I diavoli in Angela

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4 gennaio - Sant'Angela da Foligno, mistica, maestra dei teologi, autolesionista

(ATTENZIONE: dettagli repellenti. Poi non dire che non ve lo si era detto).

Dapprima baciò il corpo di Cristo e vide che
giaceva morto, con gli occhi chiusi; poi baciò
la sua bocca dalla quale colse come un
profumo di dolcezza, impossibile a dirsi...
Dietro a ogni santa di successo c'è sempre un frate. La coppia folignate Arnaldo-Angela somiglia molto a quella, più famosa, formata da Caterina da Siena e Raimondo da Capua. Anche Arnaldo, come Raimondo, all'inizio non immagina nemmeno di essersi imbattuto in una santa: la prima volta che assiste a una crisi ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un'isterica. Sta accompagnando una comitiva di pellegrini alla basilica di Assisi, e all'improvviso quella lontana cugina si accuccia vicino alla porta della chiesa superiore e si mette a urlare Amore Perché M'Abbandoni? Una pazza, insomma, ed è pure sua parente. Angela sta urlando così perché ha improvvisamente perso la connessione con lo Spirito Santo, che l'aveva sorretta durante tutto il viaggio. Sulla scena accorrono altri frati, cominciano a fare domande, ma chi è questa, la conosci? C'è da sprofondare dalla vergogna. Questa è l'ultima volta che la porto. "Mai più in avvenire osasse metter piede in Assisi".

Più tardi alla vergogna per la figuraccia subentra la vergogna per non averla saputa aiutare. Se si comporta così, è probabilmente posseduta da qualche spirito maligno: non è suo dovere indagare? Decide di sottoporre Angela a un rigoroso interrogatorio. La cugina si sottomette volentieri, ma le sue risposte sono così interessanti che Arnaldo smette di fare domande e la lascia parlare a briglie sempre più sciolte. Man mano che procede nelle sedute, il frate si convince di avere trovato una mistica di prim'ordine. Quando le rilegge un suo primo abbozzo, lei lo respinge come oscuro, ma soprattutto "privo di gusto": nel frattempo in paese la gente comincia a mormorare, guarda quel frate come le sta sempre attaccato. Le sue trascrizioni, frettolose e furtive, diventeranno il Liber, uno dei capolavori della mistica medievale. La mistica medievale è però piuttosto noiosa, così Angela da Foligno su internet è per lo più citata per quelle due o tre pratiche veramente hard che ha confessato al suo padre spirituale o ai destinatari delle sue lettere. Col rischio di farla apparire ancora più estrema di quanto non fosse: per esempio, non è esattamente vero, come ho letto più di una volta, che leccasse le ferite dei lebbrosi. Una volta, è vero, mentre stava pulendo le ferite putrefatte, bevve l'acqua sporca della bacinella (non fate così io ve l'avevo detto che si andava sul repellente; e siete ancora in tempo); a un certo punto sentì di avere ingoiato un pezzetto di carne, ma, per quanto volesse ingoiarlo, non ne fu in grado. E poi c'è la questione dei carboni ardenti nella vagina (IO VE L'AVEVO DETTO). In uno dei tanti periodi in cui si sentiva torturata e tentata da demoni, Angela ricorse anche a questo diversivo, ma Arnaldo glielo proibì.

Beh la frusta ogni tanto la usava.
Per queste e per altre aberrazioni, Angela può sembrare il personaggio ideale di un pamphlet anticattolico e antireligioso in generale, come ce n'è un po' dappertutto in rete. Anche qui non è che siamo esattamente su Avvenire; e però mi sembra che le cose siano un po' più complesse. Nei pamphlet la fanciulla vivrebbe libera e felice, ma viene costretta da torve famiglie a rinchiudersi in un convento. Non è esattamente il caso di Angela, che semmai era stata costretta a maritarsi, e che aveva avuto più di un figlio. Quando morirono, Angela (già quarantenne) "provò consolazione": finalmente il suo cuore era libero di donarsi a Dio. Nei pamphlet la religione ufficiale inocula nei fanciulli quei sensi di colpa che poi germineranno in masochismo e altre patologie; nel caso di Angela, che non sembrava vergognarsi di aver provato sollievo alla morte dell'intera famiglia, la religione ufficiale non incoraggiò e nemmeno autorizzò gli eccessi masochistici; cercò per quanto poteva di capire cosa stava succedendo alla povera suora. Frate Arnaldo non poteva certo inventarsi la psicanalisi da solo, anche se il caso effettivamente meritava. Fece del suo meglio, a rischio di mettersi nei guai. Era un frate spirituale a cavallo per Due e Trecento: il problema per lui si poneva nei termini: "Santa o posseduta?" Se era posseduta, si poteva ancora guarire. Se invece era una santa, andava incoraggiata 

Nella sua cella Angela visse una vita complicata: lo Spirito che la rendeva piena di gioia poteva anche abbandonarla per due anni di seguito. I demoni erano più abitudinari. Lei stessa ancora prima di Arnaldo aveva sospettato di essere indemoniata, e il dubbio non l'abbandonava mai. Un profondo desiderio di morte l'accompagnò per anni, trasformandosi nel tempo in un desiderio di agonia protratta all'infinito, nel tentativo di sentire su di sé tutto il dolore del mondo.

Giuseppe Riccetti. 1° premio ex-aequo
al concorso di grafica "Angela da Foligno
- la grande mistica" indetto nel 2000
dal Comune di Foligno.
Poi le passò.

Magari le sarebbe passato anche se Arnaldo non le avesse dato ascolto, non avesse trascritto i suoi discorsi e deliri, non l'avesse messa in contatto con altri colleghi interessati all'esperienza di una campionessa di misticismo. Quel che sappiamo, è che a un certo punto Angela riprese peso. Cominciò a sentire chiaramente che Dio le dava il permesso di interrompere la preghiera, ogni tanto, per mangiare. A differenza di Caterina da Siena, che si lasciò morire a trentatré anni, Angela in un qualche modo venne a patti con la vita, che lasciò soltanto alla ragguardevole età di sessantuno. Negli ultimi quindici fu il punto di riferimento di un nutrito gruppo di fedeli; in alcune sue lettere si propose anche come intermediaria nel conflitto sempre più acceso tra francescani spirituali e conventuali.

Mangiava, scriveva, si appassionava alle liti degli uomini; con la lingua di oggi diremmo che sembrava guarita. Senza trattamenti farmacologici, senza altra terapia che non fosse quella rudimentale portata avanti insieme a un frate che in fatto di mondi interiori ammetteva di saperne meno di lei. Poi successe qualcosa, intorno all'anno 1300. Angela continua a essere invocata e venerata come una santa in vita, ma ha sempre meno voglia di parlare delle sue esperienze e di dare consigli. Le sue lettere diventano distaccate, formali. Per coincidenza, Arnaldo è partito per Roma, sta cercando di fare carriera alla corte di papa Bonifacio. In uno dei suoi ultimi messaggi, stanca forse del suo personaggio, Angela esprime il desiderio di essere esposta per le strade della sua Foligno, coperta soltanto di pesci e tagli di carne.
Venite a vedere questa donna indegna, piena di malizia e simulazione, sentina di ogni vizio e di ogni male. Osservavo la Quaresima standomene tappata nella mia cella, per avere la stima degli uomini, e facevo dire a tutti quelli che m'invitavano: "Non mangio ne carne né pesce". Ero ghiotta, invece, e piena di ogni golosità, mangiona e beona. [...] Non dovete credermi più, non dovete più adorare quest'idolo, erano parole ingannatrici e diaboliche: pregate la giustizia di Dio che quest'idolo cada e vada in pezzi in modo che vengano svelate le mie opere menzognere e ingannatrici.
Non sembra la solita finta modestia dei santi. E si fa fatica anche a interpretarla come un tentativo di riallineamento (alla morte di papa Bonifacio le cose si stavano mettendo male per gli spirituali; anche Arnaldo finì in una lista di eretici). È più semplice immaginare che persino nei suoi momenti di gloria, quando godeva della considerazione e dell'ammirazione di alti prelati e intellettuali, Angela non avesse perso il sospetto di essere un'indemoniata. Una malata, diremmo oggi. Aveva forse ingannato il suo confessore e migliore amico, ma non era riuscita del tutto a ingannare sé stessa. [2013]
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Metodo infallibile contro qualsiasi insonnia

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"Scusa hai visto il libro?"
"Che libro".
"Non lo so. Quello che stavo leggendo".
"Non riesci a dormire?"
"Ne stavo pur leggendo uno da qualche parte".
"Non riesci a dormire".
"Ma ci pensi a che anno è?"
"Duemilaediciannove".
"Non dovrebbe essere un anno del genere".
"Per questo non riesci a dormire?"
"Non avevo previsto di essere ancora vivo, nel duemilaediciannove".
"No?"
"Da piccolo mi sembrava già tanto se sfangavamo il Duemila".
"Tutto il resto è grasso che cola, allora".
"Ma ti sembra un anno in cui possiamo esserci, io e te? Il Duemilaediciannove?"
"Puoi leggere il mio libro se vuoi, è carino".
"Quando ero piccolo erano gli anni dei film di fantascienza. 2019 i guerrieri dello Spazio. 2019 Fuga da staminchia".
"Ecco, guardati un film".
"Non funziona".
"Quello coi bivi".
"Mi mette angoscia. 'sti cazzo di anni Ottanta. Sempre lì a ricordare gli anni Ottanta, e intanto precipitiamo, precipitiamo nel vuoto. Tra un po' sono i Venti, ti rendi conto".
"Scrivi un pezzo".
"Ho l'ansia".
"Conta le pecore".
"È come contare i respiri che mi restano".
"Di' il Rosario".
"Con che faccia ormai".
"Correggi i temi".
"zzzzz".
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Il Santo Prepuzio (di cui è proibito parlare)

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1 gennaio – Circoncisione di Gesù, festa soppressa 

[Questo pezzo è uscito ieri sul Post]. È il caso di iniziare con un disclaimer: in questo pezzo si parlerà di una reliquia nota come il Sacro Prepuzio di Gesù. Prima o poi era inevitabile. Ne parleremo nel modo meno offensivo possibile; ma comunque ne parleremo, e questo a quanto pare sarebbe più che sufficiente per incorrere in una scomunica, prevista dalla Chiesa cattolica ai sensi del "Decreto n. 37 del 3 febbraio 1900".


Scrivo "a quanto pare" perché non sono riuscito a verificare la cosa. La trovo scritta in decine di pagine web, su Buzzfeed e persino nelle note a pie' di pagina di alcuni libri, ma tutti riportano la stessa formula stereotipata. Ho la sensazione che si citino tutti tra loro, e che nessuno sia davvero andato a cercare dove sia questo famoso decreto n. 37, e se ci sia davvero. Ma insomma il senso è che a un certo punto di prepuzio non si è potuto più parlare – certo, l'oggetto in sé esisteva ancora, custodito da trecento anni presso la parrocchia di Calcata (VT). Finché un bel giorno non è scomparso anch'esso (ma era già il 1983!) a causa di un clamoroso furto di cui probabilmente non avete sentito parlare. Proprio così, immaginatevi: scompare l'unico brandello del Corpo di Cristo non resuscitato e asceso al cielo, e i giornali non ne parlano. Anche perché nel frattempo Pio XII aveva ribadito, anzi rafforzato la scomunica per chiunque toccasse l'argomento; e il Concilio Vaticano II aveva eliminato la festa dal calendario. Insomma il prepuzio di Gesù è diventato un tabù, qualcosa di cui non è possibile parlare: e lo è diventato recentissimamente, proprio nel momento storico all'apparenza meno adatto al rispetto dei tabù.

 "Presto sentì con la più soave dolcezza sulla sua lingua un pezzetto di pelle simile alla pelle in un uovo, che essa ingoiò; e dopo che l'ebbe ingoiato sentì di nuovo sulla sua lingua la stessa pellicina con la stessa dolcezza che ne aveva provato, e di nuovo la ingoiò. E questo accadde migliaia di volte. E quando l'ebbe provata così tanto, fu tentata di toccarla con le sue dita, E quando desiderò di farlo, quella pellicina le scese da sola nella gola. E le fu detto che il prepuzio sarebbe stato resuscitato col Signore nel Giorno della Resurrezione" (Agnes Blannbekin, nel tredicesimo secolo, parlava di sé stessa alla terza persona ed era considerata un po' "strana", anche per la media delle mistiche medievali).

Mentre nei secoli cosiddetti bui il prepuzio di Gesù non costituiva nessun imbarazzo. Se ne discuteva (esiste o no? E se esiste, è ancora sulla terra?), ci si azzuffava, ci si giocava perfino. Una mistica austriaca sognò di averlo assaggiato (un chirurgo dell'Ottocento, si guadagnò il soprannome di "croque-prépuce", mangia-prepuzio, per avere effettivamente sottoposto una presunta reliquia alla prova gustativa). Caterina da Siena si limitava a immaginarselo legato al dito come fede nuziale. Anche chi negava che il prepuzio potesse essere rimasto sulla Terra, non sapeva bene dove collocarlo, al punto che quando furono scoperti gli anelli di Saturno un erudito del Seicento avrebbe creduto di avere trovato la soluzione al problema: il prepuzio era asceso al cielo solo fino a un certo punto, magari si era incastrato nel cielo del pianeta che Aristotele collocava appena sotto la sfera delle Stelle Fisse, ed era rimasto orbitante lì. Una teoria un po' troppo buffa per non essere inventata – e in effetti wikipedia ammette che questo famoso trattato sul prepuzio orbitante non si riesce a rintracciare.

Ma naturalmente l'idea che fosse rimasto sulla terra era più interessante per i ricercatori e i collezionisti di reliquie. Non era soltanto un business: ritrovare il brandellino di pelle, esporlo, ammirarlo, significava ribadire che Cristo oltre a un Dio era stato un uomo: il prepuzio poteva essere brandito contro gli eretici che negavano la natura umana di Gesù o la relegavano in un secondo piano: monofisiti, monoteliti e in generale i difensori di una religiosità più astratta, meno corporale. Questi ultimi erano in realtà già sconfitti da secoli, quando a Roma apparve il primo prepuzio di Gesù di cui abbiamo notizia, dono di Carlo Magno a quel papa Leone III che ebbe la pazza idea di incoronarlo imperatore. (A Carlo Magno l'avrebbe regalato l'imperatrice bizantina Irene, o un angelo). Con le crociate, e la relativa reliquie-mania, i prepuzi divini si moltiplicano: memorabile quello di Anversa, dono del re Baldovino di Gerusalemme, che fu visto da un vescovo stillare almeno tre gocce di Sangue. D'altro canto, spiega il nostro collega Iacopo di Varazze, il poco sangue scorso quel giorno non era che un anticipo di quello che Cristo avrebbe versato per noi. A un certo punto in giro per l'Europa ce n'è almeno una dozzina, ormai degradati al rango di amuleti. In quanto residui di un pene, diventano prima o poi un rimedio ai problemi virili; un re inglese (Enrico V) riesce ad adoperarne uno come cura per l'infertilità della moglie (Caterina di Valois), e a procurarsi finalmente un erede (Enrico VI). Sul finire del medioevo ormai tutta l'Europa ha stabilito che l'anno solare si conta secondo lo stile detto "della circoncisione", ovvero dal primo gennaio: se si accetta infatti come data della nascita di Gesù quella tradizionale del 25 dicembre, il primo gennaio è il giorno in cui secondo la legge mosaica (e secondo il Vangelo di Luca) il neonato sarebbe stato circonciso. Insomma intorno al prepuzio ruota l'anno intero.

La reazione all'inflazione di prepuzi e altre reliquie è la riforma protestante, che fa piazza pulita dei gadget sacri nell'Europa centrale e settentrionale, ma anche del più prestigioso prepuzio romano, scomparso durante il Sacco di Roma inflitto dai lanzichenecchi (1527). Trent'anni dopo lo stesso prepuzio ricompare a Calcata, provincia di Viterbo, nascosto nella parete di una cella dove era stato rinchiuso un lanzichenecco. La reliquia, in teoria la più ambita, non torna però a Roma: a Calcata si conquista un santuario tutto suo, e un discreto successo di pubblico (il pellegrinaggio valeva un indulgenza di dieci anni), ma i papi della Controriforma stanno già cominciando a prendere le distanze. Ducecentocinquant'anni dopo un'altra ondata iconoclasta, la rivoluzione francese, fa sparire più o meno tutti i prepuzi residui.

Ma proprio quando la reliquia di Calcata sembra essere rimasta senza rivali, nel 1856 un colpo di scena mette in imbarazzo il Vaticano: nell'abbazia di Charroux, nel Poitou, mentre abbatte una parete un muratore ritrova un altro prepuzio. In effetti secondo la tradizione locale sono i monaci di Charroux, e non Leone III, i destinatari del dono di Carlo Magno. Non è certo la prima volta che una reliquia si rivela un doppione; ma ormai siamo nell'Ottocento, e due prepuzi di Gesù creano più problemi di quanti ne creasse una dozzina nel Duecento. L'Europa non è più una selva fiorita di castelli e chiese, separati e autonomi tra loro: ormai è un reticolo di ferrovie, uno spazio misurabile. Un oggetto, ancorché miracoloso, non può esistere in due luoghi contemporaneamente: la cosa non è più plausibile, non è più immaginabile, nemmeno da un'anima semplice o pia. Nel frattempo il Vaticano ha reclamato l'infallibilità papale, e quindi tra Charroux e Calcata un Papa non può più rifiutarsi di scegliere: e sceglie di tacere, anzi di zittire chiunque.

Dal 1900 in poi del prepuzio non si parla più. Solo a Calcata la venerazione rimane tollerata, fino al misterioso furto del 1983. Misterioso anche per la sua semplicità: alla vigilia delle celebrazioni del primo gennaio, il parroco Dario Magnoni avvisa i fedeli di Calcata che la reliquia non si trova più: qualche ladro sacrilego è penetrato nella sua casa, l'ha trovata nella scatola di scarpe in cui la nascondeva, e l'ha portata via. Non è nemmeno chiaro se don Magnoni abbia sporto denuncia. L'oggetto in sé appare poco commerciabile: l'ipotesi è che al ladro interessassero soprattutto le pietre preziose del reliquiario che lo conteneva. Ma se davvero Magnoni temeva i ladri, al punto di portarsi il prepuzio in casa, perché non ha pensato a custodire reliquiario e reliquia almeno in due scatole diverse? Qualche compaesano nota che il giorno prima il parroco si era recato a Roma. Qualche anno prima, un vecchio vescovo aveva annunciato: quando me ne andrò io, se ne andrà anche il prepuzio. E poi basta, anche il giornalista americano che ci scrisse un libro non è che trovò molto altro da dire. L'ultimo prepuzio è scomparso, proprio quando ormai si cominciava a parlare di analisi del DNA e di clonazione. 1500 anni fa la priorità della Chiesa era difendere l'idea che Dio si fosse fatto corpo: le reliquie erano prove, evidenze tangibili, perfino assaggiabili, della permanenza del Sacro nella carne. Oggi la battaglia è sul fronte opposto: salvare il Sacro da una carne sempre più misurabile, osservabile, persino replicabile. Alcune reliquie hanno ancora un senso; altre sono appena tollerate; altre ormai sono imbarazzanti, e infatti spariscono. È il caso della Veronica, una macchia triangolare che nel medioevo poteva apparire davvero come una immagine miracolosa Gesù, ma che oggi non riusciremmo affatto ad associare a un volto; probabilmente è anche il caso del Santo Prepuzio, di cui non si dovrebbe parlare: e chiedo scusa per averlo fatto.
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Garantita contro il colera e l'ateismo

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31 dicembre - Santa Catherine Labouré (1806-1876), veggente, designer del gadget più diffuso nell'Ottocento

Disponibile anche in italiano
Nel marzo 1832, a Parigi, durante i festeggiamenti di metà quaresima, un arlecchino all'improvviso si leva la maschera e prima di accasciarsi rivela un volto paonazzo, innaturale: la folla scoppia a ridere, ma di lì a poco i carretti delle ambulanze cominceranno a caricare decine di persone ancora nei costumi della festa. Il colera è arrivato in città.

Farà settemila morti in due settimane, diciannovemila entro l'anno. L'unico rimedio conosciuto e raccomandato dalle autorità è un bagno caldo con aceto, sale e mostarda. Anche linciare repubblicani bonapartisti e legittimisti può servire; non è escluso che siano loro ad avvelenare i pozzi. Alunna di una centralissima scuola elementare in Place du Louvre, la piccola Caroline Nenain è l'unica della classe che sembra avvertire i sintomi. Le suore della Carità scoprono che è anche l'unica a non avere ancora indossato la Medaglia Miracolosa raffigurante la madonna com'era apparsa alla consorella Catherine Labouré, due anni prima. Fortunatamente le sorelle hanno ampie scorte di medaglie, sono loro che le distribuiscono: Caroline guarirà non appena se la sarà messa al collo. È l'inizio di un successo mondiale che farà della medaglietta il gadget più diffuso dell'Ottocento. Si calcola che ne siano state distribuite almeno un miliardo.

Una da qualche parte devo avercela anch'io, in qualche cassetto abbandonato in un trasloco. Potete facilmente procurarvene una anche voi, facendo domanda su un sito che non vi linko, ma è a portata di google. Non costa niente, però ve la mandano con un bollettino da compilare. "...non è una fattura, si tratta di un suggerimento per una possibile offerta libera e del tutto volontaria che aiuterà a portare avanti questa campagna di diffusione della Medaglia Miracolosa". Dicono sempre così, e poi magari cominciano a mandarti il giornalino una volta al mese, e chissà, magari vendono i tuoi dati a frate Indovino, o al messaggero di Sant'Antonio, o San Giuseppe, appena scoprono che sei uno di quelli che compila i bollettini c'è mezzo paradiso pronto a invadere la tua buca delle lettere.

Nella primavera del 1832 la medaglia era appena stata coniata dall'orafo Vachette (quai des Orfèvres 54), sulla base delle indicazioni di padre Jean-Marie Aladel, confessore di Catherine, che al tempo era ancora una novizia. Aladel conosceva già da mesi le visioni della ragazza, e per molto tempo era rimasto scettico; solo quando Catherine lo aveva informato che "la vergine era dispiaciuta" si era deciso a chiedere udienza al vescovo di Parigi per chiedere l'autorizzazione a forgiare la medaglietta che Catherine descriveva nelle sue visioni. Il vescovo da parte sua aveva altre preoccupazioni: dopo la rivoluzione del 1830 la sua posizione era piuttosto precaria. La medaglietta avrebbe potuto aiutarlo, purché i miracoli arrivassero in fretta: nel frattempo non era il caso di divulgare le visioni di Catherine, altrimenti sarebbe stato necessario fare un processo per omologare la visione, mandare tutto a Roma, e a Roma sono lentissimi su queste cose. All'inizio insomma la medaglia sembrò spuntare dal nulla.

L'iconografia non era poi così originale: sul verso appaiono, riconoscibili a ogni cristiano di media cultura, due sacri cuori. Quello di Gesù si riconosce dalla corona di spine, quello di Maria dalla spada che, come le aveva annunciato Simeone, "ti trafiggerà il cuore" (Luca 2,35). Sopra c'è una M che sorregge una croce, un rebus abbastanza facile. Il tutto contornato di dodici stelle che, per dirla col lessico giornalistico, sono un vero giallo: benché infatti anche in questo caso il riferimento alle scritture sia molto chiaro (la corona delle dodici stelle della donna "rivestita dal sole", in Apocalisse 12,1), Catherine non sembra aver mai parlato di stelle. Forse sono un'aggiunta di padre Aladel, forse l'orafo sentiva semplicemente il bisogno di un motivo che incorniciasse l'ovale. La scelta avrà una conseguenza enorme e imprevista, se è vero che il giovane disegnatore Arsène Heitz stava proprio leggendo un libro sulla medaglia miracolosa nel periodo in cui disegnava bozzetti per la bandiera del Consiglio Europeo; ne propose diversi, ma alla fine la giuria laica e inconsapevole scelse proprio la corona di dodici stelle in campo azzurro, che poi fu ripresa dagli altri organismi europei e oggi è la bandiera della UE che gli ucraini nei cortei sventolano con allegro coraggio e i forconi italiani strappano rabbiosi dai pennoni degli edifici pubblici (non si potrebbe semplicemente fare uno scambio? i forconi per tre mesi in Ucraina, gli ucraini al loro posto in Italia, vediamo chi cambia idea su cosa). Gli euroburocrati non se ne erano resi conto - e continuano a smentire - ma hanno messo un simbolo mariano sulla bandiera federale: se aggiungi che la scelta fu presa proprio un otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione... però tutte queste cose le racconta Vittorio Messori, e forse andrebbero ricontrollate una per una.

Catherine, con i suoi gadget
Di tutto ciò Catherine è innocente: lei le dodici stelle non le aveva proprio viste. Aveva visto invece la Madonna raggiante custodire un pianeta nella mano, e aveva sentito una voce dire "Questo piccolo globo simboleggia il mondo intero e ogni anima in particolare". Ogni anima è un mondo, non è mica una brutta immagine: ma nella medaglietta non c'è. Ci sono i raggi che "simboleggiano le grazie che la Santa Vergine ottiene per coloro che le domandano": però il pianeta non c'è più, Aladel lo ha rimosso. La spiegazione più semplice tira in ballo la politica: il globo era una delle insegne regali. Nella prima metà dell'Ottocento era ancora universalmente collegato alla monarchia assoluta, quella che i francesi avevano appena liquidato con la rivoluzione del 1830. Il vescovo in quell'anno aveva dovuto lasciare la sede due volte onde evitare linciaggi e saccheggi; non era veramente il caso di mettere in giro medaglie di gusto monarchico-legittimista (di lì a poco anche i legittimisti saranno accusati di diffondere il colera). Eppure al globo Catherine ci teneva particolarmente: fino alla morte insistette affinché almeno la cappella del suo convento in rue de Bac si dotasse di un altare con la Madonna e il globo.

La cornice sul recto della medaglia non è stellata, ma reca l'iscrizione "O Marie, conçue sans péché, priez pour nous qui avons recours à vous": o Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ci affidiamo a voi. Così aveva udito Catherine, e così fu inciso nella medaglietta: sfidando l'autorità ecclesiastica, che non aveva ancora definito il dogma dell'immacolata concezione. D'altro canto il modello per la medaglietta fu una statua dell'Immacolata (opera settecentesca di Edmé Bouchardon) esposta nella chiesa di Saint Sulpice, insomma, l'immacolata non era esattamente un concetto originale. Il successo della medaglietta però ebbe l'effetto di sbloccare l'antico stallo tra maculisti e immaculisti e a ridare vigore a questi ultimi: il papa Gregorio XVI concesse la festa dell'otto dicembre, ma a decidersi una volta per tutte e a proclamare il dogma fu Pio IX nel 1854. Per la prima volta un dogma veniva dichiarato da un papa e non da un concilio: dunque il pontefice si considerava infallibile? La cosa avrebbe richiesto un altro concilio, ma nel frattempo a troncare la discussione intervenne la Madonna stessa, che apparendo nel 1858 all'ignara Bernardette Soubirous, le si presentò in perfetto occitano: "Que soy era immaculada concepciou". Ora uno degli argomenti che si sentono spesso, a favore di Bernardette, è che non fosse culturalmente in grado di inventare quello che stava raccontando: era una pastorella analfabeta, non aveva mai sentito parlare del dogma dell'immacolata concezione. Sarà. Però al collo aveva una medaglietta miracolosa in cui Maria era definita "concepita senza peccato", ovvero immaculada. Certo, Berardette era analfabeta. Magari nessuno le aveva spiegato cosa stava scritto in quella medaglietta. Ma insomma di apparizioni mariane poteva aver già sentito parlare, visto che ne portava al collo un'effigie. Dal canto suo, suor Catherine non appena seppe di Bernardette e delle apparizioni di Lourdes dichiarò: "È la stessa".

L'altro miracolo importante a cui è associata la medaglietta è la conversione dell'avvocato Alphonse Marie Ratisbonne durante una gita a Roma nel 1842. Professando un orgoglioso ateismo, il giovane di belle speranze accetta la sfida di un'amica di famiglia, che le propone di indossare la medaglietta e di recitare una preghiera di San Bernardo. La notte stessa nella sua camera d'albergo vede una croce, ma al risveglio l'ha già dimenticata. Il giorno dopo, mentre cerca affannosamente di vedere il papa (è l'ultimo desiderio prima di lasciare l'Urbe), segue incautamente l'amico nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte: lì ha una visione mariana che gli cambia la vita per sempre. Doveva lasciare l'Italia, salpare per l'oriente, vedere un altro po' di mondo prima di tornare a casa e sposare una nipote; decide lì per lì di battezzarsi e farsi monaco. Non c'è neanche bisogno di catechizzarlo perché all'improvviso conosce tutti i dogmi della fede cristiana. Alla conversione miracolosa verrà date ampia risonanza anche perché Alphonse Marie (fino a quel momento Alphonse Tobias) era di origine ebraica: e poche ore prima di infilare la medaglietta fatale aveva visitato il ghetto di Roma, scandalizzandosi per le condizioni in cui vivevano gli ebrei della città. Poi gli appare la madonna e da lì in poi tutto gli è chiaro, compresa la segregazione.

Ratisbonne dopo la cura
Dopo una breve militanza nei gesuiti, Ratisbonne fonderà il proprio ordine, con la priorità della conversione di musulmani ed ebrei. Terminerà i suoi giorni in Palestina. Il racconto della sua conversione, steso da lui medesimo, è un altro di quei memoriali ottocenteschi che sembrano invocare l'arrivo di Freud. Per quanto dichiari a ogni pagina di non aver mai ricevuto nessun tipo di cultura religiosa, né ebraica né cristiana, Ratisbonne inciampa nell'idea di Dio continuamente. Racconta per esempio di aver troncato di netto i rapporti col fratello maggiore, che si era convertito qualche anno prima, e che aveva dedicato un saggio monografico proprio su San Bernardo - tu guarda la coincidenza. Del fratello Alphonse non voleva più nemmeno sentir parlare (poi andranno in Palestina assieme). Alphonse ammette ancora di aver partecipato almeno a una riunione di ebrei che avrebbe avuto come oggetto una riforma dell'ebraismo, anche se garantisce che per tutta la riunione non si discusse mai di Dio, né della sua legge: e si capisce che lo dice con rammarico. Quando l'amica di famiglia gli propone di pregare San Bernardo, accetta con allegria, e per un attimo gli balena l'idea di uno scambio: purtroppo non conosce nessuna preghiera ebraica da insegnare all'amica.

Tutto insomma contribuisce a proiettare la figura dell'ateo devoto: quel tipo di persona che, con la scusa di ribadire che non esiste, ha in bocca dio continuamente. Sono i più facili da convertire, di solito stanno soltanto aspettando la spinta giusta. La signora che gli mise al collo la medaglietta conosceva il suo pollo, per così dire. Ma ancora oggi è abbastanza facile tracciarli, gli atei così. Sono loro stessi che escono allo scoperto, con lunghi discorsi che all'orecchio annoiato dell'esperto suonano come un semplice grido: convertimi convertimi! non subito, ma presto! Il resto del tempo stanno spiegando la religione ai papi o la scienza agli scienziati, o viceversa, a un certo livello è uguale. C'è poco da fare ironia, magari siamo tutti così. È piuttosto plausibile che una certa tensione verso l'assoluto, una certa ansia di sottomissione a una divinità, siano eredità ancestrali, genetiche magari: poi subentra l'educazione, e soprattutto in certi contesti si tende a reprimere anche queste inclinazioni: non si rutta a tavola e non si pensa a Dio. Prima o poi, però, come sappiamo, salta fuori tutto; alcuni riescono a sublimare dedicandosi ad altre speculazioni metafisiche: la filosofia, la matematica magari. Altri non ce la fanno. Rimane in loro questo vuoto pazzesco e non sanno come gestirlo. Potrebbe capitare a chiunque. Se almeno si potesse capire per tempo se siamo quel tipo di persone... forse un giorno basterà un analisi del dna... ma nel frattempo. Nel frattempo potreste replicare l'esperimento di Alphonse: accattatevi la medaglietta su internet, ripetete la preghiera di San Bernardo, vedete come va. Se non avete allucinazioni nel giro di una settimana, forse non siete quel tipo di persone. Magari un giorno ci provo anch'io. Appena trovo la medaglietta. Da qualche parte deve pur essere, non butto mai via niente. In ogni caso non c'è fretta, come diceva quello [2013].
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L'annosa questione del razzismo di Tolkien

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Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

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Morte di un tecnico (nella Cattedrale)

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29 dicembre: San Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, tecnico e martire (1118-1170)

Otford è un graziosa cittadina del Kent con un lieve difetto: non vi cantano gli usignoli. Anche prima che si disboscasse per far passare l'autostrada M26, a Otford di usignoli non ce n'è, o se ce n'è stanno zitti. Gli abitanti dicono che è colpa di San Thomas arcivescovo, o meglio: è colpa degli usignoli che cantavano troppo una notte che l'arcivescovo voleva pregare in santa pace: così li ha zittiti per sempre. In questo episodio, ovviamente apocrifo, c'è tutto il carattere di Thomas. Anche a Francesco d'Assisi, di una generazione più giovane, è attribuita la facoltà di silenziare gli uccelli: il senso dell'aneddoto però è completamente diverso, Francesco tratta le rondini di Alviano da sorelle, gli usignoli di Otford per Thomas sono semplici seccatori. Francesco è il santo più popolare, Thomas qualche anno fa ha partecipato a un controverso sondaggio sul "peggiore personaggio storico britannico" classificandosi secondo dietro a Jack lo Squartatore, il che è un'autentica ingiustizia: Becket non ha mai fatto a pezzi nessuno. Semmai lui è stato fatto a pezzi, e dal suo sacrificio ci hanno guadagnato in tanti; e adesso lo infamano.

Mi piacciono le miniature sui fatti di cronaca.
L'ipotesi è che il vago sentimento di antipatia che circonda il più venerato santo inglese dipenda dal fatto che Thomas è quel che oggi definiremmo un tecnico: uno che chiami perché faccia un lavoro e lo faccia bene, e non t'interessa se nella sua intimità veste un cilicio o zittisce per sempre gli usignoli. Abbiamo tutti bisogno di tecnici, ma li odiamo. Forse perché intuiamo di essere totalmente in loro potere. Malediciamo gli idraulici, gli elettrauto li vorremmo morti; per loro fortuna non abbiamo cavalieri al nostro servizio che realizzino le nostre minacce. Thomas non fu altrettanto fortunato.

Suo padre era un mercante normanno che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra conquistata di fresco. Aveva amici nobili che avevano insegnato a Thomas a cacciare col falcone e altre menate aristocratiche cui non seppe rinunciare neanche quando vestì l'abito di arcivescovo. L'amico più importante, l'abate Teobaldo di Bec, lo indirizzò agli studi, e lo prese al suo servizio quando gli affari del padre andarono male. Thomas aveva abbandonato l'università di Parigi dopo un anno, ma proseguì gli studi a Bologna e Auxerre. Nel frattempo Teobaldo di Bec era diventato arcivescovo di Canterbury, ovvero primate d'Inghilterra: colui cui spettava incoronare i re, per intenderci. A trentasei anni Thomas divenne il suo arcidiacono. A trentasette la svolta improvvisa: il re Enrico II, su consiglio di Teobaldo, lo nominò suo cancelliere. Fino a quel momento Thomas era stato un tecnico di diritto canonico: al re però serviva tutt'altro, un primo ministro che riuscisse a farsi pagare le tasse da tutti, compresi i grandi proprietari. E persino, sì, la Chiesa: anche da lei Enrico II pretendeva un tributo, lo so, è inimmaginabile, sono barbare usanze medievali che comunque il cancelliere Thomas assecondò. Il canonico dell'arcivescovo cambiò casacca e divenne un vero mastino laicista, uno strenuo difensore delle prerogative del regno. Forse è per questo che è arrivato secondo solo dietro a Jack the Ripper? Macché, questo è solo l'inizio.

Sei anni dopo l'arcivescovo Teobaldo muore. Enrico II a quel punto ha una gran voglia di insediare Thomas al suo posto. Questi rifiuta più volte, e non lo fa per modestia (carattere che nessun cronista gli attribuisce): ma conosce troppo bene sia Canterbury sia il re per non capire che il conflitto d'interessi lo stritolerà. Grazie, no, gli risponde: "Perderei la benevolenza di vostra maestà, e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare". Fu nientemeno che il Papa Alessandro III a sbloccare la situazione: conosceva Thomas e si fidava di lui. Oltre ad avere bisogno del sostegno della corona d'Inghilterra: mezza Europa non lo riconosceva, Federico Barbarossa lo aveva rimpiazzato con un antipapa.

Alessandro comunque aveva visto giusto. Cambiata l'ennesima casacca, Thomas diventò un geloso difensore delle prerogative ecclesiastiche, tanto quanto prima era stato uno zelante difensore delle prerogative regie. Era evidentemente un tecnico, uno che di mestiere difendeva le prerogative del migliore offerente. Non significa necessariamente che fosse un uomo arido. Tra i vari incarichi che ricoprì, gli capitò anche di dover fare il regio babysitter: allevò per qualche anno il principe Enrico il Giovane, quello che tanto avrebbe desiderato diventare Enrico III, invano. Sembra che il Giovane abbia dichiarato di avere ricevuto da Thomas più affetto paterno in un giorno che dal suo vero padre in tutta la vita.

Mentre lo squinternavano, diceva
tante cose nobilissime, riportate
in varie cronache.

Ad alienare definitivamente padre e patrigno fu una questione di diritto canonico. Al tempo i membri del clero, se accusati di un crimine anche grave, potevano essere giudicati soltanto da un tribunale ecclesiastico. Questo tribunale poteva infliggere multe e pene anche peggiori, come la dismissione dallo stato clericale ("laicizzazione") o addirittura la scomunica... ma non poteva spargere il sangue: nemmeno una stilla. Viceversa, nei tribunali civili di Enrico II pene di morte e mutilazioni erano ancora all'ordine del giorno. Fa un po' effetto pensare che la laicità a quel tempo fosse una pena sostitutiva del patibolo, ma le cose stavano così: ammazzi qualcuno? ti trovano in flagranza di reato? Se sei un laico, ti mutilano o ti ammazzano. Se sei un prete... non lo sei più. La cosa presentava ovvi vantaggi, tanto più che non riguardava soltanto preti monaci e vescovi, ma anche gli ordini minori, insomma si calcola che un quinto dei sudditi di Enrico potesse teoricamente delinquere senza temere la giustizia del re. Il quale re non discuteva nemmeno il privilegio ecclesiastico, ma ragionava in questi termini: se laicizzate un omicida, quello non è più un prete, e quindi perché a quel punto non posso farlo arrestare e giudicarlo io? Basta mettere un mio uomo in ogni corte ecclesiastica, e ci pensa lui ad arrestare i laicizzati e a portarli in un tribunale ordinario... ma per i vescovi questo non si poteva fare. I vescovi in realtà erano perlopiù disponibili a discuterne, e magari anche un po' corruttibili, tranne ovviamente Thomas. Enrico gli tolse tutto quello che gli aveva elargito da cancelliere, compresa la custodia del principino, ma niente da fare.

A Clarendon nel 1164 Thomas fu messo davanti a un documento (le Costituzioni di Clarendon) che per la prima volta metteva per iscritto alcuni principi della common law inglese, in particolare la competenza dei tribunali laici nei riguardi dei chierici colpevoli di crimini secolari. Thomas affermò di accettare, ma poi non firmò, o forse firmò ma immediatamente dopo cercò di lasciare l'Inghilterra, il che era esplicitamente proibito dalle Costituzioni. Arrestato, condannato, Thomas arrivò comunque in Francia l'anno dopo, prima ospite dei monaci cistercensi e poi di Luigi VII, un re che se c'era da fare un dispetto al collega inglese, non si tirava mai indietro. Tra i due c'era ben più di un contenzioso diplomatico: la moglie di Enrico, Eleonora di Aquitania, era stata un tempo moglie di Luigi, gli aveva dato qualche figlio e lo aveva persino accompagnato in una crociata, che aveva messo a dura prova la convivenza della coppia. Eleonora non era solo bellissima, era anche il miglior partito d'Europa: possedeva mezza Francia e quando Luigi aveva consentito all'annullamento del matrimonio certo non aveva immaginato che di lì a poco Eleonora si sarebbe fidanzata con un Re rivale. Le seconde nozze di Eleonora avevano reso Enrico il signore del più grande dominio feudale d'Europa, esteso dalla Scozia fino alla Francia occidentale: questo può spiegare la disponibilità di Luigi a ospitare l'arcivescovo ormai nemico dichiarato della corona d'Inghilterra. Molto più tiepido il Papa, che con Enrico non voleva rompere assolutamente, e che cercava di ricomporre il dissidio scrivendo lettere a tutte le parti in causa con versioni che però non combaciavano. Thomas da parte sua aveva una sola arma a disposizione – la minaccia di scomunica nei confronti dei sostenitori del re – e cominciò a usarla: ma come tutte le minacce, è un'arma che a snudarla troppo si consuma. Un primo tentativo di scomunicare il collega vescovo di Londra, Foliot, andò a vuoto, perché Foliot riuscì a dimostrare che Thomas non gli aveva mandato un preavviso previsto per legge. Thomas, si cominciava a dire in giro, è uno che prima condanna e poi giudica.

Proprio quando le parti stavano faticosamente arrivando a un compromesso, che conveniva a tutti, un evento esacerbò il già agro arcivescovo: Enrico decise di associare al trono il suo primogenito, proprio l'ex pupillo di Thomas: e chiamò a incoronarlo l'arcivescovo di York. Ora, da che mondo è mondo, i re d'Inghilterra li incorona l'arcivescovo di Canterbury. Thomas alla fine accettò di tornare sull'isola, ma quasi appena sbarcato mandò un triplo giro di scomuniche, ai vescovi di York, di Londra e di Salisbury, che erano stati presenti alla cerimonia. Questi fecero immediatamente appello al re, il quale, quando fu informato della tripla scomunica, si incazzò molto. Pronunciò in quell'occasione qualcosa di cui in seguito ebbe a pentirsi, anche se non sappiamo esattamente cosa. Ci sono varie versioni, diversi resoconti, perché il martirio di Thomas non è solo l'ultima leggenda del medioevo: è anche uno dei primi fatti di cronaca nera di risonanza europea, per mesi e anni nelle corti e nei chiostri non si parlò d'altro. Per il biografo ufficiale Enrico avrebbe detto: "Quali miserabili traditori ho allevato e cresciuto nella mia casa, che lasciano che il loro signore sia trattato così vergognosamente da un chierico di umili natali?" Ve lo immaginate un re incazzato del dodicesimo secolo che parla così? Diciamo che una frase tanto elaborata, ancorché verosimile in un contesto cortigiano, si presta male alla tesi della difesa, che sostiene che fu uno sbotto di collera: così nei secoli ha avuto più successo la teoria secondo cui Enrico disse semplicemente: "Nessuno mi libererà da questo prete turbolento?" Quattro cavalieri lo presero in parola e partirono immediatamente per Canterbury. Si chiamavano De Tracy, FitzUrse, Brito e Hugh de Morville, tutti e quattro cavalieri di alto lignaggio.



Anche di quel che accadde il 29 dicembre del 1170, 842 anni fa oggi, esistono vari resoconti. Tutti più o meno concordano sul fatto che i quattro cavalieri non volessero, in un primo momento, fare a pezzi il povero Thomas, e proprio all'interno della Cattedrale. Fu un incidente, come si dice. Prima di entrare avevano addirittura deposto le armi sotto un albero. Thomas era a pranzo in canonica quando si vede arrivare questi quattro normanni semianalfabeti che lo intimano di presentarsi a Winchester davanti a una corte del re, o qualcosa del genere. Presentarsi per chi? Per cosa? Ma chi siete? Ma come vi permettete? Io sono l'arcivescovo, fuori dai piedi.

A quel punto i quattro vanno a recuperare le armi sotto l'albero. Thomas nel frattempo si era spostato all'interno della cattedrale, voglio ben vedere se quei quattro senzadio mi seguono fin qui. I quattro entrano effettivamente nella casa del Signore, e ci entrano armati, ma non è che volessero proprio proprio uccidere l'arcivescovo, però... anche nel suo seguito c'è qualche testa calda, gira qualche brutta parola, insomma a un certo punto succede quel che ha da succedere. FitzUrse trafigge l'arcivescovo una prima volta, De Tracy vibra il secondo colpo. Brito mira un po' più in alto e gli scoperchia il cranio. Hugh de Morville non fa nulla, in compenso un suo intendente sparge la materia cerebrale sul pavimento. Poi, visto che ormai la frittata è fatta, i quattro pensano bene di saccheggiare la cattedrale. Ma non era che l'anticipazione di quanto sarebbe successo di lì a poco.

Morendo da martire, e proprio sul pavimento di una cattedrale che era già meta di pellegrinaggi, Thomas ebbe il raro privilegio di diventare una reliquia immediatamente, a piastrelle non ancora lavate. "Mentre giaceva immobile sul pavimento, qualcuno si imbrattava col suo sangue; altri che avevano portato piccoli recipienti si allontanarono immediatamente in tutta fretta con quanto sangue poterono, altri ancora vi intinsero avidamente brandelli di stoffa strappati dai loro vestiti: alla fine nessuno parve appagato se non avesse portato via un po' di quel prezioso tesoro". Non appena la folla di cacciatori di sacri resti si fu un po' diradata, i monaci presero quel che restava del corpo e decisero di seppellirlo immediatamente, prima che qualche altro fanatico lo profanasse o qualche zelante cavaliere del re lo facesse sparire. Spogliandolo, scoprirono che sotto le ricche vesti arcivescovili indossava un cilicio: forse non era semplicemente un tecnico, forse in quel che faceva ci credeva davvero. Questo almeno si è deciso di raccontare, aggiungendo via via elementi alla leggenda (non è vero, come si legge qua e là, che una volta nominato al seggio di Canterbury si sarebbe tagliato i capelli). I miracoli non si fecero attendere, verso sera c'era già una paralitica risanata dal contatto col sacro sangue dell'arcivescovo. Di lì a poco cominciò il commercio di ampolle di sangue arcivescovile, opportunamente diluito, probabilmente fino a diventare trasparente anche se l'omeopatia ufficialmente è nata qualche secolo dopo.

Mentre Canterbury si avviava a diventare la Lourdes inglese – e gli inglesi se si impegnano non sono secondi a nessuno – in Normandia Enrico II si lasciava rodere dai sensi di colpa. Forse. O forse fu tutta una messinscena. Di lì a poco la moglie un po' sfiorita ma ricchissima e il primogenito con la fissa dei tornei si allearono per estrometterlo dal governo del regno. Portarono dalla loro parte anche il fratello Riccardo, mentre l'ultimogenito, Giovannino Senzaterra, rimase dalla parte di papà. Schiacciare i rivoltosi fu così semplice che Enrico non se la prese nemmeno troppo con chi gli aveva finalmente dato una buona scusa per mettere agli arresti la vecchia moglie. Riccardo, non ancora esattamente un Cuor di Leone,  si guadagnò il perdono strisciando in lacrime. Enrico il Giovane sembrò per qualche anno rinunciare a ogni velleità di fare il re per davvero, e si rituffò in un'intensa attività agonistica, torneando in tutta Europa. Durante la rivolta il padre aveva ritenuto giusto riconciliarsi con la Chiesa, recandosi in pellegrinaggio a Canterbury e passando una notte insieme con la salma dell'ex validissimo collaboratore. Il Papa approvò e perdonò ufficialmente, nel mentre che si accingeva a santificare Thomas con una canonizzazione lampo – d'altro canto i miracoli registrati a Canterbury erano già centinaia. Dopo essere stato un cancelliere modello e un arcivescovo inflessibile, Thomas si era subito rivelato un santo di indiscutibile efficacia.

E i quattro cavalieri? Non furono nemmeno arrestati: se ne stettero per un po' autoreclusi in Scozia, e poi ottennero un solenne perdono in cambio dell'impegno ad andare in guerra contro i turchi. Non si sa se tornarono (non si sa nemmeno con sicurezza se partirono). Ma insomma, alla fine la sensazione è che il martirio di Thomas convenne a tutti: il re e il Papa giunsero finalmente a un compromesso sulle costituzioni di Clarendon; e gli inglesi ebbero un martire di prima categoria. Thomas ci rimediò, un secolo più tardi, una meravigliosa tomba placcata in oro e tutta incastonata di diamanti e pietre preziose, una gioia per gli occhi. Tre secoli dopo un altro Enrico, l'ottavo, spazzò via tutto in spregio dei papisti. Ma fino al Cinquecento Thomas con le sue ampolline e le sue grazie era stato il San Gennaro degli inglesi (e gli inglesi, se si impegnano, non sono secondi a nessuno). È il patrono di Londra, con San Paolo, e dei tecnici arcigni che tutti invocano nella necessità, e a cui nessuno vuole veramente un po' di bene. [2012]
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E un re perplesso scrisse l'Alleluja

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29 dicembre, San Davide Re e Profeta¹

Fu una segreta melodia
che suonò Davide al suo Dio,
– ma a te, lo so, la musica già annoia –
dal Do lei sale al Sol maggiore
e sale ancora (ma in minore)²,
e un re perplesso scrisse l’Alleluja:

Alleluja, Alleluja.

Credevi, ma chiedesti un segno:
era sul tetto a farsi un bagno³,
e mai ci fu una notte meno buia...
Ti legò al tavolo in tinello
ruppe il trono, i tuoi capelli
ti strappò, e di bocca un’alleluja!

Alleluja, Alleluja.

Dici che ho preso un nome invano:
non so cosa ci sia di strano.
(Non so neanche quale nome Lui ha).
Ogni parola ha la sua luce,
che importa a quale dai la voce:
sia santa o sia perduta, è un’alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Feci il mio meglio, non granché:
non ero pronto a entrare in te;
l’amore non è un tema che si studia.
Ma ad ogni sciocco errore mio
renderò sempre lode a Dio,
e sulle labbra avrò solo: alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Io queste stanze le rammento4
ho già spazzato il pavimento:
amarsi, sai, non è un inno alla Gioia.
Che importa se dalla ringhiera
sventola la tua bandiera?
Io sento solo un gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja.

E se mi chiedi se c'è un dio
quel che in amore ho appreso io
è a fare fuori il primo che ti incula5.
Perciò non è un pianto stasera
quel che senti, o una preghiera:
è solo un crudo e gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja6.

1. Non so perché il calendario cattolico festeggi re David il 29 dicembre, però è da anni che mi intestardisco a scrivere un testo italiano cantabile per questa canzone dalla storia bizzarra, che grazie a un cartone animato e al titolo apparentemente liturgico è entrata a far parte del repertorio nuziale in Italia: esatto, c'è gente che la vuole sentir cantare al proprio matrimonio. Benché parli di frustrazione affettiva e sessuale? O proprio per questo motivo? E ho sfidato la prosodia e il ridicolo perché voglio informare questo tipo di gente dell'errore, o perché continuava a girarmi in testa e non ne potevo più? A volte tradurre una canzone è un modo per ammazzarla. Non spesso, ma è probabilmente il mio caso.

2. Naturalmente non è obbligatorio suonarla in Do, io una volta a un matrimonio l'ho suonata in Do ma non vuol dire. Se avete una traduzione migliore fatevi avanti, coraggio.

3. Dopodiché mi sono chiesto: ma sul serio Betsabea, una donna sposata, si faceva il bagno nuda sul tetto a rischio di invaghire un sovrano in grado di inviare il marito in missione suicida? E infatti no, è Davide che sta sul tetto del suo palazzo reale, da dove può vedere ciò che gli altri non sospettano. Apparentemente è un malinteso causato dalla struttura del verso "You saw her bathing on the roof", ma a quanto pare questa brutta diceria su Betsabea dura da secoli (su Internet trovi decine di blog che difendono l'onore di Betsabea) (su Internet trovi di tutto).

4. Queste ultime due strofe Cohen le scrisse ma non le incise; si trovano invece nella versione di Jeff Buckley che è poi quella che scatenò l'hallelujah-mania.

5. Lo so, lo so, ma una volta che mi è venuta in mente non sono più riuscito a non sentirla così nella mia testa. Voi senz'altro avete una traduzione migliore di overthrew ya, non è vero? È il colpo di grazia alla canzone moribonda, mettiamola così. Provate a suonarla a un matrimonio, adesso.

6. [Le tre di un mattino di fine dicembre, ti scrivo per dirti che qui è come sempre. Fa freddo in città però non si sta male, qui fuori c'è musica, è ancora Natale. E tu? Stai in campagna? E fai il solitario? E vivi di niente? Spero almeno tu tenga un diario].
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Dalla padella alla Rivelazione

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27 dicembre - San Giovanni Evangelista (10?-100?)

Giovanni è il primo e l'ultimo. Primo degli apostoli di Gesù, dopo aver seguito per qualche tempo l'altro Giovanni, il Battista; ultimo a morire, dopo aver sperimentato il tentato martirio (a Roma provarono a friggerlo nell'olio), l'esilio, il delirio psichedelico dell'Apocalisse, e il declino fisico: negli ultimi suoi anni correva voce che non sarebbe morto prima del Giudizio Universale. Poi effettivamente morì, lasciandoci i due libri più enigmatici del Nuovo Testamento.

Il tempietto di San Giovanni in oleo
(San Giovanni all'olio!), nel luogo dove si
tentò invano di friggere l'evangelista.
La forma del tempietto (forse di Bramante,
sicuramente rimaneggiato da Borromini),
richiama la padella.
Il primo è il quarto Vangelo – qui si potrebbe aprire una parentesi sulla bizzarria di una religione, come il Cristianesimo, basata su un Annuncio (eu anghélionEvangilium) di cui però non ci rimane una sola versione, come sarebbe opportuno quando si manifesta il Divino, ma tante, tutte un po' discordanti tra loro: il che finisce per inoculare un germe di senso critico nel nucleo stesso della cristianità. La filologia, che con tanti difetti è già una scienza, l'hanno dovuta inventare gli stessi cristiani, per capire come fossero andate realmente le cose, e comunque non ci sono riusciti: ogni tentativo di riorganizzare la vita di Gesù in una sola narrazione coerente non deve aver funzionato, visto che già nel secondo secolo la Chiesa si ferma sui quattro Vangeli: quattro come i punti i cardinali, diceva Sant'Ireneo; come i piedi di un tavolino, aggiungo io, che comunque lo sistemi un po' traballa. Dipende anche dalla superficie.

Di solito dondola sul lato Giovanni. Il suo Gesù, pur richiamando chiaramente quello degli altri tre cosiddetti sinottici, dice e fa cose piuttosto diverse. Quasi nessuna parabola, quei raccontini che in Luca Marco Matteo erano il fulcro di una predicazione molto concreta, rivolta anche agli umili. Il Gesù di Giovanni invece si spende in densi discorsi sulla sua natura divina e umana; a cominciare da quell'Inno al Logos che apre il Vangelo e che imbarazza i cristiani saltuari alla Messa di Natale: cos'è questo trattatello filosofico sul Verbo fatto Carne, perché non ci raccontate la storia del bimbo nella mangiatoia tra il bue e l'asino? Con Giovanni, l'aquila che può fissare il Sole, si capisce che non è più tempo di favole ai bambini. Il suo Vangelo è l'ultimo a essere stato composto (ma è il primo di cui ci restano tracce su un papiro) e risente già delle polemiche teologiche della fine del primo secolo: condanna gli adozionisti e ispira gli gnostici, se non ruba loro qualcosa. Poi c'è la questione dei miracoli. Giovanni li chiama segni e li mette in una luce diversa: nei sinottici Gesù guarisce chi crede in lui e risolve i problemi di chi ha già fede. Invece il Gesù di Giovanni cambia l'acqua in vino, risuscita Lazzaro, moltiplica pani e pesci, affinché la gente creda: addirittura dopo morto è disponibile a farsi mettere le dita addosso da Tommaso, l'apostolo scettico.

Un episodio indicativo della diversità di Giovanni è il perdono dell'adultera, il brano famosissimo in cui Gesù dice ai lapidatori “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”: attualmente si trova nel quarto Vangelo, ma gli studiosi sono concordi nel ritenerlo spurio, una paginetta piegata e infilata alla bell'e meglio in un capitolo giovanneo, che come stile assomiglia piuttosto a Luca. Luca però era un vangelo per tutti, compresi coloro che avrebbero potuto equivocare l'episodio e considerarlo un'autorizzazione al meretricio, sia mai! Così a un certo punto l'episodio in Luca potrebbe essere stato censurato. Ma era comunque un meraviglioso brano di vangelo, e allora alla fine qualche manina non necessariamente santa l'ha messo lì, dov'è più difficile che qualche povero di spirito lo noti: tra i discorsi del Gesù di Giovanni.

Forse la differenza principale coi sinottici riguarda la Passione. Giovanni non è il solo evangelista a ricordare dettagli discordanti, ma è l'unico a dedicare ai fatti di Gerusalemme metà del suo libro. All'ultima cena Gesù lava i piedi agli apostoli e tiene un lungo discorso in cui ribadisce tutti i suoi insegnamenti, ma non spezza il pane: si limita a offrirne un pezzo a Giuda, dicendo “Fa' quel che devi fare”, e in quel momento “Satana” entra nell'apostolo.

Di queste e altre differenze facciamo fatica a renderci conto: di solito il Gesù che impariamo a conoscere è un mix di sinottici e Giovanni. A Messa ogni anno si legge un sinottico diverso, e ogni tre anni si ricomincia da capo: Giovanni invece si legge tutti gli anni, un po' ogni tanto, il prezzemolino per darsi un tono. Invece se si prova a leggere il Nuovo Testamento dall'inizio alla fine si resta frastornati: proprio quando più o meno ti sembra di aver raccolto tre deposizioni, con qualche dettaglio discordante ma tutto sommato coerenti, ecco che arriva Giovanni, che sostiene di essere un testimone oculare, e si ricorda tutt'altro. Siccome siamo nati scettici, e credere ci costa fatica (ne riparleremo), la prima conclusione è che Giovanni stia facendo fan fiction: il suo, invece di essere l'ultimo Vangelo, sarebbe il primo romanzo storico con Gesù protagonista: un racconto accurato e verosimile, con alcuni personaggi davvero ben tratteggiati (fantastico Ponzio Pilato, dice cinque cose e sono tutte memorabili: Sei tu il re dei Giudei? Quid est veritas? Costui o Barabba? Ecce Homo! Quel che ho scritto ho scritto). Un romanzo composto su misura per un pubblico del Secondo Secolo, più esigente di quello delle generazioni precedenti che si contentavano di parabole. In alcune pagine, come nella resurrezione di Lazzaro, si ha l'impressione di trovarsi davanti a un Gesù tridimensionale, non più un guru piovuto dal deserto: un uomo, con amici da consolare e perfino amiche – ecco, troppo bello per essere vero. D'altro canto, se Giovanni fosse un romanziere, avrebbe pure dovuto attingere informazioni su Gesù: e allora perché non usa quasi mai i sinottici, neanche per stravolgerli? Anzi è quasi come se non li conoscesse. Ma se non li aveva presente, come faceva a conoscere la storia di Gesù?

Alla fine l'ipotesi originale rimane una delle più sensate: il quarto Vangelo è diverso dagli altri tre perché riflette la predicazione di un testimone oculare – che però è rimasto a lungo isolato dagli altri tre (in esilio a Patmos?), e ha finito per rimuginare un Gesù molto diverso da quello, per dire, di Matteo, che era pure apostolo quanto lui. Capita a tutti i fratelli di farsi, negli anni, un'immagine diversa dello stesso padre: quello dice una cosa e a distanza di anni loro si ricordano chi un dettaglio, chi un discorso, chi il pane, chi il vino, chi nulla. Tutto giustissimo, ma lo Spirito Santo non sarebbe dovuto intervenire a spianare i malintesi? Sì, ma forse ci avrebbe tolto il piacere dell'indagine: io preferisco tenermi un Dio che autorizza versioni discordanti delle sue avventure, un invito quasi esplicito a non fidarsi al 100% di nessuna rivelazione. In ogni caso quello che ci è arrivato sotto forma di Vangelo secondo Giovanni sarebbe la collazione un po' disordinata di due testi più antichi, il Vangelo dei “segni”, i miracoli appunto; e la Passione, più altre pagine vaganti, come l'Inno al Logos: sarebbe l'emanazione della comunità cristiana di Efeso, grande città dell'Asia Minore in cui Giovanni avrebbe predicato prima e dopo la tentata frittura e l'esilio a Patmos. Gli efesini mantennero, come Giovanni, delle curiose differenze: continuarono a festeggiare la Pasqua nella data degli ebrei anche dopo che furono minacciati di scomunica.

A Patmos poi Giovanni avrebbe avuto la famosa rivelazione, che in greco si dice anche Apocalisse, e terrorizzava i nostri sogni di cresimandi: proprio quando il Nuovo Testamento sembra volgere al termine, con una serie di lettere letterine e bigliettini augurali in cui si ribadisce che Gesù è buono e ci ha salvato dai peccati... ecco che arriva l'ultimo libro e ci risprofonda nell'immaginario delirante dei profeti più oscuri: chiunque l'abbia scritta davvero aveva più in mente Ezechiele o Daniele che il buon pastore dei Vangeli. Rimane un libro fondamentale per l'immaginario cristiano moderno: i quattro cavalieri, i sette sigilli, il numero 666 e soprattutto la donna gravida che calpesta un serpente hanno popolato incubi e visioni di santi, beati e semplici lettori. In realtà, a calarla nel suo contesto, l'Apocalisse non è che l'esempio più fortunato di una letteratura profetica che in quei secoli era molto diffusa (c'era l'apocalisse di Pietro, di Paolo, di Maria, eccetera, tutte escluse dal canone). Gran parte delle visioni che il lettore moderno trova orrorifiche sono allegorie che l'antico lettore avrebbe saputo interpretare senza battere ciglio: quando la tal bestia ha “sette occhi” (brrr) significa semplicemente che riesce a vedere molto più in là di noi; aquila angelo toro e leone rappresenterebbero le quattro costellazioni che indicano i punti cardinali nei solstizi e negli equinozi.

Mi piace raffigurarmelo come Carlo Dolci
(XVII sec.): giovane e un po' fumato.
Persino il senso del titolo ci è sfuggito: per noi è ormai sinonimo di fine del mondo, ma oggi i teologi preferiscono considerare il libro come un'esortazione ai cristiani del primo secolo a tener duro nei periodi difficili. D'altro canto in un qualche modo bisogna pur spiegare come sia possibile che il finale della Bibbia riveli un regno di Mille anni che ancora non s'è visto nel 2012. Alcuni continuano a spostare la Rivelazione un po' più in là: i Testimoni di Geova leggono il numero 666 in tutti i codici a barre, mentre nel ciclo di romanzi fanta-cristiani protestanti più letti in America, Left Behind, la Bestia che parla tutte le lingue del mondo fa il segretario generale dell'ONU. I cattolici si sono rassegnati, o forse più semplicemente hanno messo su pancia: non si può predicare che la fine dei tempi è vicina e poi chiedere tutti gli anni l'otto per mille come se niente fosse. Così da racconto della fine dei tempi l'Apocalisse diventa una cronaca allucinata delle vicende della Chiesa e dell'Impero nel secondo secolo: la Bestia che pretende di tatuare tutti i suoi sudditi sarebbe l'imperatore Domiziano, un banale persecutore di cristiani, neanche particolarmente famigerato. C'è persino una corrente di studiosi che escludono che Gesù fosse un predicatore escatologico: parlava di un Regno dei Cieli, sì, ma non di un'imminente fine dei tempi. Eppure i cristiani delle prime generazioni, nella fine del mondo, ci credevano.

Lo si capisce dal fatto che non pensassero agli eredi: l'abitudine a mettere i beni in comune, le esortazioni di Paolo a lasciar perdere la carne – una bella differenza con la prolificità dei cattolici di adesso. È chiaro che vivevano nell'attesa della fine imminente: in questo contesto si riesce anche a capire la leggenda secondo cui Giovanni non sarebbe mai morto. Una voce del genere non può esser nata che quando Giovanni era già vecchio, ma evidentemente ancora arzillo. Sopravvissuto alla frittura miracolosa e all'esilio, probabilmente a un certo punto si ritrovò a essere l'ultimo testimone oculare in vita, e questo gli permise di acconciare le cose a modo suo: nel suo Vangelo accetta il ruolo di preminenza conferito a Pietro, ma fa capire in vari modi di essere stato il favorito del capo: di essere stato uno dei primi due a seguirlo, di aver tenuto la testa nel suo grembo mentre Gesù annunciava il tradimento, di aver avuto da Gesù stesso in punto di morte l'incarico di badare alla Madre (o era la Madre che era incaricata di pensare al ragazzino, o entrambe le cose) di aver visto la tomba vuota insieme a Pietro, e di aver creduto forse prima di lui. Però, con una modestia molto letteraria, rinuncia a firmarsi col suo nome, e per tutto il Vangelo si fa chiamare “il discepolo che Gesù amava”: perifrasi che qualcuno ha voluto leggere maliziosamente (c'è tutta una corrente gnostica secondo cui in realtà il Vangelo lo ha scritto Maria Maddalena). Ecco, alla fine del quarto Vangelo c'è un'appendice commovente, in cui Gesù appare di nuovo agli apostoli in riva al lago di Tiberiade, pesca e cena con loro, e chiede a Pietro se gli vuole bene. Glielo chiede tre volte, un modo molto delicato e giovanneo per rinfacciargli l'episodio del canto del gallo. Pietro ci resta male, e invece Gesù gli dice “Seguimi”: l'episodio serve a ribadire la sua posizione di capofila degli apostoli. Dopo di lui però c'è subito “il discepolo che Gesù amava”: Pietro si volta, forse preoccupato per il destino del ragazzo, e chiede a Gesù che cosa ne sarebbe stato (21,22-23):
Gesù gli rispose: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa? Tu, seguimi». Per questo motivo si sparse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa?».
Io ovviamente da bambino questi versetti li interpretavo nel modo più fantastico, immaginandomi un Giovanni in giro sulla terra ancora oggi, ad aspettare le trombe e i sigilli un po' in ritardo sulla tabella di marcia. Ora che comincio a farmi bianco anch'io, mi sento più attratto da un'altra leggenda, che mostra l'apostolo ormai decrepito a Efeso, un monumento vivente degli anni ruggenti di Gesù, che però non riesce più a camminare, né quasi a parlare. A chiunque viene a visitarlo ripete soltanto: Figlioli, amatevi gli uni gli altri. E a chi gli chiede perché sempre la stessa frase, risponde: Perché è precetto del Signore: basta questo. Tutto il Vangelo di Giovanni in una frase sola: Giovanni che effettivamente non muore, ma invecchiando perde la sua proverbiale eloquenza, a poco a poco, fino a ridursi a un unico versetto. Non è male, c'è chi muore ripetendo affannosamente il Cinque Maggio di Manzoni perché è la cosa che a scuola, la maledetta scuola gentiliana, gli hanno inculcato con più forza. Ecco, potendo scegliere, io preferirei il versetto di Giovanni. Forse dovrei cominciare a ripeterlo ossessivamente prima di addormentarmi, e appena alzato. Un fioretto per l'anno nuovo.

[È un pezzo del 2011].
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Stefano è il primo

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26 dicembre - Santo Stefano, primo martire.

Stefano con le pietre in testa (Giotto)
O poesia della festa di Santo Stefano, fragrante di panettone secco e citrosodina. Festa di cinture slacciate, di avanzi riscaldati, di cartacce che frusciano sul pavimento - appena ieri erano involucri preziosi, contenevano la Magia del Natale, adesso aspettano il camino o la differenziata. Eppure testimoniano che qui passò una Festa di quelle importanti, di quelle che ti servono a segnare il tempo, per sempre il 2012 sarà quell'anno in cui a natale lo zio rovesciò lo champagne sul vestito nuovo della tua fidanzata ma non importa, è Santostefano, chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, anzi no ci sono ancora degli antipasti da ieri, qualcuno vuole degli antipasti? E sbafiamoci pure questi volovòn - no, aspetta, ci stanno le cozze. Nessuno poi si ricorda cos'ha fatto a Santostefano.

Che forse è il giorno più bello dell'anno, proprio per questo. Un giorno di crapula, postumi e oblio. È andata, non dovrai più preoccuparti di pacchetti e pensieri e presenti, e certi parenti molesti non si ripresenteranno più almeno per altri 364 giorni. Da qui in poi è in discesa - è vero che bisogna ancora sorpassare quella notte incresciosa in cui bombardano i cassonetti - ma il più è fatto. Eppure l'anno nuovo coi suoi fardelli sembra ancora lontano, lontano, quasi una settimana di distanza; e se sei ancora uno studente la Befana è lontanissima, c'è tutto il tempo per farsi venire la nausea da playstation. Santostefano, secondo me, per la maggior parte di chi lo festeggia non esiste, non sanno nemmeno che si chiama così. Non hanno mai smesso veramente di mangiare, magari allo stesso tavolo, oppure stanno videogiocando ininterrottamente da venti ore, in tv fanno ancora roba natalizia, e chi sarebbe 'sto Stefano poi.

Un piantagrane, un classico martire saccente, di quelli che vogliono spiegare tutto a tutti e presto o tardi si mettono nei guai. Nel suo caso prestissimo: Stefano è il primo martire in assoluto. Subito dopo Gesù, forse appena un anno dopo, tocca a Stefano, che potrebbe non averlo mai conosciuto, ma si fa comunque ammazzare in suo nome. La maggior parte dei laici in hangover natalizio semplicemente lo ignora, ma anche i veri praticanti - e da poche cose li riconosci come dal fatto che hanno messo la sveglia per andare a messa pure a santostefano - restano talvolta un po' perplessi. Hanno ancora nelle orecchie gli inni di Natale, gli angeli e i pastori e la mangiatoia (e i Magi non sono ancora arrivati), e invece il 26 è tutta un'altra storia, dal sapore tipicamente pasquale, un processo al sinedrio, un martirio... una piccola pasqua, all'indomani del Natale. Non è chiaro esattamente come mai sia andata così. Né il Natale, né il martirio di Santo Stefano sono date storiche: Iacopo da Varazze ricorda che in un primo momento la passione del Santo si festeggiava nello stesso giorno dell'"invenzione", cioè del ritrovamento delle reliquie (3 agosto); poi si decise di spostarla in dicembre, anche per separare la commemorazione dello Stefano storico da quello prodigioso che, disseminato in mille santuari (tra Venezia e Roma dovrebbero esserci almeno due corpi, in tutto quattro braccia se si aggiunge quello custodito a Capua), aveva ovunque sbalordito con miracoli spettacolari.

Lo Stefano del ventisei dicembre invece è probabilmente un ragazzino meno prudente dei suoi compari, che si fa beccare mentre dice cose molto blasfeme sulla religione degli ebrei (a Gerusalemme, in quegli anni, non era veramente il caso). Condotto al tribunale religioso, il Sommo Sinedrio, invece di rimangiarsi i suoi discorsi su Gesù Cristo distruttore di templi e sovvertitore di costumi, conferma ogni cosa, ma con dovizia di citazioni bibliche allo scopo di dimostrare che Gesù è il Cristo, che in ebraico sta per Messia. Ora, vuoi far arrabbiare un ebreo? Mettiti a spiegargli la Torah. Quelli impazziscono di rabbia, nei modi molto teatrali in cui era necessario farlo all'epoca: digrignano i denti, si tappano le orecchie, prorompono in grida altissime. Ma non si stracciano le vesti. Con Gesù si erano stracciati le vesti, con Stefano no, forse si era capito che l'eresia gesucristiana rischiava di durare parecchio e non ci si poteva permettere una veste nuova a ogni processo.

Stefano con le pietre addosso
(Carlo Crivelli).
Ai nostri occhi moderni può sembrare una sceneggiata, ma erano tempi in cui non esisteva il montaggio serrato delle immagini, né le basi drammatiche da sovrapporre in cabina di regia: era tutto in diretta, ci si arrangiava con grida altissime e gesti esagerati, visibili anche da lontano. Comunque, mentre digrignano e strepitano, Stefano va in estasi, ha una visione: "Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio". A quel punto la rabbia è tale che i sacerdoti si permettono quello che nemmeno con Gesù avevano osato fare: lo portano in un prato fuori città e lo ammazzano a pietrate. Era la pena prevista dalle Scritture per i blasfemi, la lapidazione: un'esecuzione a distanza, prevista per chi non era più degno di essere toccato nemmeno per essere ucciso. Gesù era stato ritenuto colpevole dello stesso reato, ma in quel caso i sacerdoti si erano ben guardati dall'eseguire una sentenza, visto che la forza d'occupazione romana in città glielo impediva: solo il procuratore Pilato aveva il potere di mettere a morte un uomo. Pilato poi aveva fatto quell'altra scenetta molto teatrale del lavarsi le mani, ma non c'è dubbio che Gesù sia morto per mano di boia romani, inchiodato al più romano dei supplizi.

Stefano invece muore in modo molto mediorientale, ancora oggi ogni tanto da quelle parti qualcuno (più spesso qualcuna) rischia di finire così, lapidato. Cosa sta succedendo in città? Qualche storico si è azzardato a supporre che la differenza abbia un senso storico: ai tempi di Pilato il sinedrio non aveva il diritto di giustiziare un uomo, quindi Stefano deve essere morto dopo, in un breve periodo di interregno tra un procuratore e l'altro. Pilato viene effettivamente sollevato dall'incarico nel 36 tra le proteste: non per avere ucciso Gesù (già mezzo dimenticato), ma per avere represso una rivolta nel sangue. La data è compatibile col racconto degli Atti, ma non è detto che le cose siano andate così: forse Stefano fu semplicemente vittima di un linciaggio, forse l'intenzione dei sacerdoti non era farlo fuori, e la cosa scappò di mano. Di sicuro il suo lungo discorso fiorito di citazioni bibliche sembra strapparti i sassi dalle mani, Gesù al confronto è un tipo laconico, con le sue frasi un po' sibilline che possono significare tutto e niente. Stefano invece è proprio il primo della classe, vuol far sapere che ha studiato la lezione e la sa meglio di tutti.

C'è un che di verosimile nel fatto che il primo a morire per la nuova fede sia un novellino come lui,  e non un testimone diretto della vita di Gesù. Gli apostoli - più maturi, più consapevoli dei rischi e forse istintivamente portati a cercare un modus vivendi con le autorità ebraiche - da qualche tempo avevano optato per un basso profilo in città. Fino a quel momento nessuno era stato perseguitato per la propria adesione a questa nuova forma eretica di ebraismo in cui si identificava Gesù col Messia: Pietro, è vero, era stato messo agli arresti, ma era stato prontamente liberato da un angelo, o da un GIP clemente, non sappiamo. A un certo punto però gli apostoli decidono di concentrarsi sull'apostolato e delegare l'ordinaria amministrazione dei sacramenti a sette persone: sono i primi diaconi. Hanno tutti un nome greco: questo non significa nulla, i nomi greci erano ormai diffusi in tutto il quadrante orientale dell'impero, e anche molti apostoli ne avevano uno (c'erano poi strani ibridi, come BarTolomeo). Anche nel caso di Stefano, non sappiamo se fosse ebreo o no. Il nome greco ci fa immaginare che provenisse da una famiglia "ellenizzata", il cui stile di vita era più simile a quello di un suddito greco dell'Impero, che a un tradizionalista ebraico. In effetti il dubbio è che Stefano sia vittima, più che di una persecuzione cristiana a opera di ebrei, di una dei periodici scontri tra ebrei ellenizzati ed ebrei tradizionalisti, che dovevano fare di Gerusalemme una specie di Belfast del mondo antico. Per contro i cristiani come Pietro, o come Giacomo "fratello del Signore", che pur dicendosi seguaci di Cristo continuavano a rispettare le leggi ebraiche, non sembravano avere nulla da temere dalle autorità. Ma in realtà non possiamo sapere come siano andate realmente le cose.

Lapidazione di Santo Stefano (Lotto).
Quel che sappiamo è che quando Stefano diventerà una star assoluta del pantheon, padon, del calendario cristiano, lo dovrà oltre al suo primato al fatto di essere un rarissimo esempio di vittima degli ebrei. Di solito gli ebrei non si trovano nella posizione di persecutori, ma con Stefano le cose sembrano andate così. Diventerà in diversi casi una bandiera dell'antisemitismo cristiano: a Minorca, dove durante la traslazione delle reliquie gli ebrei vengono costretti a convertirsi e assumerlo come santo patrono; in Asia Minore, dove la venerazione per Stefano viene diffusa dal clero per contrastare quella nei confronti dei Maccabei, protagonisti dei libri più barricaderi e anti-ellenici dell'antico Testamento.

Ma per diventare così popolare, Stefano doveva mettersi a fare enormi prodigi, ed è quello che successe proprio a partire dal quinto secolo, quando ormai il cristianesimo era religione di Stato, e gli eretici da perseguitare erano diventati gli ebrei. È a questo punto che un sogno miracoloso di un monaco porta alla scoperta sensazionale delle reliquie di Stefano, reliquie che ovviamente fanno il giro del mediterraneo: prima prelevate da una nobildonna che a causa di uno scambio di persona, anzi di salma, le porta a Costantinopoli in luogo dei resti di suo marito. Poi da Costantinopoli viene organizzato uno scambio alla pari, Lorenzo di Spagna in cambio di Stefano protomartire, ma qualcosa va storto. Stefano viene effettivamente portato a Roma, ma i fedeli costantinopolitani venuti a portarlo e a ritirare le spoglie di Lorenzo muoiono tutti miracolosamente. Almeno Iacopo da Varazze scrive che fu un miracolo, ma non ci sono testimoni - anche i pochi romani favorevoli allo scambio muoiono contestualmente - e insomma il risultato è che i romani si sono tenuti sia Stefano che Lorenzo; quest'ultimo poi alla notizia dell'arrivo di tanto collega sembra che si sia allegramente fatto da parte nella tomba, accucciandosi come un amante per lasciare un po' di posto al nuovo arrivato. Non che ci fosse bisogno di così tanto spazio: il cranio andò alla basilica di San Paolo fuori le mura, tranne qualche frammento che si trova a Putignano (BA); un braccio a Sant'Ivo alla Sapienza, un altro braccio a San Luigi dei Francesi, un altro ancora a Santa Cecilia in Trastevere, uno ancora a Capua, Stefano era un freak.

Sempre secondo Iacopo i giorni immediatamente successivi al Natale sono quelli in cui si celebrano i primi compagni di Gesù, i martiri, nelle tre tipologie: San Giovanni evangelista (27) è l'esempio di un santo che volle il martirio ma non lo ottenne. I santi innocenti (28) forniscono l'esempio contrario: sono santi che non volevano essere martirizzati, ma gli successe comunque, beati loro. Stefano 26 rappresenta invece la prima categoria di martiri: quelli che il martirio lo hanno voluto e lo hanno trovato. Se la sono cercata, diremmo oggi. Festeggiarlo proprio oggi, nel giorno più rilassato dell'anno, ha un certo retrogusto di beffa. Beviamoci su del limoncino.

[È un pezzo del 2012].
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Niente di nuovo dal fronte del Natale

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Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l'infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all'aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l'anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus
Dal Fronte per ora questo è tutto: un po' poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe "obbligatorio". Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che "chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore". Insomma l'artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L'impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c'è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l'impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c'è chi addobba l'albero, c'è chi compra i regali, c'è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – "War On Christmas" la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l'augurio "Merry Christmas" dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista "Happy Holidays", buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l'Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d'innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l'esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell'Europa Centrale dev'essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant'anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un'invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l'anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c'è la capacità di riconoscere al volo un'immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c'è l'abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d'inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l'anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l'imperatore Aureliano introdusse nel 274... (Continua su TheVision).


La scelta di celebrare il terzo giorno dopo il solstizio, quando dopo sei mesi le giornate ricominciano ad allungarsi, fu forse ispirata ai culti mitraici, ma quel che interessava realmente ad Aureliano era imporre un culto universale a tutti i popoli dell’impero – e cosa c’è di più unico e universale del sole? I cristiani – magari suggestionati dall’idea di una resurrezione vittoriosa dopo tre giorni di oscurità – fecero propria la festa neopagana. Nel giro di un secolo, il cristianesimo sarebbe diventato religione di Stato, e l’editto di Tessalonica avrebbe definito i non cristiani come “dementes”, pazzi. Non è difficile riconoscere nell’odierna frenesia natalizia qualche aspetto dell’antica follia dei Saturnali romani e delle feste germaniche. Forse non è una coincidenza se da millenni sentiamo il bisogno di circondarci di luci, di affetti e di zucchero nel periodo più oscuro dell’anno.

Nel 2000 il governo russo donò alla città di Demre, già Myra, una statua di San Nicola, raffigurato secondo la classica iconografia ortodossa; un’immagine che i turisti russi in visita alla tomba del Santo avrebbero apprezzato, ma che lasciava evidentemente perplessi gli automobilisti turchi: al punto che pochi anni dopo fu spostata in una posizione più vicina al santuario, e soppiantata al centro della rotonda da un Babbo Natale di plastica. Che ci piaccia o no, il San Nicola più famoso e riconoscibile dai visitatori di tutto il mondo è quest’ultimo. Non c’è dubbio che sia una banalizzazione: ma forse è il prezzo da pagare per avere una festa davvero universale. Chi chiede con insistenza che il presepe rimanga in tutte le scuole e i luoghi pubblici, si prepari a vederlo trasformato in un oggetto altrettanto banale e universale.
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