rain. Sono stato troppo ingenuo, troppo dogmatico, memorizzavo paroloni e mi ergevo a giudice ma in realtà stavo giocando a fare il pirata e non capivo che stavo per diventare il mio nemico - ah, ma ero vecchio a quei tempi: sono più giovane di così, adesso. È un ritornello giustamente famoso, lo cantano tutti i dylaniti ai compleanni per consolarsi del tempo che passa. Dylan l'ha scritto al momento giusto, a 23 anni: già un trentenne che canta "I'm younger than that now" suona ridicolo.
Motorpsycho Nightmare invece è tutto un nuovo tipo di blues, che prelude alle cavalcate elettriche di là a venire: Dylan conserva la rassicurante progressione armonica del blues ma la usa per raccontare, per la prima volta, una storia vera e propria. Il protagonista parla in prima persona, è un moderno Huck Finn che cerca un tetto per la notte da qualche parte nel Midwest. Casca male: si trova davanti un contadino col fucile in mano che assomiglia pericolosamente al paranoico di Talkin' John Birch Society. Sulle prime cerca di ingraziarselo: ehi, sono un bravo ragazzo, sono un dottore, sono stato anche al college. Ma poi si mette in mezzo Rita, la figlia che sembra arrivata direttamente dalla Dolce Vita (in italiano nel testo). E di nuovo come in Boots of Spanish Leather assistiamo a un'inversione degli eterni stereotipi di genere: è la ragazza a introdursi furtiva nella camera del ragazzo e tentare, come la moglie di Poffarre con Giuseppe, un'opera di seduzione: ma adesso più che ad Anita Ekberg somiglia a Norman Bates, il matto di Psycho! Per trarsi d'impiccio, Dylan non trova di meglio che urlare: "Mi piace Fidel Castro e la sua barba!" La figlia scappa, il contadino sale con lo schioppo, Dylan si ritrova "on the road again". È solo una storiella. Pensavate che Castro, che Cuba mi piacessero sul serio, quella sera in cui dicevo di sentirmi Oswald? No, mi trovavo in impiccio e ho detto la cosa più spiacevole che mi venisse in mente. Tutto spiegato adesso, no? Possiamo passare ad altro?
L'album precedente: The Witmark Demos.
L'album successivo: Philharmonic Hall
Sono nella media, un tipo comune; sono come lui, sono come te. Sono il fratello o il figlio di chiunque, non sono diverso da nessuno. Non ha senso parlare con me: sarebbe come parlare con te stesso (I Shall Be Free No. 10)
Più tardi nell'estate, dopo aver incontrato Dylan durante il loro primo tour americano, i Beatles sarebbero tornati ad Abbey Road per incidere un altro album, il quarto in due anni. In ottobre era pronto - nel frattempo si erano rimessi a fare concerti. Non era un brutto disco, Beatles for Sale, ma sin dal titolo metteva le cose in chiaro: si trattava di un 33giri messo assieme alla svelta, per esigenze contrattuali. Un po' inferiore alla loro media. Per riempirlo avevano dovuto ricorrere al vecchio repertorio, cover di rock'n'roll e qualche scarto dei dischi precedenti. La Beatlemania era al culmine, nel Regno e negli USA, ma i Beatles continuavano a incidere e suonare in fretta e furia.
Per quante volte la senti raccontare, la storia dei Beatles rimane qualcosa di inverosimile. In otto anni, dodici LP di studio, due centinaia di composizioni originali. Poi uno si stupisce che siano durati poco, ma è incredibile che abbiano resistito così tanto: e quegli anni valevano almeno il triplo di quelli di adesso, succedevano cose continuamente. Cosa sono otto anni al giorno d'oggi? Il 90% degli artisti che ascolti oggi incidevano già nel 2009 (persino Fedez, capite? Anche lui ha già alle spalle più anni di carriera dei Beatles). In dieci anni i più prolifici fanno quattro, cinque dischi al massimo: e il mercato è già saturo così. Ma i gruppi di ventenni che fiorirono a metà degli anni Sessanta, sulla scia dei Beatles, firmavano contratti che prevedevano in media due uscite all'anno. Del resto chi ascoltava i Kinks non poteva fare molto altro che aspettare un altro disco dei Kinks. La generazione dei baby-boomers, appena uscita dal liceo con in tasca la paghetta dei genitori o il primo stipendio, era già diventata il segmento più importante del mercato. Non avrebbero comprato i dischi che piacevano ai genitori: e gli artisti coetanei erano ancora molto pochi, dovevano darci dentro come dannati per soddisfare la domanda di canzoni nuove. È evidente che le major stavano spremendo quei poveri ragazzi; i quali non sembravano comunque così dispiaciuti di spremersi. Poteva finire tutto da un momento all'altro: oggi non ci pensiamo ma nel '64 doveva essere un'idea abbastanza condivisa. Era già successo tante volte. Il blues aveva avuto il suo momento, il bebop aveva avuto il suo momento, i crooner andavano e venivano - anche Sinatra se l'era vista brutta a un certo punto. Persino Elvis dopo il militare aveva perso il suo smalto e adesso recitava in film imbarazzanti. Nel '63 i Beatles e Dylan avevano fatto il botto, ma quanto poteva durare ancora? Fino al '65, al '66, e poi? Poi sarebbe arrivato qualcun altro, qualcos'altro, funzionava così. Bisognava picchiare sodo finché il ferro era caldo. Registrare e suonare, suonare e registrare.
Qualche mese prima, il 9 giugno, Dylan era entrato in sala di registrazione col produttore Tom Wilson e una cassa di beaujolais. La Columbia voleva un album nuovo e lo voleva subito. The Times They Are A-Changin', un signor disco imbottito di pietre miliari, tutte firmate dal titolare, era uscito appena sei mesi prima, ma ora ne serviva un altro. Per un po' era stata considerata l'idea di pubblicare un live (At Carnagie Hall), ma alla fine fu accantonata - che senso aveva incidere di nuovo le stesse canzoni con qualche applauso alla fine? Servivano pezzi nuovi, serviva carne fresca. E Dylan gliela diede.
In fondo che ci voleva? In una sola sessione, sei ore, svuotò almeno un paio di bottiglie e incise undici brani originali (di cui solo tre già provati dal vivo). Tutto intorno gli amici, qualche collega, persino dei bambini. Il risultato di tutto questo è Another Side of Bob Dylan. Non è un brutto disco. Magari se fosse stato registrato qualche sera prima, e innaffiato con un vino diverso, avrebbe tutt'un altro sapore, ma è andata così. Another Side rappresenta comunque un momento fondamentale in quel rapido processo di metamorfosi che BD sta vivendo. Nel giro di un anno avrebbe cambiato pelle come un serpente: da folksinger del Movimento dei diritti civili a poeta rock decadente. Another Side cattura la prima fase di questo processo di desquamazione: il rock per ora non si vede (lo avverti in lontananza, in qualche blues stravolto e idiosincratico), in compenso è già scomparso l'impegno politico.
Si è sciolto all'improvviso, come neve al sole, sei mesi dopo l'uscita del suo disco più militante, The Times... Nel frattempo Kennedy è stato ucciso, ufficialmente per mano di un attentatore comunista - magari è solo una coincidenza, ma dopo la figuraccia alla premiazione del Tom Paine Award in dicembre, Dylan non parteciperà più per molto tempo a manifestazioni, marce, concerti benefici. L'episodio è rivissuto in due momenti del disco. In My Back Pages Dylan prova per l'ennesima volta a giustificarsi - il problema è che più si spiega meno si capisce, il linguaggio è tornato immaginoso come ai tempi di Hard Rain. Sono stato troppo ingenuo, troppo dogmatico, memorizzavo paroloni e mi ergevo a giudice ma in realtà stavo giocando a fare il pirata e non capivo che stavo per diventare il mio nemico - ah, ma ero vecchio a quei tempi: sono più giovane di così, adesso. È un ritornello giustamente famoso, lo cantano tutti i dylaniti ai compleanni per consolarsi del tempo che passa. Dylan l'ha scritto al momento giusto, a 23 anni: già un trentenne che canta "I'm younger than that now" suona ridicolo.
Motorpsycho Nightmare invece è tutto un nuovo tipo di blues, che prelude alle cavalcate elettriche di là a venire: Dylan conserva la rassicurante progressione armonica del blues ma la usa per raccontare, per la prima volta, una storia vera e propria. Il protagonista parla in prima persona, è un moderno Huck Finn che cerca un tetto per la notte da qualche parte nel Midwest. Casca male: si trova davanti un contadino col fucile in mano che assomiglia pericolosamente al paranoico di Talkin' John Birch Society. Sulle prime cerca di ingraziarselo: ehi, sono un bravo ragazzo, sono un dottore, sono stato anche al college. Ma poi si mette in mezzo Rita, la figlia che sembra arrivata direttamente dalla Dolce Vita (in italiano nel testo). E di nuovo come in Boots of Spanish Leather assistiamo a un'inversione degli eterni stereotipi di genere: è la ragazza a introdursi furtiva nella camera del ragazzo e tentare, come la moglie di Poffarre con Giuseppe, un'opera di seduzione: ma adesso più che ad Anita Ekberg somiglia a Norman Bates, il matto di Psycho! Per trarsi d'impiccio, Dylan non trova di meglio che urlare: "Mi piace Fidel Castro e la sua barba!" La figlia scappa, il contadino sale con lo schioppo, Dylan si ritrova "on the road again". È solo una storiella. Pensavate che Castro, che Cuba mi piacessero sul serio, quella sera in cui dicevo di sentirmi Oswald? No, mi trovavo in impiccio e ho detto la cosa più spiacevole che mi venisse in mente. Tutto spiegato adesso, no? Possiamo passare ad altro?
La perplessità di alcuni protagonisti della scena folk più politicizzata è abbastanza comprensibile. Il titolo del disco, saggiamente proposto da Wilson (a BD non piaceva) è un modo per attenuare lo choc: anche se non ci sono più canzoni di protesta non dovete pensare a un nuovo Dylan che tradisce il precedente; è solo "un altro lato" dello stesso Dylan. Un lato, peraltro, già intravisto in The Freewheelin': il ritorno del cantautore intimista (e possessivo, sbruffone, rancoroso). Si era solo temporaneamente nascosto. Da qualche parte aveva continuato a ammucchiare strofe della sua I Shall Be Free, cambiando le parole a seconda del momento, al punto che quando la incide di nuovo è diventata I Shall Be Free no. 10. Nell'originale gli faceva una telefonata il presidente Kennedy, adesso è il turno di Barry Goldwater, candidato alle primarie repubblicane. ("Ehi, io sono un liberal, ma fino a un certo punto. Pensate che io possa permettere a Barry Goldwater di trasferirsi nel mio quartiere e sposare mia figlia? Mi credete un pazzo? Non lo farei per tutte le fattorie di Cuba"). Dylan è tornato il giovinastro che ci delizia coi suoi simpatici guai: ha una ragazza che gli mette il bubblegum nelle pietanze, ha un amico che fa a pezzi le sue fotografie con un coltello e mostra di vomitare ogni volta che sente il suo nome ("Eh, ne ho un milione, di amici"), ha un invito per leggere poesie in una confraternita di educande ("I am a poet! I know it! Hope I don't blow it!"), e si carica allo specchio boxando contro un Cassius Clay immaginario. Ti ridurrò la faccia come la mia, dice. Neanche la mamma ti riconoscerà. Una cosa interessante che si può fare mentre si ascolta Another Side è cercare di mettere in fila le canzoni a seconda del gradiente alcolico. Non ha molto a vedere col contenuto della canzone. My Back Pages è un brano importante, ma si capisce che BD durante l'esecuzione è semplicemente stanco. I don't believe you è poco più di uno scherzo, ma BD è in forma smagliante, quest'ennesima recriminazione su un amore perduto sembra la cosa in cui crede di più in tutto il disco. La musica non sembra più presa in prestito a nessuno, c'è un breve riff che si arrovella intorno a un chiodo fisso: mi fa la fa re#, mi fa la fa re#, Dylan prova a uscire da sopra e da sotto ma ritorna sempre lì: lei fa finta che non ci siamo mai incontrati. Il finale è un nonsense dal vago sapore lennoniano: "E se ti chiedono se è facile dimenticare, beh, si fa molto presto: tu prendi qualcuno e fai finta che non l'hai mai conosciuto" (I Don't Believe You).
L'alcool ha sicuramente la sua parte di responsabilità in Black Crow Blues. È la prima volta che BD usa il pianoforte in un pezzo di studio ed è inspiegabile che un produttore raffinato come Wilson gli abbia permesso anche solo di avvicinarsi allo strumento. Dylan col tempo svilupperà uno stile pianistico abbastanza peculiare, ma per ora lo pesta come un ubriaco al bordello, e non ha neanche niente di così interessante da cantare. È uno dei primi esempi di autoboicottaggio più o meno consapevole, qualcosa con cui ci familiarizzeremo col tempo. La gente si aspetta canzoni di protesta alla chitarra e lui incide blues sguaiati al pianoforte. Qualche anno dopo si cospargerà di whisky e si farà trovare mezzo incosciente in un supermercato, per il puro gusto di danneggiare la propria immagine. Quella sera Dylan avrebbe potuto incidere Mama You Been On My Mind: era già pronta, che gli costava? Avrebbe potuto lavorare un po' di più su un abbozzo strano che si intitolava già Mr Tambourine Man; dietro il vetro c'era Ramblin' Jack Elliot più che desideroso di dare una mano. Invece butta giù vinaccio e incide Black Crow Blues. Avrebbe potuto fare un disco molto migliore, ma a che scopo? Dì lì a qualche mese la Columbia ne avrebbe comunque preteso un altro. (Continua sul Post...)
La La La ti sento eccome
02-02-2017, 02:5121tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, musica, nostalgiaPermalinkLa La Land (Damien Chazelle, 2016)
"Buongiorno in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, io... io ho visto La La Land".
"Allora ha chiamato il numero giusto, questo è..."
"E non m'è piaciuto!"
"...il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano..."
"C'è qualcosa che non va in me?"
"Assolutamente no, signora. È una questione di gusti".
"Ma è piaciuto a tutti tranne che..."
"No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale".
"Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure..."
"Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?"
"Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!"
"Forse non le interessano i musical".
"Non saprei".
"Ha apprezzato altri musical di recente?"
"Io, boh... una volta ho visto Cantando sotto la pioggia..."
"Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene".
"...e non c'è paragone".
"Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po' come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza".
"Ed è sbagliato?"
"Non c'è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l'asticella un po' più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita".
"Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical".
"In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?"
"No".
"Dieci anni fa. Forse l'ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp".
"E in Italia non l'hanno distribuito?"
"Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical".
"Sul serio?"
"Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l'avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical".
"Ma perché ce l'avremmo coi musical, noi italiani?"
"Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano".
"Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata".
"Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film".
"Ma l'ho visto in lingua originale!"
"Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra":
"Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?"
"Il calo di tono è necessario, fisiologico - sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz'ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi... le complicazioni".
"Niente di nuovo insomma".
"No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia".
"Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici".
"Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli".
"I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis..."
"Ok, c'è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro - anzi, no, sin dall'inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c'è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è".
"Un bianco che spiega il jazz ai neri".
"Per la verità è il contrario; è l'amico nero che gli spiega cos'è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L'hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L'idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un'età dell'oro, dell'argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo' Better Blues..."
"Vagamente".
"...che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev'essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev'essere Ryan Gosling".
"Anche se non balla un granché bene".
"Ma ne è sicura?"
"Un po' legnoso".
"Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?"
"A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone".
"Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende... perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull'orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero".
"E anche lei doveva essere bianca per forza?"
"Anche su questa cosa, ci ho riflettuto".
"Addirittura". (Continua su +eventi!)
"Perché se lo sono chiesto in tanti, ma il punto è questo: se avessero scelto un'attrice brava come lei, imperfetta come lei... però nera, le stesse scene avrebbero lo stesso senso? Quando passa di provino in provino e la scartano e ne minano l'autostima: funzionerebbe ugualmente? Non cominceremmo a sospettare che la scartano perché è nera? È un film sull'autoaffermazione, non sulla discriminazione".
"Magari a me interessa di più la discriminazione".
"Ha perfettamente ragione, è un tema più interessante".
"Cioè tutti questi film sulla gente che crede nei loro sogni, anche basta".
"Comprendo il suo fastidio, è un segmento molto coperto".
"Non ci sono già abbastanza talent in tv?"
"E tuttavia, signora, nel frattempo un tizio che faceva il giudice in un talent ha vinto le elezioni americane e sta alla Casa Bianca, per cui forse La La risente molto più dello spirito del tempo di quanto crediamo".
"Sta cercando di convincermi che La La può spiegarci Trump?"
"No, ma non è neanche quella fuga in un passato rassicurante che finge di essere... magari ti piazza un finale falso, un balletto in cui tutte le cose per un momento vanno per il verso giusto, ma la morale è molto meno edificante - ed è la stessa di Whiplash: uno su mille ce la fa ma poi passa la vita a domandarsi se ne valeva la pena".
"Non l'ho visto, Whiplash".
"Vale la pena. Non è un musical. Non c'è nemmeno una storia d'amore. Ha presente quando il maître del ristorante licenzia Gosling su due piedi? Ecco, Whiplash è tutto così, dura un'ora e mezza, è divertente e un po' angoscioso".
"E non balla nessuno".
"Suonano soltanto. Ma signora, le canzoni di La La non le sono piaciute? Secondo me sono la cosa migliore".
"Non credo di apprezzare il jazz".
"Non sono poi così jazz. Dica la verità, non le sta già canticchiando? Sono maledettamente orecchiabili. Tutt'altro che banali, eppure neanche così complesse. City of Stars è un classico immediato, si fischietta al primo colpo, la puoi imparare alla quinta lezione di pianoforte, ne scrivono una ogni vent'anni di canzoni così. Cioè bravo Chazelle, ma soprattutto Justin Hurwitz. Quando hai un talento del genere puoi anche concederti il lusso di metterti in discussione, di domandarti se è giusto insistere su un sound così fuori dal tempo. Perché il film fa questo: si presenta dicendo, ehi, abbiamo un'idea di jazz che forse è quella sbagliata, però sentite intanto cosa siamo riusciti a combinarci".
"Va bene, Hurwitz probabilmente un Oscar se lo merita".
"Grazie, signora".
"Ma altri tredici, dico, scherziamo?"
"Sono solo nomination".
"Non è mica Eva contro Eva".
"No, senz'altro no. Anche se il tema è simile - i giurati hanno un debole per i film che parlano della loro professione. Forse ha preso tante nomination perché oggi c'è meno competizione, tante professionalità si stanno spostando sulle serie tv... è un'ipotesi. Senz'altro La La è una risposta alla domanda: perché andare in sala oggi, perché non guardarsi un film a casa? La La va proprio visto in sala. Deve venirti voglia di smontare le poltrone".
"Eh?"
"Come ai tempi di Blackboard Jungle, ha presente? La gente entrava per ballare i titoli - che erano Rock Around the Clock, l'unico pezzo rock che si potesse sentire in città - smontavano le poltrone e si mettevano a ballarlo. Anche la prima sequenza di La La Land funziona così, in fondo".
"È uno scherzo, vero?"
"Sia sincera. Non le è venuta voglia di smontare le poltrone durante Another Day of Sun?"
"Mi è venuta voglia di uscire".
"Ecco, allora... non so che dire... mi dispiace".
"Non si deve dispiacere, sto a posto così".
"Pensa che lo scriverà su facebook?"
"Perché me lo chiede?"
"Perché è stato osservato questo fenomeno. Quelli a cui non piace La La sentono l'irrefrenabile desiderio di dichiararlo su facebook".
"E... nell'eventualità, diciamo, che male ci sarebbe?"
"Provo con un esempio. Io non riesco a mangiare la nutella".
"È una questione di gusti".
"No. La nutella è buona. È progettata per piacere a tutti. Piace praticamente a tutti. Ma io sono allergico alle nocciole".
"Oh, mi dispiace".
"Ecco, vede che le dispiace?"
"Non dovrebbe dispiacermi? Ho pietà di lei, non apprezzare la nutella è..."
"Lo dica".
"...una menomazione".
"Ecco. Ma si immagini che io scrivessi su facebook che schifo la nutella, che ne facessi una questione di orgoglio, cioè mica come tutti i pecoroni convinti di apprezzare una crema spalmabile di cioccolato e nocciole solo grazie al marketing... solo io sono in grado di capire che in realtà quella roba fa schifo: cosa penserebbe di me?"
"Che ha una notevole autonomia di giudizio..."
"Mmm"
"Per un tredicenne, voglio dire".
"Ecco, appunto".
"Appunto cosa?"
"Signora, non c'è niente di male a non apprezzare i musical, a non aver voglia di saltare le poltrone quando cantano reaching up the heights. Ma non c'è nemmeno nulla di cui vantarsi, capisce?"
"No".
"Fa lo stesso. Adesso scusi, questo spazio è gentilissimamente offerto da Piùeventi Cuneo e quindi ora devo dare i titoli: La La Land è anche stasera al CITYPLEX CINE4 di Alba (21:00), al CINELANDIA di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al CINELANDIA FIAMMA di Cuneo (21:10), ai PORTICI di Fossano (21:15) e al CINECITTÀ (Savigliano). Buona visione, e smontate quelle fottute poltroncine!"
"Io non ci torno".
"Non me ne frega niente di quello che fa lei signora".
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Dio è morto, il Giappone è una palude, e Scorsese sta benissimo
27-01-2017, 18:3021tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, cristianesimo, fb2020PermalinkSilence, (Martin Scorsese, 2016).
Verso il 1650 cominciò a girar voce che Sawano Chūan, già conosciuto come Cristóvão Ferreira, fosse morto: e prima di morire avesse ritirato la sua scandalosa apostasia, e proclamato a gran voce davanti all'inquisitore del Giappone la sua fede in Cristo, che 15 anni prima aveva rinnegato. Per questo era finalmente stato condannato al supplizio del pozzo: sospeso a testa in giù e dissanguato lentamente. La solita propaganda dei gesuiti: chi andò a controllare scoprì che Sawano-Cristóvão aveva avuto un funerale buddista, presso il tempio che aveva scelto conformemente alle leggi dello shogunato. Il suo nome giapponese si legge ancora sulla lapide. Forse in segreto continuò a credere nel dio cristiano per tutto quel tempo: ammesso che si possa credere a un Dio in segreto. C'è chi non lo ritiene possibile.
Un vero fumie: il volto di Gesù è consumato dalle centinaia di piedi che lo hanno calpestato |
Eppure Silence non è il film che il pubblico si aspetta da lui - men che meno i giurati dell'Academy, che in fondo hanno sempre diffidato di questo corpo esterno, questo seminarista fallito e riconvertito al cinema. Il film sembra concepito per confondere e tradire gli spettatori che abbiano una fede superficiale nel suo cinema. Scorsese li attende silenzioso al termine di un lungo viaggio in un Giappone antipittoresco, e dopo due ore e mezza non ha ricompense da offrire a chi lo trova: solo silenzio. Può darsi che non sia il suo migliore film. Neanche tra i suoi primi dieci film. Ma anche quando tace e prega, può tranquillamente dare lezioni di cinema e vita a chiunque sia disposto a imparare. Più che con altri suoi film, trovo inevitabile confrontarlo con quello che passano gli altri conventi: per esempio giusto un anno fa stavamo tutti applaudendo per Revenant. Anche quello un film lungo e senza compromessi, anche quello ambientato in un paesaggio naturale alieno, ostile, e ispirato a un fatto vero.
È un confronto impietoso (continua su +eventi!).
Un crocefisso abusivo, nascosto dietro la schiena di un Budda |
Sbarrando gli occhi durante la visione di Revenant riesci a vedere un regista milionario sul suo patio che si domanda cosa allestire per il pubblico bue e ai giurati degli Oscar: una storia di vendetta? Però nel finale bisogna ricordarsi che la vendetta è brutta, al massimo va subappaltata al buon selvaggio che resta buono anche quando scalpa un potenziale ladro di terra. Silence è un film che parla a ogni persona che ha cercato Dio e non l'ha trovato, o l'ha perso nel silenzio: è il regalo umile e superbo di un gesuita mancato che passa il tempo a tormentarsi: se soltanto fossi nato in tempi più semplici, con meno tentazioni in giro, meno droghe e meno macchine da presa... che gran cristiano che sarei stato.
Andrew Garfield oscilla continuamente tra l'imitazione di Cristo e la sua parodia: desideroso di seguire i suoi maestri, precipita in un sadico vangelo al contrario dove i buoni forse sono buoni per il motivo sbagliato, e i cattivi molto più ragionevoli, ma spietati proprio per questo. Cristo è un amico immaginario che ti porta davanti al baratro fra tortura e dannazione e ti lascia lì senza spiegarti niente, devi cavartela da solo. Scorsese non ha risposte, o non ce le vuole dire, e se le porterà con sé fino all'ultimo giorno.
Silence è alla Sala Polivalente di Piasco (21:10) e al Cinema Italia di Saluzzo (20:30).
Chiunque canta meglio di Bob Dylan
26-01-2017, 00:24Bob Dylan, musicaPermalinkThe Witmark Demos: 1962–1964 (Bootleg Series, vol. 9, 2010).
Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città. La gente che passava, al sorger del sole notò i vestiti strappati e i buchi alle suole. È lì disteso sul marciapiede, la gente si volta appena lo vede. Arriva il poliziotto a fare il verbale: "Svegliati vecchio, ti porto in centrale". Col manganello lo toccò, e in strada il vecchio rotolò. E.... Gesù, non... ho perso l'ultima strofa. (Man on the Street).
Grazie ai suoi contatti alla Columbia, Dylan poté ascoltare in anteprima i blues di Robert Johnson in un LP che non era ancora stato pubblicato, quello che in seguito fece impazzire Eric Clapton, Keith Richards, Jimmy Page e tutti gli altri. Oggi sappiamo che il fenomeno Robert Johnson è anche frutto di un equivoco: la vecchia etichetta che gli aveva fatto incidere una ventina di pezzi, prima che finisse avvelenato, era abituata a inciderli un po' accelerati, per far ballare la gente. Dunque il vero Robert doveva avere un tono più basso - più simile a quello di altri bluesmen del Delta, e una tecnica un po' meno mostruosa. Ma Dylan non lo sapeva, mentre copiava i blues a Johnson. Sonny Boy Williamson glielo aveva pur detto, che suonava troppo veloce. (Sonny aveva suonato con Johnson la notte in cui rimase ammazzato) (è un episodio troppo significativo per non sospettare che Dylan se lo sia inventato).
E il tuo orologio si fermerà alla porta di San Pietro. Tu gli chiederai l'ora, lui ti risponderà: "È troppo tardi". In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai (I'd Hate to Be You on That Dreadful Day).
Il modo migliore di ascoltare i 47 Witmark Demos (registrati tra '62 e '64, non solo alla casa editrice musicale Witmark), è immaginare Dylan come uno dei suoi vecchi idoli in bianco e nero molto sgranato; quelli che registravano un po' di pezzi e poi scomparivano nel nulla misterioso da cui erano emersi. Se di Bob Dylan conoscessimo soltanto il nome e i Witmark Demos, sarebbe comunque una già una leggenda, come Johnson. Dopotutto c'è Blowin' in the Wind, c'è Hard Rain, c'è Don't Think Twice, c'è The Times They Are A-Changin' (al pianoforte!), c'è Mr Tambourine Man. E poi ci sono almeno 15 pezzi misteriosi mai più incisi dal suo autore: se non conoscessimo nient'altro di Bob Dylan, comunque ne avremmo abbastanza per costruirci su di lui la leggenda di un musicista vagabondo in giro per l'America rurale a rimorchio dei treni. Anche Robert Johnson era probabilmente un performer molto più vario di quello che ci suggeriscono le sue incisioni: quando lo invitavano alle feste sapeva suonare qualsiasi cosa. Ma i bianchi discografici volevano sentire il blues, e lui incise quasi soltanto del blues.
E il vino scorrerà a fiumi, a cinque cents al bicchiere: così ti frugherai le tasche e scoprirai che ti manca giusto un cent. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai.
Subito dopo la realizzazione del primo disco, John Hammond, il talent scout di Dylan lo aveva messo in contatto con la Leeds Music, una casa editrice che era interessata a pubblicare le sue composizioni, in spartiti sciolti o in un libro. Pochi mesi dopo Grossman, il suo nuovo manager, lo convinse ad annullare il contratto con la Leeds e passare alla M. Witmark & Sons. Abbiamo già notato che a volte le performance di Dylan sembrano più partiture che esecuzioni vere e proprie: questo è vero soprattutto per i Witmark Demos, registrazioni che non erano concepite per essere incise su disco, ma ascoltate da un trascrittore che ne avrebbe ottenuto uno spartito. Fu così per esempio che Blowin' in the Wind fu divulgata sulle pagine di Sing Out! prima che Dylan la incidesse per The Freewheelin'. Ma il vero mercato della Leeds e della Witmark era l'ambiente musicale: gli spartiti venivano inviati per posta agli artisti. Chi manifestava il proprio interesse per un pezzo poteva domandare alla Witmark l'invio di un disco in acetato con l'esecuzione dell'autore. Questi acetati naturalmente non dovevano essere divulgati al grande pubblico, un po' come le copie dei film che oggi le major inviano ai critici, ah ah ah.
Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo eccetera, ehi dimmi un po', eh, cosa farai? (Watcha Gonna Do).
Che gli i pezzi di Dylan, per quanto oscuri o irregolari, potessero avere un potenziale commerciale, era chiaro sin da quando Peter, Paul e Mary avevano inciso la loro Blowin' in the Wind. Per ottenere un'altra hit bisognerà aspettare il '65, quando i Byrds raccatteranno Mr Tambourine Man e la useranno per inventare un nuovo sound californiano. Nel frattempo, a New York, Dylan si arrangia, scrive di tutto e di tutti, incide quello che gli viene in mente. A un certo punto lo sentiamo dire: proviamo pure questa, giusto per ("Just for kicks"). Qui non sta cantando e suonando per il pubblico, ma per un trascrittore che deve saper riconoscere al volo note e parole. È insomma più importante scandire bene gli accordi e i testi, senza virtuosismi o eccessi teatrali. Il pianoforte può essere più comodo della chitarra, certo non per Dylan che lo suona in modo rudimentale (sui tasti neri) ma per chi deve trascrivere gli accordi. È anche consentito fermarsi e correggersi, o spiegare al tecnico che non si ricorda più il testo della prima strofa ma gliela farà avere più tardi. Il fascino dei Demos è anche nell'approccio intimo che Dylan sembra instaurare col suo ascoltatore: la libertà di mollare un pezzo a metà perché, insomma, "l'ho già cantato così tante volte" (Let Me Die In My Footsteps).
Un uomo è morto per un pugnale affilato, un altro per la pallottola di una pistola. Un uomo è morto col cuore spezzato nel vedere il linciaggio di suo figlio. Tanto tempo fa, lontano lontano... Queste cose non succedono più al giorno d'oggi, non è vero? (Long Ago, Far Away).
È tutto meravigliosamente estemporaneo e irregolare: e ai dylaniti piacciono le cose estemporanee e irregolari. Veramente tanto. Sennò non amerebbero Dylan - c'è sicuramente in giro gente che canta meglio, che incide meglio, che arrangia meglio. Il che non significa che Dylan sia un protopunk, che canti male apposta, o che non si preoccupi della resa delle sue canzoni in sede di registrazione. C'è un grande malinteso di base tra Dylan - che si considera un musicista rigoroso, a modo suo, e che ha sempre cercato di incidere canzoni che considerava belle con arrangiamenti che considerava necessari - e i suoi fan, che a volte danno la sensazione di volerlo sentire suonare male per il gusto di. Questa cosa lo tormenterà per anni, lo vedremo. Ma per ora non lo sa, è convinto di suonare soltanto per un tizio che trascrive. Il pubblico dovrebbe restare fuori da tutto questo. Noi non dovremmo saperne niente (continua sul Post).
(L'album precedente: The Times They Are A-Changin'
L'album successivo: Another Side of Bob Dylan).
Ah quindi io non sarei uno scrittore? |
Grazie ai suoi contatti alla Columbia, Dylan poté ascoltare in anteprima i blues di Robert Johnson in un LP che non era ancora stato pubblicato, quello che in seguito fece impazzire Eric Clapton, Keith Richards, Jimmy Page e tutti gli altri. Oggi sappiamo che il fenomeno Robert Johnson è anche frutto di un equivoco: la vecchia etichetta che gli aveva fatto incidere una ventina di pezzi, prima che finisse avvelenato, era abituata a inciderli un po' accelerati, per far ballare la gente. Dunque il vero Robert doveva avere un tono più basso - più simile a quello di altri bluesmen del Delta, e una tecnica un po' meno mostruosa. Ma Dylan non lo sapeva, mentre copiava i blues a Johnson. Sonny Boy Williamson glielo aveva pur detto, che suonava troppo veloce. (Sonny aveva suonato con Johnson la notte in cui rimase ammazzato) (è un episodio troppo significativo per non sospettare che Dylan se lo sia inventato).
E il tuo orologio si fermerà alla porta di San Pietro. Tu gli chiederai l'ora, lui ti risponderà: "È troppo tardi". In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai (I'd Hate to Be You on That Dreadful Day).
"Che copertina elettrizzante, diversa da tutte le altre! La guardavo incantato" (Chronicles 1). |
E il vino scorrerà a fiumi, a cinque cents al bicchiere: così ti frugherai le tasche e scoprirai che ti manca giusto un cent. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai.
Subito dopo la realizzazione del primo disco, John Hammond, il talent scout di Dylan lo aveva messo in contatto con la Leeds Music, una casa editrice che era interessata a pubblicare le sue composizioni, in spartiti sciolti o in un libro. Pochi mesi dopo Grossman, il suo nuovo manager, lo convinse ad annullare il contratto con la Leeds e passare alla M. Witmark & Sons. Abbiamo già notato che a volte le performance di Dylan sembrano più partiture che esecuzioni vere e proprie: questo è vero soprattutto per i Witmark Demos, registrazioni che non erano concepite per essere incise su disco, ma ascoltate da un trascrittore che ne avrebbe ottenuto uno spartito. Fu così per esempio che Blowin' in the Wind fu divulgata sulle pagine di Sing Out! prima che Dylan la incidesse per The Freewheelin'. Ma il vero mercato della Leeds e della Witmark era l'ambiente musicale: gli spartiti venivano inviati per posta agli artisti. Chi manifestava il proprio interesse per un pezzo poteva domandare alla Witmark l'invio di un disco in acetato con l'esecuzione dell'autore. Questi acetati naturalmente non dovevano essere divulgati al grande pubblico, un po' come le copie dei film che oggi le major inviano ai critici, ah ah ah.
Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo eccetera, ehi dimmi un po', eh, cosa farai? (Watcha Gonna Do).
Che gli i pezzi di Dylan, per quanto oscuri o irregolari, potessero avere un potenziale commerciale, era chiaro sin da quando Peter, Paul e Mary avevano inciso la loro Blowin' in the Wind. Per ottenere un'altra hit bisognerà aspettare il '65, quando i Byrds raccatteranno Mr Tambourine Man e la useranno per inventare un nuovo sound californiano. Nel frattempo, a New York, Dylan si arrangia, scrive di tutto e di tutti, incide quello che gli viene in mente. A un certo punto lo sentiamo dire: proviamo pure questa, giusto per ("Just for kicks"). Qui non sta cantando e suonando per il pubblico, ma per un trascrittore che deve saper riconoscere al volo note e parole. È insomma più importante scandire bene gli accordi e i testi, senza virtuosismi o eccessi teatrali. Il pianoforte può essere più comodo della chitarra, certo non per Dylan che lo suona in modo rudimentale (sui tasti neri) ma per chi deve trascrivere gli accordi. È anche consentito fermarsi e correggersi, o spiegare al tecnico che non si ricorda più il testo della prima strofa ma gliela farà avere più tardi. Il fascino dei Demos è anche nell'approccio intimo che Dylan sembra instaurare col suo ascoltatore: la libertà di mollare un pezzo a metà perché, insomma, "l'ho già cantato così tante volte" (Let Me Die In My Footsteps).
Un uomo è morto per un pugnale affilato, un altro per la pallottola di una pistola. Un uomo è morto col cuore spezzato nel vedere il linciaggio di suo figlio. Tanto tempo fa, lontano lontano... Queste cose non succedono più al giorno d'oggi, non è vero? (Long Ago, Far Away).
È tutto meravigliosamente estemporaneo e irregolare: e ai dylaniti piacciono le cose estemporanee e irregolari. Veramente tanto. Sennò non amerebbero Dylan - c'è sicuramente in giro gente che canta meglio, che incide meglio, che arrangia meglio. Il che non significa che Dylan sia un protopunk, che canti male apposta, o che non si preoccupi della resa delle sue canzoni in sede di registrazione. C'è un grande malinteso di base tra Dylan - che si considera un musicista rigoroso, a modo suo, e che ha sempre cercato di incidere canzoni che considerava belle con arrangiamenti che considerava necessari - e i suoi fan, che a volte danno la sensazione di volerlo sentire suonare male per il gusto di. Questa cosa lo tormenterà per anni, lo vedremo. Ma per ora non lo sa, è convinto di suonare soltanto per un tizio che trascrive. Il pubblico dovrebbe restare fuori da tutto questo. Noi non dovremmo saperne niente (continua sul Post).
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Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?
23-01-2017, 23:2421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, futurismi, scienzaPermalinkArrival (Denis Villeneuve, 2016).
Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.
Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?
Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).
Nel film Amy Adams è la linguista (adorabile), Jeremy Renner lo scienziato (simpatico). Quest'ultimo all'inizio sembra sicuro del fatto suo: gli alieni vogliono comunicare? Spedite una sequenza di Fibonacci, vedrete che ci intenderemo. Dopo due scene si è già ridotto a fare la valletta per la collega. Nel racconto ovviamente la cosa è più complessa. Gli alieni effettivamente mostrano di conoscere gli elementi e qualche altra nozione scientifica di base, ma tutto si ferma lì, finché un giorno non riescono finalmente ad avere una conversazione sul principio di Fermat. La parte del racconto dedicata a questo principio è la più interessante: è anche quella necessaria, perché gli alieni di Chiang sono solo un'ipotesi narrativa, ma il principio di Fermat funziona davvero e stabilisce (grosso modo) che il percorso di un raggio di luce tra due punti è quello che si attraversa nel tempo minore. Da cui la domanda, ingenua e inevitabile: ma come fa la luce a sapere in partenza qual è il percorso che potrà attraversare nel tempo minore? Come può prevedere gli imprevisti di percorso? Forse perché per la luce non esiste un prima e un dopo, una partenza o un arrivo, perlomeno non nel modo in cui lo percepiamo noi umani?
E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.
Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.
Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!)
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).
Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".
Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.
Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?
Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).
Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo? |
E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.
Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.
Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!)
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).
Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".
Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
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Kennedy è morto, Dylan ubriaco
20-01-2017, 23:34Americana, Bob Dylan, Brecht, musicaPermalinkThe Times They Are A-Changin' (1964).
Quando William Zantzinger irruppe nell'Emerson Hotel era passata da un po' la mezzanotte dell'otto febbraio. A voi sarebbe sembrato ridicolo, un ventenne con un bastone giocattolo da un quarto di dollaro, col quale già al ristorante aveva scimmiottato Fred Astaire e bastonato qualche cameriere. Ma era figlio di un piantatore di tabacco, era a Baltimora per spassarsela e non c'era modo di fermarlo. Si aggirava nella hall ubriaco e continuava a prendere i neri per birilli. Colpì un facchino, poi un'inserviente. La prima cameriera che chiamò "negra" scappò in lacrime. La moglie, che cercava di calmarlo, finì al tappeto. Zantzinger si ritrovò al banco del bar dove lavorava quella sera la povera Hattie Carroll. 51 anni, madre di otto figli (alcuni dicono dieci). Dammi un bourbon, negra.
"Subito signore".
Lo stava ancora versando quando Zantzinger cominciò a colpirla sulla schiena e in testa. Sbrigati brutta nera figlia di puttana. Hattie continuò a servirlo e poi si ritirò in cucina, mentre Zantzinger ricominciava a tirar calci alla moglie. Hattie si sentiva svenire, lo disse ai colleghi: mi sento male, quell'uomo mi ha così tanto turbato ("that man has upset me so"). Morì in ospedale otto ore dopo: emorragia cerebrale. Era ipertesa, forse non lo sapeva.
Ma voi che filosofate sulle disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.
Il tredici dicembre dello stesso anno (ma è stato un anno lungo e pazzesco, i Beatles hanno fatto due dischi, Kennedy è stato ammazzato) il giovane promettente folksinger Bob Dylan irrompe a una cena di gala dove qualcuno (non ha neanche capito chi) ha intenzione di premiarlo. È ubriaco e nervoso perché tutti portano lo smoking. Si era portato degli amici per farsi coraggio, ma non li hanno fatti entrare, non erano vestiti abbastanza bene. Quando gli passano il microfono, lui sa che non può cantare. Deve fare un discorso, ringraziare per il premio. È questo che lo rende nervoso? Parte a ruota libera, a volte funziona; quella sera no. Se la prende coi commensali, scherza sulla loro età e le loro calvizie, si dichiara orgoglioso di essere giovane ("ci ho messo molti anni a diventarlo"). Dice che accetta il premio ma che non lo accetta; afferma con forza che non esistono più né Sinistra né Destra ("solo Su e Giù"); spiega che ha molti amici "negroes" ma che non gli piacciono le uniformi, di nessun tipo. A proposito di amici, spiega che anche Phillip Luce è uno dei suoi e che vuole ritirare il premio anche per lui. Luce è un membro del Progressive Labour Party, una scheggia maoista fuoriuscita dal partito comunista americano. In quei mesi organizza viaggi studio a Cuba (in seguito ammetterà di aver trafficato armi e organizzato covi sovversivi a Harlem). Dylan forse non se ne rende conto, ma sta parlando a una cena di autofinanziamento del movimento per i diritti civili. Sta dicendo a dei liberal rispettabili - gente che dopo il dessert dovrebbe metter mano al portafoglio - di rassegnarsi alla pensione, e che non c'è niente di strano se la gente vuole andare a Cuba. Non gli resta che tirar fuori un bastone e cominciare a menar colpi a caso. O può far di peggio?
Pochi secondi dopo, il disastro sociale che è Bob Dylan decide di spiegare che lui si sente un po' come Oswald, il cecchino di fede comunista che aveva freddato Kennedy a Dallas (una pedina dei cubani?) "Ho visto qualcosa di lui in me stesso", farfuglia. "Non pensavo che saremmo arrivati a questo punto, ma... devo avere il coraggio di ammettere di aver sentito le cose che lui sentiva... beh non al punto da sparare". Dall'attentato non era passato neanche un mese, nessuno aveva smesso di pensarci. Qualcuno comincia a fischiare, lui invoca la Costituzione, il diritto di parola e ringrazia per il premio anche a nome di quelli che vanno a Cuba. "O Dio", scriverà in seguito in una lettera di scuse, "cosa avrei dato per non essere lì" (qualcuno ancora si domanda come mai a Dylan non piacciano le premiazioni?)
Qualche anno fa successe una cosa del genere a Cannes. Lars Von Trier, all'apice della sua carriera, di fronte a un plotone di giornalisti, circondato da Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst, cominciò a spiegare che per anni aveva pensato di essere ebreo, ma adesso era diverso, adesso un po' capiva Hitler, come doveva essersi sentito "seduto nel suo bunker, alla fine..." Fu cacciato dal festival del cinema. Era stato un altro esperimento? Aveva voluto testare la tolleranza di uno dei circoli culturali più progressisti del mondo? O era stato punito da un superego capriccioso che gli rimproverava il successo mondano, che da sempre cerca di sabotarlo? ("Feci uscire tutto quello che avevo in testa e dissi: sii onesto, Dylan, sii solo onesto").
William Zanzinger, che a 24 anni
possedeva 200 ettari di piantagione di tabacco;
e genitori facoltosi che lo proteggevano,
e amici altolocati nello Stato del Maryland,
si fece arrestare scrollando le spalle.
Imprecava e scherniva, e mostrava la lingua,
e fu fuori su cauzione, in pochi minuti.
Ma tenete ancora a posto i fazzoletti.
Questo non è il momento delle lacrime.
Quando assesta il primo colpo di bastone alla sua reputazione di cantante di protesta, Dylan ha un un disco pronto. Uscirà in gennaio. Sarà il suo disco più politico: i tempi stanno per cambiare. Niente più buffonate, niente talking, appena due canzoni d'amore, ma tristi, asciutte, rassegnate. Niente cover, tutti testi originali. Anche le musiche, tutte di Bob Dylan - o almeno così sarà scritto in copertina, e chi non sarà d'accordo se ne farà una ragione. Sarà il disco definitivo per il folk di protesta: nessuno potrà più farne uno migliore. Sarà il suo disco più impegnato: ma, ecco, cos'è l'impegno per Dylan? Come funziona, a cosa serve? A suscitare indignazione per la morte solitaria della cameriera Hattie Carroll, per l'assassino dell'attivista Medgar Evans, per la povertà che spinge Hollis Brown a uccidere i suoi figli, per i minatori disoccupati di North Country Blues, vittime precoci della globalizzazione? ("Dicono che è molto meno caro giù in Sudamerica, dove i minatori lavorano quasi per niente"). O serve a capire gli assassini, a sentirsi nei panni di Hollis Brown, di Zantzinger, di Oswald? Bisogna entrare nelle persone, cercare di capirle da dentro, o non sarà meglio osservarle da lontano, a una distanza prudente? Dylan il problema se lo è posto. È da anni che ci lavora.
Una cosa che a questa altezza ha già scartato senza rimpianti è la satira. Lo abbiamo visto cimentarcisi con Talkin' John Birch Paranoid Blues, un brano in cui aveva creduto così tanto da cercare di proporlo in diretta televisiva. Se in seguito gli avvocati della Columbia gli avevano impedito di inciderlo nel secondo disco, ora le cose erano davvero cambiate. Blowin' in the Wind era stata una bomba, The Freewhelin' aveva venduto bene, Dylan stava diventando importante e nessuno gli impediva di cambiare qualche riga del testo e inserirlo nel nuovo disco. Non ci pensa nemmeno. In John Birch aveva preso di mira l'uomo comune del Midwest; aveva descritto le sue paure come paranoie, ridicole ossessioni di un ignorante. Ma Dylan è un uomo del Midwest. È lì che si è formato, è quel mondo che gli interessa recuperare. Le sue radici individuali, rimosse nei primi dischi, riaffiorano finalmente in North Country Blues. La paura di morire in un olocausto nucleare - o soffocato in un rifugio antiatomico - Dylan la conosce per esperienza diretta: era la stessa che le maestre gli avevano infuso a scuola durante le lezioni e le prove di evacuazione. Il razzismo non è un problema astratto, un virus esotico isolato nel Sud del Paese: Dylan lo ha sperimentato a Hibbing, Minnesota, quando ancora si chiamava Robert Zimmerman ("A Hibbing, i finlandesi odiavano i boemi, i boemi odiavano i finlandesi e praticamente tutti odiavano gli ebrei"). Per ridere di tutto questo dovrebbe ridere di sé stesso. Ma se ride di sé stesso, chi lo prenderà più sul serio? Dylan rideva degli anticomunisti, finché un comunista non ha sparato al Presidente. Dovrebbe fingere che non è successo, che le cose a questo punto non cambiano?
My name it is nothin',
My age it means less.
The country I come from
is called the Midwest...
Un'altra possibilità rapidamente scartata è la canzone indignata: quella che punta il dito contro un male del mondo, più o meno specifico. Anche qui non mancano esempi di precoci tentativi: una delle sue prime canzoni, The Death of Emmett Till, era il racconto indignato di un altro fatto di cronaca, la storia vera di due buzzurri razzisti che avevano ammazzato un bambino afroamericano e l'avevano fatta franca, sulle note di House of the Rising Sun. È un pezzo efficace per quanto ingenuo (ma non lo sono tutti i pezzi di protesta? Non lo sono tutti i pezzi folk?) Dylan avrebbe potuto cantarlo a Washington senza imbarazzi. Invece se ne è sempre vergognato. Non tanto dell'ingenuità dei versi, quanto di aver pensato di poter scrivere una canzone del genere. Dalla morte di Emmett Till a quella di Hattie Carroll il passo sembra breve. Ma qualcosa è successo. Qualcosa che non ti aspetteresti da un folksinger con robuste radici nel tessuto culturale americano. Dylan ha scoperto Bertolt Brecht.
("Hai letto molte cose di Brecht?"
"No, però l'ho letto").
Dylan è un autodidatta, in molti sensi. Il modo con cui si confronta con la cultura, in cui impara le cose è del tutto particolare, pre-moderno in un certo senso. In Chronicles dà l'impressione di poter afferrare i concetti soltanto quando qualcuno glieli riduce alla forma orale. Può essere un amico o un tizio incontrato per caso durante una gita in motocicletta: un matto o un profeta. Quando a vent'anni comincia a farsi delle domande sulla Guerra Civile, trova indispensabile chiedere un parere a Van Ronk - il quale non fa che ribadire un'ovvietà da sussidiario. Dylan era perfettamente in grado di leggere un sussidiario, ma aveva bisogno di sentirsi dire certe cose da un Van Ronk. Dylan in realtà legge più di quanto sembri, ma anche quando si tuffa nella libreria del suo padrone di casa, descrive la sua esperienza come un incontro con scrittori in carne e ossa: Balzac sembra un suo amico, beve litri di caffè, perde un dente e si domanda: "cosa significa?" ("Balzac is hilarious").
Hattie Carroll, che era cameriera in cucina,
con 51 anni e dieci bambini,
che serviva portate e gettava immondizie
e che in vita non sedette mai a capotavola
e che non rivolgeva mai parola ai clienti,
e che raccoglieva gli avanzi dai tavoli,
e su un altro piano svuotava i portacenere,
fu uccisa da un colpo inferto da un bastone
che girando nell'aria piombò in quella stanza,
determinato a uccidere ogni gentilezza,
e non aveva mai fatto niente a Zanzinger!
Ma voi che filosofate di disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.
Quanto all'incontro con Brecht, esso non passa nemmeno dalla pagina scritta: Dylan ascolta Jenny dei pirati in un teatro di Christopher Street, mentre aspetta Suze Rotolo che lavora dietro le quinte. Forse non c'è modo peggiore di accostarsi al teatro epico brechtiano, quello che a uno spettatore disincantato non dovrebbe offrire allo spettatore "suggestioni", ma "argomenti". Il Dylan ventenne è lo spettatore meno brechtiano che si possa immaginare. Quando nel buio della sala ascolta la storia della Fregata Nera, "tutta vele e cannoni", che arriva in città per raderla al suolo e salvare una sola persona, la suggestione è potentissima, gli argomenti scompaiono. È il ricordo dell'infanzia a Duluth, Minnesota, porto internazionale sul Lago Superiore, dove le navi andavano e venivano in continuazione e "l'intenso fischio delle sirene ti prendeva per il collo e ti toglieva il senno... sembrava sempre annunciare qualcosa di grande".
Jenny dei pirati è una canzone bastarda (continua sul Post).
(L'album precedente: Live At Carnegie Hall
L'album successivo: The Witmark Demos)
"Subito signore".
Lo stava ancora versando quando Zantzinger cominciò a colpirla sulla schiena e in testa. Sbrigati brutta nera figlia di puttana. Hattie continuò a servirlo e poi si ritirò in cucina, mentre Zantzinger ricominciava a tirar calci alla moglie. Hattie si sentiva svenire, lo disse ai colleghi: mi sento male, quell'uomo mi ha così tanto turbato ("that man has upset me so"). Morì in ospedale otto ore dopo: emorragia cerebrale. Era ipertesa, forse non lo sapeva.
Ma voi che filosofate sulle disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.
La moglie in seguito dichiarò: nessuno tratta bene i negri come mio marito, qui da noi |
Pochi secondi dopo, il disastro sociale che è Bob Dylan decide di spiegare che lui si sente un po' come Oswald, il cecchino di fede comunista che aveva freddato Kennedy a Dallas (una pedina dei cubani?) "Ho visto qualcosa di lui in me stesso", farfuglia. "Non pensavo che saremmo arrivati a questo punto, ma... devo avere il coraggio di ammettere di aver sentito le cose che lui sentiva... beh non al punto da sparare". Dall'attentato non era passato neanche un mese, nessuno aveva smesso di pensarci. Qualcuno comincia a fischiare, lui invoca la Costituzione, il diritto di parola e ringrazia per il premio anche a nome di quelli che vanno a Cuba. "O Dio", scriverà in seguito in una lettera di scuse, "cosa avrei dato per non essere lì" (qualcuno ancora si domanda come mai a Dylan non piacciano le premiazioni?)
Qualche anno fa successe una cosa del genere a Cannes. Lars Von Trier, all'apice della sua carriera, di fronte a un plotone di giornalisti, circondato da Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst, cominciò a spiegare che per anni aveva pensato di essere ebreo, ma adesso era diverso, adesso un po' capiva Hitler, come doveva essersi sentito "seduto nel suo bunker, alla fine..." Fu cacciato dal festival del cinema. Era stato un altro esperimento? Aveva voluto testare la tolleranza di uno dei circoli culturali più progressisti del mondo? O era stato punito da un superego capriccioso che gli rimproverava il successo mondano, che da sempre cerca di sabotarlo? ("Feci uscire tutto quello che avevo in testa e dissi: sii onesto, Dylan, sii solo onesto").
William Zanzinger, che a 24 anni
possedeva 200 ettari di piantagione di tabacco;
e genitori facoltosi che lo proteggevano,
e amici altolocati nello Stato del Maryland,
si fece arrestare scrollando le spalle.
Imprecava e scherniva, e mostrava la lingua,
e fu fuori su cauzione, in pochi minuti.
Ma tenete ancora a posto i fazzoletti.
Questo non è il momento delle lacrime.
Quando assesta il primo colpo di bastone alla sua reputazione di cantante di protesta, Dylan ha un un disco pronto. Uscirà in gennaio. Sarà il suo disco più politico: i tempi stanno per cambiare. Niente più buffonate, niente talking, appena due canzoni d'amore, ma tristi, asciutte, rassegnate. Niente cover, tutti testi originali. Anche le musiche, tutte di Bob Dylan - o almeno così sarà scritto in copertina, e chi non sarà d'accordo se ne farà una ragione. Sarà il disco definitivo per il folk di protesta: nessuno potrà più farne uno migliore. Sarà il suo disco più impegnato: ma, ecco, cos'è l'impegno per Dylan? Come funziona, a cosa serve? A suscitare indignazione per la morte solitaria della cameriera Hattie Carroll, per l'assassino dell'attivista Medgar Evans, per la povertà che spinge Hollis Brown a uccidere i suoi figli, per i minatori disoccupati di North Country Blues, vittime precoci della globalizzazione? ("Dicono che è molto meno caro giù in Sudamerica, dove i minatori lavorano quasi per niente"). O serve a capire gli assassini, a sentirsi nei panni di Hollis Brown, di Zantzinger, di Oswald? Bisogna entrare nelle persone, cercare di capirle da dentro, o non sarà meglio osservarle da lontano, a una distanza prudente? Dylan il problema se lo è posto. È da anni che ci lavora.
Una cosa che a questa altezza ha già scartato senza rimpianti è la satira. Lo abbiamo visto cimentarcisi con Talkin' John Birch Paranoid Blues, un brano in cui aveva creduto così tanto da cercare di proporlo in diretta televisiva. Se in seguito gli avvocati della Columbia gli avevano impedito di inciderlo nel secondo disco, ora le cose erano davvero cambiate. Blowin' in the Wind era stata una bomba, The Freewhelin' aveva venduto bene, Dylan stava diventando importante e nessuno gli impediva di cambiare qualche riga del testo e inserirlo nel nuovo disco. Non ci pensa nemmeno. In John Birch aveva preso di mira l'uomo comune del Midwest; aveva descritto le sue paure come paranoie, ridicole ossessioni di un ignorante. Ma Dylan è un uomo del Midwest. È lì che si è formato, è quel mondo che gli interessa recuperare. Le sue radici individuali, rimosse nei primi dischi, riaffiorano finalmente in North Country Blues. La paura di morire in un olocausto nucleare - o soffocato in un rifugio antiatomico - Dylan la conosce per esperienza diretta: era la stessa che le maestre gli avevano infuso a scuola durante le lezioni e le prove di evacuazione. Il razzismo non è un problema astratto, un virus esotico isolato nel Sud del Paese: Dylan lo ha sperimentato a Hibbing, Minnesota, quando ancora si chiamava Robert Zimmerman ("A Hibbing, i finlandesi odiavano i boemi, i boemi odiavano i finlandesi e praticamente tutti odiavano gli ebrei"). Per ridere di tutto questo dovrebbe ridere di sé stesso. Ma se ride di sé stesso, chi lo prenderà più sul serio? Dylan rideva degli anticomunisti, finché un comunista non ha sparato al Presidente. Dovrebbe fingere che non è successo, che le cose a questo punto non cambiano?
My name it is nothin',
My age it means less.
The country I come from
is called the Midwest...
Un'altra possibilità rapidamente scartata è la canzone indignata: quella che punta il dito contro un male del mondo, più o meno specifico. Anche qui non mancano esempi di precoci tentativi: una delle sue prime canzoni, The Death of Emmett Till, era il racconto indignato di un altro fatto di cronaca, la storia vera di due buzzurri razzisti che avevano ammazzato un bambino afroamericano e l'avevano fatta franca, sulle note di House of the Rising Sun. È un pezzo efficace per quanto ingenuo (ma non lo sono tutti i pezzi di protesta? Non lo sono tutti i pezzi folk?) Dylan avrebbe potuto cantarlo a Washington senza imbarazzi. Invece se ne è sempre vergognato. Non tanto dell'ingenuità dei versi, quanto di aver pensato di poter scrivere una canzone del genere. Dalla morte di Emmett Till a quella di Hattie Carroll il passo sembra breve. Ma qualcosa è successo. Qualcosa che non ti aspetteresti da un folksinger con robuste radici nel tessuto culturale americano. Dylan ha scoperto Bertolt Brecht.
("Hai letto molte cose di Brecht?"
"No, però l'ho letto").
Dylan è un autodidatta, in molti sensi. Il modo con cui si confronta con la cultura, in cui impara le cose è del tutto particolare, pre-moderno in un certo senso. In Chronicles dà l'impressione di poter afferrare i concetti soltanto quando qualcuno glieli riduce alla forma orale. Può essere un amico o un tizio incontrato per caso durante una gita in motocicletta: un matto o un profeta. Quando a vent'anni comincia a farsi delle domande sulla Guerra Civile, trova indispensabile chiedere un parere a Van Ronk - il quale non fa che ribadire un'ovvietà da sussidiario. Dylan era perfettamente in grado di leggere un sussidiario, ma aveva bisogno di sentirsi dire certe cose da un Van Ronk. Dylan in realtà legge più di quanto sembri, ma anche quando si tuffa nella libreria del suo padrone di casa, descrive la sua esperienza come un incontro con scrittori in carne e ossa: Balzac sembra un suo amico, beve litri di caffè, perde un dente e si domanda: "cosa significa?" ("Balzac is hilarious").
Hattie Carroll, che era cameriera in cucina,
con 51 anni e dieci bambini,
che serviva portate e gettava immondizie
e che in vita non sedette mai a capotavola
e che non rivolgeva mai parola ai clienti,
e che raccoglieva gli avanzi dai tavoli,
e su un altro piano svuotava i portacenere,
fu uccisa da un colpo inferto da un bastone
che girando nell'aria piombò in quella stanza,
determinato a uccidere ogni gentilezza,
e non aveva mai fatto niente a Zanzinger!
Ma voi che filosofate di disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.
Quanto all'incontro con Brecht, esso non passa nemmeno dalla pagina scritta: Dylan ascolta Jenny dei pirati in un teatro di Christopher Street, mentre aspetta Suze Rotolo che lavora dietro le quinte. Forse non c'è modo peggiore di accostarsi al teatro epico brechtiano, quello che a uno spettatore disincantato non dovrebbe offrire allo spettatore "suggestioni", ma "argomenti". Il Dylan ventenne è lo spettatore meno brechtiano che si possa immaginare. Quando nel buio della sala ascolta la storia della Fregata Nera, "tutta vele e cannoni", che arriva in città per raderla al suolo e salvare una sola persona, la suggestione è potentissima, gli argomenti scompaiono. È il ricordo dell'infanzia a Duluth, Minnesota, porto internazionale sul Lago Superiore, dove le navi andavano e venivano in continuazione e "l'intenso fischio delle sirene ti prendeva per il collo e ti toglieva il senno... sembrava sempre annunciare qualcosa di grande".
Jenny dei pirati è una canzone bastarda (continua sul Post).
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